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Piermatteo Raffoni
SULLE TRACCE DELLO SCIMMIOTTO
 
SULLE TRACCE DELLO SCIMMIOTTO
«Nell'oriente misterioso c'è un brigante generoso»
Iniziamo da Xuánzàng
Il re delle scimmie e i suoi antenati
Il romanzo di Wú Chéng'ēn
Scheda dei nomi

«NELL'ORIENTE MISTERIOSO C'È UN BRIGANTE GENEROSO...»

Sūn Wùkōng
Illustrazione di Angga Satriohadi

È un brutto scimmione, basso e con le gambe storte. Ha il sedere rosso e gli occhi iniettati di sangue. Veste una giubba rossa con risvolti in pelliccia di tigre e ha in testa un diadema dorato. Può volare più veloce del vento, su una nuvoletta addomesticata, solcare valli e montagne, varcare deserti e pianure, e arrivare nelle più lontane contrade del mondo. È un guerriero dalle mille risorse, esperto di lotta e di magia, capace di estenuanti combattimenti e delle più incredibili metamorfosi. Usa per arma un'asta capace di allungarsi a dismisura e raggiungere lunghezze vertiginose, ma che poi viene opportunamente ridotta alle dimensioni di una matita e portata dietro l'orecchio. La sua tecnica di combattimento consiste nel neutralizzare gli avversari, siano essi dèmoni, uomini o dèi, scimmiottando le loro mosse, fino a farli fuggir via esasperati e stremati.

Perché in fondo è di un macaco che stiamo facendo il ritratto. Uno scimmione maleducato e irriverente, impetuoso e  incontenibile, una scheggia di caos primordiale che niente e nessuno riuscirà mai ad imbrigliare o catturare, addomesticare o ingabbiare.

Stiamo parlando – lo avrete capito tutti – dello scimmiotto cinese, detto Sūn Wùkōng in Cina, Son O-gong in Corea, Son Gokū in Giappone, Ħêng Ceīy in Thailandia, Tôn Ngộ Không in Viêtnam e Sun Go Kong in Indonesia, personaggio celebrato, amato e venerato in tutto l'Oriente. La sua storia è narrata nello Xīyóujì, la «Cronaca di un viaggio in occidente», un voluminoso romanzo scritto in Cina intorno al 1570, da Wú Chéng'ēn. Ma il popolarissimo Sūn Wùkōng è protagonista di innumerevoli storie, racconti, opere teatrali, balletti, film, sceneggiati e cartoni animati e ancora oggi la sua popolarità non accenna a diminuire.

Xuánzàng

Ritratto del monaco-viaggiatore, da un'antica stampa cinese.

INIZIAMO DA XUÁNZÀNG

Trovare il bandolo della matassa di Sūn Wùkōng è già ardua cosa… perché questa matassa è formata da moltissimi fili intrecciati insieme e che non si lasciano facilmente districare. Dato che da qualche parte dobbiamo pur cominciare, iniziamo da Xuánzàng.

Chiunque ami i racconti di viaggi, deve certamente conoscere questa straordinaria figura di monaco pellegrino, vissuto in Cina nel VII secolo, durante la [dinastia] Táng cháo. Insigne maestro spirituale, dotato di elevata forza d'animo e carisma, Xuánzàng compì una marcia di ottomila chilometri per raggiungere il monastero di Nālaṃdā, in India, culla della fede buddhista, per poi ritornare in Cina con un carico di manoscritti e un gran numero di immagini sacre. Xuánzàng è uno di quei personaggi intorno a cui è difficile distinguere gli avvenimenti storici dalla ragnatela di leggende che li avvolgono, ma poiché la storia di Scimmiotto è appunto una di queste leggende, bisogna dapprima mettere a nudo il nucleo storico di quello che sarebbe diventata l'epica del «viaggio in occidente».

