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Ouranós e Gê
(✍ 1996) |
Giovanni Caselli (1939-).
Illustrazione (Caselli 1996) |
1 -
NASCITA DEI TITÂNES
er primo, la dea-terra
G aveva generato
Ouranós, il dio-cielo cosparso di stelle, che tutta
potesse coprirla e insieme fosse sede sicura degli dèi, per sempre.
Ouranós fu il primo re dell'universo; avvolto
attorno a G, la fecondò
gettando su di essa fertili gocce di pioggia.
Da G nacque per primo Ōkeanós dai gorghi profondi,
il fiume che circonda tutte le terre emerse; e dopo di lui nacquero
Koîos, e Kreîos, e
Hyperíōn, e Iapetós.
Vennero poi sei figlie: Theía,
Rhéa,
Thémis, Mnēmosýnē, e
Phoíbē dall'aurea ghirlanda, e l'amabile
Thētýs.
Dopo di loro, per ultimo, nacque
Krónos dai torti pensieri, il più giovane ma il più tremendo della sua
stirpe.
|
2 -
I KÝKLŌPES
oi, G,
con
Ouranós giaciuta, generò i tre
Kýklōpes dal cuore superbo, dalle forze immani e dalla grande
scaltrezza nelle opere, che nelle cupe caverne dei vulcani forgiarono la folgore
e il tuono. I loro nomi: Bróntēs, il «tonante»,
Sterópēs, il «lampeggiante», Árgēs,
il «balenante», dal cuore violento. Essi erano in tutto simili agli altri dèi immortali, ma avevano un
solo occhio, di forma rotonda, in mezzo alla fronte. |
3 -
GLI ECATÓŊKHEIRES
altri figliuoli
nacquero alla terra G e al
cielo Ouranós: Kóttos,
Briáreōs e
Gýgēs, creature di somma
arroganza. Cento mani protendevano terribili dalle loro spalle e cinquanta teste
crescevano a ciascuno sopra le membra massicce; e forza terribile si aggiungeva
al loro orrido aspetto, per cui essi furono detti
Ekatóŋkheires, o «centimani»,
i giganti dalle cento braccia.
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4 -
EVIRAZIONE DI OURANÓS
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L'agguato di Krónos |
Giovanni Caselli (1939-). Illustrazioni (Caselli 1996) |
a quanti da
G e da
Ouranós nacquero, ed era una stirpe davvero
tremenda, furono presi in odio dal loro genitore. Ouranós
non li lasciava venire alla luce e, appena nati, subito li ricacciava nel
seno di G. Di ciò si dolse
amaramente la sua sposa, la prodigiosa G, che
concepì un piano astuto e malvagio. Creata la specie del livido ádamas, ella fabbricò
una grande falce per tendere un agguato all'odiato marito, poi disse ai suoi
discendenti, afflitta nel cuore:
— Figli che generai da un essere senza pietà, se volete udirmi, ora possiamo
vendicare gli affronti di vostro padre, che ai vostri danni rivolse per primo il
pensiero.
Così esclamò la dea-terra; ma tutti i suoi figli furono colti da un sacro
terrore, e nessuno osò parlare. Poi, preso coraggio, si fece avanti
Krónos dai torti pensieri per sostenere le
ragioni di G, e così si rivolse alla madre di tutti i numi, allietandola:
— Io ti prometto di compier l'impresa,
poiché nulla m'importa del mio tristo padre:
egli infatti per primo rivolse la mente a nostro danno.
Così disse, e gioì grandemente nel cuore G prodigiosa.
Diede in mano al figlio la falce e lo pose nascosto in agguato.
E venne, portando la notte, Ouranós, bramoso d'amore.
Giacque con
la terra, e si stese ovunque. Ma Krónos strinse
forte nella destra la falce dai denti aguzzi, mozzò il pene del padre e poi,
reggendo con la sinistra quel fardello insanguinato, senza guardare, lo
gettò dietro la sua spalla, nel mare agitato.
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5 - OURANÓS MALEDICE I FIGLI
miliato e cacciato nella parte più
alta dell'universo, Ouranós maledì i suoi figli,
chiamandoli per la prima volta Titânes, in
quanto – disse – non si erano fatti scrupolo di «tendere» [titaíno] su di
lui le loro braccia, con ferocia e tracotanza. Essi avevano compiuto un grave
misfatto e, un giorno, ne avrebbero pagato il giusto fio.
Da allora, tuttavia, il
Cielo non si avvicina più alla Terra per l'abbraccio
notturno. |
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Le Erinýes e le Melíades |
Giovanni Caselli (1939-).
Illustrazione (Caselli 1996) |
6 - ERINÝES, GÍGANTES
E MELÍADES
al sangue di
Ouranós, accolto nel seno di
G,
sarebbero nate
nel corso degli anni altre
strane creature. Le potenti Erinýes, ovvero Mégaira,
Tisiphónē
e Alēktṓ, la «gelosa», la
«vendicatrice»
e l'«implacabile». Streghe alate
dalla pelle nera e i capelli tramutati in serpenti, esse perseguitano quanti si
macchiano di gravi colpi e assassini, soprattutto nei confronti di parenti e
consanguinei.
Da quel sangue venne anche generata la stirpe
dei Gígantes. Splendidi nelle loro corazze di bronzo,
e con lunghe lance in mano,
essi avrebbero mosso guerra agli dèi.
Nacquero anche le nýmphai dei frassini, chiamate Melíades sulla terra infinita.
Tristi creature, esse offrono il loro legno duro e incorruttibile per creare lance e
giavellotti. Dai frassini sarebbe anche scesa la violenta e feroce stirpe dell'età del
bronzo.
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Nascita di Aphrodítē |
Basílīs Mpóttas, dipinto |
7 - NASCITA DI APHRODÍTĒ
l fallo di
Ouranós, abbandonato in mare, vagò a lungo per i flutti di
Póntos sino a quando giunse presso l'isola di Kýthēra. Dalla schiuma
sorse allora una meravigliosa fanciulla, dalle bionde chiome.
Più tardi ella sarebbe approdata a Kýpros, lambita dai flutti, e l'erba sarebbe
spuntata sotto i suoi agili piedi.
Subito le Hṓrai si sarebbero fatte avanti ad
accoglierla. L'avrebbero abbigliata con vesti divine. Le avrebbero posto sul
capo immortale una corona d'oro, e ai lobi traforati avrebbero appeso fiori
d'oro e d'oricalco. Le avrebbero ornarono il collo e il seno con monili simili a
quelli che loro stesse portavano.
Quindi, abbigliata con i più ricchi vestiti e ornamenti, l'avrebbero condotta
presso gli dèi.
