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DE BOHEMORVM ORIGINE - Saggio
DE BOHEMORVM ORIGINE - Testo
Note
Bibliografia
Titolo De Bohemorum Origine
Autore Enea Silvio Piccolomini (1405-1464), Pius II (♗ 1458-1464)
Genere Cronaca storica
Lingua Latino
Epoca ±1457
Enea Silvio Piccolomini (Pius II)
DE BOHEMORUM ORIGINE

Enea Silvio Piccolomini
Produzione letteraria
Il De Bohemorum origine

Enea Silvio Piccolomini, De Bohemorum origine

Enea Silvio Piccolomini

Pius II (1502-1507)
Bernardino di Betto, il Pinturicchio (1454-1513), affresco.
Biblioteca Piccolomini, Duomo di Siena (Italia)

Enea Silvio Piccolomini, futuro papa Pius II, nacque nel 1405 a Corsignano, nel Senese, paesino di cui avrebbe interamente ridisegnato l'impianto urbanistico e che, in suo onore, avrebbe cambiato nome in Pienza.

Piccolomini fu diplomatico, viaggiatore, scrittore, e in gioventù condusse una vivace vita mondana. Divenuto segretario di Domenico Capranica (1400-1458), vescovo di Fermo, lo accompagnò al concilio di Basel (1431-1449), dove il vescovo intendeva protestare contro il nuovo papa Eugenius IV (♗ 1431-1447) che rifiutava di riconoscergli il cardinalato. Al concilio, Piccolomini ebbe modo di mettersi in mostra per la sua spregiudicatezza politica, si inimicò la curia romana e appoggiò l'elezione dell'antipapa Felix V (♗ 1439-1449), che difese in un libello e di cui sarebbe divenuto segretario. In questo periodo, Piccolomini fu inviato in missione segreta in Inghilterra e Scozia: un viaggio ricco di traversie e avventure amorose, di cui il futuro pontefice avrebbe lasciato un vivace resoconto.

La posizione di Felix V si rivelò però alla lunga indifendibile: Piccolomini trovò un pretesto per abbandonare il papa perdente e si spostò a Wien, presso l'imperatore Friedrich III Habsburg (♔ 1440-1493), il quale era rimasto neutrale nella dispute papali. Inviato a Roma, nel 1445, Piccolomini riuscì però, con notevole destrezza diplomatica, ad avvicinare la corte papale e gli elettori imperiali tedeschi. Un primo accordo venne firmato nel 1447, mentre Eugenius IV era già a letto per la malattia che lo avrebbe portato alla morte. Ulteriori trattative proseguirono poi con Nicolaus V (♗ 1447-1455), poi siglate nel concordato di Wien.

Furono questi incontri a mutare la vita dell'ex libertino. Già di fronte al morente Eugenius, Piccolomini aveva confessato i suoi errori, la sua mancanza di coscienziosità politica e religiosa. Intrapreso un cammino di conversione, Piccolomini, dopo aver preso i voti come frate minore si vide proiettato in una rapida carriera ecclesiastica: canonico di Trento e parroco di Sarentino nel 1446, vescovo nel Trieste nel 1447, cardinale nel 1456. E in tutto questo periodo, destreggiandosi come diplomatico tra il papa e l'imperatore, assolse una serie di delicati incarichi. Alla fine del breve pontificato di Callistus III (♗ 1455-1458), sembrava che dovesse succedergli il cardinale Domenico Capranica. Ma Capranica morì pochi giorni dopo, e al suo posto, quasi a sorpresa, fu eletto Enea Piccolomini, il quale scelse il nome Pius ispirandosi al pius Aeneas virgiliano. A chi gli rinfacciava il suo passato libertino, rispondeva: «Rigettate Enea e accogliete Pio».

Il quale, eletto papa, non si fece scrupolo ad adottare la medesima politica di nepotismo a cui indulsero, più o meno, tutti i pontefici dell'epoca: anche lui nominò cardinali due nipoti (uno dei quali sarebbe divenuto a sua volta papa con il nome di Pius III), e a sistemare parenti e compaesani nei posti chiave della Curia e dello Stato dello Chiesa. Nonostante ciò, si lamentò del malcostume in una celeberrima quartina: «Quand'ero solo Enea / nessun mi conoscea. / Ora che son Pio / tutti mi chiaman zio».

Sicuro e versatile sullo scranno papale, dopo aver cercato di pacificare l'Italia meridionale riconoscendo Fernán II d'Aragona (1452-1516) re di Napoli, propose un congresso dei sovrani cristiani per intraprendere un'azione comune contro l'impero ottomano, che da poco aveva conquistato Costantinopoli. I veneziani rifiutarono di accogliere la sua proposta di una riunione a Udine per non compromettere le loro relazioni con il sulṭān. Il congresso fu spostato a Mantova, dove la maggior parte dei delegati italiani arrivò in ritardo e di malavoglia, ed ebbe scarsi risultati. Di fronte al tiepido interesse delle potenze occidentali a partecipare ad una nuova crociata, Piccolomini fece dapprima circolare, a scopo polemico, una lettera a Meḥmed-i ānī el-Fātiḥ (Meḥmed II il «conquistatore», ♔ 1444-1446 e 1451-1481), in cui offriva al sulṭān ottomano, una volta convertito al cattolicesimo, la corona dell'impero romano d'Oriente. Pius II stava accarezzando un progetto grandioso quanto irrealistico: creare una sorta di nuovo impero costantiniano sotto l'egida del soglio di Roma.

L'indifferenza della maggior parte dei sovrani italiani ed europei non scoraggiò Pius II il quale nell'ottobre nel 1463 emise una bolla nella quale promulgava la guerra santa, prometteva la gloria del paradiso ai crociati caduti nel nome di Cristo e insieme minacciava di scomunica tutti coloro che osassero turbare la pace tra i regni cristiani. Nella bolla il papa designava Ancona quale luogo di raduno degli eserciti crociati, i quali, una volta attraversato l'Adriatico, si sarebbero dovuti riunire a Ragusa/Dubrovnik con Mátyás Hunyadi d'Ungheria (♔ 1458-1490) e con il condottiero albanese Gjergj Kastrioti Skënderbeu (1405-1468). Sebbene febbricitante, Pius II partì da Roma nel giugno del 1464 ma, arrivato ad Ancona, in luglio, non trovò né gli eserciti che si aspettava né le navi per il trasporto. I pochi «crociati» assoldati si squagliarono nel mese successivi. Le galee veneziane si presentarono solo il 12 agosto ma il pontefice morì due giorni dopo, il 14 agosto 1464.

Produzione letteraria

La produzione letteraria di Enea Silvio Piccolomini fu vasta e variegata, e soprattutto riflette il fin troppo radicale mutamento di interessi che l'ex giovane libertino subì con la sua conversione religiosa. Se da una parte si possono apprezzare composizioni giovanili come il romanzetto erotico-epistolare Eurialus et Lucretia. Historia de duobus amantibus, ispirato a un'avventura amorosa di Kaspar Schlick, cancelliere dell'imperatore Sigismund di Luxemburg (♔ 1433–1437), e che gli meritò la laurea di poeta imperiale, o la commedia umanistica Chrysis, unica sopravvissuta delle opere teatrali, sono assai più significativi i lavori autobiografici e storici, tra cui spiccano i Commentarii de gestis Basiliensis Concilii, sul concilio di Basel (dei tre libri originari il secondo è andato perduto), gli importanti Commentarii rerum memorabilium, quae temporibus suis contigerunt, sorta di diario di tutto ciò che gli accadeva di notevole, dallo stile agile e nervoso, che il pontefice redasse giorno per giorno, dalla sua elezione fino alla sua morte (✍ 1458-1464), la Historia rerum Frederici III imperatoris, e le silloge delle 414 Epistulae, raccolte dallo stesso Piccolomini, che costituiscono un'altra importante fonte di informazioni storiche. Studioso non certo eminente, dal latino spesso scorretto, Pius II possedeva nondimeno la capacità di ritrarre vivide immagini dello spirito della propria epoca e un'attenzione affilata, decisamente razionale, nell'interpretazione degli eventi storici.

Troviamo, nella produzione letteraria di Piccolomini, trattati riguardanti le controversie politiche e teologiche dei suoi giorni. Scrisse un'esaustiva refutazione dell'Islām e una descrizione storico-geografica dell'Europa e dell'Asia, la Chronographia, destinata a rimanere incompiuta. Piuttosto interessanti alcuni libri sulle terre che Piccolomini ebbe modo di visitare nel corso dei suoi viaggi, dove traspare il gusto del paesaggio, il cangiare dei colori, le luci e le ombre dei luoghi visitati, senza mai tuttavia perdere il senso del realismo. È il caso del trattato De situ, ritu, moribus et conditione Germaniae descriptio (✍ 1458), sugli usi e costumi della Germania, nel quale si possono già indovinare le basi del malcontento tedesco nei confronti di Roma, che avrebbe portato alla riforma luterana, e ovviamente il De Bohemorum origine.

Il De Bohemorum origine

De Bohemorum origine (1574)
Frontespizio, Heron Alopecius, Köln 1574

Come dice il titolo, il De Bohemorum origine, o più precisamente il De Bohemorum origine ac gestis historia, variarum rerum narrationem complectens, è un'opera monografica incentrata sulle origini e la storia del popolo boemo, nel quale si intende porre particolare attenzione all'elemento narrativo ed eroico. L'opera, in settantadue capitoli, copre la storia del popolo boemo dalle mitiche origini fino al presente (XVI sec.), vista soprattutto attraverso l'avvicendarsi dei numerosi duchi e re succedutisi sul trono di Boemia. La narrazione è diseguale: talvolta ricca e avvincente, talvolta frettolosa e avara di dettagli. Il tono è spesso ironico: è evidente che l'autore riferisce le proprie notizie con evidente distacco critico, ben conscio di star maneggiando elementi fantastici.

L'interesse da parte di Piccolomini per la materia risale probabilmente all'epoca del suo viaggio in Boemia, nel 1451, quando si era recato a stringere un accordo con Jiří z Poděbrad (1420-1471), leader degli utraquisti, una corrente moderata degli Hussiti, che a quell'epoca la Chiesa cattolica aveva finito per riconoscere, seppure obtorto collo. Jiří governava il paese in luogo del giovanissimo principe, Ladislav Pohrobek, il «postumo», che all'epoca aveva solo undici anni. Ladislav salì al trono nel 1453, ma morì a soli diciassette anni, nel 1457. A questo punto gli ordini del regno ne approfittarono per eleggere un monarca nazionale e la scelta cadde proprio su Jiří, che nel 1458 fu incoronato re di Boemia. L'investitura richiedeva il giuramento di fedeltà del nuovo sovrano alla Chiesa e Piccolomini, ormai papa, cercò in Jiří un'opportunità per ricondurre la Boemia sotto la Chiesa di Roma. Nel 1462, Pius II rese nulla la Compacta, l'accordo di riconoscimento degli utraquisti, e fece sapere a Jiří che lo avrebbe riconosciuto come sovrano solo se fosse tornato a sottomettersi alla Chiesa. Jiří si mantenne fedele ai propri principi e fu il primo sovrano a rinunciare alla fede cattolica, rappresentando un notevole precedente alla Riforma.

Le ultime pagine del De Bohemorum origine riguardano appunto la morte di Ladislav Pohrobek e l'incoronazione di Jiří z Poděbrad, il quale avrebbe regnato fino al 1471. D'altra parte, nell'intestazione all'opera, Piccolomini si firma Sancte Romanae ecclesiae cardinalis, titolo al quale fu insignito nel dicembre 1456, mentre fu eletto papa il 19 agosto 1458. L'opera è dedicata ad Alfonso V d'Aragona, re di Napoli (♔ 1416-1458), il quale morì il 27 giugno 1458, fornendo un più preciso terminus ante quem per la composizione dell'opera. Ed è appunto tra il 1457 e i primi mesi del 1458 che si può far risalire, con ogni probabilità, la composizione, o per lo meno il completamento, del De Bohemorum origine, il quale fu vergato a Viterbo, dove il futuro pontefice si trovava a passare le acque alle terme del Bullicame.

La versione del testo che editiamo in questa pagina è tratta da una cinquecentina della tipografia Heron Alopecius, stampata a Köln nel 1574.

Enea Silvio Piccolomini (Pius II)
DE BOHEMORUM ORIGINE
  1. Contenuto dell'opera
  2. Origine della gente boema
  3. Čech, primo kníže dei Boemi
  4. Krok, secondo kníže dei Boemi
  5. Libuše, figlia di Krok, che per molti anni governò la Boemia
  6. Přemysl, terzo kníže dei Boemi
  7. La fanciulla Vlasta che per sette anni tenne con la forza, secondo il costume delle Amazzoni, il regno di Boemia
  8. La fanciulla Šárka: in qual modo abbia ingannato fraudolentemente il nobile Ctirad e consegnato a morte
  9. Nezamysl quarto, Mnatha quinto, Vojen sesto Vnislav settimo kníže dei Boemi
  10. Křesomysl, detto Neklan, ottavo kníže dei Boemi. L'aspra guerra che combatté contro lo zio paterno Vratislav
  11. L'infedeltà di Duryňk, che uccise il figlio di Vratislav e fu degnamente punito
  12. Hostivít e Bořivoj, nono e decimo knížata dei Boemi. Bořivoj fu l'ultimo kníže pagano. Finalmente, poi, accettando la fede in Cristo, con sua moglie fu battezzato
       
Proportio operis    
a

Bohemia in ſolo Barbarico trans Danuium 﫤ta, Germaniæ portio est: aquilonis flatibus tota ferme expo﫤ta. Cuius ad orientem uergens latur Moraui obtinent & Sle﫤tarum natio: ſeptentrionem ijdem Sle﫤tæ de Saxones qui & Miſnenſes & Thuringi appellantur. Ad occidentem aduocatorum terra est Boioari orum regio. Meridionalem plagam tum Baioarij, tũ australes habẽt, qui ripas Danubij utraſ accolunt: nec alia Bohemiæ, quam Theutonum terra coniũgitur.