Nato nel 602, Xuánzàng era stato inizialmente educato secondo la tradizione confuciana, assai più interessata al formalismo sociale che alla sfera spirituale; non aveva ancora vent'anni quando si convertì al buddhismo e si fece monaco, guadagnando rapidamente la fama di religioso dotto, virtuoso e di fede incrollabile. Sempre più consapevole dell'insufficienza di testi sacri in lingua cinese e delle evidenti contraddizioni che questi contenevano, Xuánzàng decise di recarsi di persona in India per visitare i centri buddhisti e interrogare i sapienti riguardo ai dubbi che lo tormentavano. Così, nel 629, quando aveva quasi ventisette anni, chiese il permesso per lasciare il Regno di Mezzo. Ma poiché le formalità burocratiche richiedevano – allora come oggi – tempi piuttosto lunghi, Xuánzàng decise di non aspettare oltre e si mise in viaggio.

È difficile immaginare un percorso più lungo, accidentato, pericoloso di quello che questo intrepido monaco aveva scelto di percorrere. Xuánzàng era descritto come un uomo alto e bello, di costituzione delicata; elegante nel vestire, educato nei modi, dallo sguardo vivace e dalla voce suadente. Eppure, questo gentile e raffinato studioso non indietreggiò di fronte alla prospettiva di lasciare la sua casa a  Luòyáng, nella Cina nord-orientale, per mettersi in viaggio alla volta dell'India. Egli attraversò la Cina del nord e il deserto del Gobi, arrivò a Samarcanda, nell'attuale Uzbekistan e, di qui, scese a sud, attraverso i passi glaciali del Tiānshān, e giunse a Kābul, in Afġānistān. Mosse quindi a sud-est, attraverso la valle dell'Indo, nell'attuale Pākistān, e attraversò tutta l'India settentrionale, da ovest ad est, per raggiungere il famoso centro buddhista di Nālaṃdā, vicino Vārāṇasī.

Il viaggio di Xuánzàng
Ingrandire per una migliore definizione

Qui Xuánzàng rimase diversi anni, studiando accanto ai più sapienti conoscitori della tradizione buddhista, prima di riprendere la strada per la Cina. Nel 645, dopo quasi diciassette anni di assenza, rimise piede nella capitale imperiale. Portava con sé venti cavalli  carichi di reliquie religiose donategli dai buddhisti indiani e tre canestri di sūtra, i sacri testi della tradizione buddhista, donde il nome sanscrito con cui Xuánzàng fu presto conosciuto: Tripiaka «tre canestri» (in cinese, Sānzàng). Il suo ritorno fu un trionfo, poiché la fama e il prestigio guadagnati in terra indiana lo avevano preceduto, e l'imperatore in persona (a cui Xuánzàng porse le sue scuse per essere partito senza il beneplacito ufficiale) volle ascoltare dalla viva voce del pellegrino le sue avventure e le sue osservazioni di viaggio. L'imperatore gli offrì persino una carica governativa, ma Xuánzàng, privo di qualsiasi ambizione, preferì dedicarsi agli studi e alla traduzione dei sūtra che aveva portato dall'India e ancora oggi la tradizione riferisce a lui 1338 dei 5084 sūtra che costituiscono il canone buddhista cinese. Del suo viaggio, il monaco stesso trasse una bella relazione dal titolo *Datáng xiyu ji, «Le terre occidentali al tempo dei grandi Tang».

Le avventure riferite da Xuánzàng erano già così varie e affascinanti da costituire una serie di storie leggendarie anche senza l'aggiunta di elementi fantastici. Quando egli attraversò il deserto del Gobi, per poco non morì di fronte ai terrificanti miraggi di cavalieri fantasma e per la mancanza d'acqua che si prolungò per cinque giorni e quattro notti. Rischiò di venire travolto da una valanga, andò avanti nonostante la calura che si alternava alle tempeste di neve, fu attaccato dai briganti e rischiò di essere ucciso dai pirati del Gange.

Monumento a Xuánzàng, a Xī'ān

Sullo sfondo, la Dàyàn Tǎ, la «Grande pagoda dell'oca selvatica», a Xī'ān, dove furono conservati i sūtra portati dal monaco dall'India. Al terzo piano della pagoda stessa sono conservate alcune ossa cristallizzate dello stesso Xuánzàng.