I numi l'avrebbero chiamata Aphrodítē, colei che è
nata dalla spuma del mare, la soave dea dell'amore, da sempre onorata dagli
uomini e dagli immortali perché da lei promanano amore e desiderio, e infatti
Érōs l'accompagna e Hímeros la segue. Le
sono grati le dolci chiacchiere delle fanciulle, i sorrisi e il dolce piacere,
l'affetto degli amanti e gl'inganni d'amore.
Ma ella sarebbe stata anche conosciuta come Kýthēreia, dal nome dell'isola in
cui nacque, e Kyprogenéa,
dal nome della terra da cui proviene. |
8 - DESTINO DEI KÝKLŌPES
E DEGLI ECATÓŊKHEIRES
a liberazione dei Titânes,
per opera di Krónos, non si
estese anche ai loro fratelli, i
Kýklōpes e agli
Ekatóŋkheires,
i quali non videro mai la luce del sole. Fu loro padre Ouranós,
dicono alcuni, atterrito da tale tremenda discendenza
– o forse addirittura geloso della loro forza –,
a respingerli nel Tártaros, un luogo distante dalla
terra quanto la terra dista dal cielo.
Altri dicono che, quando Krónos sconfisse Ouranós,
i Titânes provvidero subito a liberare i
Kýklōpes e gli
Ekatóŋkheires.
Ma Krónos, una volta divenuto loro re, li mise nuovamente in catene e li rispedì
nel loro luogo di prigionia. Comunque stessero le cose, sarebbe stato
Zeús a liberarli, molto tempo dopo, su consiglio di
G,
quando mosse battaglia a Krónos e ai Titânes. |
Fonti
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I - IL RACCONTO
URANICO: DISTINZIONE DEI SINGOLI MITEMI Il racconto esiodeo su
Ouranós, nella sua apparente semplicità, ci pone
tuttavia di fronte a uno scenario complesso, costituito da più fili
sapientemente intrecciati tra loro. Un'analisi più attenta rivela dei mitemi
distinti, abilmente strutturati tra loro in una trama unitaria e coerente. È una
matassa piuttosto aggrovigliata e, prima di procedere, sarà
necessario tentare di dipanarla.
Possiamo innanzitutto distinguere i seguenti mitemi:
- Matrimonio del cielo e della terra.
- Separazione forzata del cielo e della terra.
- Evirazione del dio-cielo.
- Caduta del fallo in mare e nascita della dea dell'amore.
- Conseguenza della colpa dovuta alla forzata separazione.
Discuteremo l'ultimo punto nella prossima pagina. Vediamo ora di analizzare i
primi quattro motivi, evidenziandone il significato mitologico e tentando
confronti e parallelismi con altre tradizioni mitologiche. |
II - IL MATRIMONIO DEL CIELO E DELLA TERRA
Il mitema del matrimonio tra il cielo e la terra, centrale nel mito
ellenico, sembra estraneo alle grandi culture antiche dell'Europa e del Medio
Oriente. Non lo troviamo né nelle mitologie semitiche né in quelle indoeuropee.
Fa eccezione la tradizione dell'antica India, dove si parla di un dio-cielo
Dyauṣ Pitār
e di una dea-terra
Pṛthivī Mātar.
Gli inni vedici presentano molti passi dove i due nomi sono uniti in un
dvandva che li accumuna in una sola entità cosmologica: Dyavapṛthivī,
ma la notazione fa parte più del registro della poesia che della mitologia. Per
il resto, la letteratura indiana accenna al matrimonio tra cielo e terra
in un unico verso (Ṛgveda [IV: 17, ]), suggerendo l'idea di un motivo erratico, per quanto di grande antichità.
Al contrario, il mitema del matrimonio tra il cielo e la terra è piuttosto comune nelle culture «primitive». Nella
sua monumentale raccolta di miti dei popoli primitivi, Raffaele Pettazzoni ne ha
registrate molte varianti
(Pettazzoni 1948). L'idea basilare è che il cielo
(maschio) fecondi la terra (femmina) tramite le piogge che rovescia regolarmente
sui monti e sulle valli, facendo germogliare i semi e spuntare i frutti, e
garantendo il ciclico rinnovamento della vita. Il motivo della separazione violenta del cielo e della terra, strappati l'uno dall'altra, è spesso registrato come mitema a sé
stante. Una serie di miti, diffusi soprattutto nell'Asia orientale e in Oceania,
vogliono che in origine il cielo fosse così basso che le persone non riuscivano
neppure a compiere gli atti più semplici. Un eroe o un demiurgo provvide però a
sollevare il cielo, garantendo la possibilità della vita umana.
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Papa-tūā-nuku e Rangi-nui |
Disegno di autore non identificato |
Ad esempio, gli Eʋé
del Togo ritengono che cielo e terra siano sposati e che la loro unione si
verifichi durante la stagione delle piogge (Guidorizzi
1995). Essi narrano anche che, all'inizio del tempo, cielo e terra
fossero vicinissimi tra loro. Una donna, non riuscendo a dimenare il
mestolo con cui mescolava la polenta, s'indispettì e gettò verso il cielo una
patata bollente. Mavu, il dio supremo, si adirò e
lasciò la terra, trascinando con sé anche il cielo. (Pettazzoni
1948)
Curiosamente, la tradizione più vicina al mito greco, la troviamo tra i
popoli della Polinesia, presso i quali è attestata con molte varianti. La più
articolata è stata registrata presso i Māori della Nuova Zelanda. In principio, Rangi-nui
e Papa-tūā-nuku, il cielo e la terra,
giacevano strettamente avvinti l'uno all'altra e il mondo era totalmente immerso
nelle tenebre. I loro figli si consultarono, decisi a mettere fine a quest'eterna
oscurità. Il feroce Tūmatauenga propose subito di
uccidere i genitori, ma Tāne-mahuta, padre delle
foreste, era di opinione contraria: «No, è meglio separarli. Che il cielo se ne
stia lontano sopra di noi. Ma che la terra giaccia sotto i nostri piedi e ci sia
vicina come una madre che allatta».
Tutti i fratelli acconsentirono, ad
eccezione di Tāwhirimātea, padre dei venti e delle
tempeste.