La Boemia, situata in territorio barbarico oltre il Danubio, è una parte della Germania, quasi tutta esposta ai venti settentrionali. La regione orientale è occupata dai Moravi e dagli Slesiti, mentre a settentrione vi sono gli stessi Slesiti, e i Sassoni detti anche Míšni e Turingi. A occidente vi è la zona di coloro che sono chiamati Bavari. Tale regione ha la parte sud abitata sia dai Bavari, sia da altre popolazioni meridionali che vivono su entrambe le sponde del Danubio, e non si unisce ad altro territorio boemo se non a quello dei Teutoni.

a Regionis longitudo latitudo pene parem formam rotundam ferunt: cuius diametrum trium dierum itinere expeditio pateat. Sylua uniuerſam claudit, quam ueteres Herciniam uocauere: cuius & græci ſcriptores & latini memimerunt. L'estensione in lunghezza e larghezza della regione presentano una pari forma rotondeggiante, il cui diametro equivale a un cammino di tre giorni. La circonda per intero una selva che gli antichi chiamavano Hercynia, citata anche dagli scrittori greci e latini.  
a Flumina quæ terram irrigant uniuerſa in Albim exonerantur. Hic in montibus exoriens, qui Bohemiam Morauiam disterminat, mediã ferme prouinciam perlabitur, primo in occidentẽ, deide in septẽtrionem uerſus, ubi prouinciam relinquit, per angustias montium & abrupta conualliũ præceps Saxoniã petit: quã duas in tes dirimens in oceanum fertur, ibi a rheno flumine æquo terrarum 﫬atio distans. I fiumi del territorio si gettano tutti nell'Elba. Questo che, nascendo sui monti, separa la Boemia e la Moravia, penetra per quasi tutta la provincia, volgendo dapprima a occidente, quindi a settentrione, dove la lascia; quindi, attraverso le gole dei monti e i pendii scoscesi delle valli, raggiunge la Sassonia e, dividendola in due parti, confluisce nel mare, in un punto a uguale distanza dal fiume Reno.  
a Quod pleri Germaniæ terminũ, Sarmatiæ quondã dixere: ſed nostra ætate Oderã fluuiũ qui Sle﫤ã interſecat, & ipſum Viſællam Pruthenorum amnem Germania prætergre﫭a Albim in alueo continet. Amnes alij quos Bohemi memorant, Orlioze qđ aquilam 﫤gnat, Egra qui ex noĩe oppidi quod alluit uovitatur, ĩ terra Aduocatorum exoriens apud Littomericiam Albi miſcetur, ſed cun荒os Multauia excedit, qui metropolim regni Pragã influit: hic Saczanain et Luſmiaũ & Miſam & Albim fecũ trahit. E questo territorio per lo più fu indicato con il termine di Germania e un tempo di Sarmazia, ma attualmente [prende il nome] dal fiume Oder e dalla stessa Vistola, fiume dei Prussiani che, lasciata la Germania, confluisce nell'alveo dell'Elba. Gli altri fiumi che i Boemi ricordano sono l'Orlice, che vuol dire «aquila»; l'Ohře, che prende nome dalla città che bagna; parimenti scaturendo dal Vogtland [Královský Rychtář], si unisce all'Elba presso Litoměřice. Ma li supera tutti la Vltava, che bagna Praha, la città principale del regno: questo porta con sé la Sázava, il Lužnice, il Malše e l'Elba.
a Oppida toto regno mẽorabilia. Praga regi põtifici honesta ſedes ne mĩor ne ignobilior Etruſca Florentia, tris in tes diuiſa: quis nomina indidere, paruã Pragam, ueterẽ, ac nouã. Parua 﫤nistrũ latus. Multa uiæ fluminis occupat: colli coniũgitur, in quo 﫤ta est regia, ac ſan荒i Viti pontificale augustum templum. Vetus Praga in plano iacet: uniuerſa magnificis operibus adornata. Inter quæ prætoriũ & forũ & lætam curiam, & collegium imperatoris Caroli, mirificis efferũt laudibus. Iũgitur autem minori Pragæ lapideo pontem, quatuor & uiginti arcuum. Nouam ciuitatem, a ueteri foßa do﫤ungit profunda, utrim munita muro: & in quam facile fluminis aqua deriuari potest. Hæc quo ciuitas ampla est, est ad colles uſ protenditur, quorum alterum ſan荒i Caroli, alterum San荒æ Catherinæ appellant: tertium Vi﫭egradum, in arcis modum exædificatum, ubi & collegium est, cuius præpo﫤tium, & cancellarium regni & principem uocant. In tutto il regno sono degne di nota le città. Praha, onorata sede del re e del vescovo, non minore né meno nobile dell'etrusca Firenze, è divisa in tre parti: la piccola, l'antica e la nuova Praha. La piccola Praha occupa il lato sinistro del fiume Vltava e si congiunge al colle su cui sono poste la reggia e l'augusta cattedrale di San Vitus. La Praha antica è in pianura, tutta adorna di architetture magnifiche; tra queste riscuotono lodi straordinarie il Palazzo Pretorio, il Foro, la bella Curia, e il Collegio dell'imperatore Karel. Si collega alla Praha minore con un ponte in pietra di ventiquattro arcate. La città nuova è separata dalla vecchia da un fossato profondo nel quale si può facilmente far defluire l'acqua del fiume. Anche questa città è ampia, e si estende fino ai colli, dei quali uno è detto di san Karel, un altro di santa Kateřina; il terzo è quello del Vyšehrad, edificata a mo' di fortezza, dove vi è l'assemblea alla cui presidenza viene chiamato il principe, quale cancelliere del regno.
a Post Pragam Litemeſce, altera in Bohemia pontificalis civuitas, uicina Morauis, Cuthna quo haud parui nominis habetur, ubi argenti inexhaustæ uenæ ſuffodiuntur, quamuis nostra ætate ſæptus capta exhausta fuerit: & in ipsas argenti fodinas pluuiales aquæ deriuatæ. In Boemia, oltre Praha, vi à un'altra città vescovile, Kutná, vicino ai Moravi, anch'essa ritenuta non di poca importanza, dove si depositano ricche vene d'argento. Anche ai nostri tempi se ne trovano più spesso di esaurite, dal momento che nelle stesse miniere d'argento affluiscono acque piovane.  
a Nec Buduicium contemnere oportet, quæ 﫬lendidum & munitum habet etiam nomen Slagenuerdium. Eaduum, Luna, & utraque Broda, altera Bohemica, altera Theotonica: Budinge Colonia, Litomericium, Poggiebracium, & quod reginis dotale dicunt, Grezium: potens inſuper, & diutina ob﫤dione memorabilis Pelzma, Zaziorum ciuitas, & 﫤 Bohemiæ dederis Iglaria, qua iter est in Morauiam. Né si deve tralasciare Budějovice, splendidamente fortificata, che ha anche il nome di Slagenuerdium, e così Eaduum, Launa (?), le due Brod, l'una boema, l'altra teutonica; Budín (?) Kolín (?), Litoměřice, Poděbrady, e quella che dicono data in dote alle regine (?) Hradec Králové, ma più potente di tutte e memorabile per un lungo assedio, Plzeň, e la città di Sázava, anche se si assegna alla Boemia la città di Jihlava, attraverso la quale si arriva in Moravia.
a Postremo arx hæreticorum aſylum Thabor, memoria nostra ex ruinis alterius Hauſchæ, difficili loco conditum oppidum, & ab Sigiſmundo Cæſare auitatis honore donatum. Infine c'è la roccaforte e rifugio degli eretici, Tábor, secondo la nostra memoria castello fondato sulle rovine dell'altra Ausca, in un luogo di difficile accesso e donata dall'imperatore Sigismund [di Luxenburg] a onore della città.  
a Gelida prorſus regio, piſce atque armentis habũdans, cũ uolucre feris frumẽti ferax. Sicera pro uĩo utitur; illi ceruisia uocãt, qua﫤 ex cerere fa荒um. La regione è proprio gelida, ricca di pesce e di armenti, con uccelli e bestie selvatiche; ferace di frumento, Sušice è conosciuta per il vino; lo chiamano «cervogia», come se fatta da Ceres.  
a Ager toto regno optimus. Circa Zaziũ colles, apud Litomericium, con﫤ti uineis. Vinum quod naſcitur acerbum: ditiores ex Austria at Hungaria importato utuntur. In tutto il regno, la terra è molto fertile. Tutt'intorno, i colli di Sázava (?), presso Litoměřice, sono coltivati a vigne. Il vino prodotto è aspro. I più ricchi usano quello importato dall'Austria e dall'Ungheria.  
a Sermo genti & Dalmatis unus. Mos uetus in hanc uſ diem ſeruatur. In templis ſermone Theotonico plebes docent, in cœmeterijs bohemico, ubi ſecularium presbyterorum collegia ſunt, aut monachorum prædia poßidentiũ. Solis mendicantibus libertas fuir, qua uellent lingua populum instruere. Quæ res palam indicat regionem ipſam olim Theothonicã fui﫭e. ſen﫤m ſubintraße Bohemos. Quod Strabonis testimonio confirma re licet: cuius hæc uerba ſeptimo cõmẽtario inuenies: Sẽnones, Sueuorũ natio, ut ſuperius dixi, partĩ intra, partim extra ſyluã habitat, Getarũ cõtermina gẽti. Sueuorum quidem gens ampli﫭ima, e Rheno 﫤quidem uſque ad Albim peruenit fluuium: eorum etiam portio trans Albĩ loca depaſatur, quemadmodum Emondori et Lancobardi. Hæc Strabo. La lingua è quella dei Dalmati. Ancora oggi si osservano gli antichi costumi. Nei templi si insegna alla plebe la lingua teutonica, nei cimiteri quella boema, dove sono i collegi dei presbiteri secolari o i feudi dei monaci possidenti. Ai soli mendicanti fu data la libertà d'istruire il popolo nella lingua che volevano. E ciò indica in modo chiaro che la stessa regione un tempo era stata teutonica e che a poco a poco sono subentrati i boemi. Questo è testimoniato da Strábōn: nel suo settimo commentario, troverai queste parole: «I Senoni, popolazione sveva come ho detto prima, in parte abitano dentro, in parte fuori la selva ai confini con i Geti. Ed anche la numerosa popolazione sveva, dal momento che giunse dal Reno fino al fiume Elba, pure una parte di loro pascola i luoghi oltre l'Elba allo stesso modo degli Ermonduri e dei Longobardi». Questo dice Strábōn.  
a Plebs toto regno bibula, & uentri dedita, ſuperstitionum; ſequax: & auida nouitatum. Quotiens Cretenſe uinum caupones uenale proponunt, inuenies ̃plures, qui iuramento ada荒i, nun̃ cellam uinariam egredientus: ni﫤 exhausto dolio. Idem efficiunt in ele荒is Italiæ uinis. In tutto il regno, la gente beve volentieri, è dedita al ventre, è seguace di superstizioni, nonché avida di novità. Ogni volta che gli osti propongono un vino cretese da vendere, troverai molti che, costretti da un giuramento, non usciranno mai dalla cantina se non dopo aver svuotato una botte. Fanno lo stesso con gli scelti vini d'Italia.  
a Qui paulo excellunt, at inter plebes, nobilitatem medij ſunt, audaces, uerſuti, ingenio uario, lingua præcipiti, rapinarũ auidi sunt: quibus nihil ſatis eße poßit. Coloro che emergono un po' tra la plebe e la nobiltà sono mediocri, arroganti, furbi, di varia intelligenza, di lingua pronta, avidi di ruberie, per i quali niente può essere sufficiente.  
a Nobilitatis gloriæ appetens, belli perita, periculorum contemptrix, ac promißitenax: quãuis eius ingluuiem explere diffiallimum. La nobiltà [è] desiderosa di gloria, esperta di guerra, sprezzante dei pericoli e salda nella parola data; malgrado la sua ingordigia, sia molto difficile da soddisfare.  
a At uniuerſum 﫤mul 﫤 expendas populum, non est qui religioni aduerſetur. Sed profe荒o in omni gente, qualis re荒or, talem inuenies & populum. Quomodo autem & unde hoc genus hominum in Germaniam uenerit, ſcrip﫤 iam pridem integerrimo et præstãtißimo patri Dominico cardinali Firmano, tuæ ſerenitati amicißimo: Id hoc loco repetere non grauabor, quondo historiæ quam teximus omnino quadrat. Ma se si valuta tutt'insieme il popolo, non vi è che avversi la religione. E senza dubbio, presso ogni popolo, tale troverai la gente quale è il suo capo. Tuttavia, in che modo e da dove questa popolazione sia giunta in Germania, ho già scritto all'integerrimo ed eminentissimo padre Domenico, cardinale Firmano, molto amico della tua Serenità: perciò non mi sarà di peso riferirtelo qui, dal momento che si adatta completamente alla storia che stiamo intessendo.
       