Costoro adoravano la dea Durgā ed erano solito sacrificarle dei giovani di nobile aspetto. Xuánzàng era un ottimo candidato: i pirati lo trascinarono sino a un altare sulla riva del fiume e lo obbligarono a sdraiarsi sotto la minaccia di una spada. D'un tratto si scatenò una terribile tempesta e le onde capovolsero alcune delle navi dei pirati. Questi furono presi da superstizioso terrore e, quando i compagni di Xuánzàng spiegarono loro che stavano per sacrificare un famoso monaco venuto dalla Cina alla ricerca dei libri sacri del Buddha, i pirati, spaventati, lo liberarono promettendo che si sarebbero emendati in avvenire.

La fantasia popolare non tardò a impossessarsi della figura potente e insieme gentile di questo monaco. Su Xuánzàng vennero creati racconti, favole, ballate, i quali confluirono a formare il corpus di una grande tradizione narrativa, tramandata prima oralmente e poi per iscritto. I più antichi di questi documenti risalgono alla dinastia Song. Al periodo Yuán cháo va ascritta  una versione teatrale intitolata Xīyóujì, appunto «Cronaca di un viaggio in occidente».

Nel corso dei secoli, il ciclo di Xuánzàng si sviluppò sempre più, sradicandosi dalla realtà e virando sempre più sul fantastico, accumulando un sacco di materiale eterogeneo e assumendo ben presto una vera e propria statura mitologica. Ed ecco che, d'un tratto, storia dopo storia, troviamo accanto al monaco un inusuale compagno di viaggio.

Ed è una scimmia!

Un Macaco rhesus, per l'esattezza, di quella varietà detta in cinese míhóu, diffusa e comune nel Regno di Mezzo. Monaco e scimmia procedono insieme nel lungo pellegrinaggio verso l'India, con l'intelligente primate che si premura di difendere il venerando compagno dai molti pericoli che, prevedibilmente, si pareranno davanti al loro cammino.

Sūn Wùkōng entra così, al fianco di Xuánzàng, nella letteratura popolare cinese. Ma chi è esattamente questo scimmiotto? Quali sono le sue origini?

IL RE DELLE SCIMMIE E I SUOI ANTENATI

Bái Yuán
Scimmia Bianca, re dei macachi, nella leggenda cinese.

«Non sono altro che il re delle ottantaquattromila scimmie dalla testa di bronzo e dalla fronte d'acciaio della Grotta delle Nuvole di Porpora sulla Montagna dei Fiori e dei Frutti. Sono venuto ora per aiutarti a prendere le scritture!»

Così si presenta lo scimmiotto-pellegrino [hóu xíngzhě] in uno dei testi più antichi del ciclo di Xuánzàng, il *Da Táng Sānzàng qu jing shihua, la «Storia della missione di Tripiṭaka dei grandi Táng».

Questo scimmiesco personaggio non era nuovo alla tradizione cinese. Molte fiabe parlavano già di un «regno delle scimmie» situato nel lontano occidente, in un paese chiamato Àolái, sito al di là del mare, vicino al grande oceano. Qui sorgeva la Huāguǒ Shān, la «montagna dei fiori e dei frutti», nelle cui diecimila grotte vivevano le ottantaquattromila scimmie di cui il nostro Sūn Wùkōng era il re.

La figura stessa di Sūn Wùkōng aveva a sua volta un'origine composita, essendosi formata dalla confluenza di molte e diverse tradizioni, derivate dal folklore, dalla religione, dalla mitologia.

