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ANTICA SAPIENZA TEDESCA

HILDEBRANDSLIED

IL CANTO DI HILDEBRAND

 

Titolo (tedesco)

Hildebrandslied

Genere Poema epico-eroico
Lingua Antico alto tedesco
Epoca
Composizione:
Redazione:
  VII-VIII sec. (?)
±830

Segnatura

Kassel, Murhardschen Bibliothek. Codex Casselanus 2°, ms. theol. 54, ff. 1r e 76v

ANTICA SAPIENZA TEDESCA
HILDEBRANDSLIED
IL CANTO DI HILDEBRAND

L'Hildebrandslied: sua importanza e unicità

Tacito afferma che gli antichi Germani si tramandassero un gran numero di canti popolari d'argomento storico ed eroico (Germania [II: 2]). Disgraziatamente nulla è sopravvissuto di quest'antichissima letteratura la quale dovette continuarsi, nei secoli bui, in una poesia epica, tramandata da cantori chiamati scopf (cfr. anglosassone scōpas, norreno skáld), in quella parlata volgare che i dotti definivano «theodisca» o «diutisca». Le glosse ci informano della diffusione di winileod (ted. weinelieder «canti popolari») vietati alle monache, ma disgraziatamente ben poco è arrivato fino a noi dai secoli anteriori a Carlo Magno.

L'unica clamorosa eccezione è l'Hildebrandslied, il «Canto di Ildebrando», poema in antico alto tedesco sul quale si accumulano diversi record. Esso non è solo la più antica testimonianza a noi nota di poesia epico-eroica in una lingua germanica, l'unica in assoluto della letteratura tedesca delle origini, ma è anche un testo dalle elevate qualità letterarie, riconosciuto capolavoro di poesia altomedievale. Assurto a grande fama anche a causa dei numerosi e complessi problemi filologici legati alla lingua e alla struttura, il poema è stato oggetto di un vasto e ininterrotto numero di studi, che ancora oggi non accennano a esaurirsi.

Il manoscritto

L'Hildebrandslied fu scoperto nel 1715 dall'erudito Johann Georg von Eckhart, in un manoscritto del IX secolo custodito nella biblioteca di Kassel. Questo codice, che si presume sia stato scritto nell'abbazia di Fulda in Assia, come altri testi contenuti nella medesima biblioteca, è una raccolta di trattati teologici in latino. Nella prima e ultima pagina (ff. 1 e 76) si trova stilato il poema, il cui argomento non ha nulla a che fare col contenuto del codice. Esso fu scritto da due mani diverse: presumibilmente due monaci di Fulda che per qualche ragione decisero di riportare su due pagine bianche del manoscritto un pezzo di poesia epica tradizionale. Il primo scrisse buona parte del testo, il secondo aggiunse undici righe all'inizio del secondo foglio. La scrittura è in carolino minuscolo, con l'uso di caratteri che fanno pensare a un'influenza anglosassone (ad esempio la lettera wynn ƿ al posto della w). Il carme è mutilo della parte finale, ma non vi è alcuna ragione per presumere vi sia mai stato un terzo foglio con la conclusione dell'epopea. Si ritiene che il codice risalga intorno all'820 e che il carme venisse trascritto circa una decina di anni dopo.

La prima edizione del poema, a cui venne dato il titolo di Hildebrandslied, ebbe luogo nel 1729, seguita poi nel 1812 da quella scientifica dei fratelli Jacob e Wilhelm Grimm. Un certo numero di macchie sulle pagine del manoscritto sono dovute al tentativo, da parte dei primi studiosi, di accrescere la leggibilità del testo trattandolo con agenti chimici. La storia successiva del manoscritto è piuttosto travagliata. Il codice rimase nella biblioteca di Kassel fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando venne trafugato da un ufficiale statunitense che lo vendette al mercato dei libri rari. Nonostante il codice venisse poi ritrovato in California e restituito alla biblioteca di Kassel nel 1955, la prima pagina – con la prima parte del lied – mancava ancora, asportata da un antiquario senza scrupoli. La pagina venne ritrovata a Filadelfia soltanto nel 1972 e poté quindi ritornare in Germania ed essere reintegrata nel codice.

Il Codex Casselanus 2° si trova oggi nella Handschriftensammlung der Landes- und Murhardschen Bibliothek, di Kassel, sotto la segnatura ms. theol. 54.

 

Le due pagine manoscritte dell'Hildebrandslied. Codex Casselanus 2° - Ms. theol. 54, ff 1r e 76v.

Il tema e i paralleli

Il poema canta del tragico incontro/scontro degli eroi Hildebrand e Hadubrand, sullo sfondo del conflitto tra gli eserciti di Teodorico e Odoacre. I due eroi si staccano dalle rispettive schiere e si incontrano al centro del campo, per battersi tra loro in duello. Il più giovane rivela il suo nome, Hadubrand, e racconta di essere stato abbandonato in tenera età dal padre Hildebrand, il quale aveva seguito Teodorico in esilio, quando questi era stato cacciato dall'Italia dall'usurpatore Odoacre. Hildebrand, tornato in patria dopo trent'anni, comprende di avere di fronte a sé il figlio: gli svela di essere suo padre e cerca di riconciliarsi con lui facendogli dono della propria armilla. Ma Hadubrand rifiuta il dono: egli ritiene che suo padre sia morto e accusa il vecchio guerriero di tramare qualche tranello. Hildebrand si trova dunque costretto – secondo il codice guerriero dei Germani – a non rifiutare lo scontro con il suo avversario, pur riconoscendo che questi è suo figlio. Lamenta il tragico destino che lo costringe a essere ucciso dal figlio o a ucciderlo a sua volta, ma si rassegna. Il vecchio e il giovane eroe si gettano allora l'uno contro l'altro e inizia il combattimento...

Il carme qui s'interrompe, ma è possibile stabilirne il finale in quanto il motivo del duello del vecchio eroe col figlio è ben conosciuto in tutte le letterature indoeuropee e ha come ineluttabile conclusione la vittoria del padre e la morte del giovane eroe. Ne troviamo i paralleli nella letteratura irlandese antica (dove Cú Chulainn incontra per la prima volta il figlio Conlaí, cerca di riconciliarsi con lui ma non vi riesce a causa della diffidenza del ragazzo: i tabù tribali a cui entrambi sono legati li costringono a un duello in cui il giovane eroe verrà ucciso); nella letteratura popolare russa (dove accade la medesima cosa tra Il'ja Muromec e il figlio Podsokol'nik, il quale giunge in armi a Kiev e il padre, dopo aver cercato invano di evitare lo scontro, è costretto al duello nel quale il giovane eroe soccombe); nella letteratura persiana (Rostam uccide il figlio Sohrāb che non ha riconosciuto, in uno dei capitoli più intensi dello Šāhnamè ferdowsiano). Il tema presenta ogni volta delle analogie molto strette: lo scontro avviene alla frontiera, che è solitamente vigilata dal padre, mentre il figlio arriva tra le schiere degli invasori (ma nell'Hildebrandslied sembra piuttosto il contrario). Il padre uccide il figlio per mancato riconoscimento, oppure a causa dell'incredulità del figlio; si tratta comunque di un combattimento ineluttabile, a causa degli impegni d'onore dei due eroi. Spesso il tema narrativo appare come episodio secondario di una vasta epopea, di cui è uno dei culmini drammatici.