Allora Rongo-ma-tāne, padre degli alimenti
coltivati, tentò di staccare il cielo dalla terra, ma i due erano troppo
strettamente avvinti e, per quanti sforzi facesse,
egli non riuscì nell'intento. Dopo di lui, si cimentò
Haumia-tiketike, padre degli alimenti spontanei, senza risultato. Anche il
feroce Tūmatauenga fallì la prova. Toccò alla fine
a Tāne-mahuta, il quale piantò i piedi contro
il suolo e rizzò il busto, facendo appello a tutte le sue forze. Alla fine,
Rangi-nui
e Papa-tūā-nuku, urlando
di dolore, vennero strappati l'uno dall'altra. E non appena la luce penetrò nello
squarcio formatosi tra il cielo e la terra, si scoprì la moltitudine degli esseri umani, generati da
Rangi e Papa, fino
ad allora rimasti nascosti nell'oscurità. Da quel momento, raccontano
i Māori, il cielo è sempre rimasto separato dalla terra. Ma i due sposi ancora
continuano ad amarsi: ancora si alzano verso Rangi-nui
i teneri e caldi sospiri dal petto di Papa-tūā-nuku,
formando le nebbie che salgono dalle montagne. E il vasto cielo, mentre nelle
lunghe notti si duole per la sua separazione dall'amata, versa frequenti lacrime
sul seno di lei e gli uomini le chiamano rugiade. (Grey
1885 | Pettazzoni 1948)
Una comparazione tra il mito māori e quello ellenico, come si vede, mostra
sorprendenti affinità. Una relazione diretta tra i due miti è tuttavia assai
improbabile, vista la grande distanza geografica tra la Grecia e la Nuova
Zelanda. Rimane il sospetto di un mitema antichissimo, diffuso da millenni
nelle regioni equatoriali del pianeta. Difficile capire per quale tramite esso
possa essere arrivato nella Grecia arcaica: bisognerebbe disporre di una conoscenza
dettagliati delle etnie che frequentavano il Mediterraneo orientale prima
dell'arrivo degli Elleni, e della loro cultura. I Popoli del Mare contribuirono certamente a vasti e
profondi scambi culturali tra l'Ellade, Creta, la Palestina e l'Egitto, e non
dimentichiamo che proprio l'Egitto conosceva una versione del matrimonio del
cielo e della terra [infra].
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III - GLI INTRIGHI
DEGLI OURANÍDAI Alla generazione protogonica segue
quella titanica. Nata dalla dea-terra
G e del dio-cielo
Ouranós, questa nuova stirpe è costituita in
Hēsíodos da tre
serie di figli: i dodici
Titânes, i tre
Kýklōpes e i tre
Ekatóŋkheires
(Theogonía [-]).
Il poema passa poi a descrivere il regno di
Krónos e, solo in seguito, apprendiamo che
Kýklōpes ed
Ekatóŋkheires erano stati ricacciati nel
Tártaros dal padre loro,
Ouranós, geloso della loro forza e del loro aspetto
(Theogonía
[-
| -]). Lo sappiamo perché, nel
corso della titanomachia, Zeús, assecondando un
oracolo di
G, li libera per farne suoi alleati nella
battaglia contro i
Titânes.
Lûse
dè patrokasignḗtous olon hypò desmn,
〈Bróntēn te Sterópēn te kaì Árgēn
obrimóthymon〉
Ouranídas, hoùs dse patḕr aesiphrosýnēısin... |
〈Bróntēs,
Sterópēs e Árgēs
dall'animo forte〉 che il padre nella sua follia aveva incatenato. Essi gli furono sempre grati di tale beneficio |
Hēsíodos:
Theogonía [-] |
Briáreōı d’ ōs prta patḕr ōdýssato thymōı
Kóttōı t’ ēdè Gýēı, dsen kraterōı enì
desmōı
ēnoréēn hypéroplon agṓmenos ēdè kaì eîdos
kaì mégethos; katénasse d’ hypò khthonòs
euryodeíēs... |
Quando il padre si adirò con
Briáreōs,
Kóttos e
Gýgēs, li strinse con saldi legami, invidioso del loro aspetto e della loro forza senza pari;
li spinse sotto la terra dalle ampie vie... |
Hēsíodos:
Theogonía
[-] |
il primo di questi due passi presenta un'ambiguità: poiché il soggetto sottinteso della frase è
Zeús, si potrebbe pensare che
il «padre» di cui si tratta al v. []
sia Krónos. Più probabilmente,
però, la parola patḗr è riferita agli stessi Ouranídai
(i
Kýklōpes). A imprigionarli non fu
dunque Krónos, ma lo stesso
Ouranós. (Le traduzioni italiane complicano
l'ambiguità, perché la parola
patrokasígnētoi, «zii paterni», al v.
[],
viene tradotta etimologicamente come
«fratelli del padre», con riferimento questa volta al padre di Zeús,
Krónos.) Nel secondo dei
due passi il «padre» al v. [],
reo di avere imprigionato gli
Ekatóŋkheires, è senza dubbio
Ouranós.
Si crea però uno scoglio con quanto
Hēsíodos aveva asserito in
precedenza. Risultava, infatti, che
Ouranós non avesse permesso a nessuno dei suoi
figli di nascere. È solo con la rivolta di Krónos
che i Titânes vengono alla luce, ma nulla viene
detto espressamente per i
Kýklōpes e gli
Ekatóŋkheires. Sarebbe logico presumere che siano stati anch'essi
liberati insieme ai loro fratelli. Ma allora perché più tardi li ritroviamo nel
Tártaros? E quando vi sono stati rinchiusi? Dopo la
castrazione,
Ouranós ha perso ogni ruolo attivo, e l'unico
che possa aver imprigionato i
Kýklōpes e gli
Ekatóŋkheires è lo stesso Krónos.
Apollódōros, nella sua Bibliothḗkē,
cerca di risolvere la contraddizione con una
toppa. Inverte innanzitutto l'ordine di nascita degli Ouranídai. Ecco
allora che G ed
Ouranós generarono per primi gli
Ekatóŋkheires, per secondi i
Kýklōpes e per ultimi i
Titânes. A questo punto, orripilato da
tale mostruosa discendenza, Ouranós spedisce gli
Ekatóŋkheires e i
Kýklōpes nel
Tártaros. I poveretti non hanno fatto in tempo a nascere che sono subito
spediti nel regno dei morti. Solo ai
Titânes viene permesso di venire alla
luce. Sconvolta per la sorte toccata agli altri suoi figli,
G convince i Titânes
ad assalire il padre e consegna a Krónos una falce di ádamas.
