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Regni Bohemiae historiae
Schema
REGNI BOHEMIAE HISTORIAE - Saggio
REGNI BOHEMIAE HISTORIAE - Testo
Note
Appendice
Bibliografia
Titolo Regni Bohemiae Historiae
Autore Ioannes Dubravius (Jan Skála z Doubravky a Hradiště, 1486-1553)
Genere Cronaca storica
Lingua Latino
Epoca 1552
IOANNES DUBRAVIUS
REGNI BOHEMIAE HISTORIAE
Ioannes Dubravius

Ioannes Dubravius

Jan Skála z Doubravky a Hradiště, latinizzato in Ioannes Dubravius, nacque a Plzeň nel 1486, da una famiglia cattolica benestante. Studiò dapprima a Wien, dove ebbe per insegnante l'erudito e poeta Conrad Celtis (pseudonimo di Konrad Pyckell, 1459-1508), e dove acquisì un'ottima conoscenza del latino e del greco. Si spostò in seguito a Padova, dove studiò teologia e ottenne il titolo di dottore in diritto canonico.

Dopo il ritorno in patria, all'incirca nel 1509, Dubravius divenne segretario del vescovo di Olomouc, Stanislav Thurzó (♗ 1497-1540), e nel 1513 fu nominato arcidiacono e quindi prevosto a Kroměříž e Olbramkostel. Nel 1518 tornò in Italia, membro della delegazione che combinò il matrimonio tra re Zygmunt I di Polonia e Bona Sforza d'Aragona. Nel 1522, il vescovo affidò a Dubravius anche il delicato compito di convincere il pastore di Jihlava, il luterano Pavel Sperát, a rientrare nella chiesa cattolica. L'incontro non ebbe i risultati sperati e, nel processo che venne tenuto a Olomouc, in presenza di Ludvík II Jagellonský e re di Boemia e d'Ungheria (♔ 1516-1526), Sperát venne condannato a essere arso vivo sul rogo. In seguito, tuttavia, la sentenza sarebbe stata commutata in esilio. Lo stesso anno, il re insignì Dubravius del titolo di cavaliere.

Nel 1521 l'impero ottomano, guidato dal sulṭān Süleymān I, invase l'Ungheria. Re Ludvík chiese al vescovo Thurzó di contribuire all'organizzazione della difesa e costui nominò Dubravius suo consigliere e rappresentante. Ludvík morì nel 1526, nel corso della battaglia di Mohács, decisiva per gli Ottomani, i quali ottennero così il controllo dell'Ungheria meridionale come base per i loro attacchi verso l'Europa centro-orientale. Poiché il re non aveva figli, la situazione si fece piuttosto confusa e i nobili ungheresi elessero simultaneamente due re: Szapolyai János (1487-1540) e Ferdinand I Habsburg (1503–1564). Entrambi traevano il proprio diritto al trono di Boemia e d'Ungheria semplicemente dal matrimonio: il primo aveva infatti sposato la cugina del defunto sovrano, Izabela Jagiellonka, figlia di Zygmunt I, il secondo Anna Jagellonská, sorella di Ludvík. Vinse Ferdinand, che nel 1527 fu incoronato re di Boemia e d'Ungheria, e in seguito sarebbe anche divenuto imperatore del Sacro Romano Impero (♔ 1558-1564). Intanto, riconosciuto il contributo di Dubravius nelle molte delicate situazioni in cui aveva contribuito a difendere gli interessi del regno sia in patria che all'estero, subito dopo la battaglia di Mohács gli venne concessa la proprietà del castello e della cittadina morava di Břeclav.

Nel 1541, l'anno successivo la morte del vescovo Thurzó, gli succedette nella carica di vescovo di Olomouc l'erudito moravo Bernard Zoubek ze Zdětína, che però attese invano la conferma papale. Morto anche Bernard, nel 1542 toccò finalmente a Dubravius essere eletto vescovo di Olomouc.

Dubravius morì a Kroměříže il 9 settembre del 1553, stroncato da un infarto.

Politica, storia e allevamento dei pesci: le opere di un singolare umanista

Ioannes Dubravius rappresenta un ottimo esempio di uomo dell'Umanesimo, a suo agio tanto nelle lettere e nella filosofia, quanto nell'attività politica e nelle convulse polemiche religiose del suo tempo. La sua vastità di interessi si riflette nella varietà di opere da lui composte.

Durante il periodo degli studi viennesi, intorno al 1516, scrisse un commentario al Nuptiae Mercurii cum Philologia, singolare enciclopedia filosofico-allegorica, mista di versi e prosa, di Martianus Capella (V sec.). L'opera venne in seguito dedicata al vescovo Thurzó. Un altro suo lavoro interessante è il Theriobulia Ioannis Dubravii iurisconsulti et equitis aurati De regiis praeceptis, una sorta di raccolta di favole con protagonisti animali, nella quale si riconoscono personali esperienze dell'autore (come ad esempio la festa di matrimonio tra re Zygmunt I e Bona Sforza). Il libro fu pubblicato nel 1520 a Nürnberg, sembra, in maniera non esattamente legale. A queste due opere, già molto diverse tra loro, Dubravius alterna una composizione teologica, i Commentarii in V Davidis psalmum.

Dubravius compose anche alcune raccolte di istruzioni sul buon governo dedicate ai sovrani di cui era consigliere e confidente, tra cui appunto re Zygmunt I di Polonia (♔ 1506-1548), al quale sono rivolte rispettivamente una Oratio ad regem Sigismundum Poloniae de Auxilia contra Turcas, una Orantiuncula in nuptiis regis Poloniae Sigismund iunioris (in occasione del matrimonio del figlio, il futuro Zygmunt II August), per concludere infine con una Oratio funebris in Sigismund regis Poloniae exequiis. Sulla falsariga di questi testi «politici» d'occasione, si può ascrivere anche la nostra Regni Bohemiae historiae, scritta nel 1552 per il futuro imperatore Maximilian II Habsburg (♔ 1563-1576), così da istruirlo sulla storia e sulla geografia del paese che era destinato a governare.

Ma l'opera più popolare di Dubravius è un ponderoso trattato di carpicoltura, il Libellus de piscinis et piscium, qui in eis aluntur natura, scritto tra il 1535 e il 1540. Il testo, sviluppato in cinque libri e quarantacinque capitoli, tratta dell'allevamento del Cyprinus carpius, di cui esisteva anche una varietà senza squame, la nuda bohemica, ottenuta dagli allevatori boemi già intorno al IX-X sec. A dispetto della mole, il libro ebbe una notevole popolarità: in pochi anni ne furono stampate molte edizioni, diffuse in tutta Europa. Le tecniche di allevamento formulate da Dubravius furono fondamentali per lo sviluppo delle peschiere in Boemia, e si sono mantenute fin quasi ai nostri giorni.

La Regni Bohemiae historiae

La Regni Bohemiae historiae, completata nel 1552, prende l'avvio dalle origini del popolo boemo, di cui riferisce in dettaglio molte delle vicende principali, pur senza indulgere particolarmente nel dettaglio fantasioso, e si conclude alla fine del regno di re Ludvík, con l'incoronazione di Ferdinand I Habsburg a re di Boemia e d'Ungheria, avvenuta a Praha il 24 febbraio 1527. Tra le fonti utilizzate, si riconosce l'influenza di Václav Hájek. L'opera, in 33 libri, viene fatta solitamente seguire da un Catalogus episcoporum Olomucensium, uno scritto precedente, in cui Dubravius tratta rapidamente le vite dei vescovi insigniti alla diocesi di Olomouc, fino a Stanislav Thurzó.

La nostra edizione dei primi tre libri della Regni Bohemiae historiae si basa su un libro stampato a Frankfürt nel 1687, nella tipografia di Johannes Philippus Andreæ.

IOANNES DUBRAVIUS
REGNI BOHEMIAE HISTORIAE
Libro primo
Contenuto dell'opera
Origini della gente di Boemia
  1. Čech
  2. Krok
  3. Libuše e le sue sorelle

    Libro secondo
  4. Přemysl
    Vlasta
    Ctirad e Šárka
  5. Nezamysl
  6. Mnata
  7. Vojen
  8. Vnislav e Vratislav
  9. Křesomysl

    Libro terzo
  10. Neklan
  11. Hostivít

    Libro quarto
  12. Bořivoj
       
LIBER PRIMUS LIBRO PRIMO  
       
Proportio operis Contenuto dell'opera  
a

Principum Regni Bohemiæ, ipſorumque Regum nomina, ac mox fa荒a illustria commemoraturo, jam inde à principio repetendum videtur de 﫤tu Bohemiæ, ejuſ dotibus, deque incolarum moribus atque origine, & ad quem modũ Bohemi reipublicæ præfuerint, priuſquam 﫤bi aut Principes aut Reges adſciſcerent. Nimirum ita magis plana apertaque erunt omnia, quæ deinceps de illis ip﫤s Regibus prodituri ſumus.

Richiamerò alla memoria i nomi dei knížata e degli stessi re, e subito dopo i fatti più illustri del regno di Boemia. Dal principio ricapitolerò su dove si trovi la Boemia, sulle sue ricchezze, sui costumi e sulle origini dei suoi abitanti; in qual modo i Čechové si governarono prima ancora di eleggere i loro knížata e re. Così certamente saranno più semplici e chiare le notizie che in seguito produrremo su quegli stessi sovrani.