Nel caso di Hildebrand e Hadubrand, la laconicità del testo impedisce il chiaro riconoscimento di molti dei motivi legati al mitologema del duello mortale tra padre e figlio; sicuramente in origine il canto faceva parte di un ciclo molto più vasto incentrato probabilmente sul personaggio di Teodorico, di cui questo duello costituiva un momento di particolare intensità.

Lo sfondo storico-mitico

 nell'Hildebrandslied che compare per la prima volta, in un contesto poetico, il nome di uno dei più importanti personaggi della leggenda eroica germanica, sia in lingua tedesca che norrena, Dietrich von Bern, ovvero «Teodorico di Verona», che molto spazio avrà nel successivo Nibelungenlied. Ma alla base di questa figura mitica vi è un personaggio storico: Teodorico il Grande (454-526), re degli Ostrogoti.

Romolo Augustolo, ultimo imperatore dell'impero romano d'occidente, venne deposto nel 476 da Odoacre, re degli Sciri e dei Turcilingi. Nominato rex gentium dalle sue truppe, Odoacre s'insediò sul trono di Ravenna quale primo sovrano romano-barbarico d'Italia e spedì le insegne imperiali a Zenone, imperatore romano d'oriente. Pur invitando Odoacre a sottomettersi all'autorità di Giulio Nepote, successore dell'imperatore decaduto, Zenone accettò di fatto che un re germanico regnasse sull'Italia, decretando così ufficialmente la fine dell'impero romano d'occidente (476). In seguito, preoccupato dai successi di Odoacre (il quale aveva condotto una feroce campagna militare contro i Vandali in Sicilia e aveva annesso la Dalmazia al suo regno), Zenone stabilì di togliere di mezzo l'ingombrante sovrano e per spodestarlo inviò in occidente Teodorico, re degli Ostrogoti. Costui era ben conosciuto in oriente per essere rimasto come ostaggio per un decennio alla corte di Bisanzio; in seguito aveva guidato gli Ostrogoti nella sua lunga peregrinazione attraverso la penisola balcanica, alla ricerca di una patria migliore.

Teodorico sembrava l'avversario naturale di Odoacre in quanto, molto tempo prima, nel 469, suo padre Tiudimiro, aveva sconfitto in Pannonia gli Sciri guidati da Edica, padre di Odoacre. Si trattava di una contrapposizione atavica, che, come aveva coinvolto i padri, si stava ora ripercuotendo sui rispettivi figli. Nel 488 Teodorico si trasferì in Italia con le sue truppe. Gli Ostrogoti si affacciarono nella penisola stabilendo un campo al ponte dell'Isonzo, dove avvenne il primo scontro con l'esercito di Odoacre. Teodorico continuò ad avanzare e raggiunse Verona, dove inflisse una dura sconfitta a Odoacre. Costui si ritirò a Ravenna, dove resistette per tre anni, finché nel 493 si sottomise all'avversario e – secondo una tradizione che sembra già parte della leggenda – venne ucciso nel palazzo durante un banchetto, proprio per mano di Teodorico. Questi morì nel 526, dopo aver lasciato monumentali tracce del suo governo, tra cui il famoso mausoleo in Ravenna. Il regno ostrogoto da lui stabilito in Italia durò alcuni decenni, concludendosi infine con la lunga e rovinosa guerra greco-gotica che durò fino al 553.

Fin qui la storia. La leggenda s'impossessò della figura di Teodorico forse già nel periodo della crisi del regno ostrogoto in Italia, allorché, dopo la morte del sovrano, si cominciò a idealizzare la sua statura eroica. Le fonti storiche del VI secolo testimoniano che la memoria di Teodorico era particolarmente venerata dai suoi successori fin dal tempo della guerra greco-gotica. Fu probabilmente in questo periodo che cominciarono a venire composti poemi secondo gli schemi della tradizione orale e il tempo storico delle migrazioni germaniche si trasfigurò nel «passato assoluto» dell'epica eroica. Personaggi come Teodorico, Odoacre, Ermanarico e Attila divennero i protagonisti di un ciclo che andò sempre più arricchendosi di elementi letterari e fantastici. Tali vicende non rimasero legati alla nazione gotica, ma ebbero una diffusione ampia e duratura presso tutti i popoli germanici, raggiungendo anche le letterature scandinave, che ne conservarono delle versioni primitive.

Anche se non è sopravvissuto nulla, in lingua gotica, del supposto ciclo epico dei Goti, questo viene comunque postulato come nucleo di molti dei temi eroici che ritroviamo nelle posteriori letterature germaniche: tedesca, norrena e anche anglosassone. Uno di questi motivi, pur privo di una reale base storica, è quello dell'esilio trentennale di Teodorico, che ricorre già nell'Hildebrandslied. La conquista dell'Italia da parte del re ostrogoto, secondo la deformazione epica, verrebbe celebrata come una riconquista dopo una supposta cacciata da parte di Odoacre, visto qui nelle vesti di usurpatore. Qualche vaga radice storica di questo tema va forse cercata nei rovesci militari subiti nel 454 dagli Ostrogoti (allora guidati da Tiudimiro, padre di Teodorico, e coalizzati con gli Unni capeggiati dal figlio di Attila) a opera dei Gepidi in Pannonia. Alcune crisi temporanee subite dal popolo ostrogoto, forse durante il periodo delle loro migrazioni nella penisola balcanica, possono aver dato adito al formarsi della leggenda dell'esilio, anche se non hanno niente a che vedere con l'Italia.

La lingua e l'origine

Oltre alla sua unicità nella letteratura antico-tedesca, l'Hildebrandslied solleva problemi di lingua e provenienza che gli stessi filologi sono lungi dall'aver risolto. Infatti, mentre il Codex Casselanus è fuldense, la lingua del poema non è affatto il noto dialetto di quell'area ma presenta molte forme fonetiche di tipo meridionale. Ma nemmeno si può dire che il poema sia bavarese, in quanto vi troviamo mescolate, soprattutto nei versi iniziali, forme basso-tedesche (cioè settentrionali). In pratica la lingua dell'Hildebrandslied non corrisponde ad alcun dialetto preciso e costituisce tuttora un problema aperto.