b   Origine della gente boema  
b Bohemi 﫤cut cæteri mortalium, originem ̃ uestußimam ostẽdere cupientes Sclauorum ſe prolem aßerũt. Sclauos autem inter eos fuiße, qui post uniuerſale diluuium condendæ famo﫤ßime turris Babel autores habentur: at ibi dum linguæ cõfuſæ ſunt, Sclauonos .i. uerboſos appellatos, proprium idioma ſump﫤ße. Reli荒o deinde campo Sennaar, ex A﫤a in Europã profe荒os, eos agros occupaße, quos nunc Bulgari, Serui, Dalmatæ, Croaci & Boſnenſes incolunt. I Boemi, come gli altri popoli, desiderando mostrare anche un'origine molto antica, affermano di discendere dagli Slavi, ma che, in verità, ci furono tra loro gli Slavi che sono considerati, dopo il diluvio universale, gli artefici della fondazione della famosissima torre di Babele; e lì, mentre le lingue erano confuse, gli Slavi, cosiddetti «verbosi», si appropriarono di un loro idioma. Quindi, abbandonata la pianura di Sennaar, partiti dall'Asia verso l'Europa, occuparono le regioni che ora sono abitate da Bulgari, Serbi, Dalmati, Croati e Bosniaci.  
b Nondum ego quempiam legi autorem, cui fides adhibenda 﫤t, qui tam alte ſuæ gentis initium reddiderit: Hebræos excipio, omnium mortalium primos. Multi ex Germanis ſatis ſe nobiles arbitrãtur ex Romanis ortos, Romani ex Teucris originem ducere glorio﫤ßimum putant. Franci, qui & Grmani fuerunt, Troianum ſe ſanguinem eẽ dixerũt. Eadẽ Britannis gloria ſatis est, qui Brutũ quendam, exilio profe荒um. generi ſuo principium dediße affirmant. At Bohemi longe altius or﫤, ab ipſa confu﫤onis turre ſe mi﫭os ia荒itant. Io non ho ancora letto un qualche autore, al quale si debba dar credito, che abbia riferito in maniera così eccelsa l'origine della sua gente, eccetto gli Ebrei, i primi tra gli uomini. Molti dei Germani si ritengono nobili in quanto nati dai Romani; i Romani ritengono un gran vanto trarre la loro origine dai Troiani. I Franchi, che furono Germani, dissero di avere sangue troiano. La medesima gloria è abbastanza presente nei Britanni, i quali affermano che un certo Bruto, mandato in esilio, abbia dato origine alla loro stirpe. Ma i Boemi, apparsi molto prima, si vantano di essere stati mandati dalla stessa torre della confusione.  
b Cæterum, nec qui tunc principes fuerint, nec quem regem habuerint, nec cuius terræ cultores extiterint, nec ſub quo duce, nec quibus periculis in Europam uenerint, nec quo tempore tradunt. Fuiße illic Sclauonos aiunt, dum labium uniuerſæ terræ confuſum est. Tra l'altro non tramandano chi siano stati i loro primi capi, né quale re abbiano avuto, né di quale terra siano apparsi come abitatori, né sotto quale guida, né a costo di quali pericoli: né in che tempo siano giunti in Europa. Dicono che là furono Slavi, mentre la parola della terra intera rimaneva confusa.  
b Vana laus, ac ridenda. Quod 﫤 qui Bohemos imitari uelint, nobilitatem generis ex ipſa uetustate quærentes, nõ iã ex turri Babilonica, ſed ex archa Noe, at ex ipſa deliciarũ Paradiſo, primis parẽtibus, & ab utero Euæ, unde oẽs egreßi, facile 﫤bi prĩcipia uẽdicabunt. Risibile vanagloria. Che se alcuni vogliono imitare i Boemi reclamando la nobiltà della stirpe dall'antichità in quanto tale, non già dalla torre di Babilonia, ma dall'arca di Noè e dallo stesso paradiso delle delizie e dai primi progenitori e dall'utero di Eva, dal quale siamo usciti tutti, facilmente rivendicheranno per sé il principio.  
b Nos ista tranquam anilia deliramenta prætermittimus. Omnes reges ex ſeruis ortos, omnes ſeruos ex regibus, ſcrip﫤t Plato. Veram nobilitatem ſola atque unica uirtus gignit. Multa ſunt quæ de Bohemis uera ac memorabilia traduntur: ad ea nugis omißis, festinat calamus. Ma noi ora tralasciamo queste stravaganze senili. «Tutti i re sono nati da servi, e tutti i servi da re», scrisse Platone. La sola unica virtù genera la vera nobiltà. Molte sono le cose vere e memorabili che vengono tramandate intorno ai Boemi: verso di esse, tralasciate le quisquilie, si affretta la penna.  
       
c De Zechiom, primo duce Bohemiæ Čech, primo kníže dei Boemi.  
c Zechius Croatinus haud obſcuris parẽtĩbus ortus, gẽtẽ Bohemicã cõdidit:  homicidio domi petrato iudiaũ ultionẽ fugiẽs, in regionẽ eã uenit, cui nũc Bohemia nomẽ est: ac mõtẽ incoluit Chezip uocatũ: quod uocabulum latine, re﫬iciens, interpretatur. Surgit enim ex medio cãporũ æquore, fluuios intuens, qui præcipui Bohemiam irrigant, Albim, Multauiam, atque Egram. Il croato Čech, non proprio di origine oscura, fondò la nazione boema. Avendo perpetrato un delitto in patria, e fuggendo dal giudizio e dalla vendetta, pervenne in quella regione chiamata ora Boemia e andò sul monte detto Říp: tale parola alla latina significa respiciens. Sorge, infatti, in mezzo a una distesa di campi, di fronte ai principali fiumi che bagnano la Boemia: l'Elba, la Vltava e l'Ohře.  
c Terram incultam fuiße tradunt, nemoribus atque ſentibus a﫬eram: feriſque quam hominibus aptiorem. Credimus id quidem: nam priſci Germani, qui ea loca tenuerunt, pastoralem uitam agentes, agrorum culturam neglexerunt, ac more Nomadum alimoniam ex pecoribus trahentes, domesticum in carris tollentes instrumentum, quocunque ſors tulit & opinio, cum ſuis armentis conuertebantur. Tramandano che la terra fosse incolta, aspra di rovi e di boscaglie, più adatta alle bestie che agli uomini. E in verità lo crediamo. Infatti, gli antichi Germani che tennero questi luoghi, conducendo una vita pastorale, trascurarono la coltivazione dei campi e, secondo l'uso dei nomadi, traendo gli alimenti dal bestiame, montando sui carri gli arnesi domestici, si dirigevano con i loro armenti dove il caso o la loro scelta li conducesse.  
c Non a﫭entimur Bohemorum historiæ, quæ Zechium illum, omnem familiam ſuam, nam frater cognati fugæ comites erant, glandibus ac ſyluestribus pomis tantum vitam duxiße affirmat, oblitterato iam tum glandium uſu, nec post diluuium ex his fuiße hominibus ui荒um crediderim. Non siamo d'accordo con la storia boema che afferma che questo Čech e tutta la sua famiglia – il fratello e i parenti gli furono infatti compagni di fuga – si siano tenuti in vita solo con ghiande e frutti selvatici, perché già da allora l'uso delle ghiande era dimenticato, né crederei che dopo il diluvio si potesse ricavare da esse cibo per gli uomini.  
c Illud mihi perſua﫤bilius fuerit, Zechium paucos inueni﫭e cultores, quos la荒e ac uenatu uiuentes, arare terram, triticum ſerere, fruges metere, ueſa pane docuerit: atque ita 﫤bi rudes homines ac pene færos, ad uſum mitioris uitæ redactos ſubiecerit. Sarebbe per me più convincente che Čech avesse trovato pochi allevatori che vivevano di latte e di caccia, ai quali abbia insegnato ad arare la terra, a seminare il frumento, a mietere le messi e a cibarsi di pane, e abbia, così, sottoposto a sé uomini rozzi e quasi selvaggi, ricondotti a una condizione di vita più mite.  
c Nec rurſus apud me pondus habet omnia tum fuiße communia atque tam uiros quem fœminas inceßi﫭e nudos. Neque enim illa regionis temperies est, ut hominem a﫭eruare nudum queat ex Dalmacia uenientem, ubi non defuit ucstis uſus: ni﫤 fortaßis in argumentũ quis aduexerit Adamitas, qui nostra tempestate apud Bohemos emerſere, communione rerum omnium, nuditate gaudentes: quos breui deletos constat. Né, d'altra parte, per me ha importanza il fatto che, allora, tutte le cose fossero in comune e che sia gli uomini che le donne andassero in giro nudi. Né, infatti, quella regione ha un clima temperato che possa tener conto di un uomo nudo proveniente dalla Dalmazia, dove non mancò l'uso della veste, se non forse chi abbia messo in argomento gli Adamiti che emersero nella nostra epoca presso i Boemi, soddisfatti della comunità dei beni e dello stare nudi; ma risulta che in breve furono tolti di mezzo.  
c Zechio frater fuit nomine Leches, paupertatis & exilij comes. Hic ubi Germanum agris ditatum, bobuſ potentem animaduertit, ad orientem profe荒us in magna camporum planicie ſedem collocauit: Poloniam nomẽ ex loco dedit. Nam planicies, Sclauonica lingua pole nominatur: Cuius hæredes in numeroſam multitudinem breui coaluerunt, ac Ruſuniam, Pomeraniam, Caſubiam ſui generis hominibus impleuerunt. Čech ebbe un fratello a nome Lech, compagno di povertà e di esilio. Questi, appena capì che il fratello era divenuto ricco e potente con la coltivazione dei campi e l'allevamento del bestiame, partito verso regioni orientali, pose la sede in un'estesa pianura campestre e dal luogo la chiamò Polonia. Infatti, «pianura», in lingua polacca, si dice pole. I suoi eredi, in breve tempo si accrebbero numerosi così da riempire la Rutenia (?), la Pomerania e la Casubia, di gente della loro etnia.  
c Zechij quo familiam, Bohemos id est, diriuos appellant, mirum in modum germinantes: non ſolum prouinciam a ſe di荒am, ſed Morauiam Luſatiam pul﫤s ueteribus incolis, occuparunt. Dum uixit Zechius nihil temere, nihil tumultuoſe a荒um: eius imperio 﫤ne controuer﫤a obtemperatum. At eo uita fun荒o, cum 﫤bi quiſque principatum uendicaret, diu ſeditionibus agitata prouincia est, 﫤ne principe, 﫤ne certa lege, iudicio tantum multitudinis gubernata. Anche la famiglia di Čech, cioè i Boemi, vengono chiamati dirivos (?), crescendo in modo straordinario; ed occuparono non solo la provincia che prese il loro nome, ma anche la Moravia e la Lusazia, dopo aver ricacciato gli antichi abitanti. Finché visse Čech, non si verificò niente di temerario né di tumultuoso, essendo il suo principato regolato senza opposizioni. Ma appena morì, poiché ciascuno voleva rivendicare a sé il potere, a lungo la provincia fu agitata da sedizioni, senza un principe, senza una legge certa, governata solo dall'arbitrio della gente.  
c Postremo cum potentiores imbecilles opprimerent, ſerum at incertum e﫭et populare re medium, ex re uiſum est re荒orem a﫭umere: qui omnibus præ﫤dens imbecilles ac potentiores pari iure gubernaret. Alla fine, dal momento che i più potenti opprimevano i deboli e che il sostegno popolare era tardivo e incerto, data la situazione, sembrò opportuno nominare un rettore che, stando a capo di tutti, governasse potenti e deboli con pari diritto.  
       
De Croco, secundo Bohemorum duce Krok, secondo kníže dei Boemi  
d Erat per idem tempus apud Bohemos uir nomine Crocus iustitiæ opinione in﫤gnis, ac propterea magnæ apud uulgus autoritatis: hũc 﫤bi principẽ deligũt, ſummam ei rerum committunt. Cuius tanta moderatio fuit, ut nõ aliter ̃ pater a prouincialibus coleretur. Ne enim ad ſuam uoluptatem, ſed pro ſubditorum utilitate ac quiete prouinciam rexit, ferocem populũ, non tam imperio, quam beneuolentia quietum continuit. Hic arcem apud Stemnam condidit, quam de ſuo nomine Crocauiam nominauit. In quel tempo, presso i Boemi, ci fu un uomo di nome Krok, insigne per fama di giustizia e perciò di grande autorevolezza presso la plebe: lo scelsero come principe e gli affidarono il complesso dei pubblici affari. E fu di tale moderazione da essere venerato dagli abitanti della provincia non diversamente da un padre. Egli infatti la resse non per suo capriccio, ma per l'utilità e la pace dei sudditi, e contenne la violenza del popolo non tanto con l'autorità ma con la benevolenza. Fondò una roccaforte presso Ztibečné, che dal suo nome si chiamò Krakovec.  
d Moriens autem tres filias reliquit. Brelam, quæ castellum Brelum ædificauit: herbarum ac medicinæ peritam. Therbam 﫤ue Therbizam augurem et ſortilegam. Tertiam Libu﫭am: quæ ut natu minor fuit, ita diuinarum humanarum rerum ſcientia maior. Alla sua morte lasciò tre figlie: Bela, esperta di erbe e medicina, che eresse la fortezza di Belín; Tetka, augure e indovina; la terza, Libuše, che pur essendo la minore fu maggiore nella conoscenza di cose umane e divine.  
       