a Nam val inde statim argumentum decerpere licet, quantum illi ip﫤 Principes, vel Reges magnitudine animi viribuſque excelluerint: quòd quum valentiſ﫤mis atque bellico﫤ſ﫤mis, & per diſcordiam morum, atque linguæ, inimiciſ﫤mis interje荒i effent nationibus, nihilominus tamen regionem à majoribus fuis partam atque reli荒am non ſolum perpetuo incolumem retinuerint, ſed quod eandem etiam finitimis præterea trophæis ac triumphis exornatam, multarumque provinciarum adau荒am, ad posteros ſuos velut per manus tranſmiſerint. Quindi conviene subito affrontare l'argomento di quanto questi stessi knížata o re si siano distinti per grandezza d'animo e valore. Pur essendo appartenuti a genti assai valorose e battagliere, nemiche per contrasto di costumi e di lingua, nondimeno non solo riuscirono a mantenere per sempre unita quella terra divisa e abbandonata dai loro antenati, ma per di più, la consegnarono per mano ai loro successori, adornata di trofei e di gloria, e accresciuta di [nuove] province.  
a Idque eo potiſ﫤mum tempore, quo Germani Cæſaribus, Pannones Regibus, Poloni qua Principibus, qua Regibus, (ut cum aliàs maximè) florebant. Sed ista ſuis locis tempestivius narrabuntur. Nunc quod ad 﫤tum, fineſque Bohemiæ attinet, dicemus. E ciò soprattutto nel tempo in cui i Germani eccellevano di cesari, i Pannoni di re, i Poloni tanto di duchi quanto di re (come sarebbe accaduto soprattutto in seguito). Ma su tali cose narreremo a suo tempo. Ora diremo ciò che attiene al sito e ai confini della Boemia.  
  Situs Bohemus Il sito boemo  
b In Germania 﫤ta est Bohemia, ea fines ab ortu Solis ad Marcomannos & Quados, ab occaſu ad Noricos protendit. Maridionalem ejus plagam Pannonia ſuperior, nunc Austria di荒a, occupat: 﫤cut Saxonia & Miſnia, Septentrionalem. Univerſam Hercynia ſylva perpetuo ambitu cingit, clauditque circum undique ad Amphitheatri faciem. Unde æqua ei fere longitudo atque latitudo, atque utraque paulò amplius ducentis millibus paſſuum extenditur. La Boemia è situata in Germania. Essa protende i suoi confini a oriente verso i Marcomanni e i Quadi, a occidente verso il Norico. La Pannonia Superior, ora detta Austria, ne occupa la zona meridionale, mentre la Sassonia e la regione di Míšeň [ne occupano] la settentrionale. La Hercynia silva la cinge tutta in un giro ininterrotto, circondandola a guisa d'anfiteatro. Per cui, quasi uguale in lunghezza e larghezza, [la Boemia] si estende da entrambe le parti per poco più di duecentomila passi.
  Bohemia regiones XII Le dodici regioni boeme  
c Carolus Bohemiæ Rex, qui deinde imperio etiam orbis præfuit, in regiones illam duodecim deſcrip﫤t, quarum uni duntaxat vocabulum à flumine Vultavia, quod Pragam interfluit, indidit: reliquas undecim ab oppidis cognominavit. Sed nulla eorum adeò aſpera prolatu habentur, ut ni﫤 Bohemus 﫤t, aut ſermonis Bohemi gnarus, ægrè illa alio ore enunciaverit. Inter oppida Bohemiæ in﫤gniora numerantur, Marcomanniam verſus, quæ hodiæ Moravia appellatur. Chrudima, Hradecium Reginæ, Pardubicium, Lytomiſ﫤um. Karel, re di Boemia – che in seguito regnò anche sull'impero universale – la divise in dodici regioni, a una sola delle quali impose il nome del fiume Vltava, che bagna Praha; le altre undici le nominò dai loro villaggi. Ma nessuna di esse è ritenuta così aspra a pronunciarsi, tanto che a stento riuscirai a esprimerla se non sei boemo, o esperto di lingua boema. Tra i villaggi della Boemia vengono annoverati come i più importanti quelli verso la Marcomannia, oggi detta Moravia: Chrudim, Hradec Králové, Pardubice e Litomyšl.
  Vrbes Bohemia Le città della Boemia  
d Inde à limite Noricorum, quos Bavaros cognominant, Glatovia, Domezlicium, Miſa, Tachovia, eminent. Ab eo verò latere, quod ad Austriam ſpe荒at, locum primum obtinet Buduicium Crumlovia, Trebonia, Hradecium Henrici, Sicut à Miſnia, Pons, Cadana, Chomutovia, Austia. Nam Quadis, nunc Sle﫤tis, Hiaromirum, Glacium, Curia, & quædam alia oppida proximant. Introrſus porrò celebrantur, Cuthna, Colonia, Pel﫤na, Verona, Zatecium, Launa, Lana, Lytomericium, Taborium. Quindi, dal confine dei Norici, anche chiamati Bavari, prevalgono Klatovy, Domažlice, Stříbro, Tachov. Mentre, dal lato che guarda l'Austria, c'è in primo luogo Český Krumlov; quindi Třeboň, Jindřichův Hradec, la stessa Míšeň, Most, Kadaň, Chomutov, Ústí. E poi, ai Quadi, ora Slezané, sono prossime Jaroměř, Kladsko, Chořov e altri villaggi. Dall'interno, più avanti, sono nominati Kutná, Kolín, Plzeň (o Pštína?), Beroun, Žatec, Louny, Wleń, Litoměřice, Tábor.
  Praha regni caput Praha, capitale del regno  
e Cæterum omnibus antestat Praha, tanta magnitudine urbs, ut una tres ampliſ﫤mas urbes complecatur, Veterem, Novam, & tertiam, quam Parvam vocant, à duabus prioribus, flumine Vultavia diſjun荒am. Ædificia in 﫤ngulis, tam privata, quàm publica, dignitatis plena & magnificentiæ. Duas præterea poſ﫤det arces, alteram Viſſegradum appelant, quondam Regum ſedes, nunc bellorum civilium injuria, vasta, & penè deſolata. Contrà, illa altera arx, quæ minorem Pragam deſpe荒at, quemadmodum dicitur, ita jure optimo haberi debet, Regia. Quippe, non arcis modò, ſed urbis potius ſpeciem rapræſentare videtur, tantùm videlicet loci mœnibus, ædificiiſque occupat. Palmam inter publica opera ferunt, Templum & Palatium illud Caroli, cujus statim mentionem fecimus, hoc Vladi﫩ai Regis nuper vita fun荒i opus. Ma su tutte primeggia Praha, centro di tale grandezza che in una sono comprese tre grandi città: l'Antica, la Nuova e, per terza, la cosiddetta Piccola, separata dalle due precedenti dal fiume Vltava. In ciascuna, gli edifici sia privati che pubblici sono di grande lusso e dignità. Praha possiede inoltre due rocche, una detta Vyšehrad, un tempo dimora del re, ora danneggiata dalle guerre civili e quasi abbandonata. Al contrario, l'altra rocca, che sovrasta la cosiddetta Praha minore, a buon diritto dovrebbe essere definita degna di un re. E certamente, non sembra soltanto una fortezza, ma piuttosto una città, visto il gran spazio che occupa con le mura e gli edifici. Tra le opere pubbliche eccellevano il tempio e il palazzo del summenzionato re Karel, a cui ha messo mano re Vladislav, da poco deceduto.
  Albis fluvius, Labe Bohemís Il fiume Elba, il Labe di Boemia  
f Quantum autem inter urbes Praha, tantum inter flumina Albis flumen (ut re荒è Tacitus ait) inclytum & notum ſupereminet. Sed hoc idem Tacitus, de illo, parum exploratè, quod in Hermunduris oriri addiderit. Non enim apud Hermunduros Albis, ſed apud Bohemos oritur, in motnibus, quos illà ip﫤 Bohemi Cerconeſſos appelant, Septentrioni obtentos, & Moravis vicinos. Ex quibus ille, profluens, magnam Bohemiæ partem, ac ferè meliorem irrigat: & postquam cæteros indigenas fluvios, nempe Vultaviam, Egram, Saſavam, Gilferum, Miſam exhau﫤t, au荒ior aquis fa荒us, inde ad Miſnios & Saxones, postremò in Oceanum, nomine ubique ſuo evolvitur, Salmone piſce inprimis fæcundus, Ma così come Praha sovrasta le città, altrettanto l'Elba sovrasta i fiumi (come giustamente nota Tacitus) per fama e rinomanza. Ma riguardo a questo fiume, lo stesso Tacitus non è molto preciso, dal momento che afferma che esso nasce presso gli Hermunduri. Infatti l'Elba non nasce presso gli Hermunduri, ma presso i Čechové, sui monti che gli stessi Boemi chiamano Krkonoše, distesi a settentrione e vicini ai Moravi. E scorrendo da quelli, irriga gran parte della Boemia, quasi la migliore, e dopo aver raccolto le acque degli altri fiumi del luogo – la Vltava, l'Ohře, la Sázava, l'Havola (?), il Mže – gonfio d'acqua si getta alla fine nell'oceano, chiamato ovunque con il suo nome e ricco soprattutto di salmoni.
f At minores in Bohemia fluvii, rivulique, alicubi ramenta auri provolvunt, alibi conchulas alunt, è quibus uniones eruuntur. Fontes autem calidi, aliquot in locis erumpentes, non modò lavandi voluptatem, ſed auxilia etiam medendi hominibus afferunt. Porrò ipſum ſolum adeò frugum ferax & copioſum est, ut & has vicinis quoque regionibus largè ſuppeditet. Vina tamen parcius exhibet, & quæ nata ibi ſunt, languidiora apparent, quàm ut ætatem bene ferre queant. In Boemia, per contro, anche i fiumi minori e i ruscelli da un lato rivoltano sabbia aurifera, dall'altro alimentano molluschi dalle cui conchiglie si ricavano perle. E le fonti calde, che erompono in certi posti, dànno agli uomini non solo il piacere di lavarsi ma anche rimedi per curarsi. Il terreno stesso è così ferace e abbondante di messi, da sopperire abbondantemente anche alle regioni vicine. Più scarsa, tuttavia, è la produzione di vini, e quelli prodotti in Boemia sono più leggeri e non durano quanto potrebbero.  
  Dotes & delicia soli Bohemici Ricchezze e delizie del suolo boemo  
g Contra croco in Bohemmia ſato inſunt cun荒a, quæ in peregrino pretioſa habentur, ſuccus, color & odor: jam illa rara, ac prorſus beata telluris dos, quòd ex veniſejus tanta ubertate argentum affluit, ut ni﫤 parum aliquid filicis ad eas venas ſe admiſeeret, nihil extra argentu, haurires, cum alibi argentariæ valde dites eſſe perhibeantur, in quibus metalla, quarta ſui aut quinta, vel cum feliciſ﫤mè, media parte argentea inveniuntur. Al contrario, i prodotti dei biondi campi di Boemia hanno tutte quelle qualità che all'esterno sono ritenute preziose, come il succo, il colore, l'odore. E la ricca terra [di Boemia] porta un'altra rara e splendida dote, in quanto dalle sue vene affluisce argento, e in tale quantità che, se non si mescolasse alla pietra, non potresti estrarre niente se non argento. Altrove sono invece ritenute ricche le miniere nelle quali il metallo costituisce la quarta o la quinta parte o, in casi fortunati, quando si trova argento per metà.
g Quin aurum quoque ipſum tale statim, quale nativæ venæ ferunt, in puteis effoditur, qui de loco Gilova cognomen ſuum trahunt. Tenet fama Regibus Bohemiæ ſæpius inde allatas fuiſſe micas aureas puti auri, quarum 﫤ngulæ pondo denum librarum graves erant. Sed nec vilioribus metallis destituitur, nempe stanno, plumbo, ære, ferro. Ostentatque præterea carbunculum, calaim, amethistum, ex cotibus ſuis metallicis abruptum. Anche lo stesso oro, tale e quale affiora nelle vene naturali, si scava nei pozzi del luogo detto Jílové. Si perpetua la fama che da uno di quei pozzi fossero stati portati ai re di Boemia dei pezzi d'oro, ciascuno del peso di dieci once. Ma non si tralascia [di parlare] di metalli più vili, cioè di stagno, piombo, rame, ferro. [La Boemia], inoltre, presenta il carbonchio, il calamo (?), l'ametista, estratti dalle sue rocce metallifere.  
g Ceterùm ſecumduòm metalla non alia res magis Bohemos, quàm piſcinæ, quæ Cyprinos piſces alunt, locupletat, id quod aliàs offendimus edito de piſcinis libello. Dopo i metalli nessun'altra cosa arricchisce i Boemi più delle vasche dove si allevano i ciprinidi. Questo argomento è stato da noi affrontato in precedenza, nel libretto sulle piscine di allevamento.
  Natura moresque Bohemorum Natura e costumi dei Boemi  
h Nunc mores incolarum reddentur. Igitur ut verba ad compendium conferam, tum morum, tum ip﫤us habitus, quem corpore Bohemi præ ſe ferunt, leo animalium genero﫤ſ﫤mus, cujus ſyderi Bohemi ſubjacent, qua﫤 guandam imaginem exprimere videtur, 﫤 vel celſam Bohemorum proceritatem, vel latum & validum pe荒us, vel rigidam fulviſque comis vestitam cervicem: 﫤 deinde vocis ſonum arduum, 﫤 oculos micantes, 﫤 robur & fiduciam virium intueri volueris. Solet item leo contemptu in alia animantia, & nonnullo fastu turgere ægreque exarmari, præſertim 﫤 per ferociam eum aggrediare. Ora saranno trattati i costumi degli abitanti. Per dirla in breve, il comportamento e l'aspetto fisico dei Boemi possono essere simboleggiati dall'immagine del leone, il più gagliardo degli animali, sotto il cui segno soggiacciono i Boemi; sia che tu voglia considerare l'alta statura dei Boemi, o il petto largo e forte, o la testa diritta coperta di rossi capelli; sia il forte suono della voce o gli occhi brillanti; sia la resistenza e la fiducia nelle proprie forze. Parimenti il leone è arrogante verso gli altri animali, s'inorgoglisce in superbia, e difficilmente si lascia cogliere inerme, specie se lo si aggredisce con violenza.  
h Nec ab hac parte Bohemus degenerat, ſed contemptum libenter erga alios verbo fa荒oque ostentat ſuum, ipſamque adeò arrogantiam, inceſſu, gestu, pompa prodit. Est & feroculus cum fastidioſe tra荒atur, inſuper au﫤ſperinde ut leo promptus, atque in his exequendis firmus & validus, interim tamen ambitioſus & glorioſus. Rurſuſque, uti leo, cibi avidus, atque in eo condiendo instruendoque immodicè effuſus: vicini præterea Saxones eundem docuerunt no荒urno certare mero, putere diurno. Sed neque in cæteris quoque moribus Bohemi longe à Germanis divortunt propter eandem vicinitatem. Né da questo lato il boemo è da meno. Ma volentieri dimostra disprezzo verso gli altri, sia nelle parole che nei fatti, e si mostra arrogante nell'incedere, nei gesti, nella boria. È anche aggressivo quando viene provocato. Di fronte ai coraggiosi è pronto come un leone e, nel seguirli, sicuro e forte. Talora, tuttavia, è ambizioso e orgoglioso. E di nuovo è come il leone avido di cibo, che condisce e prepara con abbondanza quasi esagerata. Tra l'altro i vicini Sassoni attestano che combatte solo di notte e puzza di giorno. Ma a causa della vicinanza, i costumi dei Boemi non differiscono molto da quelli dei Germani.  
h Ha荒enus de natura & moribus: ſequitur gentis origo, in hunc uſque diem per incerta aut per fabulas evulgata. Si è detto finora sulla natura e sui costumi. Segue l'origine della popolazione, divulgata fino ad oggi per mezzo di notizie incerte o di leggende.  
  Gentis primordia Origini della gente [di Boemia]  