Alla base vi era probabilmente una serie di racconti popolari incentrati sulla possente figura di Bái Yuán, «scimmia bianca», un primate dall'intelligenza umana che rapiva le donne per portarle nel suo harem, in ossequio alle cattive qualità che i Cinesi attribuiscono alle scimmie: una brutalità istintiva, con forti connotazioni di lussuria e lascivia. Gli esempi più antichi delle storie di Bái Yuán risalgono alla [dinastia] Hàn cháo e appartengono a un tema ampiamente diffuso nei racconti popolari della Cina centro-meridionale e del Tibet. Un racconto del periodo Táng narra di un generale che riesce a liberare la bella moglie, rapita da Bái Yuán; alcuni mesi dopo ella dà alla luce un figlio che ha le sembianze di un primate e che, come Bái Yuán aveva predetto in punto di morte, avrebbe beneficiato di una vita lunga e fortunata.

Hanuman

Parallelamente, con l'introduzione dei racconti popolari indiani, entrarono in Cina storie e apologhi di animali che ravvivarono e arricchirono le leggende preesistenti. Nel caso di Scimmiotto ha una posizione preminente la grande epopea del Rāmāyaṇa. Qui troviamo, al fianco del principe Rāma, impegnato in una strenua battaglia contro i dèmoni rākṣasa, la singolare figura di un dio-scimmia, Hanuman. Questi appoggia Rāma nella ricerca dell'amata sposa Sītā, rapita dai rākṣasa e, come Sūn Wùkōng, è un essere dotato di poteri eccezionali. In un episodio dell'epopea indiana vediamo Hanuman spiccare un salto prodigioso dall'estremità meridionale dell'India per atterrare nello Śrī Laṃkā, precorrendo in un certo modo i famosi voli di Sūn Wùkōng sulla sua nuvola.

La figura di Hanuman, passata in Cina, contribuì a formare quella tradizione religiosa popolare che passò sotto il nome di Qítiān Dàshèng 齊天大聖, «grande saggio, uguale al cielo», che è il titolo col quale il dio-scimmia venne adorato e venerato in territorio cinese. Si riteneva che il «grande saggio» abitasse nella costellazione dei Gemelli ed era solitamente invocato per risolvere situazioni impossibili. Gli erano devoti soprattutto i medici e i malati, in quanto gli si attribuiva un potere sui dèmoni e sugli spiriti malvagi, responsabili delle malattie. Molte festività, sia taoiste che buddhiste, erano tenute in onore del «Grande Saggio», tra cui la ricorrenza della sua nascita, che cadeva il sedicesimo giorno dell'ottavo mese lunare (più o meno nella seconda metà di settembre), mentre a Hong Kong lo si festeggiava il ventitreesimo giorno della seconda luna. Questo dio-scimmia era assai popolare in Indocina e Indonesia, dove era stato probabilmente introdotto da immigrati cinesi e dove la sua immagine si era in parte fusa con quella di Hanuman, popolare in questi paesi grazie alle versioni locali del Rāmāyaṇa. Sembra che a Singapore, almeno fino agli anni '50, Qítiān Dàshèng parlasse personalmente con i suoi devoti attraverso degli appositi medium.

Queste figure, questi motivi, queste leggende, fondendosi insieme nella mentalità sincretistica cinese, diedero infine al nostro Sūn Wùkōng l'aspetto e il carattere con cui lo conosciamo.

IL ROMANZO DI WÚ CHÉNG'ĒN

La tradizione del viaggio di Xuánzàng in India e dello scimmiotto che gli fa da scorta, verrà fissata una volta per tutte nel XVI secolo, da un grande letterato cinese, Wú Chéng'ēn (1500-1582), nel suo diluviale romanzo Xīyóujì, la «Cronaca di un viaggio in occidente».

Wú Chéng'ēn
Ritratto del famoso novellista della [dinastia] Míng cháo.

Lo Xīyóujì è uno dei grandi romanzi cinesi redatti in lingua parlata, e pertanto esclusi dalla letteratura ufficiale. Grande non solo per importanza, ma anche per mole: circa duemila pagine, ripartite in cento capitoli. Fu scritto intorno al 1570, in un periodo in cui la [dinastia] Míng cháo correva verso la crisi che avrebbe presto consegnato il paese ai Qīng/Manciù. In questo periodo di transizione, l'indebolirsi del conformismo e dell'assolutismo lasciava spazio alla possibilità, da parte dei letterati, di lavorare con maggiore libertà e spirito critico, e lo Xīyóujì è sicuramente uno degli esempi più felici di questa tendenza. Un romanzo davvero inusuale nella società tradizionalista e conformista del Celeste Impero!