De Libu﫭a, filia Croci, quæ pluribus annis rexit Bohemiam Libuše, figlia di Krok, che per molti anni governò la Boemia  
e Libu﫭a autem uelut una ex Sibyllis habita, post obitum patris fauente populo pluribus annis prouinciam gubernauit: et priuſquam Praga ædificaretur, arcem Vi﫭egradenſem communiuit: fuit ſuum imperium patribus plebi iuxta gratum. Postremo non crudelitate aliqua, non tyrannide aut ſecordia uſa: ſed re荒um iudicium faciens popularem fauorem ami﫤t. Libuše, invero, ritenuta coma una delle Sibille, dopo la morte del padre, governò la provincia per parecchi anni, con il favore del popolo e, prima che fosse edificata Praga, fortificò la rocca di Vyšehrad; il suo potere fu parimenti gradito sia alla nobiltà che alla plebe. Alla fine, però, non per una qualche crudeltà, né per aver usato tirannia o negligenza, ma esprimendo un giudizio equanime, perse il favore popolare  
e Cõtendebant coram ea duo ex optimatibus de po﫭eßione agrorum. Sententia ex bono & æquo di荒a: potentior humiliori damnatur. Ille tanquam iniuria e﫭et pontetiorem in iudicio ſuccumbere, populares appellans, indecorum e﫭e indignum ait, tantum populum, tot procæres, tãtum imperium, unius fœminæ ſube﫭e arbitrio. Contendevano di fronte a lei due degli ottimati su un possesso di terreni. La sentenza fu pronunciata in nome del bene e dell'equità; il più potente è condannato a favore del più umile. Quegli, come se fosse un'ingiuria che, in un processo, uno più potente debba soccombere, appellandosi ai popolari, dice che è indecoroso e indegno che un popolo così grande, tante persone eminenti e tanto potere soggiacciano all'arbitrio di una sola donna.  
e Ad cuius uocem excitata multitudo muliebre regimen accuſare, uicinarum gentium mores in medium adducere: uirũ qui 﫤bi dominetur expetere. Libu﫭a, indi荒o 﫤lentio, de﫤derium ſe populi animaduertiße dicit, ne ſe illos eo frustraturam: imperium ſubditis, non 﫤bi, post patris obitum tenuißime. Iubet ad diem posterum redeant. Optemperatum est, itum at reuentum. Sobillato da queste parole, il popolo comincia ad accusare il regime muliebre, a mettere in campo gli usi delle genti vicine, ad esigere un uomo che lo governi. Libuše, ordinato il silenzio, dice di aver compreso il desiderio del popolo e non l'avrebbe deluso: che, dopo la morte del padre aveva tenuto il potere non per Sé ma a vantaggio dei sudditi. Ordina di ritornare il giorno dopo. Si accetta di andar via e di ritornare.  
       
De Premislao tertio Bohemorum duce Přemysl, terzo kníže dei Boemi  
f Libu﫭a in concione ubi adeße multitudinem uidit. Ego uobis, inquit, Bohemi in hanc uſque diem, placite, moliter, ut mulieribus mos est, imperaui: nulli quod ſuum eßet eripui: nullum læ﫤. Libuše, come vide che il popolo era già in assemblea, disse: «O Boemi, fino ad oggi ho mantenuto il governo su di voi in modo pacifico e mite, com'è abitudine per le donne: senza portar via ad alcuno ciò che fosse suo, senza offendere nessuno.  
f Matrem experti estis: non dominam. At uobis meum regimen ingratum. More humani inginij mecum agitis. Nihil diu placet homini. Pium, iustum principem de﫤derant populi magis quam ferunt. Estote ergo iudicatu meo liberi: uirum qui uobis præ﫤t, qui ſuo arbitratu capita uestra iudicet, 﫤cut optastis dabo. Ite, equum meum albicantem sternite, atque in campos late patentes adducite, liberum effrenem ibi dimittite: ſequentes eum quocunque ierit. Curret equus aliquandiu: deni ante uirum ſub﫤stet in menſa ferrea comedentem. Ille mihi coniunx erit, uobis princeps. «Avete trovato una madre, non una padrona. Ma a voi il mio regime non piace. Vi comportate con me secondo la mentalità umana: all'uomo non piace nulla che duri a lungo. I popoli desiderano un principe pio e giusto più di quanto non lo sopportino. Perciò, per mio volere, siate liberi. Vi darò l'uomo che vi governi e vi giudicherà ognuno a suo arbitrio, come desiderate. Andate, preparate il mio cavallo candido e portatelo in mezzo ai campi aperti, quindi lasciatelo libero e senza freni, seguendolo dovunque andrà. Per un buon tratto, il cavallo galopperà; alla fine si fermerà di fronte a un uomo intento a mangiare su una mensa di ferro. Quegli sarà marito per me e principe per voi».  
f Gratus ſermo concioni fuit. Emi﫭us equus decem millia pa﫭uum percurrit. Postremo ad flumen Bieli ante aratorẽ constitit, nomine Primislaũ. Secuti proceres populares, postquam stantem equum, & aratori blandientem adulantem uiderunt, accedentes propius: ſalue, inquiunt, bone uir, quem nobis ſuperi dederunt principem. Solue boues: atque aſcenſo equo nobiſcum uenito. Libußa te uirum, Bohemia ducem poſcit. Agrum colere, gregem paſcere, nauĩ regere, texere, ſuere, ædificare, multi ſe ignorare fatentur. Magistratum in urbibus agere, regem gerere, gentibus ac nationibus imperare, quod est difficillimum, nemo 﫤bi a natura negatum dicit: & 﫤 plerique 﫤ue laboris odio, 﫤ue ocij amore, oblatis regnis abstinuere. Primiaus, quamuis agrestis, nuncios benigne excipit: fa荒urũ postulata re﫬ondit. Tanta est mortalibus regnãdi cupido memo ſe regno indignum putat. Il discorso fu gradito all'assemblea. Fatto uscire il cavallo, esso percorse diecimila passi, infine si fermò al fiume Bílina, dinanzi a un aratore di nome Přemysl. Lo seguivano nobili e popolani. Dopo aver visto il cavallo che, stando di fronte all'aratore, dava segno di venerarlo, avvicinandosi di più esclamarono: «Salve, uomo dabbene, che gli dèi ci hanno concesso come kníže. Sciogli i buoi, monta sul cavallo e vieni con noi. Libuše ti vuole come marito, la Boemia come principe. Coltivare campi, pascere greggi, pilotare barche, tessere, cucire, edificare: molti confessano di non saperlo fare. Ma svolgere cariche pubbliche nelle città, esercitare la potestà regale, comandare su popoli e nazioni, tutte cose molto difficili, nessuno sostiene di esservi negato per naturale inclinazione, anche se moltissimi, o per avversione verso un compito impegnativo, o per desiderio di tranquillità, quando sono state offerte loro tali dignità, se ne sono astenuti». Přemysl, benché contadino, accolse volentieri questi ambasciatori e rispose che avrebbe fatto quanto richiesto. Tanto grande è per gli uomini l'ambizione di regnare che nessuno se ne reputa indegno.  
f Solutos boues, ut fabuloſa est omnis antiquitas, eleuatos in aera ferunt: & in altißimam præſci﫭æ rupis 﫬eluncam delituiße, nunquam postea uiſos. Stimulum uero quo boues urgebãtur, terræ defixũ, mox frõduiße, ac tris corili ramos emi﫤ße: ex quibus duo statĩ exaruerũt, tertiũ in arborẽ eiuſdẽ generis procerã excreuiße. Non recipio ad me ueri istius periculũ: apđ autores ista quærãtur. Sciolti i buoi – com'è ricco di leggende il tempo antico! –, tramandano che, levatisi in aria, questi si nascosero in una profonda spelonca, in un monte che già conoscevano, e che non furono visti mai più. Dicono pure che il pungolo con il quale [Přemysl]sollecitava i buoi, piantato a terra, subito avesse messo le fronde e fatto spuntare tre rami di nocciolo, dei quali due immediatamente seccarono, mentre il terzo diventò un alto albero, della medesima specie. Non corro il rischio di dover dimostrare la veridicità: tali cose si chiedono agli storici.  
f Vidi tamen inter priuilegia regni, literas Caroli quarti Romanorum imperatoris, diui Sigiſmundi patris: in quibus hæc tanquam uera continentur. Villæ illius incolæ in qua hæc gesta creduntur libertate donantur: nec plus tributi pendere iubentur, quam nucum illius arboris exiguam menſuram. Sed nec mihi Carolus fidem facit: Nam reges plerum creduli ſunt, nec quicquam nõ verum putant, quod generis ſui claritatem astruit. Ho visto, tuttavia, negli atti riguardanti i privilegi del regno, le lettere di Karel IV, imperatore romano, padre del divino Zikmund, nelle quali questi eventi sono contenuti come veri. Agli abitanti di quella campagna nella quale si credono compiuti questi fatti, è concessa un'immunità: non gli si ordina di pagare un tributo superiore all'esigua quantità dei frutti di quell'albero. Ma secondo me neppure Karel fa fede. Infatti, i re, di solito, sono facilmente creduli e considerano sempre vera qualunque cosa garantisca la nobiltà della loro origine.
f Primislaus igitur audita legatione, inuerſo uomere, pane caſeo appo﫤to, uiam qua﫤 grandem fa荒urus, cibum ſunp﫤t, Ea res Bohemorum animos confortauit: menſam ferream, de qua Libu﫭a uaticinata fuerat, in uomere cognoſcentes. stupentes edenten circumstant, ſaturũ equo imponunt: iubent festinare. Inter eundum, quid 﫤bi uult stimulus frondens? interrogant: & cur duo rami mox aruerunt? Ille, qui diuinandi peritia calleret, tris 﫤bi liberos naſcituros ait, ex bus duo funere immaturo deficiant, tertium nobiles fru荒us editurum. Quod 﫤 ager totus exarui﫭et ante uocationem, genus eius maſculinum perpetuo regnaturum fui﫭e: cum ante tempus accer﫤tus 﫤t, eam 﫬em ademptam. Přemysl, pertanto, uditi gli ambasciatori, girato il vomere, vi pose pane e formaggio e, come se stesse per affrontare un lungo cammino, si mise a mangiare. La qual cosa animò i Boemi, che riconobbero nel vomere la mensa di ferro di cui Libuše aveva vaticinato. Stupiti lo attorniarono mentre mangiava e, una volta sazio, lo fecero montare a cavallo, raccomandandogli di affrettarsi. Durante il viaggio lo interrogarono: «Che significa il pungolo che si copre di fronde? E perché due rami subito dopo si sono seccati?» Egli, che per pratica s'intendeva di divinazione, rispose che gli sarebbero nati tre figli, dei quali due sarebbero morti in giovane età, mentre il terzo avrebbe prodotto nobili frutti. E se avesse finito di arare il terreno, prima di essere chiamato, la sua discendenza maschile avrebbe regnato per sempre. Ma costretto a interrompere [il lavoro] prima del tempo, quella speranza gli era stata sottratta.  
f Interrogatus, cur nam calceos, querno robore fa荒os, ſecum afferret? ſeruandos in arce Vißegraden﫤 re﫬ondit, ostendendos posteris, ut ſcirent omnes primum qui principatum inter Bohemos accepißet, ex agro fui﫭e uocatũ: ne inſoleſcendum e﫭e, qui ex humili fortuna ſolium aſcenderit. Servuati calcei diu apud Bohemos, religioſe habiti, ac per ſacerdotes templi Vißegraden﫤s ante reges delati, dum pompa coronationis educitur. Interrogato perché mai portasse con sé i calzari fatti di corteccia di quercia, rispose che avrebbero dovuto essere conservati nella fortezza di Vyšehrad, e che bisognava mostrarli ai posteri affinché tutti dicessero che il primo ad ottenere il titolo di kníže in Boemia ne era stato chiamato dalla campagna: che, pertanto, non si sarebbe dovuto insuperbire chi, da un'umile origine, fosse salito al trono. Conservati a lungo, i calzari sono tuttora conservati religiosamente dai Boemi, e vengono portati di fronte ai sovrani dai sacerdoti del tempio di Vyšehrad, mentre si svolge la cerimonia dell'incoronazione.  
f Cum Vißegradum appuli﫭et Primislaus, ingenti fauore plebis at honore exceptus est: Libußam 﫤bi matrimonio iũxit. Nec diu moratus, Pragenſe oppidum aggere at muro cinxit: De cuius nomine dum diſceptaretur, iußit Libu﫭a ex artificibus, qui primo occurrerit, rogari quid ageret: ac ex primo uerbo eius uocari oppidum. Interrogatus faber lignarius qui﫬iam: limen ſe agere dixit, quod Bohemice, praha, dicitur. Inde nomen urbi datum. Sed corrupto uocabulo posteri Pragam dixere. Giunto al Vyšehrad, Přemysl fu ricevuto con immenso favore e onore dal popolo e si unì in matrimonio con Libuše. Senza indugiare a lungo, cinse la cittadella prahense con un fossato e un muro. E poiché si discuteva sul nome [da dare alla città], Libuše ordinò di chiedere agli operai, il primo che s'incontrasse, cosa stesse facendo: che la fortezza si sarebbe chiamata con la prima parola da lui pronunciata. Interrogato, un falegname disse che stava fabbricando una soglia, che in lingua boema si dice praha. Da qui, venne dato il nome alla città. Ma i posteri, alterato il vocabolo, lo pronunciarono «Praga».  
f Exinde leges conditæ, quibus Bohemi longo tempore u﫤, prouĩcia pace & odio fruens, opibus au荒a est. Et Libußa castellum Libus ædificauit, nõ longe ab Albi flumine: quod morienti ſepulchrum fuit. Qua mortua, imperium ad Primislaum ſolum redijt, quod uiuente coniuge eius maximo con﫤lio administrauit: fœminarum, quæ illa uiuente plurimũ poterant, autoritas extĩ荒a. In seguito, emanate le leggi che i Boemi hanno da molto tempo, la provincia, fruendo di pace e tranquillità, crebbe in ricchezza. E Libuše edificò la fortezza di Libušín, che le divenne sepolcro alla sua morte. A quel punto, il principato passò al solo Přemysl, il quale, essendo viva la moglie, aveva governato con la suprema influenza di lei: ma ora era finita l'autorità delle donne, le quali, durante la vita di Libuše, avevano goduto di grande potere.  
       