i Nam quid fabulo﫤us, quàm originem referre velle ad divi﫤onem confu﫤onemque linguarum, quæ tunc fa荒a fuiſſe dicitur, cum in ſolo Babylonio turris Babel ædificaretur. Nam 﫤 vetus origo placuit, utique tutti illa vetustior Adamus omnium gentium communis parens erit. Quare nugis omiſ﫤s, veram narrationem de origine Bohemorum, qui hac ætate Bohemiam incolunt perfequamur, 﫤 paucis ante indicaverimus, unde natum 﫤t Bohemiæ vocabulum: Non aliunde videlicet, quàm à Bojis, gente Gallica, ad mutandas ſedes facili. E infatti, che cosa c'è di più favoloso che ricondurre l'origine  [dei popoli] alla divisione e alla confusione delle lingue, che si dice fossero avvenute al tempo in cui fu innalzata, sulla terra babilonese, la torre di Babele? E se ci piace l'antica leggenda, ancora più antica sarà quella di Adamo, che fu padre comune di tutte le genti. Perciò, abbandonate le chiacchiere, proseguiamo con la vera storia sull'origine dei Boemi, odierni abitanti della Boemia. Dapprima indicheremo in breve da dove sia venuto il termine di Boemia: non altrimenti, cioè, che dai Boi, popolazione gallica dalle facili migrazioni.  
  Etymon populi Bohemi Etimologia del popolo boemo  
j Lege Livium ab urbe condita libro quinto, de tran﫤tu in Italiam Gallorum. Ibi clarè ſcriptum invenies, Belloneſo Gallo Italiam, Segoneſo autem fratri ejus fortibus datos Hercyneos ſaltus fuiſſe. Quo verò pa荒o ii Alpes tranſgreſ﫤 in Grmaniam pervenerint, ex istis Julii Cæſaris verbis liquere cuilibet potest. De Helvetiis enim loquens, Bojos inquit, qui trans Rhenum incoluerant, & in agrum Noricum tran﫤erant, Noriamque occupaverant, receptos ad ſe ſocios aſciſunt, hodieque Noria ab ip﫤s Bojis cognominatur Bojaria, vel tu nunc placet, Bavaria. Leggi Livius, Ab Urbe condita Libri, libro quinto, sul passaggio dei Galli in Italia. Vi troverai scritto chiaramente che furono dati al forte gallo Bellovesos e a suo fratello Segovesos [rispettivamente] l'Italia e la Hercynia silva. In seguito, superate le Alpi, essi giunsero in Germania, come è possibile trarre dalle stesse parole di Iulius Caesar. Parlando degli Helvetii, infatti, dice: «si presero come alleati i Boi che, stanziati un tempo oltre il Reno, erano passati in territorio norico e avevano occupato Noreia»; ed oggi, dagli stessi Boii, il Norico è detto Boiaria o, se ora ti piace, Bavaria.
j His astipulatur Cornelius Tacitus, libro de moribus Germaniæ ita ſeribens: Igitur inter Hercyniam ſylvam Rhenumque, & Mœnim, amnes Helvetii, ulteriora Boji, Gallica utraque gens tenuere. Manet adhuc Bojemi nomen, 﫤gnificatque loci veterem memoriam, quamvis mutatis cultoribus», haud dubiè ip﫤s Suevis, quos postea Boji inde expulerant, 﫤cuti Noricos ex Noria. Di ciò è assertore Cornelius Tacitus, il quale scrive così nel suo libro sui costumi della Germania: «pertanto gli Helvetii si stabilirono [nella regione] tra la Hercynia silva e i fiumi Reno e Meno; più all'interno si stanziarono i Boii, entrambe popolazioni galliche. Il nome di Boemia, che ancora rimane, attesta l'antica storia del luogo, benché gli abitanti siano mutati», com'è stato senza dubbio per gli stessi Suebi, i quali da là erano stati poi cacciati via dai Boii, così come i Norici dal Norico.
j Quippe Suevos non modo extra ſylvam Hercyniam, ſed intra quoque ubi nunc Bohemia est 﫤ta habitaſſe, Author est Strabo. Idemque locum ipſum Bojohemum nominat, & ibidem Marobodui Regiam fuiſſe ſcribit. Che i Suebi non solo abbiano abitato al di fuori della Hercynia silva ma anche al suo interno, dove è situata la Boemia, lo afferma Strábōn. Parimenti chiama il luogo stesso Boiohemum e scrive che ivi sorgeva la reggia di Maroboduus.
j Maroboduus enime eje荒is Bojis, Marcomannos, ſeque & regiam ſuam in Bohemiam transtulit, de qua rurſus re 﫤c Tacitus: Præcipua Marcomannorum gloria, vireſque, atque ipſa etiam ſedes, pul﫤s olim Bojis, virtute parta. De eadem re verba etiam Velleji Paterculi, qui Tyberio imperante historiam ſuam edidit, huc reponemus. Nihil, inquit, erat in Germania, quod vinci poſſet, præter gentem Marcomannorum quæ Maroboduo Duce excita ſedibus ſuis, atque in inferiora refugiens, cin荒os Hercyniæ ſylvæ campos incolebat. Infatti Maroboduus, ricacciati i Boii, si trasferì con la sua corte e i Marcomanni in Boemia: così di nuovo [riferisce] Tacitus: «Spiccano per gloria e potenza i Marcomanni che si sono conquistati valorosamente anche la sede, una volta ricacciati i Boii». Sul medesimo argomento qui riferiremo anche le parole di Velleius Patercolus, il quale rese nota la sua storia sotto l'impero di Tiberius. Questi dice che niente vi era in Germania che si potesse vincere, soprattutto la gente dei Marcomanni, la quale, sotto la guida di Maroboduus, uscita dalle sue sedi originarie e rifugiandosi nelle zone meridionali, abitava il territorio della Hercynia silva.
j Ac paulò post: Sentio, inquit, Saturnino mandatum, ut per Catthos, exci﫤s continentibus Hercyniæ ſylvis, legiones Bojohemum, id regioni quam incolebat Maroboduus nomen est, ipſe à Carnunto, qui locus Norici regni proximus ab hac parte erat, exercitum, qui in Illyrico merebat, ducere orſus est. Hæc Vellejus. Sed jam fatis explorata vocabuli origine, ad primordia, & incunabula gentis Bohemæ, ut res & veritas ſe habet, stylum convertamus. E poco oltre vengo a sapere di un ordine a Saturninus che, fatti abbattere dai Chatti i boschi contigui all'Hercynia [silva], cominciò egli stesso a condurvi le legioni di Boemia – questo è il nome della regione in cui risiedeva Maroboduus – e l'esercito che combatteva nell'Illirico, da Carnuntus, luogo che da questa parte era molto vicino al regno dei Norici. Questo [dice] Velleius. Ma ciò detto, esplorata l'origine della parola, ritorniamo a trattare i primordi e le origini della gente di Boemia, come si ritiene sia la verità.  
  Sarmatia omnium Slavinarum gentium partus ceu equus Trodanus La Sarmazia, madre di tutte le genti slave ovvero il cavallo di Troía (?)  
k Sarmatia igitur illa, quam Protelmus ab ortu Lacu Mæotide, & Tanai, ab occaſu Istula, à ſeptentrione Oceano Sarmatico, à meridie Carpathiis montibus terminat, omnium gentium, quas nunc Sclavinas vocant, communis quondam patria fuit. Ipſæ porrò gentes varia ſunt fortitæ vocabula: nam aliæ earum Hyrri, aliæ Scyri, aliæ Venedi appellabantur, de quibus in hunc modum Plinius libro quarto, capite tredecimo, ubi de inſulis Septentrionalis Oceani agit: Sevo, inquit, mons ibi immenſus, nec Ripheis jugis minor, immanem ad Cymbrorum uſque promontorium, efficit 﫤num, cui Codanus vocatur, refertus inſulis, quarum, clariſ﫤ma Scandavia est incompertæ magnitudinis. La Sarmazia, pertanto, che secondo Protelmus confina a oriente con il Lago Meotide e il Don, a occidente con la Vistola, a settentrione con l'Oceano Sarmatico, a meridione con i Carpazi, fu un tempo patria comune di tutti i popoli oggi chiamati Slavi. Queste stesse genti ebbero poi nomi vari e occasionali. Alcune di esse, infatti, si chiamavano Irri, altre Sciri, altre Venedi. Di costoro Plinius, nel libro quarto, capitolo tredicesimo, dove tratta delle isole dell'Oceano Settentrionale, parla così: «Colà il Sævo, un monte immenso, non inferiore alla catena dei Rifei, abbraccia, fino al promontorio dei Cimbri, un vastissimo golfo chiamato Codanus, ricco di isole, la più famosa delle quali è la Scandinavia, di grandezza sconosciuta».
k Ac mox deinde: Quidam hæc habitari Istulam uſque fluvium à Sarmatis, Venedis, Scyris, Hyrris tradunt. Nam de Syrbis libro ſexto commemorat, quoniam propius ad Mæoticas gentes accedunt. E subito dopo: «Alcuni tramandano che queste [terre] fino al fiume Vistola siano state abitate da Sarmati, Venedi, Sciri, Irri». Poi, riguardo ai Sorbi, nel libro sesto ricorda perché si avvicinano di più alle genti meotiche.
k Vetus autem omnium Sarmatarum mos erat Pomponio Mela Autore, statis perpetuiſque non uti ſedibus, ſed ut invitavere pabula, vel ut cedens & ſequens hostis exigebat, ita res, opeſque ſecum trahere ſolebant, castra ſemper habitantes, bellatores, liberi, indomiti. Secondo il loro antico costume, afferma Pomponius Mela, i Sarmati non si servivano di sedi fisse e stabili ma, attratti da altri pascoli o costretti da vecchi o nuovi nemici, si spostavano – bellicosi, liberi, indomabili – con i loro attendamenti, portando con sé tutte le loro cose e sostanze.  
  Venedi in Vandalos, Syrbi in Luſatios, Hyri in Illyrios tranſfierunt I Venedi si trasferiscono presso i Vandali, i Sorbi presso i Łusaziani, gli Irri presso gli Illiri.  
l Proinde nihil mirum, 﫤 Augusti jam Cæſaris tempestate in Thracia, ut ſeribit Strabo, promiſcuè cum Thracibus vixerint, 﫤 deinde littora Oceani, paludeſque, & eas regiones, quas Vandali, populus quondam Germaniæ tenuerant, occupaverint, nomenque 﫤bi ex devi荒a gente, ut fieri interdum ſolet, adoptaverint, pro Venedis, 﫤ve Vendis, Vandalos ſe cognominantes: illoque cognomine Gallias, Hiſpanias, & ipſam Africam penetrantes, in qua uſque ad Justiniani Cæſaris tempora, regnum 﫤bi constituerant, hodieque cognomen Vandalorum in regionibus, quas initio proprius Oceanum ceperunt, retinent. Non dobbiamo dunque stupirci se, già all'epoca di Caesar Augustus, come scrive Strabo, [i Venedi] abbiano vissuto insieme ai Traci nella Tracia e se in seguito abbiano occupato le coste acquitrinose dell'Oceano e quelle regioni della Germania tenute un tempo dai Vandali. Costoro, come talora accade, prendendo il nome delle genti sottomesse, si chiamarono Vandali invece di Venedi o Vendi. Con questo nuovo nome, penetrarono poi nelle Gallie, nella Spagna e persino in Africa, dove, fino ai tempi dell'imperatore Iustinianus, si erano costituiti in regno, e anche oggi mantengono il nome di Vandali nelle regioni conquistate all'inizio, più vicine all'Oceano.
l At Syrbi, ſuperiore & inferiore Luſatia occupata, Luſatios se nunc appellant. I Sorbi, invece, avendo occupato la Łusazia settentrionale e meridionale, ora si chiamano Łusaziani.
l Hyrri verò, & Scyri, vagam diu mercenariamque militiam, interdum etiam Alanis & Gotthis permixti militabant, donec cum cæteris Sarmatis in Illyria & Histria ſedes ſuas figerent. Placuit deinde, vicitque apud illas gentes novum Slovanorum vocabolum, ex commercio unius linguæ natum. Gli Irri e gli Sciri, invero, militarono in una soldatesca a lungo incerta e mercenaria, talora mescolati anche agli Alani e ai Goti, finché non fissarono con altri Sarmati le loro sedi in Illiria e in Istria. piacque poi e s'impose presso quei popoli, il nuovo termine di Sloveni, nato dalla pratica della stessa lingua.
  Etymon Sclavinorum. Etimo degli Slavi  
m Id enim Slowo apud Sarmatas, quod verbum apud Latinos perſonat. Quoniam igitur omnes Sarmatarum nationes, latè jam tunc, longeque, per regna & provincias ſparſæ, unum tamen eundemque ſermonem, atque eadem propemodum verba ſonarent, ſe uno etiam cognomine Slovanos cognominabant. Vi è infatti, presso i Sarmati, SLOWO, parola che risuona presso i Latini. Pertanto, poiché tutte le etnie dei Sarmati sparse anche allora in ogni dove, per regni e province, parlavano tuttavia un solo e medesimo linguaggio e facevano risuonare quasi le medesime parole, si chiamavano anche con un solo etnonimo: Slovani.  
m Ad ipſa præterea gloria, quæ apud illos Slawa appellatur, Slowutnii di荒i. Græci hoc cognomen, postquam vim vocabuli non intelligerent, in Sclavenos, Itali in Sclavos detorſerunt: Latini deinde Illyrios vocare cæperunt. E per quella gloria stessa, che presso di loro si dice SLAWA, furono detti SLOWUTNII. I Greci, dal momento che non capivano il significato del vocabolo, distorsero questo etnonimo in Sclaveni, e gli Italici in Sclavi. I latini, poi, cominciarono a chiamarli Illiri.
  S. Hieron. Stridonen﫤s Slavus San Hieronymus, slavo di Strido  
n Ex hac gente Divus Hieronymus prognatus, ſuis popularibus vetus novumque Testamentum ſermone vernaculo interpretatus est, Gratiano & Theodo﫤o Imperium administrantibus: Illaque interpretatione, in hanc huſque diem Illyri tum in hymnis divinis, tum in ſacrificiis utuntur, ut mirer extare, qui prodant Sclavenos, ſub Mauritio demum Cæſare Illyriam inva﫤ſſe, occupaſſeque. San Hieronymus, nato da queste genti, tradusse per il popolo l'Antico e il Nuovo Testamento nella lingua del proprio paese, mentre erano a capo dell'impero Gratianus e Theodosius. Di quella interpretazione, gli Illiri si servono ancora oggi, sia negli inni sacri, sia nei sacrifici, tanto che mi meraviglierei se ci fosse ancora chi racconta come, alla fine, gli Slavi abbiano invaso e occupato l'Illiria sotto l'imperatore Mauritius.
I Ἀφορμὴ migrationis Croatiorum in Bohemiam. Czechius gentis conditor & Lechus frater. Le migrazioni dei Croati in Čechy. Čech guida di genti e suo fratello Lech.  
I a Ex Illyria igitur, quæ modò Croatia cognominatur, Bohemi isti novitii ad hunc modum prodierunt: Czechius Croata erat domi, & nobilitate & fa荒ione potens: is apud ſuos, fortè, an conſulto, cædem in﫤gnem fecit: cujus nomine reus, ac citatus, die constituta ad cauſam dicendam non venit, acrius hinc urgentibus eum adverſariis, ac magna parte Croatiæ jus ſuum adverſus contumacem armis exequi parante, non expe荒avit Czechius, dum in ultimum diſcrimen ſalutem ſuam adduceret, ſed amicorum parens con﫤lio, ſe in viam per tempus dedit, eo prorſus animo, ut pro vetere patria novas 﫤bi quæreret ſedes, quæ perfugium, 﫤mul & domicilium exuli forent. Questo è come i futuri Čechové uscirono dall'Illiria, che oggi è chiamata Croazia. Čech era di patria e nobiltà croata, e a capo di una fazione. Ma questi, vuoi per caso o per determinazione, si macchiò in patria di un eclatante delitto. Accusato del crimine e citato in giudizio, non si presentò nel giorno stabilito per discutere la causa. Mentre aspramente premevano i suoi avversari e gran parte della Croazia si preparava ad esercitare con le armi il diritto di vendetta contro il contumace, Čech non aspettò di mettere la sua salvezza a rischio estremo ma, obbedendo al consiglio degli amici, si pose subito in cammino, con la ferma intenzione di cercare, al posto della vecchia, una nuova patria, nuove sedi che fossero per l'esule rifugio e insieme dimora.