I Titânes, a eccezione di Ōkeanós,
che si mantiene neutrale, aggrediscono
Ouranós e Krónos lo
castra. Subito dopo, corrono a liberare gli
Ekatóŋkheires e i
Kýklōpes. Ma Krónos,
divenuto loro re, li mette di nuovo in catene e li rispedisce nel
Tártaros. (Bibliothḗkē
[I: 1])
Le ragioni di questo inutile giro vizioso sono probabilmente dovute al fatto
che Apollódōros cerca di mantenere una minima logica nelle azioni dei
personaggi. La contraddizione viene risolta nell'unico modo possibile:
affermando che
Krónos avesse sostenuto la scellerata decisione di
Ouranós e si fosse reso corresponsabile
dell'imprigionamento dei propri fratelli.
|
IV - L'EVIRAZIONE COME
ATTO COSMOLOGICO
Ouranós, nella semplicità della sua potenza
primitiva, conosce unicamente l'attività sessuale. Disteso su G, la avvolge completamente, in un
amplesso senza fine. Egli non permette alcuna dimensione spaziale, perché non
lascia alcuno spiraglio tra lui e la sua sposa, né permette alcun mutamento di
questo stato di cose, fissando il tempo in una notte interminabile. Cielo e
terra sono allacciati tra loro, di fatto immobilizzando l'evoluzione
dell'universo e impedendo la prosecuzione delle generazioni divine.
Hēsíodos afferma anche che
Ouranós prese a odiare i figli avuti da
G (Titânes,
Kýklōpes ed
Ekatóŋkheires).
Hóssoi gàr Gaíēs te kaì Ouranoû
exegénonto,
deinótatoi paídōn, sphetérōı d'
ḗkhthonto
toki,
ex arkhs, kaì tn mèn hópōs tis prta
génoito,
pántas apokrýptaske
kaì es pháos ouk aníeske
Gaíēs en
kenthmni,
kakı d'
epetérpeto érgōı,
Ouranós... |
Ma quanti erano nati da G e
Ouranós,
i più tremendi dei figli, vennero presi in odio dal padre;
sin dall'inizio, e appena uno di loro nasceva, lo nascondeva, e non lo lasciava venire alla luce,
nel seno di G. E godeva del suo piano malvagio Ouranós... |
Hēsíodos:
Theogonía
[-] |
Sembra di capire che
Ouranós prendesse i suoi figli
appena nati e subito li scagliasse nel profondo della terra.
È questa l'interpretazione che daranno i mitografi
successivi. Apollódōros scrive che i
Kýklōpes (e
presumibilmente anche gli
Ekatóŋkheires) vennero gettati nel
Tártaros, descritto come un
luogo tenebroso, «tanto lontano dalla terra quanto la terra
dista dal cielo» (Bibliothḗkē
[I: 1]).
Ma il passo esiodeo, ad andare a leggerlo con attenzione, è
ancora più radicale. Ouranós, completamente preso dalla sua passione per G,
teme che la sua prole, i «più tremendi dei figli» [deinótatoi paídōn], potrebbero volersi conquistare uno
spazio e frapporsi tra lui e la dea-terra. Così impedisce loro di venire alla
luce, ricacciandoli nelle tenebre prenatali nel momento stesso in cui li
concepisce.
Il
seguito della generazione teogonica, e quindi dell'evoluzione dell'universo, è
dunque impedito dall'egoismo di Ouranós che, negando una nascita
ai suoi figli, non lascia spazio per l'esistenza di qualsiasi altra cosa. Ma
G,
che porta in grembo delle creature senza poterle dare alla
luce, non può permettere che tale stato di cose continui per
sempre. Così, tratta da sé stessa una lama, la mette nella mano di Krónos, l'ultimo nato,
invitandolo a colpire il proprio padre. Hēsíodos
indica l'arma con la parola drépanon, che sembra indicare una
sorta di lama ricurva: una falce, un coltello, forse addirittura una
sciabola. Il
poeta aggiunge l'inusitato particolare dei «denti aguzzi» [karkharódonta],
rendendoci ancora più perplessi riguardo alla natura e forma di quest'arma. Incertezza vi
è anche riguardo al materiale con cui è composta: la parola ádamas non ha una traduzione
specifica.
Armato del drépanon, Krónos si
pone in agguato,
all'interno di quel grembo materno dal quale non
è ancora venuto alla luce, e attende il momento
propizio.
Splendida la scena dell'arrivo di Ouranós, nella quale
Hēsíodos riesce ad armonizzare l'elemento cosmico con quello
antropomorfo.
lthe dè nýkt'
epágōn mégas Ouranós, amphì dè Gaíēı
himeírōn philótētos epéskheto, kaí rh' etanýsthē
pántēı, ho d' ek lokhéoio páis ōrézato
kheirì
skaiı, dexiterı dè pelṓrion éllaben hárpēn,
makrḕn karkharódonta, phílou d' apò mḗdea
patròs
essyménōs ḗmēse... |
E venne il grande Ouranós, portando la notte, e desideroso
di amore si avvicinò a
G e si stese tutto quanto
su di lei; ma il figlio in agguato si sporse con la mano
sinistra, con la destra impugnò la terribile falce
dai denti aguzzi e con forza tagliò
i genitali del padre, gettandoli via. |
Hēsíodos:
Theogonía [-] |
Quest'atto di violenza, compiuto da
Krónos ai danni di suo padre,
ha conseguenze
cosmiche decisive. Separa per sempre il cielo dalla terra,
fissandolo alla sommità del mondo, come il tetto
dell'edificio cosmico. Lo spazio si apre, permettendo ai figli
di
Ouranós e
G di venire alla luce. Le
generazioni divine possono trovare il loro posto nello spazio e
nel tempo. La genesi si sblocca; il mondo si popola.
(Vernant 1981¹)
Il ruolo cosmologico di Krónos è dunque quello di
separare il cielo dalla terra, impresa necessaria per l'organizzazione del nuovo
kósmos. Se
Ouranós e
G fossero rimasti uniti, avvinti nel loro
amplesso cosmico, l'universo sarebbe
rimasto un mondo statico, chiuso su sé stesso, privo di spazio e tempo,
dimensioni necessarie per l'interazione di tutti gli esseri.
Krónos dà dunque l'avvio
alla storia (e molti mitografi giocheranno sulla somiglianza del suo nome con la
parola khrónos «tempo»).
Nello stesso tempo, il gesto
liberatorio di Krónos si configura come un crimine orribile,
una ribellione contro il proprio padre. L'ordine cosmico si
istituisce per mezzo di una violenza colpevole, di un
inganno di cui occorrerà pagare il fio.
Ouranós, mutilato e
scacciato, chiama per la prima volta i suoi figli Titânes
e lancia contro di loro una maledizione che
istituisce per l'avvenire una vera e propria legge cosmica.