In passato si riteneva che il poema avesse un'origine settentrionale o addirittura anglosassone e che in seguito fosse passato attraverso un adattamento alto-tedesco (cioè meridionale) prima di assumere la forma scritta a noi pervenuta. In tempi più recenti si è invece ipotizzato che la lingua del poema sia semplicemente passata attraverso una versione nel dialetto basso-francone dell'area renana nord-occidentale; ma poiché questo dialetto è scarsamente documentato e più che altro ricostruito ipoteticamente per un'epoca così antica (inizi IX secolo), l'idea rimane indimostrabile.

L'ipotesi che ha goduto di maggiori consensi tra filologi e studiosi vuole, al perfetto contrario, che il poema abbia un'origine meridionale: successive riscritture e adattamenti linguistici avrebbero poi portato alla forma finale del testo fuldense, dove la stesura che conosciamo avrebbe accolto molti sassonismi, ovvero forme fonetiche settentrionali. Quest'ipotesi non è incompatibile con l'affascinante possibilità che l'antigrafo bavarese avesse un'origine più meridionale ancora, essendo stato importato nella seconda metà dell'VIII secolo dall'Italia longobarda. I Longobardi, anch'essi di lingua germanica, avrebbero benissimo potuto raccogliere il ciclo epico gotico, per noi scomparso, il quale presumibilmente trattava della «riconquista» dell'Italia da parte di Teodorico. Proprio nel regno longobardo, la vicenda di Hildebrand sarebbe stata inserita nella materia teodoriciana.

Ma allora perché non postulare che la leggenda di Hildebrand non abbia fatto parte fin dall'inizio del ciclo teodoriciano e che lo stesso poema sia dunque di origine gotica? L'idea è stata ovviamente avanzata ma si è scontrata non soltanto con l'evidenza che la lingua manca di forme dichiaratamente germanico-orientali, ma anche con il fatto che i nomi dei protagonisti (Hiltibrant, Hadubrant) portano verso l'antroponimia longobarda e bavarese, mentre in quella gotica i nomi in -brant sono sconosciuti.

I tentativi ormai secolari di spiegare le complesse stratificazioni linguistiche dell'Hildebrandslied, la sua mistura peculiare di forme dialettali diverse, sono probabilmente destinati a restare senza risposta. Non è possibile individuare la provenienza precisa del poema e le varie fasi di passaggio. Certo il tema proviene da sud e la maggioranza delle forme settentrionali è alto-tedesca. Poiché questi cicli leggendari si spostavano e si diffondevano da sud verso nord, arrivando fino alla Scandinavia, l'Hildebrandslied rappresenta forse un momento particolare in questa trasmissione, in un linguaggio che non è necessariamente un dialetto geograficamente stabilito. Non bisogna dimenticare che la lingua dell'epica è spesso un linguaggio poetico artificiale, frutto di stratificazioni linguistiche diverse e di apporti personali dovuti alla creatività dei vari autori. L'Hildebrandslied fa uso di un lessico che presenta molti riscontri nella letteratura epica anglosassone, sassone e norrena, così da far pensare a una voluta aderenza, da parte dell'autore, a uno stile epico codificato da secoli e in seguito ereditato da tutti i popoli germanici. Quella con cui abbiamo a che fare è una lingua letteraria che si compiace di espressioni auliche, di termini antiquati, di composti poco comuni. Una delle peculiarità dell'Hildebrandslied è la presenza di una serie di hápax legómena che non hanno riscontri in tutta la letteratura tedesca. Espressioni come chunincriche «regno del re» [22], irmindeot «glorioso popolo» [23], sęolidante «naviganti del mare» [77], sono composti che compaiono unicamente nel nostro poema; la parola sunufatarungo «figlio e padre» [6] è un unicum di tutta la letteratura germanica. Il pubblico, che assisteva alla recita del poema da parte di un cantore, era ben disposto all'uso di un linguaggio poetico artificioso, più aulico e solenne della normale parlata quotidiana.

Posizione dell'Hildebrandslied nella poesia epica antico-tedesca e germanica

L'Hildebrandslied è un unicum della letteratura tedesca alto-medievale, per il semplice fatto che nessun altro frammento di epica tradizionale germanica è arrivato fino a noi. Non è soltanto un miracolo che il Codex Casselanus non sia andato perduto, ma soprattutto che due monaci abbiano messo per iscritto un brano di poesia profana, non latina, destinata alla recitazione orale. Le letterature in antico alto tedesco e in antico sassone, che fiorirono nella Germania carolingia, presentano per la maggior parte motivi improntati alla religione cristiana: la Chiesa, che deteneva il monopolio della cultura scritta, non incoraggiava certo la passione per la poesia tradizionale, a volte reminiscente della cultura pagana. Alcuino di York, in una sua famosa lettera, rimproverava i monaci che mostravano una qualche inclinazione per le letterature poetiche nelle lingue volgari. Ma al contrario, sappiamo che Carlo Magno – il sovrano che aveva imposto ai Sassoni la conversione forzata – voleva raccogliere quei barbara et antiquissima carmina, quibus veterum regum actus et bella canebatur, che forse trattavano dei suoi antenati franchi. Non sappiamo se la raccolta sia mai stata fatta, anche se gli studiosi di età romantica ebbero la tentazione di credere che l'Hildebrandslied ne facesse parte. Vero è che il re dei Franchi aveva grande ammirazione per Teodorico, di cui fece trasportare la statua equestre da Pavia fino ad Aquisgrana.