I a Migravit unà frater Czechii nomine Lechus, & cum utroque cognati affines, amici, clienteſque & vernulæ, quos uxores atque liberi, ac cætera hominum ingens turba, ad 﫤mul proficiſcendum parata, longo ac frequenti agmine ſubſequebatur, eo itinere, quod per Valeriam regionem, inter Danubium & Dravum fluvium 﫤tam, & à Croatis tum poſſeſſam, illos uſque ad Pannoniam ſuperiorem Moravis vicinam deducebat. Insieme, si mise in cammino il fratello di Čech, di nome Lech, con entrambi i cognati, gli affini, gli amici, i clienti e i servi. Li seguivano le mogli e i figli: una gran folla di persone disposte a partire, tutte insieme, lungo la strada che, attraverso la regione Valeria, tra i fiumi Danubio e Drava, allora in mano ai Croati, li conduceva fino alla Pannonia settentrionale, presso i Moravi.  
I a Cum igitur in Moraviam divertiſſent, & illam jam pridem à gentibus ſuis, quemadmodum & Saxoniæ bonam partem occupatam reperiſſent, paululum ſubstiterunt. Interim Moravi peregrinationis cauſa cognita, hoſpites & populares ſuos docent, haud procul regionem distare, quam Germani Bœheim vocarent, ab eiſdem Germanis quondam habitatam, nunc vastam penè & deſertam, ni﫤 quod Vandalorum nonnulli, & ip﫤 populares per Tuguria ſpar﫤 illam incolerent. Aut igitur hanc illis regionem, aut nullam aliam, ad capiendas fedes, qua﫤 non armati, ſed togati quærerent, appo﫤tiſ﫤mam videri. Poi, avendo ripiegato in Morava e ripresa quella terra già occupata in precedenza dalle loro genti, e cioè una gran parte della Sassonia, si fermarono lì. Nel frattempo i Moravi, conosciuto il motivo della peregrinazione, informarono gli ospiti e il loro popolo che non lontano distava una regione che i Germani chiamavano Bœheim, un tempo abitata dagli stessi Germani, ora devastata e quasi abbandonata, a meno che non l'abitassero alcuni Vandali oltre agli stessi indigeni, sparsi in capanne. Pertanto, o che questa regione fosse la più adatta, o che non ve ne fosse nessun'altra per stabilirne una sede, la richiedessero loro, e non da uomini armati, ma da gente civile.  
  A Moravia in penitiorem Bohemiam Czechius deducitur Čech viene condotto dalla Morava alla Boemia più interna  
I b Hæc di荒a eo proclivius approbavit Czechius, quod in eo statu res ſuas conſpiciebat eſſe 﫤tas, ut non legere conditiones, ſed oblatas accipere magis conveniret. Redintegrato itaque itinere re荒a per Hercynium jugum vadens, ſe in Bohemiam, cum bona ubique pace in﫤nuavit. Ibi quacunque ibat, aſpe荒us fidem faceibat eorum, quæ auribus paulo ante acceperat, incultam videlicet, deſertamque eſſe Bohemiam, à pecudibuſque, & armentorum gregibus potius, quàm ab hominibus obſeſſam, adeò bene multi in illa greges pecundum, rariſ﫤mi autem incolarum apparebant. Čech approvò quelle parole, tanto più di buon grado perché capiva di trovarsi nello stato di non poter scegliere condizioni e gli conveniva di più accettare l'offerta. Così, ripreso il cammino, diritto verso le cime dell'Hercynia [silva], giunse in Boemia pacificamente. Dovunque andasse, l'aspetto [del territorio] aderiva a quanto aveva appena appreso, e cioè che la Boemia era incolta, abbandonata, occupata da bestiame e da armenti piuttosto che da uomini. Chiaramente, infatti, in quella [regione] appariva gran quantità di bestiame, mentre scarsissimi erano gli abitanti.  
I b Incolæ ſanè inculti, inton﫤, ac planè pastores: ii ignotæ primo gentis adventu percul﫤 erant, mox audita vernacula lingua, intelle荒oque hoſpites non hostes adveniſſe, mutuam ſalutationem fecerunt, hoſpitaliaque dona hoſpitibus miſerunt, lac, caſeolos, carnem, duceſque itineris dederunt; qui eoſdem hoſpites in Bohemiam interiorem deducerent. Gli abitanti, sicuramente dei pastori del tutto incolti, con barba e capelli lunghi, si spaventarono all'arrivo di quelle genti a loro sconosciute; poi, udita la lingua del luogo, compresero che non si trattava di nemici, ma di ospiti. Li salutarono, ricambiati, e offrirono, in segno di ospitalità, latte, formaggio, carne, e dettero guide per il loro cammino, che li conducessero in veste di ospiti nel cuore della Boemia.  
I b Cum perventum eſſet ad montem, inter duo flumina Albin, & Vultaviam aſſurgentem, (incolæ Rzip vocant, qua﫤 tu ſpeculam dicas, quoniam inde ſubje荒a monti planicies, latiſ﫤me perſpeculari potest:) ad eum statim montem conſcendit Czechius, perlustranſqne oculis nunc cœlum & aerem ſalubrem, munc terram ubere gleba conſpicuam, nunc ſylvas & nemora paſcuis idonea, nunc flumina aquis & piſcibus redundantia, tacitum gaudium celare diutius nequivit, ſed manibus in cœlum ſublatis in hanc vocem erupit: Dii (inquiens) vestram fidem, quantis me, fratremque meum bonis, quantis amico nostros commodis beatis, 﫤 hanc patriam nobis perpetuam efficitis. E giunto al monte che si eleva tra i due fiumi Labe e Vltava (gli abitanti lo chiamano Říp, cioè «osservatorio», dal momento che vi si può osservare la pianura sottostante per vastissimo tratto), subito Čech salì fino in vetta e, perlustrando con lo sguardo ora il cielo e l'aria salubre, ora la terra dal suolo fertile, ora i boschi e i campi adatti al pascolo, ora i fiumi ricchi d'acqua e di pesci, non poté più a lungo celare l'intima gioia ma, alzate le mani al cielo, proruppe con tali parole: «O dèi, per quanti siano i beni miei e di mio fratello, per quanto ricchi i privilegi dei nostri amici, avremo fede in voi, se ci concedete questa patria per sempre».  
I b Post hæc cæ﫤s quas ſecum adducebat vi荒imis, ſacrum ſuo more facit, deſcendenſque rurſus in plana, 﫤mul univerſos pari gaudio implet, ſpe allata finiendæ tandem vagæ peregrinationis, ſede nimirum certa & stabili reperta. Mox univerſos adhortatur ad ædificia & te荒a constituenda, & inprimis, ut ſe ad agros excolendos converterent, ne ritu ferarum, venatu tantummodo & carne vitam tolerare inhumanam cogantur. Croatæ erant tam ædificare, quam agros colere do荒i: itaque pro ſe quiſque animo alacri operam pollicetur. Nihilo tamen ſecius circuire 﫤ngulos Czechius, operiſque intereſſe, & instare, ac promptos quidem laude, ſegnes verò castigatione, ad perficiendum quod inceptum erat, perurgere, quoad agris, pratis, ædificiis cultior Bohemia videretur. Dopo di che, uccise le vittime che conduceva con sé, offre un sacrificio secondo il suo costume, e disceso di nuovo in pianura, si colmano tutti di gioia, alla sopraggiunta speranza di concludere finalmente il loro errare, avendo trovato con certezza una sede fissa e sicura. Subito dopo esorta tutti a costruire edifici e case e, soprattutto, a dedicarsi alla coltivazione dei campi, per non essere costretti a condurre una vita indegna agli esseri umani, nutrendosi di cacciagione e di carne, alla maniera delle bestie feroci. I Croati erano abili tanto nel costruire quanto nel coltivare i campi, e tutti si misero all'opera con spirito alacre. Ciononostante, Čech sollecitava le persone, si interessava ai lavori, incalzava con lodi i più attivi, castigando i pigri, e insisteva a portare a termine quanto incominciato, affinché la Boemia divenisse sempre più ricca di campi, prati ed edifici.  
  Lechus à fratre ſecedit Lech lascia il fratello  
I c Au荒is indies magis ac magis habitatoribus, ex frequenti tum Vandalorum, tum Damlatarum in Bohemiam, tanquam in locum à bellis pacatiorem migratione Lechus fratrer, ambiguum, invidia an æmulatione, ut & ipſe for﫤tan novæ regionis, nationiſque Author haberetur, Czechiû adit, rogatque, ut per eum 﫤bi liceat cum iis, qui ſua ſponte ſequi voluerint, alias ad habitandum ſedes vestigare, quas 﫤 non invenerit, ad fratrem ſe reverſurum promittit. Con il tempo, sempre più accresciuti gli abitanti per la frequenti [migrazioni] ora di Vandali, ora di Dalmati in Boemia, come luogo più al riparo dalle guerre; così Lech, fratello [di Čech] (non sappiamo se per invidia o emulazione, ma forse per essere considerato anch'egli fondatore di una nuova regione e nazione), si reca da Čech e gli chiede il permesso di andare a cercare altre sedi da abitare, insieme a quanti vogliano seguirlo di propria volontà. Nel caso non ne trovi, promette al fratello di tornare indietro.  
I c Quo facilè impetrato, montes tranſcendit Aquilonem verſus, pervenienſque in illa loca, quæ inpræſentiarum partim à Sle﫤tis, partim à Polonis obtinentur, pari ac frater felicitate illa novis cultoribus complet, adhibetque eandem curam, meditationem, diligentiam in agris, & ædificiis constituendis. Sed nec alia atque Czechius animi moderatione, adverſus ſuos utitur, æquo 﫤militer cum ſuis jure, & 﫤ne ulla dominatus ambitione vitam tranfigens. Cujus rei cauſa, utrumque gens ſua post mortem obitam æterna conſecravit memoria. Esaudita facilmente la richiesta, [Lech] valica i monti verso settentrione, giungendo nella terra che oggi appartiene in parte agli Slesiti e in parte ai Polacchi, e con un entusiasmo pari al fratello la riempie di nuovi coloni e usa la stessa cura, la stessa preparazione e diligenza nel coltivare i campi e costruire case. Né usa nei loro confronti moderazione d'animo diversa da quella di Čech e, allo stesso modo, con il suo popolo si serve di leggi giuste, trascorrendo la vita senza alcuna ambizione di dominio. Per tale ragione le loro genti consacrarono entrambi, una volta defunti, a eterna memoria.  
  Bohemorum & Polonorum dis indigetes. Gli dèi indigeni di Čechové e Poloni  
I d Quippe in hunc uſque diem Bohemiſe à Czechio, Czechios, Paoloni autem à Lecho, Lechitas, utrique conditores ſuos agnoſcentes, appellant. Defun荒o 﫤ne liberis Czechio, Bohemi ex vetere gentis instituto, popularem statum ample荒untur. Quale autem institutum hoc fuerit, Procopius in historia ſua Gothica commemorat. Sclavinorum inquiens nationes, non ab homine aliquo uno regi, ſed jam inde ab antiquo, plebeja, communique libertate vivere, & idcirco de rebus omnibus, quæ cogitatu fa荒uve graviores occurrunt, communiter deliberare. Da quel giorno i Boemi vengono chiamati Čechové, da Čech, mentre i Polacchi allo stesso modo prendono il nome di Leciti, da Lech, riconoscendoli come propri fondatori. Morto Čech senza figli, i Čechové legiferano rifacendosi alle antiche tradizioni del loro popolo. Quale in verità fu tale statuto, Prokópios ne fa menzione nel suo De bello Gothico. Afferma che, fin dai tempi più antichi, le tribù slave vivevano libere, in comunità agresti, non soggette ad alcun uomo in veste di re; e per tutte quelle cose che richiedevano decisioni più gravi, deliberavano di comune accordo.  
  Δημοκρατεία apud Sclavinos Democrazia presso gli Slavi  
I e A荒um certe, in novo videlicet adhuc populo, Bohemis eo facilius perſequi hoc institutum licebat, quod nemo unus inter illos emineret, ut præ ceteris ad illum regimen deferendum eſſe videretur. Certamente agì così anche il nuovo popolo, tanto più conveniva ai Čechové seguire tale tradizione, in quanto nessuno emergeva tra loro da doversi deferire più degli altri all'attività di governo.  
I e Dein quod nihil ſupererat de quo valde certarent, aut in fa荒iones diſcederent, cum in promiſcuo uſu illis eſſent penè omnia. A lebat denique mutuam inter illos concordiam, quod nullis adhuc externis nationibus, quæ aut lingua, aut moribus eſſent diſcordes, immixti, ſed gente, & ſermone, & institutis pares Bohemiam inhabitabant, in eaque ſocietate, & inter ſe conjun荒ione, quam inter 﫤miles natura conciliare ſolet, magno cum conſenſu acquieſcebant. At posteaquam alienigenæ paulatim in Bohemiam allabi, aliique eorum communem agrorum, & aliarum nonnullarum rerum uſum irridere, alii à plebeja gubernatione abhorrere, agrestemque incolarum vitam fastidire cæperunt, ſen﫤m etiam æquabilis ille, pupulariſque in Bohemia status, labaſcere cæptabat. Amat enim varietatem, rerumque mutatiotem varium & mutabile vulgus. In seguito, poiché nulla sovrabbondava per cui combattere aspramente o dividersi in fazioni, essendo quasi tutto condiviso, si manteneva, alla fine, tra loro, una reciproca concordia. Dal momento che, fino ad allora, non si erano mescolati a popolazioni straniere, diverse per lingue o per costumi, ma abitavano, all'interno della Čechy, pari per stirpe, lingue e tradizioni, si erano stabiliti con grande armonia in quella società e con quel legame che la natura suole stringere tra simili. Ma dopo che cominciarono a penetrare a poco a poco in Čechy delle popolazioni straniere, alcuni a deridere l'uso comune delle loro terre e di molte altre cose, altri a contrastare il governo della plebe e a disdegnare la vita agreste degli abitanti, anche quello stato ugualitario e popolare iniziò lentamente a cedere in Čechy. Poiché il popolo, vario e mutevole, ama la varietà e il cambiamento delle cose.  
I e Et quoniam raro uſu venit, ut fine aliqua rerum interturbatione, benè in republica constituta immutentur, turbari tunc, & miſceri cun荒a malis concionibus, turbulentes cætibus, & rixo﫤s contentionibus videres, dum alteri de vetere statu retinendo, alteri de abrogando rixantur, intereaque reverentiam adverſus magistratum exuunt, metum judiciorum deponunt, leges populares contemnunt: Contra audaciæ & cupiditati frena laxant, quid per jus non licet, auda荒er ac cupidè peragentes, invicem ſe deprædantes, invicem ferientes & cœdentes, atque ut uno velut faſce multa comple荒ar, latrocinium ibi constituentes, ubi paulò ante publicum con﫤lium fuit. Quibus malis tandem defatigati, vi荒ique, rurſus animum ad reparandum, reipublicæ statum convertunt. Et cum democratia non placeret, reſpicere Monarchiam qualis ſub Czechio fuerat, incipiunt. E poiché capita di rado che, dato un certo turbamento degli eventi, in una società le istituzioni cambino bene, vedresti allora che tutto è disordinato e confuso da cattivi discorsi, e i turbolenti in conventicole rissose, mentre alcuni si contendono per mantenere il vecchio stato, altri per abrogarlo; nel frat-tempo tolgono rispetto a chi esercita la giustizia, perdono il timore dei processi, disprezzano le leggi del popolo: sciolgono i freni all'audacia e alla cupidigia, perseguendo in modo audace e avido ciò che non è lecito per legge, mentre si depredano a vicenda e a vicenda si feriscono e uccidono. E per strin-gere insieme molti esempi, dànno vita alla frode laddove poco prima c'era stata una pubblica risoluzione. Fiaccati e infine vinti da tali mali, si volgono di nuovo a rinnovare lo stato della società. E poiché la democrazia non era gradita, ricominciano a prendere in considerazione la monarchia, come quella che c'era stata sotto Čech.  
II