Per quanto lo Xīyóujì appartenga, almeno formalmente, al genere delle agiografie (cioè le storie sacre, le vite dei santi), l'autore non incentrò il suo libro sulla figura di Xuánzàng. Fu un colpo di genio: le precedenti versioni della storia prendevano generalmente le mosse dalla nascita e della monacazione di Xuánzàng. Ma Wú Chéng'ēn utilizzò questo materiale solo di sguincio, puntando tutto su Sūn Wùkōng e facendo di lui l'autentico protagonista del suo romanzo.

E che protagonista! L'aver assunto il punto di vista di una scimmia – cioè di una creatura irrazionale, caotica e istintiva – permise a Wú Chéng'ēn di demolire tutte le vacche sacre della società cinese, di fare una satira ferocissima contro il governo imperiale, modello di tutte le corti e le burocrazie del Celeste Impero. Il povero Xuánzàng, ridotto a comprimario, faceva la sua comparsa soltanto nell'ottavo capitolo: i primi sette – i più divertenti – erano completamente incentrati su Sūn Wùkōng. Vi si narrava la sua nascita, le sue imprese giovanili e la sua irresistibile ribellione contro l'autorità costituita. Soltanto in seguito, lo scimmiotto acconsentiva ad espiare i suoi trascorsi  accompagnando Xuánzàng nel viaggio in India e prevaleva così la morale buddhista che riconduceva ogni cosa al posto che gli competeva. Due altri personaggi, introdotti da Wú Chéng'ēn, intraprendono con i due pellegrini il lungo viaggio di redenzione, e sono: Zhū Bājiè «porco dagli otto divieti», un essere a metà tra un uomo e un maiale, armato di un forcone a nove rebbi, sempre afflitto da una fame abissale, e Shā Wùjìng «sabbia svegliata alla purezza», un drago fluviale sconfitto dallo Scimmiotto e trasformato in un lugubre vecchio armato di vanga.

Sun Wu-kong

Il re delle scimmie e i suoi compagni, in una delle loro sbalorditive avventure.

Il libro ebbe un successo sensazionale. Il suo pubblico era assai più ampio di quello della letteratura accademica, essendo formato da gente proveniente da tutti i ceti sociali. Chi era in grado di leggerlo si sommava a chi ne ascoltava la lettura. Anche chi era destinato a divenire un dotto, almeno da ragazzo passava attraverso le pagine di Wú Chéng'ēn. Lo Xīyóujì venne chiosato da legioni di commentatori appartenenti a tutt'e tre le sān dào, i quali lo bardarono di orpelli confuciani, taoisti e buddhisti, finendo con il leggerlo persino in chiave esoterica. Ma rimaneva indubitabile il fatto che la veste religiosa del romanzo era solo un pro forma legato al genere letterario e che, fuor di metafora, il libro di Wú Chéng'ēn diceva peste e corna del potere imperiale. Ma fu probabilmente grazie alla farcitura religiosa – della cui sincerità è lecitissimo dubitare – a salvare il romanzo dalla censura durante la lunga stagione conservatrice e repressiva della [dinastia] Qīng cháo.

Lo Xīyóujì è un romanzo immenso, vastissimo, sterminato. Un fiume di storie ed eventi fiabeschi, che si succedono senza tregua gli uni agli altri. È interminabile e ripetitivo, eppure non smette per un istante di essere divertente. Per certi versi è come certi romanzi cavallereschi: un susseguirsi di avventure, imprese e incontri meravigliosi, sempre diversi e sempre uguali, che nel loro svolgersi finiscono per confondersi nella mente del lettore. Eppure non si riesce a smettere di leggerlo, tanto il lettore è trascinato avanti dal puro piacere dell'affabulazione.