Nell'ambito delle letterature germaniche in generale, cioè tenendo conto della ricca letteratura nelle lingue anglosassone e norrena, l'Hildebrandslied mantiene tutta la sua importanza come il frammento più antico di un poema epico. Il manoscritto della Ljóða Edda risale infatti al XIII secolo, e il Bēowulf a circa il 1000, mentre con l'Hildebrandslied arriviamo ai primi del IX secolo. Si tratta tuttavia di un'antichità relativa, che è quella dei manoscritti, perché in tutti e tre i casi l'epoca della composizione orale può essere parecchio più antica. Il rapporto cronologico tra le varie opere non è determinabile con precisione. Com'è stato notato, i canti eddici sono eterogenei per tema, essendo distinti tra quelli di argomento mitologico e quelli eroici, e possono risalire a varie epoche, anche se sostanzialmente documentano un epos abbastanza arcaico, intriso degli antichi miti della creazione e di gesta eroiche scarsamente storicizzate. Il Bēowulf anglosassone, pur essendo un poema dallo stile pieno e dalla trama ricca e articolata, è incentrato sul tema fantastico della lotta dell'eroe contro i mostri. L'Hildebrandslied mostra caratteri a sé stanti. La sua brevità lo pone nel genere del carme breve germanico, che probabilmente precede, nella storia evolutiva del genere epico, la concezione di lunghi poemi come il Bēowulf. Da una parte lo stile ingannevolmente scarno ed essenziale ha fatto sì l'Hildebrandslied venisse a lungo considerato un esemplare molto antico di poesia epica: in realtà, a un più attento esame, il poema si rivela la produzione matura e consapevole di un poeta di notevole talento, e dunque, più che un ruvido esemplare di primitiva epica germanica, il poema sarebbe l'attento e cosciente culmine di un'antica tradizione poetica. Infine, l'Hildebrandslied proietta i suoi guerrieri, ormai privi di tratti titanici, in un contesto completamente storicizzato. In questo, il tema del poema antico-tedesco si dimostra assai più evoluto di quanto non siano le imprese sovrumane degli dèi eddici, o le battaglie contro draghi e orchi che sono l'argomento del Bēowulf. Si può pensare a una conseguenza dell'influenza in Germania della cultura classico-cristiana. Non è un caso che la Vǫlsunga saga scandinava, pur essendo cronologicamente più recente del Nibelungenlied, mostri tratti assai più arcaici, intrisi di motivi pagani e di elementi fantastici, di quanto non sia la sua realistica e quasi romantica «versione» tedesca.

Genere e metro

L'Hildebrandslied è un poema eroico scritto con il metro più comune di questo genere di poesia: versi allitterativi, ciascuno dei quali diviso in due semiversi o emistichi. Detto questo, la scansione in versi del componimento non risulta sempre chiara, in quanto il testo originale è scritto di seguito, senza alcuna indicazione precisa dei capoversi o delle cesure interne. Questo un esempio dei primi sei versi nel metro originale, con il primissimo verso breve, formato solo da un semiverso:

ik gihorta ðat seggen                                             
ðat sih urhettun      ænon muotin
hiltibrant enti haðubrant      untar heriun tuem
sunufatarungo      iro saro rihtun
garutun se iro guðhamun      gurtun sih iro suert ana
helidos ubar hringa      do sie to dero hiltiu ritun

Nella nostra edizione, per motivi tipografici, abbiamo sciolto i versi lunghi riportando ogni volta a capo il secondo semiverso. La nostra numerazione è in funzione del criterio scelto e non è, dunque, quella usata nelle pubblicazioni dell'Hildebrandslied.

ANTICA SAPIENZA TEDESCA
HILDEBRANDSLIED
IL CANTO DI HILDEBRAND
         
         
    ik gihorta ðat seggen Questo udii dire.
         
La sfida tra Hildebrand e il giovane Hadubrand 5 ðat sih urhettun
ænon muotin
hiltibrant enti haðubrant
untar heriun tuem
Che si sfidarono
a singolar tenzone
Hildebrand e Hadubrand
tra le due schiere,

 

10 sunufatarungo
iro saro rihtun
garutun se iro guðhamun
gurtun sih iro suert ana
helidos ubar hringa
il figlio contro il padre.
Avevano preparato le armature,
avevano indossato le vesti da battaglia,
avevano cinto le spade,
gli eroi, sopra le cotte inanellate,
    do sie to dero hiltiu ritun per cavalcare in battaglia.
         
Hildebrand chiede ad Hadubrand chi sia e quale sia la sua stirpe


15
hiltibrant gimahalta heribrantes sunu
her uuas heroro man
ferahes frotoro
her fragen gistuont
Hildebrand parlò, figlio di Heribrand,
(lui era, il signore, uomo
maturo e più esperto)
e prese a domandare
  20 fohem uuortum
hwer sin fater wari
fireo in folche
eddo hwelihhes cnuosles du sis
ibu du mi ęnan sages
in poche parole
chi fosse suo padre
nel popolo degli uomini [...?]
«o quale sia la tua stirpe:
se tu sai dire l'uno
    ik mi de odre uuet
chind in chunincriche
chud ist mir al irmindeot
io conosco anche l'altra.
Ragazzo, del regno
mi è noto tutto il glorioso popolo».
         
Il racconto di Hadubrand 25 hadubrant gimahalta
hiltibrantes sunu
Hadubrand parlò,
il figlio di Hildebrand:
30 dat sagetun mi
usere liuti
alte anti frote
dea erhina warun
dat hiltibrant hætti min fater
«Questo mi dissero
le nostre genti
antiche e sapienti,
vissute anticamente:
che Hildebrand si chiamava mio padre;
35 ih heittu hadubrant
forn her ostar giweit
floh her otachres nid
hina miti theotrihhe
enti sinero degano filu
io mi chiamo Hadubrand.
Un tempo se ne andò a oriente
sfuggendo all'odio di Otachres,
via con Theotrihhe
e i suoi molti seguaci.
  40 her furlæt in lante
luttila sitten
prut in bure
barn unwahsan
arbeo laosa
Lasciava nella sua terra
ancora piccolo
in casa della ragazza
un figlio bambino
senza eredità.
  45 her raet ostar hina
des sid detrihhe
darba gistuontun
fateres mines
dat uuas so friuntlaos man
Da qui cavalcò in oriente
perché Theotrihhe
aveva bisogno
proprio del padre mio,
essendo privo di amici.
  50 her was otachre
ummet tirri
degano dechisto
miti deotrichhe
her was eo folches at ente
Lui era con Otachres
oltremodo irato,
e guerriero fedele
a Theotrihhe.
Era sempre dinanzi alle schiere,
 



 

imo was eo fehta ti leop
chud was her...
chonnem mannum
ni waniu ih iu lib habbe
.........................
gli era sempre cara la lotta:
era ben conosciuto
tra gli uomini valorosi.
Non credo abbia più vita».
.........................
         
Hildebrand rivela al giovane di essere suo padre e cerca di riconciliarsi con lui 55 wettu irmingot quad hiltibrant «Testimoni l'eccelso Dio» disse Hildebrand,
60 obana ab hevane
dat du neo dana halt mit sus sippan man
dinc ni gileitos...
want her do ar arme
wuntane bauga
«dall'alto del cielo,
che tu mai con un parente così stretto
hai avuto contesa».
Si strappò dal braccio
l'attorcigliata armilla
    cheisuringu gitan
so imo se der chuning gap
huneo truhtin
dat ih dir it nu bi huldi gibu
forgiata con monete imperiali
che gli aveva donato il re,
signore degli Unni:
«Questa in pace io ora ti dono».
         