Croccus populari ſpreto imperio ad ducale fastigium eve荒us. Numen ut Czechius Romulus.

Krok, rifiutato il potere popolare, viene innalzato alla dignità di kníže. Čech divinità come Romolus.  
II a Croccus tunc erat, in quem oculos ſuos omnes conjecerant, indoeumque eſſe putabant, qui in locum Czechii ſuccederet, quoniam ante alios boni, justique vivi ſpeciem præſeferebat, ſermoneque comis & affabilis habebatur, ac multitudini maximè gratus ex opinone divinitatis, quam ex divinatione augurio collegerat. Non ſecus enim ad eum viri, mulioreſ affluebant, ac 﫤 adfluerent ad Apollinis oraculum. Et quanquam gratuitam, non autem quæstuariam divinationem faceret, 﫤ne quæstu tamen illa ei non erat, ultrò conſultoribus stipem obtrudentibus: qua ille au荒us, prædium 﫤bi Crocci cognomine ædificavit, haud procul à Stebna pago, quo postea animi venationiſque cauſa Principes Bohemiæ frequentiſ﫤mè ſecedebant: In eoque prædio ſuo Croccus tantiſper habitavit, dum ad eum regimen deferretur. Non videlicet, ut ad Principem, qui ex arbitrio ſuo imperaret, ſed ut ad Prætorem, qui ex æquo & bono jus diceret. C'era allora Krok, verso il quale tutti rivolgevano lo sguardo, ritenendolo idoneo a succedere a Čech, dal momento che più degli altri si dimostrava un uomo giusto e buono; era considerato gentile e affabile nel parlare e soprattutto era gradito alla gente per la fama di divinità che si era guadagnato dalla pratica di indovino e di augure. Infatti correvano a lui uomini e donne, come se affluissero all'oracolo di Apollo. E sebbene divinasse gratuitamente, non per remunerazione, non rimaneva senza guadagno, dal momento che i richiedenti spontaneamente insistevano per un'oblazione. Con tali guadagni, [Krok] costruì una fattoria, che chiamò «Krok», non lontano dal villaggio di Ztibečné, dove in seguito i knížata di Čechy si sarebbero spesso ritirati per divertirsi e praticare la caccia. In quel luogo, Krok abitò per un certo tempo, finché non gli venne conferito il potere: non certamente come a un principe che governava a suo arbitrio, ma come a un pretore che esercitava la giustizia in modo buono ed equo.
II a Nondum enim ullæ ſcriptæ extabant leges, ſed id habebatur inter plebiſcita, quod conſuetudo & mores populi approbaverant. Hunc denique majorum ſuorum u﫤tatum in judicando morem Croccus percipuè retinendum putavit, nihil quidquam de illo immutans, imò ut illum magis adhuc confirmaret, quoteins litem cogniturus pro tribunali aſ﫤deret, neminem qunquam, ni﫤 uſu, & experentia, talium morum peritum in con﫤lium advocavit. Sæpius tamen res controverſas componebat, quam judicabat, quia magis aliquanto tranſa荒io popularis eſſe, quam judicium videbatur. Infatti non vi erano ancora leggi scritte, ma nelle assemblee si seguiva ciò che era stato approvato dalla consuetudine e dai costumi del popolo. Soprattutto nel giudicare, Krok volle conservare le usanze consuete dei suoi antenati, non mutando niente di esse, anzi, per confermarle ulteriormente. Ogni volta che si assideva in tribunale per dirimere una lite, non chiamava in consiglio nessuno se non esperto per uso e conoscenza di tali costumi. Tuttavia componeva le controversie più spesso di quanto le giudicasse, in quelle che sembravano essere piuttosto transazioni popolari che non processi veri e propri.  
II a Cæterum valde ſuperstitio ſus Croccus erat, ut qui fontes, & lucos pro diis coleret. Sed non ab re fuerit, posteaquam in ſuperstitionem gentis incidimus, breviter explicare, quam olim opinionem de Deo conceptam Sclavinorum natio habuerit. Igitur rurſus à Procopio ea, quæ ſuper hac re ſcrip﫤t, ex Historia Gothica mutuabimur. Fra l'altro, Krok era molto superstizioso perché venerava le fonti e i boschi sacri agli dèi. Ma non sarà da ciò che, dopo esserci imbattuti nelle superstizioni popolari, spiegheremo in breve quale opinione un tempo la nazione slava avesse concepito della divinità. Perciò prenderemo a prestito di nuovo da Prokópios quanto scrisse su tale argomento nel De bello Gothico.  
  Religio 﫤ve cultus Sclavinorum sacer La religione ovvero il sacro culto degli Slavi  
II b In hanc itaque ſententiam Procopius: Sylvas Sclavini & Nymphas colunt, & Dæmones alios, iiſque ſacrificia faciunt, & inter ſacrificandum vaticinantur. Habent præterea lege cautum, à majoribuſque traditum, ut inter numerum Deorum, unum illum, qui 﫤t fuminis fabricator, dominum omnium rerum, ac ſolum Deum eſſe credant, illique boves, & hostias ejus generis alias ma荒ent. Fortunam verò quid ea 﫤t, nec ſciunt, nec vim ullam in homine habere fatentur. Sed quando, vel domi morbo languentibus, vel foris in prælio periclitantibus mors imminent, jubentur pro incolumitate ſacrificare, habentque perſuaſum, per ſacrificia ſalutem 﫤bi redemtpum iri. Atque hæc vetus quide eorum ſuperstitio. Succeſ﫤t deinde nova, Carolo Magno rerum potiente, vi荒oreſque Saxonum, & in his Sclavonorum quoque, quos Rugianos cognominant. In questo passo Prokópios afferma: «gli Slavi venerano le selve, le ninfe e altri demoni, a loro rendono sacrifici e sacrificando traggono vaticini». Hanno inoltre difeso della legge, quanto è stato tramandato dagli antenati; credono che, nel novero degli dèi, soltanto chi è l'artefice del fulmine sia signore di tutte le cose e unico dio, e a lui immolano buoi e vittime del genere. Tuttavia non sanno che cosa sia il destino, né riconoscono che nell'uomo ci sia alcun potere. Ma quando languiscono in casa per una malattia, o fuori rischiano la morte in battaglia, si ordina di sacrificare per la loro incolumità e credono di potersi guadagnare la salvezza per mezzo di tali sacrifici. Queste erano le loro antiche superstizioni. Né seguì una nuova, quando s'impossessò del potere Carolus Magnus, vincitore dei Sassoni, e tra loro anche di quegli slavi che chiamano Rügiani.
  Vitus tutelaris Rugiorum in Svatevitum mutatus Vitus, patrono dei Rügiani trasformato in Svantevit  
II c Placuerat vi荒ori, ut gens vi荒a, cultui præterea & ſacris ritu Romano peragendis animos dederet, ac cum cæteris Saxonibus ad ſanitatem paulò ante ab eodem Carolo revocatis, ut templum divi Viti, maxima tunc in veneratione apud illas nationes habiti, tributis coleret. Pendebant Rugiani templo tributa, quoad incolumis viveret Carolus: ipſo mortuo nec tributa dare, nec cultum retinere Romanorum volebant, ſed domi 﫤bi fanum, & in eo 﫤mulachrum constituentes, stipem quotannis viri muliereſque, unum quiſque eorum per capita, nummum fano inferebant. Et cum tributi reddendi nomine à finitimis appellarentur, contentos ſe eſſe domestico, & Vito, & tributo, reſpondebant. Huic 﫤mulachro Svuatoviti, hoc est divi Viti, vocabulum indiderant. Era piaciuto al vincitore che la gente conquistata si disponesse di più al culto ed officiasse le cerimonie sacre secondo il rito romano; e poi, con gli altri Sassoni ricondotti poco prima alla salvezza dallo stesso Carolus, venerasse con tributi il tempio di san Vitus, che allora godeva della massima venerazione presso quelle popolazioni. I Rügiani pagarono tributi al tempio finché Carlo fu in vita: una volta morto, però, non vollero più dare tributi, né conservare il culto romano, ma, costruendo per sé in patria un tempio con la statua, ogni anno uomini e donne portavano, in offerta, un danaro ciascuno. Ed essendo chiamati dai confinanti a dare un nome al tributo, rispondevano che andava bene per loro che fosse «domestico», o «Vitus», o semplicemente «tributo». A questa statua avevano imposto il nome di Svantovit, cioè «san Vitus».  
  Idoli Suatoviti figura & ritua colendi Aspetto dell'idolo di Svantovit e pratica dei riti  
II d Effigies erat quadrifons, qualis olim Jani apud nonnullos, ut circumstantes ab omnì fani parte, conſpe荒u 﫤myulachri perſuerentur. Dextra cornu, leva arcum gestabat, proximè ſuſpenſa erant, en﫤s, frenum, ſella, juxtaque candidus equus stabulabatur 﫤mulachro conſecratus: eum ſacerdos fani albat, ſeque & populum opinione implebat, qua﫤 Suatovitus, equo illo adverſus religionis ſuæ hostes militaret. Sæpe enim idem ſacerdos, anhelantem adhuc & ſudantem, à no荒urna exercitatione diluculo eum ſpe荒atoribus ostendebat, ſacraque Suatovito, vino & placenta faciebat: vinum pridie ſolemniter in cornu, quod dextra gerebat, infuſum, 﫤 postridie integrum 﫤ne ulla diminutione manebat, bonum incrementi liquidarum fluentiumque rerum illius anni egventum 﫤gnificari dicebat: malum verò 﫤 quid de vino fuerat ſua ſponte diminutum. Habuit & placenta, à ſacerdote & populo comeſa, ſua præſagia, futuram ejus anni frugum copiam, aut inopiam præſagiens. Eratque ſacrificium utrumque ad mores gentis prorſus appo﫤tiſ﫤mum, 﫤quidem in hune uſque diem Sclavini placentis & vino nimium dele荒antur, tra荒antque libenter arma & belligerantur, 﫤mulachrum illud vetus bellicoſum armiſque instru荒um imitantes. La statua era quadrifronte, simile, presso alcuni, alla vecchia figura di Ianus, affinché gli abitanti fruissero della sua immagine da ogni lato del tempio. Con la destra teneva il corno, con la sinistra l'arco; vicini erano sospesi la spada, le briglie, la sella, e appresso stava in una stalla un candido cavallo consacrato al simulacro: lo nutriva un sacerdote del tempio che appagava sé stesso e il popolo con l'idea che quasi Svantovit combattesse su quel cavallo contro i nemici della sua religione. Spesso, infatti, lo stesso sacerdote, lo presentava in pubblico sul far dell'alba ancora ansante e sudato dopo l'esercitazione notturna, e offriva sacrifici a Sventovit con vino e focacce. Diceva che, se il vino solennemente versato la vigilia nel corno che portava nella destra fosse rimasto intatto il giorno dopo, senza alcuna diminuzione, stava a significare il buon presagio di un abbondante incremento di beni, per quell'anno, ma cattivo se un po' di vino fosse spontaneamente diminuito. Anche la focaccia, mangiata dal sacerdote e dal popolo, espresse E aveva la focaccia, mangiata dal sacerdote e dal popolo, esprimeva i suoi presagi, indovinando la futura abbondanza o scarsezza di raccolti del medesimo anno. Ed entrambi i sacrifici erano proprio molto consoni alle abitudine della popolazione, se anche oggi gli Slavi si dilettano troppo di focacce e vino, maneggiano volentieri le armi e si fanno la guerra, imitando quell'antica bellicosa statua adorna di armi.  
  Primo congreſſu Bohemorum ſalutatio. Il saluto dei Čechové al primo incontro  
II e Diu hæc ſuperstitio, & cultus ejuſdem 﫤mulachri, etiam inter Bohemos viguit, donec Divus Wenceslaus, Principe Bohemiæ agens, impetratis ab Othone Cæſaræ Divi Viti reliquiis ſan荒um Virum idolo profano abolito, venerandum Bohemis exhibuit. Sed ne 﫤t quidem memoriam Suatoviti dlere ex mente Bohemorum quivit: quippe nunc quoque nullam magis ſolemnem Bohemi ſalutationem habent qua eam, quæ fit ſub Viti nomine: exceptum enim vel ſoſpitem, vel amicum, vel intimum quem quam peregre advenientem, Vitei Vitei ingeminant, ſoſpitati, qua﫤 á Suatovito conceſſæ, ita congratulantes, quia fortè ita evenit unt peste circumvicinos increbeſcente, ip﫤 duntaxat, qui Suatovitum colebant, à contagio integri & incolum? permaneſerint. A lungo questa superstizione e il culto di tale statua rimase in voga anche presso i Čechové, finché san Václav, allora kníže di Čechy, ottenute da Cesare Ottone le reliquie di San Vito, abbattuto l'idolo profano, mostrò ai Čechové il santo uomo da venerare. Ma non riuscì a togliere dalla mente dei Čechové neppure il ricordo di Svantevit: dal momento che anche ora i Boemi non hanno nulla di più solenne del saluto che avviene nel nome di Vito; infatti, ricevuto un ospite o un amico o un parente venuto da lontano, ripetono Vitei Vitei, rallegrandosi così per l'ospitalità, quasi concessa da Svantovit. Era avvenuto, infatti, per caso che, diffondendosi la peste tra i popoli vicini, soltanto quelli che veneravano Svantovit, rimasero sani e salvi dal contagio.  
  Croccus Solonis vel Lycurgi munere apud Polonos perfun荒us Krok assume il compito di Sólōn e Lykoûrgos presso i Poloni  
II f Sed ut jam à diverticulo in via redeamus, tanta cum laude & gloria Croccus rem publicam Bohemiam administravit, pagiſque illam acibuſque, & aliis novis ædificiis ampliavit inventis tunc fortè in fluminibus auri ramentis, non ſolùm domi apud ſuos, ſed foris atia apud Polonos gratioſus fuerit, adeo ut Poloni ad eum legatos mitterent oratum, ne gravaretur in Poloniam venire, ibi quoque statum reipublicæ, controver﫤as hominum compo﫤turus. Venit ille, venienſque ita est fun荒us officio ſuo, ut Poloni, in honorem ejus, arci novæ e oppido, cui tunc primum fundamenta ad Vistulam flumen poſuerant, Croccoviæ vocabulum indere. Ma per ritornare dalla digressione al discorso principale, Krok amministrò lo stato ceco ricavandone tanta lode e gloria, e l'ampliò con villaggi e fortezze e con altri nuovi edifici. Avendo poi trovato per caso sabbia d'oro nei fiumi, non solo godette di favori in patria, presso i suoi, ma anche fuori, presso i Polacchi, tanto che questi gli inviarono ambasciatori per pregarlo di non disdegnare di venire in Polonia, per ricomporre anche là l'assetto dello stato e le controversie degli uomini. E veramente egli, venendo, adempì così bene il suo ufficio che i Polacchi, in suo onore, alla nuova rocca e cittadella di cui finora avevano posto le fondamenta presso il fiume Vistola, assegnarono il nome di Krákow.
  Croccovia in Polonia erigo. Filiæ Crocci ſeu Sibylla, Bela, Tetcha. Krákow edificata in Polonia. Le figlie di Krok, cioè Sibylla, Bela, Tetka  
II g Nulla Crocco virilis ſexus proles fuit, ſed moriturus tres à morte ſua filias ſuperstites reliquit omnes (ut ipſe erat) fatidicas, vel magas potius qualis Medea & Circes fuerant. Nam Bela nata filiarum maxima, herbis incantandis Medea imitabatur, Tetcha natu minor, carminibus magicis Circem reddebat. Ad utramque frequens multitudinis concurſus fieri, dum alii eorum formam 﫤bi & amorems conciliare, alii cum bona valetudine in gratiam redire, alii res amiſſas recuperare cupiunt. Qua arte ita Belam excelluiſſe ferunt, ut proverbii vice, in re inventu prorſus difficili ja荒aretur: ne Belam quidem reperire id poſſe, quod 﫤t perditum: hæc arcem Belinam, illa altera, arcem Thetin, ex mercenaria pecunia (nihil enima gratuitò faciebant) ædificandam curavit. Krok non ebbe figli maschi ma, alla sua morte, lasciò tre figlie, tutte profetesse, così come era lui stesso, o piuttosto maghe, come erano state Medea e Circe. Bela, la maggiore, imitava Medea con erbe incantate; Tetka, la seconda, ricordava per le sue formule magiche, Circe. La gente accorreva numerosa al loro cospetto: alcuni desideravano conciliare la bellezza e l'amore, altri recuperare una buona salute, altri reperire cose perdute. E si tramanda che in tale arte eccellesse Bela, tanto che, a mo' di proverbio, si andava dicendo, di fronte a cose proprio difficili da ritrovare, che ciò che nemmeno Bela fosse in grado trovare era davvero perduto. Per mezzo del denaro che ricevevano (non facevano nulla di gratuito) l'una edificò la rocca di Belín, l'altra la fortezza di Tetín.
III Lybuſſa imperio praficitur Libuše profetizza il principato  
III a Liberalior in hac re Lybuſſa natu minima apparuit, ut quæ à nemine quidquam extorquebat, & potius fata publica omnibus, quàm privata 﫤ngulis præcinebat: qua liberalitate, & quia non gratuita ſolùm, ſed etiam minus fallaci prædi荒ione utebatur, aſſecuta est, ut à viris comitia prætoria habentibus, in locum patris Crocci ſubrogaretur. Vetus autem mos etiam Germania fuit, ut mulieribus fatidicis fummos haberent honores. Etenim ſcribit Tacitus, ſe, cum Veſpa﫤anus Cæſar imperium obtineret, vidiſſe, Germanam Velledam diu apud pleroſque Germanos Numinis loco habitam, ne quis, ut rem novam miretur, 﫤 Bohemi Lybuſſam vatem ſuam 﫤bi præpoſuerint. Numini enim hoc magis, quam homini datum est. Ergo etiam multò tolerabilius vatem illam, quam judicem tolerabant. Lis fortè ditiori cum tenuiore de finibus agrorum inciderat, eamque litem ambo in foro Lybuſſæ perſecuti ſunt, in quo palam convi荒us ditior, injuriæ illatæ est condemnatus. In merito, Libuše, la minore, si dimostrò più liberale: non estorceva nulla a nessuno, prediceva davanti a tutti i pubblici destini, piuttosto che il futuro alle singole persone. Per tale liberalità, e poiché praticava profezie non solo gratuite, ma anche meno fallaci, finì per essere collocata, dagli uomini che tenevano i comizi pretori, al posto del padre Krok. Era infatti un antico costume, anche presso i Germani, di riservare sommi onori alle donne che predicevano il futuro. E dal momento che Tacitus scrisse di aver visto, quando Caesar Vespasianus ottenne l'impero, la germanica Velleda, considerata a lungo presso gran parte dei Germani come una divinità, nessuno si meravigli, come di una stranezza, se anche i Čechové abbiano preposto Libuše come loro sibilla. Tale capacità, infatti, viene conferita a un dio, più che a un uomo. Perciò la tolleravano assai più facilmente come indovina che come giudice. Era scoppiata una lite, per questione di confini agricoli, tra un uomo più ricco e uno più povero, ed entrambi presentarono la loro vertenza a Libuše, nel foro, dove il più ricco, confutato pubblicamente, fu condannato per aver recato offesa.
  Traducitur γυναικοκρατεία S'instaura la ginecocrazia  
III b Non tenuit is infra dentium ſeptum iracundiæ vocem, ſed ad ſuos comites verſus, quouſque tandem, inquit, una muliercula tot viris inſultabit, ac non ſatis aliunde nobis dedecoris ſuperest, ni﫤 ut quoque cumulus imperii muliebris accedat? Quanto honestius est viros regi à viris, id quod & natura & mores gentium approbant, quam turpiter ſubjici fœminæ, ad penſa inter puellas diſpenſanda, quam ad negotia virilia tra荒anda magis idoneæ. Non trattenne a denti stretti la voce dell'ira ma, rivolto ai suoi compagni, disse: «Fino a quando una donnicciola insulterà tanti uomini e non ci resta abbastanza disonore, in altro modo, se non in questo eccessivo potere femminile? Quanto è più onesto che gli uomini siano governati da uomini, e questo lo approvano sia la natura, sia i costumi dei popoli, anziché essere turpemente soggetti a una femmina, ben più idonea a dispensare i lavori tra ragazze che a trattare questioni virili».  
III b Adhæc Lybuſſa, ut erat animo maſculo prædita, ingenueque & libere educata: Quo pa荒o (ait) id quod nata ſum negare ego poſ﫤m ant debeam? Planè ita est ut dicis, mulier ſum ego, ſed ad quam tu quoque cum cæteris juriſdi荒ionem transtuleris, non eo utique, ut ex tua libidine, ſed ut ex æquitate jus æquabiliter dicerem, proinde aufer hinc intempestivam contumeliam, & vince 﫤 potes argumentis, injuriam tibi à me eſſe fa荒am. A queste parole, Libuše, dotata di animo virile ed educata in modo schietto e libero, rispose: «Per quale motivo potrei o dovrei negare ciò per cui sono nata? Certamente, come tu dici, sono donna, alla quale però, anche tu, con gli altri, hai trasferito l'amministrazione della giustizia, non per servirtene a tuo piacimento, ma affinché con imparzialità esponessi equamente il mio giudizio; perciò smettila con insulti inopportuni e prova ad argomentare, se puoi, l'offesa che ti avrei arrecato».  
III b At ille furibundus, minitabunduſque è conſpe荒u ſe proripit, ne abiens destitit dominatum muliebrem, ut præposterum, traducere multis rurſus mutationis rerum cupidis. Quo illa cognito & præterea comperto, quod viri novarum rerum studio﫤 in arcem Lybs nomine, (quam ad Albim fluvium ubi num Colonia est 﫤bi Lybuſſa construxerat,) ventum eſſent, intromitti venientes jubet, ac pris ipſa loqui incipit inquiens: Ma quello, furibondo e minaccioso, rapidamente si allontanò dal suo cospetto, né andandosene desistette dall'idea che il potere femminile, come ormai fuori tempo, passasse a molti desiderosi, ormai, di cambiare le cose. E lei, compreso ciò ed essendo venuta a sapere fra l'altro che nella fortezza chiamata Libušín (che Libuše si era costruita presso il fiume Labe dove ora è Kolín) erano giunti uomini fautori di novità, comandò di farli entrare, e per prima ella stessa cominciò a parlare dicendo:  
  Excuſatio Lybuſſæ Autodifesa di Libuše  
III c