Ma se lo Xīyóujì ricorda nella struttura i romanzi cavallereschi, la sua atmosfera è piuttosto quella picaresca del Don Quixote. L'intera tradizione cinese, fatta di formalità confuciana, di morale buddhista, di equilibrio taoista, viene continuamente messa in discussione. Nulla si salva all'impeto dissacrante di Sūn Wùkōng. Il macaco è una forza inarrestabile della natura. Vive al di fuori da tutte le regole civili, umane e divine, le scimmiotta quando gli fa comodo e all'occorrenza se ne fa beffe. Sconfigge la morte, ridicolizza gli dèi, scomoda persino il Buddha dal suo nirvāṇa.

Tutti i personaggi ne escono alquanto malconci. Lo stesso Xuánzàng, che pure dovrebbe essere il protagonista della storia, viene descritto come un giovanotto piagnucoloso, vanitoso, bacchettone e ipocrita. Se i dèmoni gli tendono continue trappole non è per qualche sottile ragione metafisica, ma solo perché sono convinti che la carne del monaco possa renderli immortali. E se le donne (o le diavolesse celate sotto l'aspetto di irresistibili maliarde) cercano di concupirlo, non è per distoglierlo dalla via dell'Illuminazione, ma perché Xuánzàng è un bel giovane e risveglia i loro appetiti. In definitiva Xuánzàng non fa certo fare bella figura alla categoria dei monaci, segno di quanto fosse scarsa la considerazione che l'autore avesse dei religiosi e quanto il suo pubblico si divertisse a vederne spiattellati i difetti.

Né migliore figura fanno gli dèi. L'olimpo cinese, nello Xīyóujì, è un mondo incancrenito, cristallizzato, preso nella sua pantomima di infiniti rituali, dove schiere di divinità e immortali non fanno altro che adempiere a obblighi tanto formali quanto inutili. Yǜ Huáng, l'imperatore di giada, signore dell'universo e punto di convergenza dell'intero organigramma divino, è rappresentato come un signorotto vanitoso e di corte vedute, ed è un piacere vedere Sūn Wùkōng mandare all'aria gli ingranaggi della sua onnipotente burocrazia. Lǎozǐ, il fondatore del taoismo, compare come un vegliardo burbero e un po' suonato: le sue pratiche alchimistiche, fulcro della millenaria ossessione cinese per la trascendenza e l'immortalità, fanno un baffo al nostro scimmiotto, troppo scaltro per lasciarsi abbindolare da lui. La bodhisattva Guānyīn, dietro l'eterea apparenza di dea della misericordia, è una venditrice di fumo; i suoi nobili propositi nascondono invariabilmente solenni fregature. E il Buddha... È lui a imprigionare Sūn Wùkōng, ma non poteva essere altrimenti, ché il romanzo viene prodotto sotto gli auspici del buddhismo. Ma intanto lo Scimmiotto gli ha pisciato sulla mano: sotto la bandiera buddhista sventola la bandiera pirata!

Xīyóujì

Lo Xīyóujì è ancora oggi l'argomento di fastosi e coloratissimi spettacoli regolarmente tenuti alla Jīngjù («Opera») di Běijīng.

Eppure, incredibile a dirsi, in quasi tutti i libri di letteratura cinese che ho avuto il privilegio di consultare, non viene dato molto rilievo allo Xīyóujì. Gli autori si limitano a citarlo in poche righe, per dovere di cronaca, senza un reale interesse. Sembra che i critici si vergognino di questo romanzone. Puntualizzano che non si tratta di un capolavoro. È – dicono – un romanzo sgangherato, ridondante, privo di equilibrio, scritto in maniera pedestre. I personaggi non stanno né in cielo né in terra. La trama non ha alcuna struttura, né uno sviluppo, ma procede orizzontalmente, all'infinito, per semplice accumulo di vicende.