De Puella Valaſca, quæ principatũ Bohemiæ more Amazonum, ſeptemmi potentur obtinuit La fanciulla Vlasta che per sette anni tenne con la forza, secondo il costume delle Amazzoni, il regno di Boemia  
g Sed fuit inter uirgines, quæ Libu﫭æ ministrare ſolebãt, Valaſca puella ingenti Spiritus, & Amazonicæ gentis, quæ clanculum accer﫤tis comitibus: heram, inquit, o ſorores perdidimus, quæ nos a uirorum contumelia uindicauit, nec paßa est ſeruire uiris: contra, uiri eiuſdem imperium ſubire, nos reginarum honore fungebamur. Nunc iugum a﫬erum & miſerrimũ ferre oportet. Ni﫤 libertatem nobis ip﫤s uendicemus, uilißima mancipia ſumus. Ma vi era, tra le ragazze che solevano essere al servizio di Libuše, una giovane di grande arditezza, di nome Vlasta, appartenente alle amazzoni. Questa, convocate segretamente le compagne, disse loro: «Sorelle, abbiamo perso la nostra padrona che ci proteggeva dal disprezzo degli uomini e non sopportò di servirli; al contrario, gli uomini subivano la sua autorità mentre noi godevamo dell'onore delle regine. Ora dobbiamo sopportare un giogo aspro e meschino. Se non rivendichiamo a noi stesse la liberà, rimarremo vilissime schiave.  
g Quod 﫤 uobis id animi est, qđ mihi: facile pristinam autoritatem obtinebimus. Ego ſecretorum Libuße conſcia, Therbizæ quo ſortes noui, herbarum uires non minus ͂ Brela calleo: qđ tres habuere ſorores hoc mihi ſoli datũ est. Aßistite audenti: uobis imperiũ in uiros polliceor. Probant 﫤ngulæ Valaſcæ con﫤liũ: coniurant, poculũ recipiunt, quo uirile genus odißent. «Se avete lo stesso coraggio che ho io, facilmente riotterremo l'antica autorità. Consapevole dei segreti di Libuše, ho conosciuto anche le predizioni di Tetka e conosco non meno di Bela i poteri delle erbe. Ciò che possedevano le tre sorelle, è stato dato a me sola. State vicino a chi osa: vi prometto il dominio sugli uomini». Tutte le fanciulle approvarono la decisione di Vlasta e bevvero alla coppa per odiare il genere maschile.  
g Interea loci Primislaus uirginem 﫤bi per quietem ſanguineũ ministrare potum uidet. Territus ſomno, ac malũ quod erat futurũ ſu﫬icatus, primores terræ admonet, ne tantũ licentiæ fœmineo ſexui præbeatur. Mos enĩ uirginibus erat equos aſcendere, fatigare curſu, fle荒ere in gyrũ, hasta contendere, gestare pharetram & arcũ, ſagittare, iaculari, uenari, nihil officij uirilis omittere. Frattanto, Přemysl vide in sogno una fanciulla, la quale gli somministrava del sangue da bere. Atterrito dal sogno, e sospettando il male che gli sarebbe capitato, avvertì i maggiorenti della regione di non permettere al sesso femminile tanto arbitrio. Era allora in uso, tra le fanciulle, salire a cavallo, impegnarsi nella corsa, fare evoluzioni, lanciare l'asta, portare faretra e arco, scoccare le frecce, scagliare i giavellotti, andare a caccia, senza trascurare nessun compito maschile.  
g Quod Primislao tum periculoſum, tum bonis aduerſum moribus uidebatur. At proceres ridere principem, fœmineum ſexum nil auſurũ magis credere. Mirari tanto magis at amare puellas, quanto agiliores ac do荒iores dicerentur. Valaſca monere inter diu no荒u con﫬irationis ſocias, 﫬em bonam facere, audaciam augere, poculis at carminibus mentes earũ a uirorum amore auertere, dictim plures allicere, prouinciam uniuerſam ueneno inficere. E ciò era considerato da Přemysl sia pericoloso, sia estraneo ai buoni costumi. Ma i nobili ridevano del fatto che il kníže credesse che le donne non avrebbero osato niente di più. Ammiravano e tanto più amavano le fanciulle che si ritenevano più agili e più dotte. Vlasta ricordava la cospirazione alle compagne, di giorno e di notte; dava loro buone speranze, accresceva la loro audacia, distoglieva con bevande e poesie le loro menti dall'amore per gli uomini, allettando con la parola la maggior parte di loro e avvelenando l'intera provincia.  
g Vbi iam uirginum ac nuptarum ſatis conueniße arbitratur, mandat oĩbus ſuos uiros, parẽtes, germanos, filios mares, oẽs ſomno uino ſepultos no荒e occidant: armis equiſ arreptis, in campũ prodeant, nõ longe a Praga mõstratũ. Maturatus ſcelus, uirorũ ͂ tum imperatũ erat interficitur, ueniunt in campum armatæ fœminæ, prostrato uirorũ exercitu, qui parricidas ĩ ſequæbantur: duce ĩ arce Vi﫭egranden﫤 ob﫤dent. Quã cũ expugnare nequirẽt, castellũ 﫤bi haud procul inde in prærupto undi colle, natura munitißimo ædificant: qđ Dieuizum appellant, qua﫤 uirginũ castrũ. Dieuizæ nam, eorũ lingua uirgines nũcupantur. Appena ritenne che fossero tutte d'accordo, fanciulle e sposate, raccomandò loro di uccidere, durante la notte, i loro uomini: genitori, fratelli, figli maschi, tutti appesantiti dal vino e dal sonno e che, afferrati armi e cavalli, scendessero in campo aperto per presentarsi [in un luogo] non lontano da Praha. Si maturò il crimine, si uccisero gli uomini, come era stato ordinato; quindi le donne scesero armate in campo e, sconfitto l'esercito maschile che inseguiva le parricide, ne assediarono il condottiero nella rocca di Vyšehrad. E non riuscendo ad espugnarla, edificarono una fortezza poco lontana da là, su un colle scosceso da ogni parte, ben protetto dall'ambiente naturale, e lo chiamarono Děvín, quasi una fortezza delle ragazze. Infatti, nel loro lingua, le fanciulle sono dette dívky.  
g Res uiſa patribus plebi, nicio﫤ßima, tũ propter admißum ſcelus, tũ , illarum exemplo reliquas adduci fœminas uerebantur: & hostẽ cui domi eße formidabile fuit. Hortantur ita principẽ puellas bello cœrceat, ſe cũ copijs affuturos promittũt. Primislaus ſe a dijs admonitũ ait, perituros oẽs qui puellas armis lace﫭ant, tempus aliud expe荒andum. Le cosa venne considerata pericolisissima dai senatori e dalla plebe, sia per [la gravità d]el crimine subito, sia perché temevano che altre donne fossero attratte dall'esempio di quelle. Avere un nemico in casa era prospettiva terribile per ciascuno. Esortarono, perciò, il principe a dichiarare guerra alle fanciulle e promisero di parteciparvi con le loro truppe. Ma Přemysl affermò che gli dèi lo avevano ammonito [dal prendere una simile decisione]: che sarebbero morti tutti quelli che avrebbero assalito in armi le fanciulle, e che, perciò, bisognasse attendere un altro momento.  
g Illi 﫬reto con﫤lio, coa荒o 﫤ne principe exercitu, castra ad Dieuiſum ponunt: puellas cingere ob﫤dione pergunt. Valaſca nil territa in maiori diſcrimine maiorem adhibet animum, comites ne mente labantur, plena fiducia hortatur: adueniße tempus affirmat quo toti Bohemiæ leges imponant, uidere ſe omnes prouinciæ optimates in ſuam potestatem ueni﫭e: uires tantũ acuãt, ui荒oriam in manibus eße. Ne nouũ uiros mulieribus obedi﫭e, Amazones 﫤bi A﫤am ue荒igalem feciße: pugna﫭e ad Troiam, Theſei at Herculis arma contemp﫤ße. Si con﫤lium at animus mulieribus ad﫤t, uires haud quaquã decẽ: nullius Bohemi cõ﫤liũ ſuo præferre. Quelli, non tenendo conto dell'avviso, riunito un esercito senza il kníže, si accamparono a Děvín e si avviarono a cingere d'assedio le fanciulle. Vlasta, per nulla intimorita, nel momento più decisivo mostrò maggior coraggio ed esortò le compagne a una piena fiducia, affinché non perdessero la testa. Affermò che era venuto il tempo d'imporre leggi in tutta la Boemia, di capire che tutti gli ottimati della provincia fossero caduti in suo potere, soltanto, di rinvigorire le forze, ché la vittoria era nelle loro mani. [Aggiunse] che non era certo una novità che gli uomini obbedissero alle donne, che le Amazzoni avevano reso tributaria a sé l'Asia, avevano combattuto a Troia e non avevano tenuto in conto le armi di Theseús ed Hēraklês. Se le donne avevano volontà e coraggio, ciascuna avrebbe avuto la forza di dieci: i Boemi non avrebbero potuto anteporre alla sua determinazione quella di qualcun altro.  
g Vbi perſuaſam multitudinem animaduertit, palãtes hostes, & nil tale uerentes, aggreditur. Fit trepidatio totis castris. Mox fœda oritur fuga, instant uirgines, uiros paßim trucidant. Ne aliter pugnatum est, quam 﫤 muliebres uiri animo, uiriles fœminæ induißent. Pauci ex ea pugna euaſerunt: quos uelocitas equorũ, nõ ſua uirtus, a morte redemit. Singularis audaciæ in hoc prælio ſeptem puellas fui﫭e memorant. Maladam, Nodeam, Suataciã, Vorastam, Radgam, Zastanam, Tristanam. Reginam ſua manu ſeptem uiros interemiße. Appena si rese conto di aver convinto la moltitudine delle fanciulle, [Vlasta] assalì i nemici dispersi, che non se lo aspettavano. Ci fu scompiglio in tutti gli accampamenti, che si concluse con una fuga miseranda, mentre le vergini incalzavano gli uomini e li massacravano da ogni parte. Né si combatté diversamente da come [...]. Pochi scamparono da quella battaglia e se si salvarono dalla morte fu per la velocità dei cavalli, non certo per il loro valore. Si ricorda che in questo scontro sette fanciulle esibirono una singolare audacia: Mlada, Hodka, Svatava, Vracka, Radka, Častava, Třstava, e che la regina uccise di sua mano sette uomini.  
g Spolia ingentia capta, præmia pro meritis reddita, ſeptem quæ uirtute præstiterant torquibus aureis at armillis donatas, Valaſcam ueluti deam habitam: ne post id prælium Bohemis aduerſus puellas audaciam fui﫭e. Illæ populare agros, abducere prædas, rapere, occidere, uillas incendere, potentiam indies augere, fingere interdum ſe uirorum amore teneri, amatorias epistolas nobilibus adoleſcentibus mittere, detestari fastum at inſolentiam Valaſcæ, 﫤mulare fugam, rogare in ſyluam potenti manu uenirent, ac ſe raperent. [Si racconta pure che], preso un ingente bottino, distribuiti premi per i meriti sul campo, alle sette che si erano distinte per valore furono donate collane e bracciali d'oro, che Vlasta fu considerata come una dea e che i Boemi, dopo quell'assalto, non ebbero più ardire contro le fanciulle. Quelle saccheggiavano i campi, portavano via le prede, rubavano, uccidevano, incendiavano le fattorie, accrescendo ogni giorno di più il loro potere. Frattanto fingevano di essere prese da passione per gli uomini, inviavano lettere amorose a giovani nobili, e, simulando di detestare il fasto e l'insolenza di Vlasta, e di voler fuggir via, li pregavano di venire in forze nella selva e di rapirle.  
g Iuuenes  puellarum facinora magis admirarentur quam odi﫭ẽt, ui荒i blandicijs, capti non nullarum 﫬ecie, erant enim pleræ pulcherrimæ, imperata face﫭unt. Sed ingreßi ſyluas, in﫤dijs circumuenti, trucidantur. Alij noua fraude in arcẽ uocantur, Valaſcam uelut per traditionem cõprehenſuri. Qui mox intromißi, ad unum necãtur. Vbi iam nulla fides uirginibus est, commentum inauditum excogitant. I giovani, portati più ad ammirare i crimini delle fanciulle che a detestarli, vinti dalle dolcezze e catturati dall'aspetto di molte – la maggior parte erano infatti bellissime – obbedirono premurosamente a quelle suppliche. Ma entrati nei boschi, intrappolati, vennero trucidati. Ad altri fu permesso di penetrare nella rocca con un nuovo inganno: [gli avevano detto] che avrebbero preso Vlasta, da esse consegnata. Ma appena entrati, vennero uno ad uno. E quando ormai le fanciulle non ebbero più alcun credito, escogitarono trovate inaudite.  
       