Dabitis mihi hanc veniam viri Bohemi, 﫤 antea, quam voſ audiam defen﫤onis meæ rationem putem habendam ita enim uti faciam non magis innocentia mea quam pudor vester flagitare videtur. Nam ego indigna honore cuiquam vestrûm eſſe videor, quia puella nata ſum, vobis profe荒o erubeſcendum, qui ultro in﫤gnia honoris ad puellam detuleritis. Sin plus valuit qualis existimatio nominis mei, cujus gratia me publico magistratu condecorandam putaveritis meus iste jam pudor meaque culpa fuerit, 﫤 impo﫤tam mihi a vobis perſonam, non ea qua debeam virtute ſustineam.

«Mi perdonerete, o cechi, se prima di ascoltarvi, io ritenga si debba aver ragione della mia difesa e fare sì che non tanto la mia innocenza quanto il vostro rispetto sembrino sollecitarla. Infatti, essendo nata femmina, sono considerata da qualcuno di voi indegna d'onore; in realtà dovrete accrescerlo proprio voi che, spontaneamente, avete conferito le insegne di tale onore a una donna. Ma se è valsa di più una qualunque stima del mio nome, grazie al quale avete ritenuto di elevarla a una carica pubblica, ora la mia vergogna e la mia colpa sarebbero quelle di non sostenere il ruo-lo da voi impostomi con quella virtù che dovrei.
III c Hic verò ego nullius libentius quam vestram impoloro conſcientiam. Nemo enim est vestrûm qui neſciat quemadmodum me in magistratu geſſerim, geramque, non aliter videlicet ac pater meus ſe geſ﫤t, qui jus æquabile perpetuo coluit, deditque ſedulam operam, ut pari inter vos jure, ita ut cives inter cives vivere convenit, viveretis, ſed nec aliter justus haberi potuiſſet, ni﫤 ad huncmodum in officio ſuo ſe geſ﫤ſſet. Nec item ego ſucceſ﫤one justi patris in Magistratu digna eram, 﫤 injusta ſequi, gratiamque cujuſvis æquitati anteferre voluiſſem: ſed hæc voluntas justitiæ paternæ mutandæ nec nunc mihi adest, nec unquam aderit, vobis autem diſpiciendum est, 﫤tne vobis omnibus propter unius iniquitatem & importunitatem, præſens rerum status commutandus.