Il guaio, signori critici, è che difettate di immaginazione. Avete infarcito le nostre letterature di verismo e neorealismo e poi vi siete dimenticati di un romanzo imprescindibile come Pinocchio, solo perché non siete capaci di confrontarvi con ciocchi parlanti e bambini che diventano somari. Il vostro errore è di prendere lo Xīyóujì troppo sul serio. Lo Xīyóujì non è un libro religioso. Non ha morali da proporre, non intende ispirare princìpi etici, non va letto in chiave allegorica. È un libro fantasioso e divertente, irrispettoso e godibilissimo. Piace ai ragazzi, ma non è un libro per ragazzi, Non più di quanto lo siano il Gargantua o i Gulliver's Travels.

La verità è che lo Xīyóujì viene letto con immutato divertimento da quasi cinquecento anni e state certi che durerà altrettanto. Non è un capolavoro: è un classico. Uno di quegli assoluti letterari che non appartengono alla Cina, o all'Oriente, ma all'umanità intera; che non fanno parte di epoche o correnti, ma dell'eternità.

SCHEDA DEI NOMI

Capita che il lettore italiano sia un pochino confuso dai nomi che i personaggi assumano nelle varie lingue e trascrizioni. Lo studioso di  letteratura cinese scriverà Sūn Wùkōng (Sun Wu-k'ung nelle vecchie pubblicazioni), mentre l'appassionato di anime giapponesi lo conoscerà come Son Gokū, e via dicendo. Mi sembra dunque di fare un favore all'umanità riportando qui i nomi dei personaggi principali in cinese (ideogrammi tradizionali, traslitterazione ufficiale pīnyīn e traslitterazione Giles-Wade), in giapponese (hiragana e traslitterazione rōmaji), in coreano (hangŭl, traslitterazione ufficiale e vecchia traslitterazione McCune-Reischauer), in thailandese (in alfabeto thai e in un nostro tentativo di traslitterazione), in viêtnamita e, infine, in malese-indonesiano.

  Cinese Giapponese Coreano Thailandese Viêtnamita Indonesiano
Scimmiotto
Monkey
孫悟空
Sūn Wùkōng
Sun Wu-k'ung
そんごくう
Son Gokū
손오공
Son O-gong
Son O-kong
เห้งเจีย
Ħêng Ceīy
Tôn Ngộ Không Sun Go Kong
Tripiṭaka 玄奘
Xuánzàng
Hsüan-tsang
さんぞう
Sanzō
현장
Hyeon Jang
Hyŏn Chang
พระถังซัมจั๋ง
Phratħạng Sạmcặng
Huyền Trang Pendeta Tong
Porcellino
Pigsy
猪八戒
Zhū Bājiè
Chu Pa-chieh
ちょはっかい
Cho Hakkai
저팔계
Jeo Pal-gye
Chŏ P'ar-kye
ตือโป๊ยก่าย
Tụ̄’o Póyky
Trư Bát Giới Tie Pat Kay
Sabbioso
Sandy
沙悟净
Shā Wùjìng
Sha Wu-ching
さごじょう
Sa Gojō
사오정
Sa O-jeo
Sa O-chŏ
ซัวเจ๋ง
Sạw Cĕng
Sa Ngộ Tịnh Sam Cheng
Viaggio in occidente
Journey to the West
西遊記
Xīyóujì
Hsi yu chi
さいゆうき
Saiyūki
서유기
Seo yu gi
Sŏ yu ki
ไซอิ๋ว
Sị’ĭw
Tây du ký Perjalanan ke Barat
             
Sūn Wùkōng, Xuánzàng, Shā Wùjìng e Zhū Bājiè

Il mitico quartetto nel suo viaggio alla volta dell'India. Il monumento, decisamente kitsch, si trova nel quartiere di Chinatown, a Las Vegas, segno della popolarità mondiale dei personaggi di Wú Chéng'ēn.