Risposta sprezzante di Hadubrand 65 hadubrant gimahalta Hadubrand parlò,
70 hiltibrantes sunu
mit geru scal man
geba infahan
ort widar orte
.........................
du bist dir alter hun
figlio di Hildebrand:
«Con le lance devono gli uomini
accettare i doni,
punta contro punta.
.........................
Tu sei, vecchio unno,
  75 ummet spaher
spenis mih mit dinem wortun
wili mih dinu speru werpan
pust also gialtet man
so du ewin inwit fortos
molto scaltro:
m'inganni con le tue parole
ma vuoi colpirmi con la tua lancia.
In tal modo sei invecchiato,
sempre tramando inganni.
  80 dat sagetun mi
sęolidante
westar ubar wentilsęo
dat inan wic furnam
tot ist hiltibrant
Questo mi dissero
i naviganti
a ovest sul Mar dei Vandali:
che se lo prese la guerra.
Morto è Hildebrand
    heribrantes suno figlio di Heribrand».
         
Hildebrand deve accettare il combattimento

85
hiltibrant gimahalta
heribarntes suno
wela gisihu ih in dinem hrustim
dat du habes heme
Hildebrand parlò,
figlio di Heribrand:
«Ben vedo dalle tue armi
che tu hai in patria

90 herron goten
dat du noh bi desemo riche
reccheo ni wurti
welaga nu waltant got quad hiltibrant
wewurt skihit
un signore devoto:
che non fosti da questo regno
mai esiliato.
Ahi, adesso, Dio potente», disse Hildebrand,
«la malasorte incombe!
  95 ih wallota sumaro enti wintro
sehstic ur lante
dar man mih eo scerita
in folc sceotantero
so man mir at burc ęnigeru
Vagai, per estati e inverni
sessanta, [lontano] dalla patria;
e sempre fui assegnato
tra le schiere dei lancieri.
Eppure dinanzi ai bastioni
  100 banun ni gifasta
nu scal mih suasat chind
suertu hauwan
breton mit sinu billiu
eddo ih imo ti banin werdan
non mi venne data la morte.
Ora sarà il mio stesso figlio
a colpirmi di spada:
a trafiggermi con la sua lama;
oppure sarò io a ucciderlo.
  105 doh maht du nu aodlihho
ibu dir din ellen taoc
in sus heremo man
hrusti giwinnan
rauba birahanen
Ma ora potrai facilmente,
se ti basta il coraggio
contro un uomo più vecchio,
vincergli l'armatura,
impossessarti delle sue spoglie,
  110 ibu du dar enic reht habes
der si doh nu argosto quad hiltibrant
ostarliuto
der dir nu wiges warne
nu dih es so wel lustit
se mai ne hai il diritto!
Sia dunque il più infame» disse Hildebrand
«degli Ostrogoti
chi ora evita lo scontro,
poiché tanto ti è gradita
  115 gudea gimeinun
niuse de motti
hwerdar sih hiutu
dero hregilo rumen muotti
erdo desero brunnono
la reciproca tenzone.
Si decida nel duello
chi dei due oggi
si priverà delle spoglie
o queste corazze
    bedero uualtan entrambe si terrà».  
         
Inizia lo scontro tra padre e figlio 120 do lęttun we ærist
asckim scritan
scarpen scurim
dat in dem sciltim stont
Allora scagliarono dapprima
le lance di frassino,
raffiche aguzze
si conficcarono negli scudi.
125 do stoptun to samane
staim bort chludun
heuwun harmlicco
huittę scilti
unti im iro lintun
Poi avanzarono insieme,
spaccarono i ripari decorati,
percossero con violenza
i bianchi scudi,
e le tavole di tiglio
  uttilo wurtun
giwigan miti wabnum
..........................
andarono in pezzi
colpite dalle armi
..........................
         
         

NOTE

1 ― Il primo verso, privo di allitterazione ed estraneo alla struttura metrica del carme – che impiega il verso lungo germanico formato da due emistichi o semiversi – costituisce un verso breve a sé stante. Tutta la prima parte è densa di sassonismi e mostra una chiara fonetica basso-tedesca (ik in luogo della forma alto-tedesca ih; ðat contro daz, seggen contro sagen), mentre le forme grammaticali sono invece alto-tedesche. Si concentrano qui anche le grafie che impiegano lettere anglosassoni come ð e æ, che il resto del testo abbandona.

2-11 ― (2) Il termine urhetton è un hápax legómenon. Se è da intendere come sostantivo significherebbe «combattimento»; sembra però lo si debba intendere come verbo retto da muotin «potere, dovere», e in questo caso troverebbe un confronto con il gotico us-haitan «chiamarsi fuori», nel senso di «sfidarsi a un combattimento». ― (3) Hiltibrant enti Haðubrant «Hildebrand e Hadubrand»: il terzo semiverso ci presenta i personaggi e l'allitterazione dei nomi, secondo l'uso germanico, è preciso segnale della parentela che li unisce, allo stesso modo in cui Hildebrand sarà più tardi detto figlio di Heribrand, nome che presenta la medesima allitterazione. HeribrandHildebrandHadubrand vengono a delinearsi come una sequenza di eroi destinata a chiudersi nel duello fatale di cui tratta il carme. ― (5) Il numerale tuem «due» rivela una fonetica basso-tedesca, senza la seconda mutazione consonantica (cfr. alto tedesco zweim); in tutto l'Hildebrandslied, infatti, l'antica *t protogermanica è rimasta invariata e non ricorrono mai le consonanti mutate z e tz. ― (6) Sunufatarungo, qui tradotto «il figlio contro il padre», è un hápax non solo per il tedesco ma per tutte le lingue germaniche. Composto dalle voci sunu «figlio» e fatar «padre», è un costrutto poetico. ― (8) Guðhamun, letteralmente «camicia da battaglia» (composto su *gunthi- «battaglia») è un altro hápax, qui con fonetica sassone (dunque basso-tedesca), mentre il riflessivo sih, tipicamente alto-tedesco, indica una struttura sintattica meridionale. Il termine è un costrutto poetico da intendersi come «armatura» (Onesti 1995¹). ― (11) Hiltiu ritun «cavalcarono alla battaglia»: il verbo ritan «cavalcare» (cfr. inglese to ride) fa pensare che i due protagonisti siano a cavallo; tuttavia si può anche intendere in senso figurato e così hanno inteso il passo alcuni traduttori, non essendovi altre indicazioni della situazione. La Francovich Onesti traduce «per lanciarsi in battaglia» (Onesti 1995¹).