De puella Sarca, quo doloſe nobilem Striradum deceperit, morti tradiderit La fanciulla Šárka: in qual modo abbia ingannato fraudolentemente il nobile Ctirad e consegnato a morte  
h Sarca erat inter puellas admodum honesta facie, ſed animo impuro, & ad omne ſcelus parato. Hãc in altißimo nemore stri荒is pedibus ac manibus arbori alligant, tubam uenatoriam, ac uaſculum medone plenum iuxta ponunt: Ipſæ in in﫤dijs haud procul deliteſcũt. Solebat hac iter ſæpe facere Stiradus nobilis eques inter Bohemos opibus & autoritate potens: & qui puellarum tyrannidem præ cæteris abhorreret at perſequeretur. Is ergo cum ſyluam pro ſuo more uenaturus intraßet, puellam uin荒am con﫬icatus eßet: miſerandus quid 﫤bi ea res uellet percontatur. Tra le fanciulle vi era Šárka, all'apparenza assai onesta, ma di animo impuro e pronto a ogni misfatto. La legarono in una profonda foresta, mani e piedi stretti a un albero, e vi posero vicino un corno da caccia ed un vasetto pieno di idromele, nascondendosi in agguato, poco lontano. Era solito fare spesso quel cammino un certo Ctirad, nobile cavaliere, potente tra i Boemi per ricchezza e autorità, il quale oltretutto aborriva e cercava di abbattere la tirannide femminile. Ed egli, essendo entrato nel bosco, secondo la sua abitudine, per cacciare, vista la ragazza legata, le chiese, impietosito, il perché di quella situazione.  
h Cui Sarca: Noſci, inquit, quot ſcelera his in regionibus Valaſca perpetrarit, dum 﫤bi potentiam regnum uendicat. Ego quo pariter in furorem a荒a, inſaniam eiuſdem ali̃diu ſecuta ſum. Peccaui fateor, penituit me tamen tot ineptiarum deni, cogitaui quo nam modo ſcelestam relinquere uitam po﫭em: statim ab iniqua diſcedere domina. Sed dum comitem fugæ quæro prodita capta huc deducor: hic de me statuerat ſupplicium ſanguinaria carnifex. Interea dum ligor dum mihi ultima uerba dicuntur, ut auditus est tuorum canum latratus at hinnitus equorum, illæ meæ latinæ ſalutem pedibus quæ﫤ere. At ego te uir clarißime, quem unum perfida turba metuit, per nobilitatem tuam oro miſerere infelicis fœminæ. Solue me obſecro, at abducito: aut 﫤 hoc non placet, iugula me potius quam hic uiuam deſeras. Nam ubi abieris, mox aderit iniqua uirginum cohors, me diris lacerabunt modis: Iuuat tua manu perire. A lui Šárka rispose: «Hai saputo quanti delitti in queste regioni Vlasta ha perpetrato, mentre rivendicava a sé il potere e il regno. Anch'io, talvolta, portata ugualmente alla follia, ho seguito la sua insania. Confesso di aver peccato, ma alla fine mi sono pentita di tante pazzie e infatti ho pensato in qual modo potessi lasciare una vita scellerata: fuggire immediatamente da una persona così malvagia. Ma mentre cercavo una compagna per la fuga, tradita e catturata, sono stata portata qui dove la carnefice sanguinaria aveva disposto un supplizio per me. Frattanto, proprio mentre mi legavano e mi dicevano le ultime parole, non appena hanno udito il latrato dei tuoi cani e il nitrito dei cavalli, quelle [***] hanno cercato la salvezza a piedi. Ma io, o uomo illustrissimo, il solo che la perfida turba ha temuto, ti imploro, in nome della tua nobiltà, di aver compassione di una ragazza infelice. Scioglimi, ti scongiuro, e portami via. O se non lo vuoi, uccidimi, piuttosto che lasciarmi qui viva. Infatti, appena te ne sarai andato, subito arriverà il malvagio gruppo delle fanciulle e mi strazieranno in modi crudeli. È meglio morire per tua mano».  
h Stiradus lacrymis motus muliebribus, puellæ forma captus, equo de﫤liens uincula ſoluit: rogat medonis uaſculum, ſunul tuba appo﫤ta quid 﫤bi uelint. Tum Sarca medomem, inquit, optimum carnifices attulerunt, quo inter cruciandum uter: hunc iam leta ſecura bibam &, hausto ſumpto, quod reliquum fuit Stirado propinauit: qui pariter bibit. Erat autẽ potus ſuauißimus, quem Bohemi ex albo melle conficiunt: ſed ̃ muliebris ſalubre, herbis et carminibus adhibitis, tam uiro pestilens: qui mentem Stiradi prorſus alienauit. Ctirad, sensibile alle lacrime femminili e preso dalla bellezza della fanciulla, sceso da cavallo, sciolse i lacci e chiese che cosa significassero il vasetto di idromele e insieme il corno lì accanto. Allora Šárka: «Questo ottimo idromele l'hanno portato le carnefici affinché, durante la tortura, lo bevessi ormai lieta e sicura». Poi, ingoiato un sorso, il rimanente lo propinò a Ctirad che, a sua volta, ne bevve. Era questa una bevanda dolcissima che i Boemi ricavano da un miele bianco; ma quanto per la donna è salutare, con l'aggiunta di erbe e formule magiche, tanto è pestifero per l'uomo, e infatti alienò subito la mente di Ctirad.  
h Exinde, tuba hæc, inquit, mea fuit dum uenarer, quam mihi mortuæ ad collum ſu﫬endere statuerant peßimæ, qua﫤 uenatricis 﫤gnum. Inflabo ut intelligant me uiuentem: ſuis manibus ereptam eße. Mox tuba cecinit. Poi aggiunse: «Quel corno è stato mio finché sono andata a caccia, ma quelle pessime avevano stabilito di appendermelo al collo, una volta morta, a indicare che ero stata una cacciatrice. Ora lo suonerò affinché capiscano che, essendo viva, sono stata sottratta alle loro mani». E subito il corno suonò.  
h Valasca ubi ſonitum audiuit, ex compo﫤to cum armatis puellis adest. Stiradum incautum capit: comites eius obtruncat. Ferunt dum hæc agerentur, auditum tota sylua ingentem ueluti ridentium strepitum, ubi diẽ e﫭et hominum ſolitudo, creditum dæmones de puellarum facinore ac fallacia cachinnatos: illas uero instru荒o exercitu Stiradum cathenis uin荒um, in con﫬e荒u arcis Vißegranden﫤s deduxi﫭e, ibi pro﫬e荒ante Bohemorum principe nobilem uirum rotæ supplicio, qđ est inter germanos atrocißimum ac miſerrimum, peremiße. Vlasta, udito il richiamo, secondo l'accordo, si presentò con le fanciulle armate. Catturò l'incauto Ctirad, dopo di che il suo seguito lo massacrò. Dicono che, mentre avvenivano queste cose, si udì in tutta la selva un immenso fragore di risate, laddove da lungo tempo c'era stata assenza di uomini. E si credette che dei dèmoni avessero riso sgangheratamente sui misfatti e le falsità delle donne, e che in realtà quelle, organizzato un esercito, avevano portato Ctirad in catene alla rocca di Vyšehrad e lì, di fronte al kníže dei Boemi, uccisero il nobile uomo col supplizio della ruota, che tra i Germani è il più atroce e miserevole.  
h Post hæc iam plane regionis d ominas uiros 﫤bi aſuuiße ex quorum conplexu nouis fetibus rempublicam ſustentarent, ſanxitum lege, ut natæ fœminæ diligenter aßeruarentur: maſculis dextri oculi eruerentur, amputarentur pollices, ne uiri fa荒i arcus tẽdere aut armis uti ualerent. Id aliquamdiu fa荒itatum. Dopo di ciò, [dicono che,] ormai pienamente padrone del territorio, [le donne] accettarono mariti per poter sostenere la loro società con nuovi nati, e fu sancito per legge che le nate femmine fossero protette con molta cura, mentre ai maschi fosse strappato l'occhio destro e fossero amputati i pollici, affinché, divenuti adulti, non fossero in grado di tendere l'arco o di usare le armi. Ciò fu praticato comunemente per molto tempo.  
h Septẽ annis ea pestis Bohemiam afflixit: tributaria magna ex parte prouincia uirginibus fuit. Qui detre荒auere imperium intra mœnia clau﫤, nuſquam exire audentes, magnis incommodis a荒i ſunt. Deni cum neceßaria deeßent, eo perdu荒a res uideretur, ut coa荒os fame deditionem facere oporteret, tumultuarie principem adeunt, dirum puellarum bellum deplorant, ignauiam ducis accuſant, malle ſe fœminis obedire quam perire inedia dicunt: aut populum tueatur, aut meliori cedat: probris & contumelijs minas adijciunt. Tale calamità afflisse la Boemia per sette anni e gran parte della provincia fu tributaria nei confronti delle fanciulle. I detrattori di questo potere, chiusi entro le mura [del Vyšehrad], non osando evadere in nessun luogo, dovettero affrontare enormi difficoltà. Alla fine, mancando il necessario e sembrando che la situazione fosse arrivata al punto che, costretti dalla fame, fosse opportuno arrendersi, in gran fretta si presentarono al kníže, deplorarono la spietata guerra delle giovani donne, accusarono il capo di ignavia, affermarono di preferire l'obbedienza alle donne che la morte per inedia: o si prendesse cura del popolo o cedesse a chi era migliore; quindi, alle offese vergognose aggiunsero le minacce.  
h Primislaus tot angustijs circunuentus, cum non tam armis, quam ſortibus ualeret, plebem paucos adhuc dies expe荒are hortatur: id 﫤 faciant, puellarum excidium imminere. Paret moltitudo. Ipſe medio tempore scribit Valaſcæ, iniußu ſuo optimates prouinciæ arma in eam ſump﫤ße: placere 﫤bi eos ſubi﫭e pœnas. Přemysl, circondato da tante angustie, dal momento che non si intendeva tanto di armi quanto di divinazioni, esorta la plebe ad aspettare ancora pochi giorni, ché se faranno così sarà imminente l'eccidio delle fanciulle. La folla accondiscende. Egli stesso, nel frattempo, scrive a Vlasta dicendo che senza suo ordine gli ottimati della provincia avevano preso le armi contro di lei, e perciò gli piaceva che quelli ne subissero le conseguenze.  
h Se illam filiæ loco amare: ne inuidere principatum, quæ coniugis ſuæ Libu﫭æ diſcipula extitißet: imperiũ uirtutæ ſuæ deberi, quæ Bohemiam uirili audacia bello attriuißet: ſenium ſuum regno ineptum, ne filio impuberi gubernationem credẽdam, monere ut arcem Vißegradenſem ex manibus ſuis accipiat, 﫤c Bohemiam totam in potestatem eius uenturam: filio ̃ uelit partẽ faciat. Sibi priuato restat quod ætatis, uiuere libeat: at in agrũ reuerti, quẽ reliqui﫭et inuitus. Potestatem quam 﫤bi fœmina tradidi﫭et, iure optimo ſe fœminæ restituere. Egli l'amava come una figlia e non le invidiava il principato, in quanto era riuscita come allieva di sua moglie Libuše: il potere si doveva al suo valore, lei che si era attribuita la Boemia in guerra con audacia virile; il potere di lui, invece, quello dei vecchi, era inadeguato per un principato e non si doveva affidare il governo al figlio adolescente. Le raccomandò di prendere dalle sue mani la rocca di Vyšehrad, così tutta quanta la Boemia sarebbe venuta in suo potere, e che riservasse al figlio la parte che ella voleva. A lui, da privato, sarebbe rimasto quanto l'età gli consentiva di vivere, e di ritornare alla campagna che aveva lasciato malvolentieri. Disse che quel potere che una donna si era conquistata, lui, a buon diritto, lo restituiva a una donna.  
h Capitur Valasca ſuis artibus, mi﫭a puellarum cohorte, tradi 﫤bi arcem postulat. Intromi﫭æ uirgines: apud principem opipare epulantur. Interea pro﫤lientes ex in﫤dijs iuuenes armati, puellas omnes trucidant, nec morati castellum Dieuizũ cum exercitu petunt. Vlasta venne sedotta da quel raggiro e, inviata una schiera di ragazze, gli fece chiedere di consegnare la fortezza. Fatte entrare le fanciulle, esse banchettarono lautamente con il kníže. Intanto, balzando fuori dai loro nascondigli, dei giovani armati trucidarono tutte le ragazze e senza indugio raggiunsero con un esercito il castello di Děvín.  
h Valasca re cognita, furore amens, cum paucis obuiam egreditur: cõſerto prælio prius̃ comites aßint, dum strenue pugnat, inter conſertißimas hostium turmas occiditur. Subſecutæ uirgines, ubi dominam cecidi﫭e cognoſcunt, non tam 﫬e ui荒oriæ, quam ultionis ardore certamen instaurant. Pugnatum est ali̃diu, nunc huc, nunc illuc ui荒oria inclinante: ad extremũ infeliciter præliantes fœminæ, cæ﫤s ̃ pluribus: fugæ ſe commiſerunt. Saputo ciò, Vlasta, delirante di furore, uscì con poche ragazze incontro a loro e, stretta nella mischia, prima di unirsi alle compagne, mentre combatteva accanitamente, venne uccisa tra le pressanti torme nemiche. Le fanciulle, arrivate subito dopo, appena vennero a sapere che la loro signora era caduta, ripresero lo scontro, non tanto con la speranza della vittoria, quanto con l'ardore della vendetta. Si combatté a lungo, mentre la vittoria pendeva ora da una parte, ora dall'altra. Alla fine le donne, che combattevano disperatamente, essendone state uccise la maggior parte, si dettero alla fuga.  
h Subſecuti hostes, uno agmine, ui荒ores cum ui荒is castellũ irrupere: potiti arcæ, quicquid fœminei ſexus inuentum est, ferro extinxere: at hoc pa荒o magnanimi iuuenes dominatu fœmineo Bohemiam liberarunt. Valaſca inter fœminas clarißimas numeranda plus auſa ̃ ſexui ſuo congrueret, inſepulto cadauere iacens, feris ac uolucribus eſca fuit. I nemici che giunsero di lì a poco, in una sola schiera, i vincitori con i vinti, irruppero nella fortezza e, impadronitisi della roccaforte, distrussero con la spada ciò che fu trovato appartenente alle donne: in questo modo, dei giovani magnanimi liberarono la Boemia dal dominio femminile. Vlasta, da annoverare tra le donne più famose, avendo osato più di quanto fosse consono al suo sesso, giacendo senza sepoltura, divenne preda di uccelli e di fiere.  
       