Toùs dè patḕr Titnas epíklēsin kaléeske
paîdas neikeíōn mégas Ouranós, hoùs téken
autós;
pháske dè titaínontas atasthalíēı méga
hréxai
érgon, toîo d' épeita tísin metópisthen
ésesthai. |
Costoro, per odio, il padre li chiamò Titânes,
il grande Ouranós, i figli da lui stesso generati:
e diceva che tendendo tracotanti le braccia avevano compiuto un grande
misfatto, di cui un giorno avrebbero dovuto pagare il fio. |
Hēsíodos:
Theogonía
[-] |
Krónos, divenuto sovrano del
nuovo kósmos grazie alla sua spregiudicatezza, sarà
il primo a farne le spese. Con il suo colpo di falce avvia
la storia, ma intanto la violenza e l'inganno entrano sulla
scena del mondo, e neppure Zeús
sarà più in grado di eliminarli. (Vernant
1981¹)
|
La mutilazione di
Ouranós
(✍ 1555) |
Giorgio Vasari
(1511-1574), dipinto |
|
V - LA SEPARAZIONE
DEL CIELO E DELLA TERRA
Il mitema della separazione del cielo e terra, gli Elleni lo
derivarono probabilmente dal substrato mediterraneo. Non lo troviamo nelle altre
mitologie indoeuropee. Era tuttavia un motivo ben conosciuto in Anatolia, come
sappiamo grazie a un testo ḫittita,
intitolato dagli specialisti Ullikummi.
Qui, l'antico dio Kumarbis, deciso a vendicarsi del
signore
della tempesta Tarḫunta/Tešub, genera un figlio di pietra, Ullikummi, e lo colloca negli abissi,
sulla spalla destra di
Upelluri, il gigante che sorregge
il mondo. Con il tempo, Ullikummi cresce sempre di più: emerge
dal mare e arriva con la testa a sfiorare il cielo, minacciando la stabilità
dell'universo. Gli dèi tentano di abbattere Ullikummi
in tutti i modi, senza riuscirci. Allora, il saggio Ea scende negli
abissi e si rivolge direttamente al gigante
Upelluri, cercando di riscuoterlo
dal suo torpore.
Upelluri
prese a rispondere [ad
Ea]:
«Quando costruirono il cielo e la terra
sopra di me, non seppi nulla; e quando
accadde che tagliarono il cielo e la terra
con il coltello, neppure allora seppi nulla,
ma ora qualcosa mi ferisce la spalla destra
e non so chi sia tale dio». |
Ullikummi [III:
27-43] |
Apprendiamo così, da questo laconico
scambio di battute, che nella cosmogonia ḫittita
il cielo e la terra erano stati originariamente «costruiti»
in un'unica massa sopra l'abissale Upelluri
e che, a un certo punto, erano stati separati con un
coltello. Ea si reca subito
dai Karuileš Šiuneš,
gli «dèi antichi», i quali sono i
custodi dei magazzini dove vengono conservate le
cose dei tempi della creazione, e li investe
dicendo:
«Ascoltate le mie parole, o dèi antichi, che
[esistete] fin dall'antichità e conoscete i fatti!
Riaprite i magazzini degli antenati! Si porti il
sigillo degli antichi padri e con esso di nuovo i
magazzini siano sigillati e si porti fuori l'antica
sega con la quale si separarono il cielo e la terra e
si tagli, sotto i piedi di
Ullikummi, la diorite
che
Kumarbis fece crescere per
combattere gli dèi!» |
Ullikummi [III:
47-53] |
Varie lacune del testo ci
impediscono di conoscere il finale della vicenda, ma è
presumibile che gli dèi abbiano abbattuto
Ullikummi, salvando
l'universo e frustrando i piani di
Kumarbis.
Ciò che ci interessa, in questa sede, è trovare in Anatolia, il motivo di separazione
del cielo e della terra. Non conosciamo i dettagli del mito, ma l'«antica
sega» utilizzata per la grande impresa
cosmogonica fa subito venire in mente Krónos e il suo
falcetto dentato. Ma il
motivo della separazione del cielo e della terra,
presente nel mondo anatolico, sembra avere un'origine
orientale. Gli Ḫittiti lo avevano desunto probabilmente
dagli Ḫurriti,
ma questo era già presente nelle più antiche concezioni
mitologiche della Mesopotamia. Ne troviamo tracce nei testi
cosmologici dei Sumeri, di cui questo è solo un esempio:
ud re-a ud su₃-ra₂ re-a
ĝi₆ re-a ĝi₆ ba₉-ra₂ re-a
mu re-a mu su₃-ra₂ re-a
ud ul niĝ₂-du₇-e pa e₃-a-ba
ud ul niĝ₂-du₇-e mi₂ zid dug₄-ga-a-ba
eš₃ kalam-ma-ka ninda šu₂-a-ba
šu-rin-na kalam-ma-ka niĝ₂-tab ak-a-ba
an ki-ta ba-da-ba₉-ra₂-a-ba
ki an-ta ba-da-sur-ra-a-ba
mu nam-lu₂-u₁₈-lu ba-an-ĝar-ra-a-ba
ud an-ne₂ an ba-an-de₆-a-ba
en-lil₂-le ki ba-an-de₆-a-ba
ereš-ki-gal-la-ra kur-ra saĝ rig₇-bi-še₃ im-ma-ab-rig₇-a-ba
|
In
quei giorni, in quei giorni
arcaici...
In
quelle notti, in quelle notti
remote...
In
quegli anni, in quegli anni
antichi...
In quei giorni passati, quando le cose vennero
all'esistenza,
in quei giorni passati, quando le cose vennero fatte
per la prima volta,
quando il pane fu gustato per la prima volta nel
santuario della Terra,
e quando i forni vennero accesi per la prima volta.
quando il cielo fu
separato dalla terra,
e la terra fu separata dal cielo,
quando la fama del genere umano venne stabilita,
An prese per sé il cielo
ed Enlil prese per sé la
terra
e gli Inferi vennero dati in dono a
Ereškigal... |
Ud re-a ud su₃-ra₂ re-a
[1-12] |
Il mitema della separazione del cielo e della
terra sembra essere dunque di origine sumerica (i semiti, quali
gli Accadi, tramandavano concezioni cosmogoniche diverse,
come attestano l'Enûma
Elîš o la stessa
Bibbia). Gli Elleni lo avevano probabilmente derivato
attraverso i popoli dell'Anatolia,
adattandolo alle proprie cosmogoniche. Non dimentichiamo, ad
ogni ben conto, che stiamo costruendo ipotesi su dati
molto esiziali. A noi sono arrivati soltanto gli ultimi
echi, irrimediabilmente confusi, di queste antichissime
tradizioni. ①
|
VI - OURANÓS: SI FA PRESTO A DIRE «CIELO» Il dio
Ouranós appartiene alla classe
delle divinità cosmologiche: si identifica infatti,
etimologicamente e fisicamente, con il cielo che sovrasta la
terra. È il «dio-cielo», tout-court, primo
sovrano dell'universo.