CONSIGLI PER GLI ACQUISTI

Lo Xīyóujì esce per la prima volta in traduzione italiana solo attraverso la  riduzione inglese di Arthur Waley, pubblicata da Einaudi col titolo Lo Scimmiotto. Chi conosce Waley sa come questo insigne orientalista abbia il dubbio gusto di riscrivere, più che tradurre, i classici cinesi e giapponesi. Ma è comunque un buon scrittore e la sua trasposizione dello Xīyóujì, pur passata attraverso il filtro di una riduzione e di una doppia traduzione, rimane piacevolissima. All'epoca il libro mi regalò molte ore di assoluto divertimento. (La riduzione di Waley è stata pure pubblicata da Adelphi, ma attualmente sembra fuori catalogo.)

Intanto, in tempi più recenti, è uscita un'altra edizione italiana del romanzo: lo Xīyóujì, per cura e traduzione di Serafino Balduzzi, edito da Rizzoli in una splendida veste con tanto di cofanetto. Questa versione soffre però dell'eliminazione di alcuni episodi, ed è ridotta al sessanta per cento del testo originale. Il traduttore ha però messo a disposizione l'edizione integrale al Progetto Manunzio, che può essere gratuitamente scaricata dal sito Liber Liber <http://www.liberliber.it>. L'opera è stata recentemente pubblicata integralmente da Luni.

L'edizione integrale, per chi voglia godersela in inglese, è stata pubblicata in quattro volumi dalla University of Chicago Press col titolo Journey to the West, a cura di Anthony Yu.

A chi, dopo aver letto il romanzo di Wú Chéng'ēn, avverta una sorta di malinconia da abbandono, non possiamo che consigliare il seguito. Ebbene sì, cosa arcana e stupenda, lo Xīyóubǔ o «Appendice al viaggio in occidente» di Dǒng Yuè (1620-1686) è stato pubblicato in italiano! Il libro è Il sogno dello Scimmiotto, a cura di Paolo Santangelo, edito da Marsilio. La scena è più rarefatta e sofisticata ma, per chi ha amato il personaggio, le avventure dello Scimmiotto alle prese con il Signore delle Illusioni sono assolutamente imperdibili.

Saiyūki

Alcune foto di scena dal Saiyūki, telefilm giapponese del 1978. Nella parte di Sūn Wùkōng, il brillante artista giapponese Sakai Masaaki. La parte di Xuánzàng è qui affidata a un'attrice, la deliziosa Natsume Masako, morta di leucemia a soli ventisette anni. Se siete interessati ad acquistare la versione inglese in DVD, Monkey Magic, potete rivolgervi al sito Monkey Heaven <http://www.monkeyheaven.com>, interamente dedicato al nostro Scimmiotto!

BIBLIOGRAFIA
  • BALDUZZI Serafino: Invito a leggere. Introduzione al Viaggio in occidente. Rizzoli, Milano 1998.
  • BERTUCCIOLI Giuliano: La letteratura cinese. Sansoni/Accademia 1968.
  • DONG Yue: Xiyoubu. «Appendice al viaggio in occidente». → SANTANGELO Paolo [cura]: Il sogno dello Scimmiotto. Marsilio 1992.
  • SANDERS, Tao Tao Liu: Dèi, draghi e eroi della mitologia cinese. Mondadori, Milano 1981.
  • SANTANGELO Paolo: Il sogno dello Scimmiotto. Introduzione al romanzo di Dong Yue. Marsilio 1992.
  • WALEY Arthur: Monkey (riduzione dello Xīyóujì). → ID.: Lo scimmiotto. Einaudi, Torino 1960.
  • WU Ch'eng-en: Xīyóujì «Cronaca di un viaggio in occidente». → BALDUZZI Serafino [trad.]:  Viaggio in occidente. Rizzoli, Milano 1998.
Rubrica: Articoli - Alonso Quijano
Materia: Cultura e letteratura orientale - Chang'e
Testo di Piermatteo Raffoni.
Revisione di Sara Solfeggi.

Creazione pagina: 01.07.2009
Ultima modifica: 12.11.2015

 
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