De Nimislao quarto, ac Mnata quinto, Vorcio ſexto, necnon Vinslao ſeptimo Bohemorũ ducibus Nezamysl quarto, Mnatha quinto, Vojen sesto Vnislav settimo kníže dei Boemi  
i Primeslao ex Libu﫭a tres filij nati, duo immaturo rapti funere, tertius morienti ſeni hæres di荒us, Nimislaus nomine, quod nihil excogitans interpretatur. Fuit enim stupidi ingenij, & prorſus iners: inter ſcorta & concubinas ocio marcens. Přemysl ebbe da Libuše tre figli, di cui due morirono di morte prematura; il terzo, proclamato erede, dal vecchio sul letto di morte, si chiamava Nezamysl, dal momento che non capiva nulla del pensiero. Fu infatti di scarsa intelligenza e totalmente infingardo, crogiolandosi nell'ozio tra meretrici e concubine.
i Molliciem eius fortuna confouit: quæ pacem illi perpetuam dedit, nullo uicinorum arma mouente, nec ſeditionibus studente populo: quem diutina uirginũ bella prorſus extenuauerãt. La sua mollezza fu temperata dalla fortuna che gli concesse una pace duratura, dal momento che nessuno dei popoli vicini mosse armi contro di lui, né il popolo fu disposto a insurrezioni, estenuato certamente dalle lunghe guerre delle fanciulle.  
i Huic Mnata filius ſubſecutus est. Mnatã Vorcius: cui duo fuerunt filij, Vinslaus & Vratislaus. Inter quos moriens partitus est terram. Vinslao Praga & ducatus Bohemiæ ce﫭it, Vratislao Lucen﫤s pricipatus: qui postea Zacen﫤s di荒us est. A costui succedette il figlio Mnata. A Mnata, Vojen, il quale ebbe due figli, Vnislav e Vratislav e, morendo, spartì il territorio tra loro. A Vnislav toccò Praha, ducato boemo, a Vratislav il principato dei Lučané che in seguito furono detti Žatecký.
       

De Grezomislao, qui & Neclam di荒us est, o荒auo Bohemorum duce. Et graui bello quod geßit cum patruo ſuo Vratislao

Křesomysl, detto Neklan, ottavo kníže dei Boemi. L'aspra guerra che combatté contro lo zio paterno Vratislav  
j Ex Vinslao natus est Grezomislaus, qui & Neclam di荒us est, unicum timoris & pacis exemplũ. Cuius ignauiam in animo uoluens patruus, optimum instrumentum ad ſubigendum 﫤bi Bohemiam ratus, arma mouens plura aduerſus eũ bella feliciter, geßit. Quibus magnificatus & au荒us, urbem condidit inter duos montes Mechiam & Pubecham, quam de ſuo nomine Vratislauiam noncupauit. Neque contentus prioribus ui荒orijs, nouum nepoti bellum indicit: capitalem pœnã interminans, qui gladij longitudinem æquantes in prælio deeßent. Iubet quo purpuratos ſuos falcones at accipitres ſecum afferrant, quos humana carne paſcere uelit: non ad pugnam, ſed ad cædem iturus. Postremo ſe nulli ætati parſurum dicit, ipſos ͂ la荒enes pueros ab ubere matrũ rapi at confodi mandat, mãmas͂ mulierum pullis equorum ſugendas tradi. Da Vnislav nacque Křesomysl, che fu chiamato anche Neklan, unico esempio di timore e di inerzia. Lo zio paterno [Vratislav], meditando sulla sua ignavia e pensando che fosse un ottimo strumento per sottomettere la Boemia, prendendo le armi, portò a termine con successo molte guerre contro di lui. Da queste esaltato e accresciuto in potere, [Vratislav]fondò una città tra i monti Mechia e Pubeca, che dal suo nome chiamò Vratislav. Poi, non contento delle precedenti vittorie, dichiarò al nipote una nuova guerra, minacciando la pena capitale per coloro che, alti quanto una spada, non avessero preso parte alla battaglia. Ordinò pure ai suoi dignitari di portare con sé falconi e sparvieri affinché si nutrissero di carne umana, come se stesse andando non a una battaglia, ma a un massacro. Da ultimo affermò di non voler risparmiare alcuna età e ordinò che gli stessi lattanti fossero strappati dal seno materno e venissero uccisi e che le mammelle delle donne fossero porte per essere succhiate dai piccoli puledri.
j Inſolens ſane ac ſuperbißimus, & forta﫭e crudelior quam 﫤 uicißet. Parte alia, Neclam uir muliere corruptior, trepidare atque pauere, nihil con﫤lij, nihil 﫬ei habere, ultimam uitæ ſuæ diem adueniße putare, non gladium intueri, non milites affari poße, alieno tamen du荒us con﫤lio ſe pugnæ interfuturum dicit. Et accer﫤to clam Sclercio nobili equite, figura corporis 﫤bi quam per﫤mili, animi uero fortitudine & corporis robore dißimillimo. Fuit enim manu promptißimus, & audaci animo, atque in primis rei bellicæ peritißimus. Hunc fuis armis indutum ac in﫤gnibus principalibus honestatum, quã paucißimis rem 﫤entibus, dare ducis munia iubet. Certamente [Vratislav era] tracotante, molto superbo e forse più crudele di quanto sarebbe stato se avesse vinto. D'altra parte, Neklan, uomo assai più vizioso di una donna, trepidava e aveva paura, senza più senno né speranza, ritenendo che fosse giunto l'ultimo giorno della sua vita, di non potersi affidare alla spada, né di poter chiamare a raccolta i soldati; poi, però, spinto da decisioni altrui, disse che avrebbe partecipato allo scontro. Convocò in segreto un certo Tyr Čestmír, nobile cavaliere, a lui somigliantissimo nel fisico, in realtà molto diverso per forza d'animo e vigore virile. Questi era, infatti, molto rapido nell'azione, di animo audace e soprattutto espertissimo in ambito militare. Quindi [Neklan] affida a costui, rivestito delle sue armi e decorato delle sue insegne (cosa di cui porta a conoscenza pochissimi), le funzioni di comandante.
j Multa interim uatum præsagia, fœminarum quo 﫬iritu, ut aiunt, phitonico imbutarum uaticinia exquiriuntur. Ex quibus una placandos deos hostia re﫬ondit: 﫤c enim ui荒oriam repromitti. Cui Neclam, plus religioni quam armis fidens, cæſo quem ſortes de﫤gnauere iuuene, morem geßit. In alia parte mulierem fuiße tradunt, quæ priuigno bellum petituro, Vratislaum in pugna caſurum, maiorem ͂ populi partem cum eo interituram præ dixerit: po﫭e tamen euadere iuuenem, 﫤 﫤bi crederetur. Adoleſcenti ſe credere, at imperata fa荒urum re﫬ondenti, iußi﫭e ut pergeret, quando remanere domi capitale e﫭et, primum qui obuius fieret occidere, at utras͂ aures cadenti amputare, & in pera recondere. Ex in gladio inter priores equipedes 﫤gnum crucis in terram facere: qua deoſculata, equum aſcendentem fugã maturare. Nel frattempo, s'interpretano i presagi dei vati e anche i vaticini di donne imbevute, come si dice, di spirito pitonico. Di queste una risponde che bisogna placare gli dèi con una vittima: così, infatti, si sarebbe ottenuta la vittoria. E Neklan, confidando più nelle superstizioni che nelle armi, assecondò la volontà di costei uccidendo il giovane che le sorti avevano indicato. Secondo una diversa versione, una donna aveva predetto al figliastro che si avviava alla guerra, che Vratislav sarebbe stato ucciso in battaglia e con lui sarebbe sarebbe caduta una gran parte del popolo; ma che, tuttavia, lui avrebbe potuto salvarsi se le avesse prestato fede. E al ragazzo, che rispondeva di credere e che avrebbe eseguito gli ordini, si dice abbia comandato di muoversi, dal momento che rimanere in casa era pericolosissimo, e di uccidere il primo che gli si fosse trovato di fronte, di mozzargli entrambe le orecchie e di nasconderle dentro una sacca. Quindi con la spada di tracciare per terra una croce, tra le zampe anteriori del cavallo; e fatto ciò, di montare in arcioni e affrettarsi alla fuga.  
j Pugna in campo cui Thuſco nomen est committitur, concurrunt acies, magnis utrin uiribus ac clamoribus certatur. Stat belli fortuna diu anceps, multi hinc at inde uulnurantur, prosternuntur, occiduntur. Ad ultimum Bohemi qui non pro gloria, aut ampliando imperio, ſed pro uita, pro ſocis, pro arcis, pro uxoribus ac liberis in aciem uenißent, de﫬eratione in uirtutem uerſa, audacibus animis inui荒o robore prælientes, ui荒oria potiũtur, non 﫤ne Sclercij magna laude et ſumma gloria: cuius in hoc bello, tũ ars, tũ uirtus, plurimũ ualuit. Iniziò la battaglia nel campo chiamato Tursko; accorsero schiere, si combatté da ogni parte con violenza e alti clamori. L'esito dello scontro a lungo rimase incerto: molti da una parte e dall'altra vennero feriti, abbattuti, uccisi. Alla fine i Boemi, che erano scesi in battaglia non per la gloria o per ampliare i loro domini, ma per la vita, per i loro alleati, per i loro beni, per le mogli e i figli, trasformata la disperazione in valore, combattendo con animo audace e invincibile forza, ottennero la vittoria, con grande lode e somma gloria di Štyr. Di costui, in questa guerra, ebbero soprattutto successo la perizia e il valore.
j Occiditur tamẽ inter præliãdũ, & ut iu﫭erat, in eo cãpo ſepultus est, ubi præliũ gestũ, ſua morte, uitã ducis, & patriæ liberationẽ obtinuit. Durante il combattimento, tuttavia, [Štyr] fu ucciso e, come aveva disposto, venne sepolto in quel campo dove si era svolta la battaglia. Con la sua morte ottenne la vita del kníže e la liberazione della patria.  
j Parta aũt alia, duce prostrato, ͂ paucißimi euaſerũt. Aiũt adoleſcentem, qui nouercæ iußioni paruerat, domum redeuntem, uxorem ſuam quam unix amauit, interemptam reiße, ambabus carentem auribus, pe荒us͂ confo﫭am: et qua hosti amputauerat aures, coniugis ſuæ fui﫭e, stupemem tristem͂ cognoui﫭e. Tantum præstigia po﫭unt, aut ueneficarum carmina mulierum. Diviso ciò che rimaneva, morto il capo, scamparono in pochissimi. Dicono che il giovane, il quale aveva obbedito agli ordini della matrigna, ritornato a casa, avesse trovato la moglie, l'unica donna amata, uccisa, colpita al petto e priva di entrambe le orecchie, e che avesse capito, pieno di smarrimento e di tristezza, che le orecchie mozzate al nemico erano quelle di sua moglie. Tanto possono i presagi e gli incantesimi delle donne.  
       