12-24 ― Il motivo dell'eroe che chiede l'identità dell'avversario prima del combattimento è un tema tipico della poesia epica, ampiamente attestato nella letteratura eroica greca, celtica, germanica, iranica, indiana, slava. Questo topos non ha soltanto la funzione narrativa di presentare i due eroi che stanno per scontrarsi, ma è anche utile al cantore per creare un effetto di attesa tra i suoi ascoltatori (non dimentichiamo che si tratta di poesia destinata alla recitazione). Ma al motivo letterario doveva però corrispondere una vera e propria usanza delle antiche aristocrazie guerriere. La rinomanza di un guerriero dipendeva in buona misura da quella dei nemici con i quali si era battuto, cosicché poteva essere naturale chiedere all'avversario chi fosse e quale fosse la sua stirpe (e senza dimenticare che gli elmi calati sul viso rendevano arduo il riconoscimento immediato). Anche il motivo dei due eroi che scendono a scontrarsi in mezzo alle due opposte schiere è un motivo tipico del genere epico. Facile e immediato il paragone con l'episodio omerico di Glaûkos e Diomḗdēs, nel quale quest'ultimo si fa avanti fra i due eserciti contrapposti di Achei e Troiani e chiede all'altro guerriero chi egli sia, prima di iniziare a combattere (Iliade [VI]). (Onesti 1995¹) ― (12) La formula produce un verso più lungo del solito: un'irregolarità metrica dovuta all'uso di un'espressione solenne. ― (14) Ferahes, qui malamente tradotto con «maturo», è un'espressione originata dall'antica poesia pagana germanica che riassume in sé i significati di «mondo, anima, età, tempo, vita». ― (18-19) Il brusco passaggio dal discorso indiretto al discorso diretto (con la sua strana consecutio temporum per cui dal congiuntivo preterito si passa al congiuntivo presente), nonché la mancanza di allitterazione tra i due semiversi, ha fatto pensare a una lacuna del testo, ipotesi già avanzata dai primi esegeti del poema ildebrandiano (Lachmann 1833). Tuttavia, ancorché possibile, l'ipotesi della lacuna non è strettamente necessaria, in quanto il brusco passaggio dal discorso indiretto al diretto fa parte degli stilemi della poesia orale (ad esempio è attestato nella Vǫluspá), mentre la mancanza di allitterazione la ritroviamo anche in altri luoghi dell'Hildebrandslied. ― (21-22) Il testo presenta qui un'ambiguità di lettura, a seconda a cui si riferiscano i termini enan e odre («l'uno» e «l'altro»). Si può dunque intendere: «se tu sai dire l'uno [il nome di tuo padre] io conosco anche l'altra [la tua stirpe]», oppure: «se tu sai dire l'una [la tua stirpe] io conosco anche l'altro [il nome di tuo padre]» (o «gli altri», ché odre può essere anche plurale). ― (24) Irmindeot, qui tradotto come «glorioso popolo», testimonia un uso poetico dell'arcaico termine irmin- (forse da intendere come «grande, universale, totale»), già attestato da Tacito nel nome della mitica tribù germanica degli Herminones (Germania [2]), ma anche nel nome della colonna Irminsūl (possibile ipostasi dell'axis mundi) venerata dai Sassoni convertiti da Carlo Magno.

24-44 ― Nel racconto di Hadubrand a Hildebrand si scorge un altro tema tipico della narrativa tradizionale che Nicoletta Francovich Onesti ha definito, in un suo articolo, «tema dell'epos dell'epos», cioè il racconto dell'antefatto riferito a voce proprio davanti a colui che di quell'antefatto è il protagonista. In altri poemi il tema viene trattato in vario modo. Nel Bēowulf, ad esempio, un cantore compone nella sala del banchetto, proprio davanti a Bēowulf, un racconto sulle sue imprese passate, sul come egli sia riuscito a uccidere il mostro Grendel. Nell'ottavo canto dell'Odissea, che si svolge nella reggia dei Feaci, l'aedo Dēmódokos canta dinanzi a Odysseús le sue gesta alla guerra di Troía, ignaro di trovarsi in presenza dell'eroe stesso, che si commuove. Così, nell'Hildebrandslied, la partenza dell'eroe per l'oriente al seguito di Theotrihhe, viene narrata da Hadubrand, ignaro di parlare in presenza del padre, che ne è profondamente scosso. La Onesti nota ancora che l'antefatto è riferito in forma di dialogo nella prima metà del carme, proprio come nella prima metà dell'Odissea le peregrinazioni dell'eroe sono da lui riferite a voce dinanzi ai Phaíakes, in quello che è in assoluto il primo flashback della letteratura occidentale. (Onesti 1995¹ | Onesti 1995²) ― (32-35) Il racconto di Hadubrand si muove già in piena leggenda: Theotrihhe sarebbe stato esiliato dall'Italia da Otachres e sarebbe rimasto in esilio in oriente per trent'anni, presso gli Unni, prima di ritornare alla riconquista della patria (Meli 1991). È a questo punto che Hildebrand incontra il figlio che aveva lasciato in Italia trent'anni prima. Nella realtà storica, tuttavia, Teodorico giunse semplicemente in Italia per strapparla a Odoacre. ― (38) L'espressione prut in bure «nella dimora della ragazza» (con prut < *brut) è un costrutto allitterante che costituisce un'espressione poetica fissa, presente in molti altri componimenti germanici (la troviamo attestata persino nella lirica medio-inglese del XIV secolo: a burde in a bour «una fanciulla in una dimora»). (Onesti 1995¹) ― (40) Arbeo laosa «senza eredità»: questa espressione è un hápax in tedesco. Per quale ragione il ragazzo sarebbe stato privato della sua eredità? Si è ipotizzato che Hadubrand fosse un figlio naturale, o che fosse rimasto senza beni data la condizione di esiliato del padre, cacciato da Otachres. ― (42) Il manoscritto originale qui ha deet, che non avendo senso viene solitamente emendato in des (genitivo del pronome dimostrativo der «questo, quello»), riferito al fateres mines del v. 44 (nel senso di «proprio del padre mio»). ― (45) Anche friuntlaos «senza amici» è un hápax in tedesco, anche se il composto è attestato sia in norreno che in anglosassone. Indica la condizione di chi si trova privo di fidi compagni che lo appoggino e lo sostengano. A prima vista sembra che friuntlaos si riferisca a Theotrihhe, nonostante al v. 35 si fosse detto che questi avesse con sé molti seguaci. Può darsi invece si riferisca allo stesso Hildebrand. ― (49) Il testo originale ha qui unti che, essendo senza senso, viene emendato con miti (miti Deotrichhe «con Teodorico»). La confusione di mi con un è un comune errore visuale, dal quale si deduce che il copista non scriveva a memoria né sotto dettatura, ma copiava da un altro manoscritto. Doveva esistere dunque un'altra stesura del poema ancora più antica di quella che ci è pervenuta. ― (54) Il discorso di Hadubrand si chiude con un semiverso privo di allitterazione. Non vi è tuttavia bisogno di ipotizzare una lacuna del testo: potrebbe trattarsi invece di un'irregolarità metrica per la quale si ha un verso breve (formato da un solo emistichio) in luogo di un verso lungo (di due emistichi). Una medesima irregolarità si produce successivamente al v. 69.