Detto questo, la nostra analisi è appena iniziata. Da
dove proviene questo personaggio? Quali analogie e/o
omologie presenta con altre affini divinità uraniche, nelle
mitologie degli altri popoli?
Notiamo innanzitutto che un dio-cielo è ben attestato
nelle mitologie indoeuropee, ed è anche facilmente
riconoscibile perché in genere ne troviamo il nome legato
alla radice *DʲĒW
«splendere, cielo» ①. Si è già parlato del
Dyauṣ Pitār
indiano, ma il «padre cielo» vedico è un personaggio quasi completamente privo di
una sua mitologia: è una sorta di deus otiosus che
si limita a presiedere la parte più alta del cielo,
identificandosi con essa. Si noti che in Grecia la radice
*DʲĒW ha prodotto un personaggio affatto diverso:
Zeús Pátēr, a cui corrisponde
lo
Iūppiter latino. È dunque
Zeús, e non
Ouranós, l'esito
ellenico del dio-cielo
indoeuropeo. Si tratta di un dio del cielo
diurno e luminoso, il quale deve i suoi tratti temporaleschi alle divinità supreme
del Medio-Oriente, quali Enlil,
Baʾal,
Yahweh.
Ma Ouranós è un dio-cielo
di altra natura. Una volta evirato e allontanato dalla
terra, egli scompare dal mito, più o meno come il
Dyauṣ Pitār
vedico.
Tuttavia, mentre
Zeús è legato al
cielo diurno e luminoso, Ouranós,
almeno nella descrizione che ne dà
Hēsíodos, sembra più
identificarsi con il cielo notturno. Il sostantivo ouranós
«cielo» rappresenta uno dei problemi più pertinaci della
filologia ellenica. Molte ipotesi etimologiche sono state
avanzate nel tentativo di spiegarlo, senza tuttavia essere
arrivati a una soluzione
univoca. L'ipotesi che oggi gode di maggiori consensi, lo fa derivare da un
proto-greco *(w)orsanós, a sua volta da un sostantivo
*(w)orsó (cfr. sanscrito varṣa «pioggia»),
cosicché il cielo, ouranós, verrebbe a essere «quel che far piovere»,
ovvero «quel che fertilizza».
Agli esordi degli studi indoeuropeistici, sull'entusiasmo
delle comparazioni tra miti classici e indiani, il nome di
Ouranós veniva collegato a
quello di Varuṇa, dio
vedico
della magia e del cielo notturno, in seguito anche signore
delle acque cosmiche. L'equazione tra i due nomina è
stata
poi rimessa in dubbio. Lo stesso nome di
Varuṇa,
d'altra parte, manca di un'etimologia comunemente accettata;
una possibile ipotesi lo fa derivare da un
indoeuropeo *WER «coprire, avvolgere»
(cfr. sanscrito
var-), così come
il cielo «copre» la Terra. Nell'idea c'è una
connotazione sessuale, tanto che dalla medesima radice è
anche derivato il termine indoeuropeo per «montone» (cfr.
sanscrito uraṇa, greco arḗn, armeno gaṙn).
Poiché la parola ouranós, nel significato di
«cielo», è esclusiva del greco, non trovandosi in altre
province del dominio indoeuropeo, una corradicalità tra
Ouranós e
Varuṇa porterebbe a ipotizzare che sia stato il
sostantivo a formarsi dal nome del dio, e non viceversa. Il
problema è piuttosto dibattuto e la connessione etimologica
tra
Ouranós e
Varuṇa,
oggi scartata dalla maggior parte dei
linguisti, continua a resistere negli studi mitologici.
È
difficile trovare dei possibili omologhi indoeuropei di
Ouranós, e
Varuṇa rimane a tutt'ora il
miglior candidato.
|
VII - TEOGONIE A CONFRONTO
Tra i molti testi rinvenuti nelle rovine dell'antica capitale
del regno ḫittita, Ḫattuša
(l'odierna Boğazköy, in Turchia), uno dei più
importanti è quello che gli studiosi hanno intitolato
Kumarbis, o «Poema della regalità celeste», adattamento anatolico di
un mito di origine ḫurrita. Uno scriba a nome Ašḫapa
(questo il nome riportato sulla tavoletta) lo redasse verso la fine del XIII secolo a.C.,
sulla base di un testo ancora più antico che si era rovinato. Il testo è
giustamente famoso per gli stretti rapporti che presenta con la Theogonía
di
Hēsíodos.
Purtroppo il testo non ci è pervenuto completo: metà della tavoletta è andata
perduta e la parte conservata, fatta eccezione per la prima colonna, presenta
una superficie fortemente abrasa. Il cattivo stato di conservazione del testo
limita di molto la comprensione delle vicende narrate, ma quanto è arrivato fino
a noi ci permette di contestualizzare il mito greco delle origini in un più
vasto panorama storico-geografico. (Pecchioli Daddi ~
Polvani 1990)
Il testo si apre con un invito ai Karuileš
Šiuneš, gli «dèi antichi», affinché ascoltino la narrazione. In
quanto esistenti fin dagli albori del tempo, essi conoscono tutto quanto è
accaduto da allora e sono in grado di testimoniarne la veridicità.
Un
tempo, in anni remoti, Alalus era re nel
cielo. Alalus sedeva sul
trono e il potente Anus, il primo
degli dèi, stava davanti a lui;
si inchinava ai suoi piedi e gli
porgeva nella mano le coppe per bere.
Per nove anni contati Alalus fu re nel
cielo; ma nel nono anno Anus portò
battaglia davanti ad Alalus e sconfisse
lui, Alalus. |
E questi fuggì davanti a
lui e lontano da lui andò giù nella nera terra; andò
giù nella nera terra e sul trono sedette
Anus.
Anus sedeva sul
trono e il potente Kumarbis gli dava da bere; si
inchinava ai suoi piedi e gli porgeva nella mano le
coppe per bere. |
Per nove anni contati Anus fu
re del cielo; nel nono anno
Anus portò
battaglia davanti a Kumarbis;
Kumarbis,
rampollo di Alalus,
portò battaglia davanti ad
Anus. |
E Anus non sostenne
gli occhi di Kumarbis e
sfuggì a Kumarbis dalla sua
mano; ed egli, Anus, se ne
andò e cercò di andare in
cielo. Kumarbis si
precipitò dietro a lui e
afferrò lui, Anus, per i piedi
e lo tirò giù dal cielo.
Addentò i suoi lombi; la sua [di
Anus]
virilità si unì alle
viscere di Kumarbis come bronzo. |
Kumarbis |
I punti di contatto con il mito esiodeo sono
innegabili. Troviamo non solo il motivo della successione di
diverse divinità alla regalità celeste, ma anche e
soprattutto quello dell'evirazione del dio-cielo, che qui ha
nome Anus.