De infidelitate Duringi, qui Vratislai filium 﫤bi commi﫭um interfecit, pœnam͂ condignam dedit

L'infedeltà di Duryňk, che uccise il figlio di Vratislav e fu degnamente punito  
k Bohemi parta ui荒oria, occiſo Vratislao, terram eius ferro at igne deuastant: inuentum͂ Vratislai filium impuberem, principi tradunt. Qui miſertus ætatis, patruelem educandum Duringo, ad Egram fluuium imperium poßidenti, Vratislao gratißimo quondam comiti tradidit. Qui cæca cupidine captus, tan͂ initurus principis gratiam, puero qui ſuper Egram, qui tũ glacie constri荒us erat, perfra荒o gelu piſces quærenti, gladio caput abstulit: ſecum Pragam deferens, ubi ad Neclam introdu荒us est proferens cruentum caput, foliũ, inquit, tuum hodie firmaui, aut perire hoc, aut te oportuit. Securius in utramuis aurẽ post hac dormies: emulo regni ſublato. Ottenuta la vittoria e ucciso Vratislav, i Boemi misero il suo territorio a ferro e a fuoco, quindi, trovato il figlio di Vratislav, ancora fanciullo, lo consegnarono al kníže. Questi, avendo compassione della sua età, affidò il cugino, affinché venisse educato, a Duryňk, un tempo carissimo amico di Vratislav, il quale aveva la sua giurisdizione vicino al fiume Ohře. Ma poi, preso da cieca cupidigia, ma anche per entrare nelle grazie del principe, [condusse] il bambino sull'Ohře, allora gelato, e dopo aver spezzato il ghiaccio come per cercare pesci, gli mozzò la testa con la spada per poi portarla a Praga. Fu introdotto presso Neklan, e mostrando il capo insanguinato, disse: «Oggi ho consolidato il tuo trono; era necessario che morisse costui, o tu stesso. Ora, dormirai più sicuro con entrambe le orecchie, essendo stato tolto di mezzo il rivale del regno».  
k Motus haud aliter ͂ erat princeps tam diro 﫬e荒aculo: perfidiam, ait, nulla beneficia uincunt. Vt aleres puerum, non ut occideres, dredidi. Te ne meum imperium, ne amici memoria, ne innocentis pupilli miſeratio retraxit ab ſcelere. At mihi quietem parare uoluisti. Tui ergo meriti hæc ſumito præmia. Ex tribus mortibus, quam malueris optionem habeto: aut gladio te ipsum confodito, aut laqueo perstringito guttur, aut ex Vißegraden﫤s rupe preceps ruito. Non altrimenti si commesse il kníže per tanto crudele spettacolo, e disse: «Nessun beneficio può meritare la perfidia. Ti ho affidato il ragazzo perché tu lo facessi crescere, non per ucciderlo. Non ti hanno trattenuto da questo misfatto né il tuo potere, né il ricordo dell'amico, ne la pietà per un fanciullo innocente. Ma hai voluto badare alla mia tranquillità. Perciò prenditi questi premi per i tuoi meriti. Di tre tipi di morte avrai la scelta, come preferisci: o trafiggerai te stesso con la spada, o ti serrerai la gola con un nodo scorsoio, o rovinerai precipitando dalla rupe di Vyšehrad».  
k Duringus accepta ſententia, in alni arbore, quæ propinqua fuit ſeſe ſu﫬ẽndit: alnus postea quamdiu reman﫤t, arbor Duringa di荒a est. Duryňk, udita la sentenza, si appese a un ontano che si trovava nei pressi. In seguito l'ontano, per tutto il tempo che rimase là, fu detto l'albero di Duryňk.  
       

De Nostirico none, et Bor﫤uoio decimo Bohemorum ducibus. Qui & ultimus Paganorum, ducum fuit, & tandem cum uxore ſua fidẽ Christi ſuſcipiẽs baptizatus estst

Hostivít e Bořivoj, nono e decimo knížata dei Boemi. Bořivoj fu l'ultimo kníže pagano. Finalmente, poi, accettando la fede in Cristo, con sua moglie fu battezzato  
l Neclam ultro moriens, Nostiricum maiorem natu filium hæredem instituit, Dipoldo prouinciã Surimenſem testamento dimi﫤t. Nostirico Bor﫤uoius filius ſucceßit, ultimus Paganorũ ducum: qui tamen et ipſe imperante Arnulfo Cæſare, a beato Methodio Morauorum archiepiſcopo, cum Ludmilla coniuge ad baptiſmi gratiã percu荒us est: Nongente﫤mo nonage﫤mo quinto anno post Christi ſaluatoris nostri ortum. Ludmilla ſan荒a mulier habita, etiam miraculis clurui﫭e fertur. Neklan, morendo in modo naturale, nominò erede Hostivít, il figlio maggiore, e lasciò la provincia di Kouřim a [suo fratello] Děpolt. A Hostivít succedette il figlio Bořivoj, ultimo dei knížata pagani. Egli, tuttavia, sotto il governo dell'imperatore Arnulf, fu condotto alla grazia del battesimo dal beato Methódios, arcivescovo dei Moravané, insieme alla moglie Ludmila: novecentonovantacinque anni dopo la nascita di Cristo nostro Salvatore. Si tramanda che Ludmila, considerata santa, ebbe fama anche per i suoi miracoli.
       

NOTE

Le regioni storiche della Repubblica Ceca

a ― La suddivisione che Enea Silvio Piccolomini fa della Boemia, riflette l'attuale ripartizione della Repubblica Ceca in tre territori storici o země: la Boemia [Čechy, ted. Böhmen], che da sola occupa i due terzi occidentali del Paese, la Moravia [Morava, ted. Mähren], che ne è la parte orientale, e la Slesia ceca [České Slezsko, ted. Tschechisch-Schlesien, pol. Śląsk Czeski]. Il territorio dei Moravi sconfina in realtà nella Slovacchia occidentale (Moravské Slovácko), nell'Ungheria settentrionale e anche in Austria. In quanto alla Slesia, essa si trova solo in minima parte all'interno dell'odierna repubblica Ceca: il territorio storico degli Slesi si estende soprattutto in Polonia, dove occupa un'ampia regione (la Slesia, appunto; pol. Śląsk); sebbene gli Slesi cèchi parlino un dialetto ceco, quelli polacchi hanno conservato il loro linguaggio, di ceppo lechitico.

a4 ― Nel Sacro Romano Impero, il titolo di Voigt/Vogt era conferito a un nobile, generalmente un feudatario, che esercitava la giurisdizione e la protezione militare su un dato territorio. Il termine derivava dal latino medievale [ad]vocatus, conferito inizialmente a un laico preposta alla tutela di enti e istituzioni ecclesiastiche (vescovadi, monasteri, abbazie). L'istituzione, quanto il titolo, in seguito diffusi in buona parte d'Europa (olandese voogd, danese foged, svedese fogde, finlandese vouti, polacco wójt), si sarebbero conservati, nelle aree periferiche, fino alla fine del XVIII secolo. Con terra Advocatorum Piccolomini intende il Vogtland, una regione situata tra gli attuali Länder tedeschi del Bayern, Sachsen e Thüringen, e il kraj Karlovy Vary nell'attuale Repubblica Ceca.

a ― La cattedrale di san Vitus, a cui accenna Piccolomini, è in realtà la grande cattedrale gotica dedicata ai santi Vít, Václav e Vojtěch (Vito, Venceslao e Adalberto), che domina Praha, la cui costruzione ha avuto inizio nel 1344 ed è stata completata soltanto nel 1929. ― I tradizionali colli di Praha sono nove: Letná, Vítkov, Opyš, Větrov, Skalka, Emauzy, Vyšehrad, Karlov e il più alto, Petřín, da cui il titolo di «Roma del nord» [Řím severu]; non risulta un colle dedicato a santa Caterina, sebbene forse Piccolomini si riferisce all'area dove sorge il Kostel svaté Kateřiny, chiesa e monastero dedicati a santa Caterina d'Alessandria.

a ― Le due Broda sono, rispettivamente, Český Brod, nel kraj Středočeský, e Havlíčkův Brod (ma Německý Brod, ted. Deutschbrod, fino al 1945), nel kraj Vysočina.

a ― Si tratta di Domenico Capranica (1400-1458), cardinale di Fermo. Papa Martinus V (♗ 1417-1431) lo creò cardinale nel 1426, ma l'incarico gli fu contestato e, dopo la morte del pontefice, il nuovo papa Eugenius IV (♗ 1431-1447) rifiutò di riconoscergli il cardinalato. Enea Piccolomini accompagnò Capranica al concilio di Basel, in qualità di suo segretario, e assolse molti delicati incarichi per suo conto. Importante umanista, filologo, cultore di studi teologici e filosofici, autore di trattati di argomento ecclesiastico, politico e morale, raccolse importanti codici poi confluiti nella Biblioteca Apostolica Vaticana e fondò il Collegio dei poveri scolari della Sapienza Firmana, oggi Almo Collegio Capranica. Probabilmente destinato a succedere a papa Callistus III (♗ 1455-1458), morì sei giorni dopo il pontefice, e al suo posto venne eletto il suo ex segretario, Enea Piccolomini.

f ― Ci si riferisce qui a Karl IV di Luxemburg, imperatore del Sacro Romano Impero (♔ 1347-1378), che fu anche re di Boemia con il nome di Karel I (♔ 1346-1378). Suo figlio Sigismond, re di Boemia (♔ 1419-1437), quindi imperatore (♔ 1433-1437), fu uno dei maggiori protagonisti della Controriforma, peraltro responsabile della condanna a morte di Jan Hus (1415) e della crociata contro gli Hussiti.

i ― In cèco i nomi Přemysl e Nezamysl significano «[colui che] pensa prima» e «[colui che] pensa dopo», dal verbo myslet «pensare», da mysl «mente, pensiero» (da un antico slavo myslĭ, cfr. russo mysl', polacco myśl, serbocroato mȋsao, etc.).

i ― Secondo Dubravius, furono i Łusaziani, che «lasciati i monti della Łužyca superiore, si spostavano verso le pianure boschive abitate dai Žatecký, oggi detti Lučané» [pleri deſertis in ſuperiore Luſatia jugis montium, ad plana & ſaltuoſa loca, qualia Zatecenſes incolunt, Lucenſes inde cognominati, immigrabant], e quindi sarebbero stati gli Žatecký a venire poi chiamati Lučané, e non viceversa (Regni Bohemiae Historia [V c])

j ― Piccolomini confonde Křesomysl con Neklan, di fatto identificando i due sovrani, distinti da tutti gli altri cronisti. La vicenda che segue riguarda ovviamente Neklan. ― Vrastislav è nome ceco dell'attuale città polacca di Wrocław, nel województwo della Bassa Slesia [Dolnośląskie].

j ― Il personaggio di Čestmír è qui chiamato, per qualche lunga serie di adattamenti, «Sclercio»; in Dubravius era «Siderius».

j ― Tursko è un piccolo villaggio della Boemia centrale (Středočeský kraj). La battaglia, però, è certamente ispirata a quella combattuta presso il villaggio polacco di Tursko Wielkie (województwo di Świętokrzyskie), nel corso della prima invasione mongola di Polonia, il 13 febbraio 1241. Le forze della ziemia di Kraków furono debellate da quelle di Baïdar Qan.

l ― Sono da intendere come lapsus calami di Piccolomini o dei suoi editori le grafie presenti in questo capitolo: la lezione «Nostiricus», in luogo di Hostivít, è probabilmente causata da un'errata lettura di H in N. Per quanto riguarda il nome latino della provincia di Kouřim, Gurimen, la lezione «Surimen» è dovuta anche qui da una facile confusione tra G ed S. ― Bořivoj, il primo kníže di Boemia a cui si possa assegnare un sicuro valore storico (♔ ±870-±889), fu marito di svatá Ludmila; entrambi vennero battezzati dal vescovo Methódios, evangelizzatore degli Slavi, intorno all'883. L'imperatore qui citato è, con ogni probabilità, Arnulf di Carinzia (♔ 896-899). La data assegnata da Piccolomini alla conversione di Bořivoj, 995 anni dopo la nascita di Cristo, è certamente un errore del testo.

Bibliografia

  • VILLAR Francisco: Los Indoeuropeos y lor orígenes de Europa. Lenguaje e historia. Gregos, Madrid 1996. → ID.: Gli indoeuropei e le origini dell'Europa. Il Mulino, Bologna 1997.

BIBLIOGRAFIA
Archivio: Biblioteca - Guglielmo da Baskerville
Area: Slava - Koščej Vessmertij
Traduzione di: Giuseppina Gatti.
Cura e note di:
Dario Giansanti.
Creazione pagina: 18.12.2010
Ultima modifica: 02.12.2015
 
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