55-64 ― (55) Quad «disse» introduce una particolare formula nel quale il verbo precede il soggetto: si tratta di un inciso sintattico che ritroveremo altre due volte nel corso del poema (vv. 88 e 106). Il termine wettu può essere interpretato in due modi: o è il verbo wizzan «sapere» combinato col pronome personale suffisso di seconda persona singolare (weist du > wettu), quindi «tu sai», oppure è la prima persona singolare del verbo weizzen «chiamare a testimone», quindi «io chiamo a testimone». Il termine Irmingot «eccelso Dio» può essere sia nominativo che accusativo, e non aiuta a sciogliere l'ambiguità. Gli interpreti del poema via via scelto l'una o l'altra ipotesi. In questa traduzione seguiamo la lezione di Nicoletta Onesti che traduce: «Invoco a testimone il grande Dio del Cielo» (Onesti 1995¹). ― (57) Hevane «cielo» è una forma basso-tedesca (cfr. alto tedesco himil). ― (60-61) Wuntane bauga «attorcigliata armilla»: ci si riferisce probabilmente ai tipici torques d'oro e d'argento, attorcigliati su sé stessi, di cui gli archeologi hanno rinvenuto molti esemplari in molti siti del dominio celtico e germanico. In questo caso si specifica che il bracciale di Hildebrand sia stato forgiato a partire da monete d'oro coniate nell'impero bizantino (cheisuringu «moneta imperiale» è parola composta su da keisur «imperatore»), com'era uso presso i signori barbarici, i quali donavano ai capi e ai guerrieri del loro seguito ornamenti e pezzi d'oro con i quali venivano sanciti i patti di fedeltà. ― (62) Anche se non è citato espressamente, è assai probabile che il «re degli Unni» [Huneo truhtin] qui citato altro non sia che Attila, il quale è passato nel mito germanico con connotazioni positive. Anche se storicamente Attila e Teodorico non furono contemporanei, la leggenda germanica vuole che Teodorico abbia trascorso parte del suo esilio presso il re Unno. Alla base vi è probabilmente il ricordo del periodo in cui gli Ostrogoti furono alleati degli Unni, ai tempi del padre di Teodorico.

65-81 ― (67-68) «Con le lance devono gli uomini accettare i doni» [mit geru scal man geba infahan]: la frase pronunciata da Hadubrand suona come un detto proverbiale, sul tipo di quelli che compongono l'Hávamál veteroeddico. Sembra alluda a una consuetudine effettivamente attestata nell'Alto Medioevo, presso Longobardi, Franchi e Scandinavi: l'uso di scambiarsi doni sulla punta di una spada o di una lancia. (Onesti 1995¹) ― (69) Come al v. 54, abbiamo anche qui un semiverso privo di allitterazione. Non c'è bisogno di ipotizzare una lacuna del testo: potrebbe trattarsi invece di un'irregolarità metrica per la quale vi è un verso breve (formato da un solo emistichio) invece di un verso lungo (di due emistichi). ― (70-71) La desinenza -er degli aggettivi forti alter «vecchio» e spaher «saggio, scaltro» è chiaramente alto-tedesca (Onesti 1995¹). L'appellativo «unno» [hun], rivolto qui da un campione dell'esercito di Otachres a un vecchio guerriero ostrogoto alleato degli Unni, suona ironico se non apertamente dispregiativo. ― (77) Il composto poetico sęolidante «naviganti del mare» è un hápax in alto tedesco e raro in basso tedesco e anglosassone. ― (78) Wentilsęo «Mare dei Vandali» è il nome germanico del Mediterraneo, attestato anche in anglosassone. Probabilmente il termine dovrebbe essersi formato presso i Goti, nel periodo in cui i Vandali insediati in Africa avevano il controllo sulle isole del Tirreno, tra il V e l'inizio del VI secolo. Non è chiaro tuttavia se il testo si riferisca al Tirreno o all'Adriatico, a seconda che westar indichi lo stato in luogo («in occidente») o il moto da luogo («da occidente»), se cioè siano stati i naviganti del Tirreno a portare ad Hadubrand la notizia della morte del padre, o se gliela abbiano recata provenendo dall'Adriatico (Onesti 1995¹).