Questo nome rimanda ovviamente al dio-cielo babilonese,
Anu, a sua volta semitizzazione dell'antico
An sumerico. Dio supremo del pantheon mesopotamico,
ma ben conosciuto in tutto il Medio Oriente,
An/Anu era legato alla sfera più
alta del cielo; remoto e distaccato dalle vicende umane,
lasciava il governo dell'universo al più irruento e deciso
dio atmosferico, Enlil. I vari
anelli di questa catena dimostrano una lunga e pertinace influenza
culturale da Oriente verso Occidente.
È però probabile che gli dèi ḫittiti
non siano affatto gli dèi stessi dèi
del pantheon mesopotamico, ma siano stati a essi
assimilati per il
tramite della scrittura cuneiforme. Un confronto
tra l'Anus
ḫittita e l'An/Anu
mesopotamico ci mostra immediatamente che quest'ultimo mantenne sempre
intatto il suo posto di dio-cielo, e nessuna delle
divinità inferiori si sognò mai lontanamente
di deporlo e tantomeno di strappargli a morsi i genitali. L'Anus del
mito anatolico, pur essendo sicuramente un dio-cielo, doveva
essere un personaggio piuttosto diverso dal potente An/Anu
mesopotamico, e il motivo della sua evirazione apparteneva
al fondo ḫittita e/o ḫurrita, non certo a quello
sumerico o semitico.
Ma è proprio in questo Anus anatolico che va
cercata l'origine dell'Ouranós di
Hēsíodos, tantopiù
che il greco ouranós e il sumerico an
hanno il medesimo significato di «cielo». Entrambi sono dei
re celesti, destinati a essere evirati e detronizzati dal loro successore. In
Grecia è Krónos a falciare via
il fallo proteso di Ouranós, mentre in Anatolia è
Kumarbis a strappare
con i denti la virilità di Anus. Il parallelo tra il mito anatolico e il
poema di Hēsíodos è piuttosto serrato, e le analogie
tra i due testi non si concludono qui. ①
|
VIII - DAL FALLO DI OURANÓS ALL'AMṚTAMANTHANA
Come abbiamo visto, il motivo dell'evirazione del dio-cielo Ouranós è di probabile provenienza anatolica. Ma mentre nel
Kumarbis
i genitali di Anus venivano ingoiati da Kumarbis, il fallo mozzato di Ouranós,
nel mito esiodeo, va incontro a un destino altrettanto interessante...
È assai curiosa l'immagine di questo pene che, caduto nelle salse acque di
Póntos, viene trasportato dalle correnti,
mescolando il seme alla spuma del mare, per infine dar vita alla dea dell'amore,
Aphrodítē. È un motivo, grottesco e poetico a
un tempo, che invano cercheremmo nei testi ḫittiti
o medio-orientali, e sembra un curioso unicum della mitologia greca.
|
Nascita di Lakṣmī |
Disegno devozionale indù |
Per trovare un possibile collegamento dobbiamo spostarci dalla Grecia
all'India, la cui tradizione ci consegna il famoso mito
dell'Amṛtamanthana, la frullatura dell'oceano di latte.
Un giorno, i Deva e gli
Asura, seguendo il consiglio di Viṣṇu, si
accinsero a frullare l'oceano di latte [kṣīroda sāgara], uno dei sette
oceani della cosmologia indù, al fine di ottenere l'amṛta, il cibo
d'immortalità. Dopo aver gettato potenti erbe nell'oceano di latte, Deva e
Asura presero il monte Mandara, lo capovolsero e lo
immersero dalla parte della punta. Quindi, afferrato il serpente
Vāsukī, re dei Nāga,
lo arrotolarono intorno alla montagna. I Deva ne
afferrarono la coda, gli Asura la testa, e, tirando
a turno, misero la montagna in rotazione, come il frullatoio di una
zangola da burro. Dopo che Deva e
Asura ebbero lavorato per mille anni,
l'oceano di latte cominciò a produrre una
schiuma, dalla quale uscirono, via via, un certo numero di «tesori» [ratna].
Nella versione contenuta nel
Mahābhārata, la frullatura
produsse inizialmente il dio
Soma, il dio-luna Candra
e il dio-sole Sūrya. Dopodiché sorse
Śrī Lakṣmī dea della
fortuna e prosperità, sposa di Viṣṇu. Quindi
Varuṇī, la dea del vino. Poi emerse Uccaiḥśravās,
il bianco destriero del sole, dalle sette teste; poi la gemma
Kaustubha, che Viṣṇu
pose sul suo petto; quindi il grande elefante Airāvata,
con quattro zanne, che divenne destriero di
Indra. Dopodiché, mentre dèi e antidèi lavoravano con
crescente energia, dall'oceano di latte venne fuori il veleno
Kālakūṭa, che
immediatamente avviluppò l'intero universo. Ma Śiva
lo ingoiò prima che distruggesse il mondo, e fu quell'amara pozione a far
diventare azzurra la sua gola. Poi uscirono dal lago di latte l'albero divino
Pārijāta, che impregna il mondo del suo profumo, e la vacca
Surabhi, appagatrice dei desideri. Infine venne fuori
il dio Dhanvantari, il quale reggeva tra le mani un
vaso nel quale era contenuta l'amṛta.
(Mahābhārata [I: 17])
Il mito indiano appare già a un notevole livello di elaborazione. Il
racconto tramandato nella Theogonía
di
Hēsíodos è invece ridotto a elementi
minimi. Rimane, in entrambe le vicende, il motivo di una distesa liquida
fecondata da un membro maschile. Nel mito greco è il pene mozzato di Ouranós;
in quello indiano è il monte Mandara a venire usato come frullatoio. In
sanscrito la parola
manthana significa «frullamento, mescolamento», ma è anche termine tecnico
per l'operazione di accensione del fuoco
tramite frizione di un bastone. È un movimento circolare alternato, come,
appunto, quello del trapano da fuoco o quello del bastone che frulla il burro nella zangola. Il simbolismo
«sessuale» dell'accensione del fuoco è stato già messo in luce da vari studiosi, tantopiù
che la stessa radice mantha- avrebbe tra l'altro prodotto il latino mentula
«pene» (De Santillana ~
Von Dechend 1969). La connotazione fallica del monte Mandara,
nella grandiosa scena dell'Amṛtamanthana, non lascia adito a dubbi.
Ci troviamo di fronte a due esiti, lontanissimi nello spazio e assai diversi tra
loro, di un medesimo mito, di imprecisata antichità.