«Ma in verità io qui non imploro niente di meglio della vostra coscienza. Infatti non c'è nessuno di voi che non sappia come mi sia comportata e mi comporti nel gestire la giustizia: proprio non diversamente da come fece mio padre che curò sempre un diritto egualitario e si applicò attivamente affinché viveste con pari diritto tra voi, così come si conviene che cittadini vivano tra cittadini; altrimenti non si sarebbe potuto ritenere giusto se, nel [fare] il suo dovere, non si fosse comportato così. E parimenti non sarei stata degna di succedere a un padre giusto nel suo lavoro di magistrato se avessi voluto assecondare cose ingiuste e anteporre all'equità il favore di qualcuno. Ma questa volontà di cambiare la giustizia paterna, ora non è presente in me, né mai lo sarà; d'altra parte, voi dovete discernere se, per l'iniquità e l'impudenza di una sola persona, si debba trasformare il presente stato delle cose.

 
  Seditio adverſus Lybuſſam Reazione contro Libuše  
III d Reticentibus ad hæc cæteris, iterum is qui Author ſeditionis fuit, Lybuſſæ 﫤c inſultat: Annon animadvertitis, inquit, cives, quam invita de lætioribus paſcuis bucula ista decedat, ſed jam vi inde exturbanda est, 﫤 ſua ſponte loco ſuo concedere viro alicui Principi noluerit. A queste parole tutti gli altri rimasero in silenzio, e per la seconda volta colui che era stato l'autore del conflitto così insulta di nuovo Libuše: «Per Annon, cittadini, osservate quanto mal volentieri questa piccola vacca si allontani dai pascoli più rigogliosi; ma ormai deve essere cacciata da qua, se non vorrà cedere spontaneamente il suo posto a un uomo, a un qualche principe!  
  Apologus 﫤milis Æſopico de ranis petentibus ab Iove Regem. Vide Phædrum

Apologo simile a quello di Aesopus delle rane che chiedono a Iuppiter un re. Vedi Phaedrus

 
III e

Nihil hac voce deterrita Lybuſſa, rurſum cum viris, ſed jam per apologum agit, inquiens: Mares quondam columbi dicuntur in comitiis ſuis Principem 﫤bi palumbem fœminam delegiſſe, celeriterque commutata ſententia imperium eidem abrogaſſe, quod imperii mollioris indulgentioriſque sub muliere turbam tæderet, illudque mox ad accipitrem tanquam natura & ſexu ferociorem transtuliſſe: porro accipitré imperio in columbos accepto, planè virum ſe erga illos demonstraſſe, aſſultu, raptu, laniatu, qualem morem in hunc uſ diem posteri accipitris obtinerent in obvias columbas alis & unguibus involantes, eaſque diſcerpentes. Ne quid igitur 﫤mile columbarum ex mutatione Magistratus Bohemis eveniat, ip﫤s quam maxime intentis oculis, re adhuc integra eſſe videndum, ne post rem malè a荒am, ſero fa荒i pœniteat.

 

Per nulla intimorita da queste parole, Libuše, rivolta di nuovo agli uomini, si esprime allora con un apologo, dicendo: «Si tramanda che, un tempo, dei colombi maschi si fossero scelti, nei loro comizi, come capo, una colombella, ma che presto, cambiato parere, le avessero tolto il comando, dal momento che alla moltitudine rincresceva il potere più debole e indulgente di una femmina, e lo trasferirono subito a uno sparviero, per natura e per sesso più feroce. Dopo di che, ottenuto il comando sui colombi, lo sparviero si dimostrò davvero virile nei loro confronti, assalendo, rapinando, dilaniando, secondo il modo che, fino a oggi, i suoi discendenti hanno mantenuto verso i colombi che vanno loro incontro, piombando loro addosso con le ali e gli artigli, e facendoli a pezzi. Perciò, affinché non capiti ai Čechové qualcosa di simile alla favola dei colombi, per il cambiamento di un magistrato, essi stessi devono badare a che la cosa, finora integra, lo rimanga, per non pentirsi troppo tardi del fatto, dopo una questione mal gestita».

 
III e

Cum per hæc quoque ſurdis narrareret fabulam, jamque inſuper metueret ne arbitrio concionis Princeps, qualem ipſa minimè cuperet, declararetur (talis verò erat qui Caurimn﫤 vico præfuit, pruximus dignitate à Crocco,) orare institit, ut diis potius quam hominibus authoribus vir aliquis in Bohemia Princeps crearetur.

 

E narrando la favola, con queste parole, anche a quelli che non ascoltavano, e temendo oltretutto che ad arbitrio dell'assemblea fosse dichiarato kníže chi ella stessa non desiderava affatto (tale era in realtà uno che ebbe il potere sulla via di Kouřim, di dignità pari a Krok), insistette a chiedere che in Čechy fosse creato principe qualcuno, più per volere degli dèi che degli uomini.

 
  Deo Au荒ore Principes creandi

Gli knížata creati per volere di Dio

 
III f Orationi aſſentientes reverti postridie omnes ad audiendum oraculum, quod dii per no荒urna ſacrificia propitiati de futuro Principe ediderint, jubet. A quelli che furono d'accordo con il suo discorso, comandò di tornare tutti il giorno dopo, per ascoltare l'oracolo che gli dèi, resi propizi dai sacrifici notturni, avrebbero emanato sul futuro kníže.  
       
LIBER SECVNDVS LIBRO SECONDO  
       
IV Premi﫩aũ & maritum & potestatis conſortem aſciſcit Lybuſſa

Libuše si prende Přemysl come marito e principe consorte

 
IV a Postridie mane ad horam rever﫤s omnibus (excitaverat enim per tempus omnes de﫤derium cognoſcendi Principis, quem fata Bohemis destinaſſent:) Lybuſſa in medium eorum cum puellis progreditur, & an pridianum mentis rigorem fle荒ere viri nollent, principio interrogat. Reſpondentibus, nolle, tum deinde illa, quod bonum ait faustumque & felix 﫤t: Dii mihi maritum, vobis Principem dant, Premislaum nomine. L'indomani mattina, ritornati tutti all'ora stabilita (infatti li aveva svegliati tutti, per tempo, il desiderio di conoscere il kníže che il fato avrebbe destinato ai Čechové), Libuše, accompagnata dalle altre fanciulle, avanza in mezzo a loro, e subito chiede se gli uomini non vogliano rinunciare all'ostinazione del giorno precedente. Al loro diniego, lei annuncia dunque ciò che di buono, fausto, felice sta accadendo: «Gli dèi dànno a me un marito, e a voi un kníže, di nome Přemysl».  
IV a

Obstupefa荒i ad nomen & hominem 﫤bi ignotum, rogant Lybuſſam, ubinam gentium vir ille vitam coleret? Virum eſſe indigenam Lybuſſa respondet, & 﫤 præterea fortunam quoque viri ſcire cupiant, planè eſſe colonum & rusticum. Cæterum utriuſque rei cauſa Diis eſſe gratiam habendam, prioris, quod oves vernaculas domestico pastori, non autem lupo externo committendas decreverint: posterioris, quod ſummum honorem ad infimam eoque minus inſoleſcentem hominis ſortem transtulerint, eidemque conceſſerint facultatem per fortes futura prædicendi. Ejus adeo hominis 﫤 maturo conſpe荒u perfrui concupiſcenrent, mature eſſe deligendos legatos, qui illum adeant, Principemque conſalutatum in arcem Vicegradum deducant.

Stupefatti per il nome e per la persona a loro ignota, chiedono a Libuše dove mai viva quell'uomo. È un uomo del posto, risponde Libuše, e se vogliono anche conoscere la sua condizione, è evidente che si tratta di un colono, di un uomo di campagna. «E proprio di questo si devono ringraziare gli dèi. Innanzi tutto per aver stabilito di affidare le greggi domestiche a un pastore locale e non a un lupo straniero e, in secondo luogo, per aver conferito il sommo onore a un uomo tanto umile, e perciò meno insolente, e di avergli anche concesso la facoltà di predire il futuro per mezzo di oracoli. Perciò, se desiderate che sia quanto prima al vostro cospetto, è tempo di scegliere dei legati che si presentino a lui e che, salutatolo come principe, lo conducano alla rocca di Vyšehrad.»  
  Premi﫩aus arator equi Lybuſſa indicio deprehenditur