82-116 ― (88) Reccheo «esule» (< protogermanico *wrakjo-) mostra una fonetica decisamente alto-tedesca. L'allitterazione di reccheo con il riche del semiverso precedente, mostra che questo verso non può essere molto antico, in quanto la caduta di [w] iniziale davanti a [r] si è verificata in alto tedesco soltanto nel corso dell'VIII secolo. (Onesti 1995¹) ― (90) Il composto wewurt (da we «dolore» e wurt «destino») è un hápax, che allittera con l'interiezione welaga «ahi!» presente nel semiverso precedente. ― (91-92) «Estati e inverni, sessanta» [sumaro enti wintro sehstic], cioè trent'anni. Il calcolo del tempo non viene fatto secondo gli anni solari, ma secondo i misseri, le due stagioni semestrali che dividevano l'anno nell'antico calendario germanico. Ci si riferisce qui alla tradizione leggendaria dell'esilio trentennale di Theotrihhe dall'Italia (Meli 1991). ― (94) Sceotantero «lanciatori» pare indichi qui un tipo di guerrieri presenti nelle file avanzate dell'esercito: arcieri o, più probabilmente, lancieri. ― (96) Bana «delitto, uccisione, assassinio» è termine assai raro in tedesco, ma diffuso in norreno, sia nell'epica eroica dove lo troviamo in composti tipo Hundigsbani «uccisore di Hundingr» (epiteto dell'eroe Helgi), sia nel linguaggio giuridico (dove si distingueva ad esempio tra il mandante e il sicario, detto l'uno ráðbani «assassino [tramite] un piano» e l'altro handbani «assassino [tramite] la mano»). ― (99) Breton «infrangere» e billiu «lama» sono due voci poetiche molto rare in tedesco, che hanno confronti soltanto nella poesia anglosassone. ― (105-106) Enic reht habes «se mai ne hai il diritto» allude, a un primo livello di lettura, al diritto del vincitore a impossessarsi dell'armatura del vinto. Questo è probabilmente l'unico senso che Hadubrand può dare alle parole di Hildebrand. Ma la frase è molto più sottile, in quanto allude più al diritto di Hadubrand di ereditare legalmente l'armatura del padre, diritto che perderebbe qualora si macchiasse di parricidio. ― (107) Argosto, qui tradotto «il più infame», è superlativo assoluto dell'oltraggioso aggettivo arg, lesivo per la dignità maschile presso tutti i popoli germanici. È attestato presso i Longobardi dove arga era una voce espressamente contemplata come ingiuriosa nell'Editto di Rotari: «Si qui alium per fororem arga clamaverit, et negare non potuerit, et dixerit quod per fororem dixisset, tunc iuratus dicat quod eum arga non cognovisset» (Edictum Rothari [381]). Paolo Diacono narra la storia del valoroso sculdascio Argait che così viene insultato: «E come potresti comportarti valorosamente, con un nome come Argait, che deriva da arga?» [Quando tu aliquid fortiter facere poteras, qui Argait ab arga nomen deductum habes?] (Historia Langobardorum [VI: 24]). In anglosassone earg vuol dire «ignavo», da cui l'inglese arch «furbo, malizioso». La voce è parimenti attestata nel norreno argr dove alla nozione di vigliaccheria si associa un difetto di virilità, donde il significato di «effemminato». Costretto a vestirsi da donna, il dio del tuono Þórr commenta: «tutti gli Æsir mi chiameranno argr» [mik muno æsir argan kalla] (Þrymskviða [17]). Vi erano anche dei proverbi: «lo schiavo si vendica, ma non l'argr» [þrællin hefnir en argr aldri] (Grettis saga [92]), «è veramente un argr chi non difende sé stesso» [argr er sá sem engu verst]. Per estensione, il termine viene ad assumere anche il significato di «vile, codardo» (Cleasby & Vigfússon 1874). Su questa linea si muovono le traduzioni italiane: «vile» (Prampolini 1949) «spregevole» (Onesti 1995¹). ― (108) Ostarliuto, probabilmente gli Ostrogoti (da austro > ostro «oriente»), forse la coalizione tra Ostrogoti e Unni. Prudentemente la Onesti traduce con «popolo d'oriente» (Onesti 1995¹). ― (111) Gudea (< *gunthi-) «duello, tenzone, battaglia» è termine rarissimo fuor di composto (cfr. guðhamun al v. 5), qui attestato come il relitto di un arcaico linguaggio poetico (Onesti 1995¹). ― (112) Niuse de motti presenta un'ambiguità di traduzione. Infatti, se niuse è la terza persona singolare del congiuntivo presente di niusen «riuscire, decidere», de motti può essere inteso in due modi: o «il duello» (con de articolo seguito dal sostantivo motti «duello», cfr. muotin al v. 3), o «chi può» (con de pronome relativo e motti inteso come del verbo muozan «potere», cfr. muotti al v. 114). Il senso del verso oscilla dunque tra o «decida il duello» e «riesca chi può» (Onesti 1995¹). ― (114) Seguiamo qui la lezione della Onesti, che emenda in rumen la forma del manoscritto, che ha hrumen, ipotizzando che l'h- iniziale sia stata inserita dal copista per ipercorrezione, anche se non è pertinente (come accade ad esempio in gihweit per gihwet al v. 32, o in birahanen per bihrahanen al v. 105); rumen significa «lasciare, privarsi»; se invece era giusta la grafia originale, il verbo sarebbe hruomen «vantarsi, gloriarsi». (Onesti 1995¹)

117-127 ― (119) Il significato letterale di scarpen scurim è «pioggia sferzante». L'associazione tra la violenza della tempesta e quella della battaglia è un'immagine consueta nella poesia germanica. ― (121) Stoptun, probabilmente da un proto-germanico *stopjan/*stopen «avanzare, discendere»: questo verbo sembra confermare l'ipotesi che i due eroi fossero a cavallo (come già suggerito dal ritun al v. 11), deduzione che altri autori (Onesti 1995¹) non ritengono necessaria. ― (121) Staim bort chludun «spaccarono i ripari decorati» è un verso assai problematico, anche se il significato sembra chiaro. La seconda parola, bort, è un hápax in tedesco, ma è attestata in anglosassone dove è uno dei termini per «scudo». Staim è termine più incerto: potrebbe significare «combattimento» (cfr. medio tedesco steim), oppure potrebbe essere una variazione di stein «pietra», forse indicando le pietruzze o le lamelle colorate usate come ornamento negli scudi dei personaggi di rilievo. Quest'ultima è l'interpretazione della Onesti (Onesti 1995¹), di cui seguiamo la lezione, anche se è ragionevole presumere che tali scudi decorati venissero usati più per le parate che sul campo di battaglia. In quanto a chludun si tratta forse di una variazione ortografica per hludun che può essere l'aggettivo «risonanti» o il verbo «risuonare» (soggetto «gli scudi decorati»). Secondo la proposta di correzione avanzata un secolo fa da Friedrich Kluge, chludun andrebbe emendato in chlubum, preterito di klioban «spaccare» (e in questo caso «gli scudi decorati» sarebbero da intendere come complemento oggetto) (Kluge 1919). Si tratta in ogni caso di espressioni formulari della poesia eroica germanica. ― (124) Huittę scilti: i «bianchi scudi» vanno intesi in come «splendenti, levigati, chiari» (cfr. latino albus, nel quale si confondono le nozioni di «bianco» e «luminoso»). Si tratta di un tópos comune in tutta la poesia eroica germanica, nella quale le armi, gli scudi e le armature sono detti «bianchi» (e così era detto anche l'elmo di Bēowulf). ― (127) Wabnum «armi» ha una grafia problematica. La parola deriva dal protogermanico *wēpna «arma» (cfr. inglese weapon), e avrebbe dovuto passare per una forma *wapnum prima di arrivare, attraverso la seconda mutazione consonantica, all'alto tedesco waffan. Ci si aspetterebbe di trovare qui un «wapnum», ma l'ortografia con -b- è davvero inusitata. È assai probabile che, arrivato alle ultime righe del testo, il copista abbia lasciato degli errori di scrittura.

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BIBLIOGRAFIA
Archivio: Biblioteca - Guglielmo da Baskerville
Sezione: Fonti - Nabū-kudurri-uṣur
Area: Germanica - Brynhilldr
Traduzione e note della Redazione Bifröst.
Creazione pagina: 21.10.2006
Ultima modifica: 10.01.2018
 
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