D'altra parte, nella versione della vicenda contenuta nei testi purāṇici,
si pone l'accento sulla nascita di Śrī Lakṣmī
dalla schiuma dell'oceano di latte: «Allora, assisa su un loto dischiuso
e reggendo in mano un giglio, la dea
Śrī,
di radiosa bellezza, sorse su dalle acque; e i grandi saggi, rapiti, composero
per lei inni di lode. [...]. Il Gaṅgā
e tutte le sacre correnti accorsero per aspergerla; gli elefanti del cielo
accorsero portando pura acqua in vasi d'oro, e la versarono sulla dea, la regina
del mondo. L'oceano di latte in persona le presentò una ghirlanda di fiori
imperituri, e
Viśvakarman, l'orafo degli dèi, decorò la sua
persona di celestiali gioielli. E così, lavata, vestita e adornata, la dea, di
fronte a tutti i signori del cielo, prese il suo posto al fianco di
Hari [Viṣṇu]»
(Viṣṇu Purāṇa [I: 9]).
Questa scena della nascita di Lakṣmī, sorta dalla schiuma di
latte, adornata di abiti e gioielli, rassomiglia
troppo da vicino a quello di Aphrodítē che
sorge dalla schiuma formatasi dal fallo reciso di Ouranós,
anch'ella subito vestita e adornata dalle Hṓrai, come canta l'inno omerico a lei dedicato.
Aidoíēn, khrysostéphanon, kalḕn
Aphrodítēn
áısomai, hḕ pásēs Kýprou krḗdemna
léloŋkhen
einalíēs, hóthi min Zephýrou ménos hygròn
aéntos
ḗneiken katà kŷma polyphloísboio thalássēs
aphrōı éni malakōı: tḕn dè
khrysámpykes
Hrai
déxant' aspasíōs, perì d' ámbrota heímata
héssan:
kratì d' ep' athanátōı stephánēn eútykton
éthēkan
kalḗn, khryseíēn: en dè trētoîsi loboîsin
ánthem' oreikhálkou khrysoîó te timḗentos:
deirı d' amph' hapalı kaì stḗthesin
argyphéoisin
hórmoisi khryséoisin ekósmeon, hoîsí per
autaì
Hrai kosmeísthēn khrysámpykes, hoppót'
íoien
es khoròn ἱmeróenta then kaì dṓmata patrós. |
La dea augusta dalla corona d'oro io canterò, la
bella Aphrodítē,
che ha in suo dominio le mura di tutta Kýpros
circondata dal mare, dove la forza di
Zephýros che umido
soffia
la portò sull'onda del mare risonante
tra la soffice spuma: e le Hṓrai
dall'aureo diadema
l'accolsero lietamente; la vestirono con vesti
divine,
sul capo immortale posero una ben lavorata corona,
bella, d'oro, e ai lobi traforati
fiori d'oricalco e di oro prezioso;
intorno al delicato collo e al petto fulgente
l'adornarono coi monili d'oro di cui anch'esse,
le Hṓrai
dall'aureo diadema, si adornano quando vanno
all'amabile danza degli dèi, e alla dimora del
padre... |
Homḗrou hýmnoi [IV] > Eis Aphrodítēn
[-] |
...E si potrebbe ancora mettere in correlazione il loto sul
quale nasce Lakṣmī con la conchiglia che, nell'iconografia classica, sostiene Aphrodítē
nel suo sorgere dalla schiuma marina.
Il parallelismo tra le due scene è innegabile. Ma è difficilmente
immaginabile come questo frammento mitologico, di antichità portentosa, sia
finito incagliato in due luoghi tanto lontani tra loro come l'India e la Grecia.
|
Venus Anadyomene (I sec.) |
Affresco romano, da Pompei. Ritenuto una copia di
un perduto lavoro del pittore greco Apellês di Kṓs (IV sec. a.C.). |
|
IX - UNO SGUARDO IN EGITTO
La prima parte della Theogonía
di
Hēsíodos mostra sorprendenti analogie con la
versione sulla creazione del mondo concepita tra il III e il II millennio a.C.,
dai sacerdoti egizi della città sacra di Ỉunu (greco Helíou Pólis, «città del sole»).
Secondo la sofisticata cosmogonia eliopolitana,
in principio esisteva soltanto un abisso di acque primordiali,
immerse nella totale oscurità, chiamate nûn. All'alba dei tempi,
scaturì a plasmare gli elementi il creatore dell'universo: questi era Atum
(assimilato con Ra‘, il dio del sole), il quale fece sorgere un tumulo primigenio
a forma di piramide e dall'alto della sua visuale contemplò il caos.
Non esisteva il cielo, non esisteva la terra,
creai da solo tutti gli esseri.
Da un mio starnuto nacque
Šû,
da uno sputo
Tefnût. |
Papiro di Bremner-Rhind |
Il primo atto creativo aveva generato le due divinità più antiche:
Šû (che personifica il vuoto,
l'aria) e
Tefnût (che impersona la rugiada, l'umidità
dell'aria).
|
Nût e Gebb |
Disegno da un papiro |
Dall'unione di
Šû e
Tefnût nacquero
Gebb, il dio-terra, e
Nût, la dea-cielo. Secondo i
Testi dei Sarcofagi,
Gebb e Nût giacquero
a lungo strettamente avvinti l'uno all'altra, con la
conseguenza che tra loro non c'era abbastanza
spazio perché qualsiasi altra cosa potesse
esistere.
Allora Atum
ordinò al padre loro
Šû di separarli. Questi s'intromise tra i suoi
figli, puntò i piedi contro Gebb e sollevò Nût sui palmi delle
mani, separandoli l'uno dall'altra e impedendo per
sempre il loro ricongiungimento. L'iconografia eliopolitana raffigura spesso
Nût piegata ad arco sopra
Gebb. A volte, tra i due vi
è
Šû, intento a separarli.
Da Nût e Gebb nacquero poi i
cinque dèi principali della religione
egizia: Ûsir,
Ḥûr, Seth, Iset e Nebt-ḥût, completando così
la genealogia delle nove divinità principali:
- Šû
- Tefnût
- Gebb
- Nût
- Ûsir
- Ḥûr
- Seth
- Iset
- Nebt-ḥût
La pesdet, o per usare il
termine greco, l'«Enneade» di Eliopoli. Si sarà notato che in Egitto, tuttavia, il cielo è rappresentato da una dea,
Nût, e la terra da un dio,
Gêbb. Quest'inversione dei
sessi tra cielo e terra è piuttosto difficile da giustificare. La mitologia egiziana dovette avere profonde
relazioni con le tradizioni africane, di cui poco sappiamo, e al riguardo gli
etnologi ci informano che anche presso gli Ijaw, popolazione del delta del
Niger, la dea-cielo era femminile (Talbot 1926). |
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