L'aratore Přemysl viene riconosciuto da Libuše su indizio di un cavallo

 
IV b Deligunt continuo legatos viros primores decem, quibus ad Lybuſſam addu荒is, ostendit eis Lybuſſa equum ſuum, instrato & ſella constratum, mandatque, ut decem equum ſua ſponte vadentem legati tanquam comites aſſe荒arentur, de via in nullam partem defle荒entes quoad pervenerint ad aratorem ad menſam ferream prandentem. Quo demum viſo ſalutatoque, injungit, ut eundem aratorem Principem appellarent, indutumque purpura & calceis quos dabat, ut re荒à in arcem Vicegradenſem adducendum curarent. Scelgono subito come ambasciatori dieci tra gli uomini più in vista e, condotti da Libuše, ella mostra loro il suo cavallo bardato di gualdrappa e di sella e comanda che i dieci legati seguano il cavallo, senza deviare mai dal suo percorso, fino a quando non giungeranno presso un aratore intento a mangiare su una mensa di ferro. E ingiunge che, finalmente visto e salutato, lo chiamino kníže e vestitolo di porpora e dei calzari dati loro, lo accompagnino degnamente alla rocca di Vyšehrad.  
IV b Legati mandatis à Lybuſſa accepetis, equi vestigiis in﫤stunt quacunque præiret nec jam 﫤ne tædio, quippe paulò minus quinquaginta millia paſſuum pedibus emen﫤 erant cum ecce tibi equus, ut est ventum ad ripam fluvii Belinæ, quo loco pagus Stadicius vi﫤tur, ſubito ſe de via in agrum convertit, recens tunc & pro meliori parte proſciſſum, pergitque re荒o gradu ad aratorem, ac proximè accedens, poplites ei una cum cervice, qua﫤 venerabundus ſubmittit. Sedebat immotus arator in stiva, atrumque panem & caſeolum de vomere, menſæ vicem fungente ſustollens arrodebat, tentiſper, dum legati mandata Lybuſſæ exequerentur, eumque Principem conſalutarent: inde confestim exurgens, stimulum colurnum, qui juxta aratrum jacebat arripit, aditque ad boves ſuos, qui proxime paſcebantur, ambo candidi, ni﫤 quod maculis fulvis alicubi aſper﫤 fuerunt: eos boves stimulo illo exstimulat, faceſ﫤te hinc, dicens, ſudoris laborisque ſocii, retroque unde venistis protinus devolvamini. Atque illi repente ambo ex oculis in tenuem evaneſcunt auram, mox stimulum ipſum plantæ modo in terram pangit, qui pun荒o item temporis in corylum coaluit, ternis ramis frondentem, quorum duo illico exaruerunt, at tertius nuces etiam avellanas ostendit. Gli ambasciatori, ricevuti gli ordini da Libuše, si mettono sulle orme del cavallo, lasciandolo vagare liberamente. Dopo aver percorso quasi cinquantamila passi, erano ormai annoiati, quand'ecco il cavallo, giunto sul sponda del fiume Bílina, dove sorge il villaggio di Stadice, all'improvviso devìa dalla strada in un campo, la cui miglior parte era stata lavorata da poco. Con passo regolare [il cavallo] si dirige verso l'aratore e, appressatosi a lui, piega le zampe e china il capo, quasi nell'atto di venerarlo. L'uomo sedeva immobile sulla stanga dell'aratro e, sollevandolo dal vomere che usava come tavolo, masticava pane nero e formaggio. Intanto, eseguendo gli ordini di Libuše, gli ambasciatori lo salutano come kníže. Ad un tratto, alzatosi, [l'uomo] afferra il pungolo di nocciolo che si trovava presso l'aratro e si dirige verso i buoi, che pascolavano lì vicino, entrambi dal manto bianchissimo, appena cosparso di macchie rossicce. Stimola i buoi con il pungolo, dicendo: «Via di qua, compagni di sudore e di fatica, ritornate subito indietro, da dove siete venuti». E immediatamente quelli svaniscono da entrambi dagli occhi, in un'aura sottile, e subito il pungolo, a mo' di pianta, si radica in terra e cresce all'istante un nocciolo frondoso, con tre rami. Di questi, due subito si seccano, mentre sul terzo spuntano anche le nocciole.  
  Præſagiæ de incrementis & duratione imperii Bohemici.

Presagi sullo sviluppo e la durata del principato di Čechy

 
IV c Ab his tandem præstigiis ad legatos verſus, cedamus inquit, pareamuſque Numinibus ab aratro nos ad ſolium Principale vocantibus. Quam vellem tamen, cuperemque ut paulò ſerius huc adveniſſetis, tum videlicet, cum veru a荒um exaraſſem, majora omnino tunc imperii olim incrementa forent, etiam 﫤 præſentia boni conſulere jure optimo debeamus. Quo finito vestitum obſoletum rusticanumque deponit, ac ſe purpura & calceis à Lybuſſa miſ﫤s induit, lautiorque jam inde equum conſcendit, Vicegradum iturus ad celebrandas nuptias, & ad capeſcendum in Bohemos imperium. Cum paulum proceſ﫤ſſet, heu mihi, inquit, manticulam in qua obſonium inerat, & carbatinas quibus calceatus eram, charas mihi exuvias, mecum auferre oblitus ſum, redeat oro unus aliquis in agrum & ad me utraque referat. Dopo tali prodigi, [l'aratore] si rivolge agli ambasciatori, dicendo: «Andiamo e obbediamo agli dèi che ci chiamano dall'aratro al trono del kníže. Quanto avrei voluto e desiderato, però, che foste arrivati un po' più tardi. Allora, senz'altro, avendo portato a termine l'aratura, il regno si sarebbe un giorno elevato a più alti destini, anche se dobbiamo apprezzare a buon diritto le cose presenti». Detto ciò, depone il suo abito obsoleto e rustico, si veste della porpora e dei calzari inviati da Libuše e, ormai sontuoso, monta a cavallo per andare al Vyšehrad, per celebrare le nozze e assumere la sovranità sui Čechové. Ma dopo aver cavalcato per un po', disse: «Ahimé, ho dimenticato di prendere la bisaccia nella quale tenevo il cibo e i calzari villerecci che indossavo, miei trofei in fibra vegetale. Vi prego, che qualcuno torni al campo e mi riporti entrambe le cose».  
IV c Qui retulit, quid est, inquit, Princeps, cur tanti tu æstimes vilem perulam & agreste calciamentum, abjicienda mea opinione utraque potius, quam oculis alicujus ingerenda ni﫤 rideri ob hæc à ſpe荒atoribus, quam celebrari mavis?

L'incaricato, al suo ritorno, chiese: «Come mai, kníže, stimi tanto una semplice bisaccia e un rustico calzare che, secondo me, sarebbero da buttar via, a meno che tu non preferisca essere deriso, esponendoli alla vista di ognuno, anziché essere celebrato dagli astanti?»

 
  Agathocles fictilibus cenabat Agatocle cenava in piatti d'argilla  
IV d Immo celebrabor per ista, inquit, magis quam deridebor, 﫤 fortunæ meæ ad posteros monumentum reliquero, quo ſubmoniti ſucceſſores Principes, minus olim intumeſcant. Valde enim inſolens Princeps fuerit, quiſquis crepundiis originis ſuæ tam agrestibus conspe荒is, tumorem animi & inflationem non ſepoſuerit. «Senz'altro sarò per questo celebrato più di quanto non sarò deriso» rispose, «se avrò lasciato ai posteri una memoria della sorte che mi è toccata. Servirà da ammonimento ai futuri principi, affinché non montino in maggior superbia. Sarebbe infatti un principe assai insolente quello che, sprezzando un'origine tanto umile, non allontanasse da sé la superbia e la baldanza d'animo.»  
IV d Captus tam tempestivo reſponſo legatus, pergit inter eundum cætera exquirere. Quorſum vicelicet prodigia de bobus, deque stimulo tenderent. Colpito da una risposta così tempestiva, il legato passò a interrogarlo sul resto: che cosa significassero cioè, i prodigi dei buoi e del pungolo.  
  Posteritas Premislai quamdiu duratura

Per quanto tempo sarebbe durata la discendenza di Přemysl

 
IV e Illud, reſpondit, ad gloria ſuam pertinere, quod à bobus ad equos, ut dicitur, tranſcenderit, hoc ad filios quo habiturus eſſet. Ut enim duo rami ex stimulo prognati statim aruerunt, ita olim fata duos 﫤bi filios ostenſura eſſe tantummodo, ac mox è medio ſublatura. Tertium tantum modo non ſolum ad lætas frondes, verum etiam ab uberes fru荒us proveum iri. Et 﫤 vestro, inquit, interventu aratio non fuiſſet interrupta, ſed abſoluta, futurum 﫤mul fuiſſet, ut stirps mea virilis nunquam apud Bohemos exareſceret. Nunc multa quidem ſæcula illam eſſe duraturam, ad prostremum tamen occaſuram, cum nepos ultus fueri avum. [Přemysl] rispose  che era da ascriversi a sua gloria il fatto che, come si suol dire, fosse asceso dai buoi al cavallo, e che così sarebbe stato per i suoi figli. E come infatti i due rami, spuntati dal pungolo, si erano subito seccati, così i fati gli avrebbero mostrato e subito tolto due suoi figli. Soltanto il terzo non solo sarebbe arrivato a fronde rigogliose ma anche a frutti abbondanti. «E se l'aratura non fosse stata interrotta dal vostro intervento, ma fosse stata portata a termine,» continuò, «allo stesso modo, la mia progenie maschile non si sarebbe mai estinta presso i Čechové. Essa durerà per molti secoli; alla fine, però, tramonterà, quando un discendente avrà vendicato il suo avo.»
IV e Post has 﫤milesque verborum ambages arci Vicegrado appropinquantibus, viri Bohemi, qui ad Lybuſſam venerunt, magno alius alium antevertendi studio obviam procedunt, ac pro ſe quiſque gaudium aut officium ostentant: pari animi alacritate Lybuſſa eundem excipit, nuptiaſque pariter, ut dignum fuit, apparat. Dopo queste e simili misteriose parole, ormai vicini alla rocca di Vyšehrad, quei cechi che erano venuti da Libuše, gli vanno incontro con l'intento esclusivo, l'uno di reprimere, l'altro di ostentare, ciascun per sé, la gioia o il senso del dovere. Con pari alacrità d'animo, Libuše riceve Přemysl e organizza degne nozze.  
  Praha ortus, etymon & augurium

Praga: fondazione, etimologia e profezia

 
IV f Atque ita quod nulla ratione, nullaque perſua﫤one conſequi potuit, in arte & præstigiis conſecuta est, ut imperium in viros mulier continuaret, vocabulum tantummodo Principis inane Premislao relinquens, ipſa vim potestatemque imperii 﫤bi perpetuo uſurpabat. Et quoniam parum laxè pro magnificentia habitare in arce Vicegrado 﫤bi videbatur, ad urbem in loco arci propinquo ædificandam animum adjecit, ipſaque constituendis mœnibus & domibus areas atque fines definivit, juſ﫤tque prima ædifici exordia archite荒os sumere eo loci, quo vir quidam colonus dedolaret 﫤bi caudicem. E così, ciò che non si poté conseguire con il ragionamento o la persuasione, [Libuše] lo ottenne con scaltrezza e artifici; la donna, lasciando a Přemysl il vuoto titolo di kníže, ne usurpò definitivamente l'energia e l'autorità, riuscendo così a conservare il suo potere sugli uomini. E poiché le sembrava di scarsa magnificenza abitare nella fortezza di Vyšehrad, decise di edificare una città in un luogo non lontano e lei stessa progettò dove innalzare le mura, gli spazi delle case e i confini, e ordinò che gli architetti principiassero la costruzione nel luogo in cui un contadino stesse segando un tronco d'albero.  
IV f Vadunt archite荒i mœnium fundamenta de﫤gnaturi, inciduntque in colonum, ramos de trunco deſecantem, cum unus aliquis ex illo archite荒orum numero rogat, quidnam ex trunco adeo curtim detruncato effingere pararet? Reſpondit ille patrio ſermone, prah, id est limen, ſe 﫤bi ad hostiolum ſuum fingere; quo ad Lybuſſam relato, illa nomen urbi Praha indit, ac 﫤c inter eos qui circumstabant diſſerit: Quantumvis ipſum limen res contemnenda eſſe videatur, efficit tamen non raro ut magni Principes impa荒is in limen pedibus, læſos ſe eſſe querantur, ita ſperarent fore, ut Majestas & potentia hujus urbis, vel ipſos olim Reges hostilia in eam parantes fit offenſura. Accedet & hoc urbis Majestati, quod duos habebit præsides, quorum uterque ſuo cœlum divino capite continget. Videre enim mihi viſa ſum, inquit, geminos olivæ ramos ad aquilonarem urbis partem divinitus enatos, quorum ſublimitas uſque ad ſydera pertenderet. Vanno gli architetti per tracciare le fondamenta delle mura e si imbattono in un colono che sta ripulendo un tronco dai rami: quando uno degli architetti gli domanda che cosa si accinga a fabbricare con quel tronco abbattuto, l'altro risponde, nella sua lingua natia: prah, una «soglia», da utilizzare per la sua porticina. Riferita la cosa a Libuše, ella dà alla città il nome di Praha, e così si esprime verso i presenti: «Sebbene sia ovvio che la situazione non debba tener conto di tale soglia, non è raro che grandi principi, inciampando su di essa, lamentino di essersi feriti, così da sperare che sarà la maestà e la potenza di questa città a contrastare quegli stessi re che un giorno la minacceranno. E alla maestà della città si aggiunga anche questo: che avrà due patroni e l'uno e l'altro, per sua mente divina, raggiungerà il cielo. Mi parve infatti di vedere due rami gemelli di ulivo miracolosamente spuntati nella zona settentrionale della città, la cui cima si elevava fino alle stelle».  
IV f Certam quidem ſpem omnes qui aderant animo præſumſerant, ita videlicet olim fore, ut prædiceret Lybuſſa, ſed nemo tunc intelligebat quinam illi tam in﫤gnes viri eſſent futuri. Post aliquot ſecula tandem documentis apparuit, viſum tale, vaticiniumque, divum Venceslaum, divumque Adalbertum prænunciaſſe, quorum alter Pragæ ut Princeps, alter ut Pontifex præfuit, atque ambo in cœlum atque inter numina cœlestia relati ſunt. Tutti i  presenti sperarono certamente che sarebbe accaduto così come prediceva Libuše, ma nessuno allora poteva capire quali uomini sarebbero mai stati così insigni. Finalmente, dopo alcuni secoli, in certi documenti apparve – e tale fu considerato – un vaticinio che aveva preannunciato [l'avvento di] svatý Václav e svatý Vojtěch, il primo dei quali fu kníže di Praha, mentre l'altro vescovo, ed entrambi furono elevati al cielo nel novero dei santi.
  Mors Lybuſſa Repub. prius constituta.

La morte di Libuše, primo ordinamento politico

 
IV g Tres filios Lybuſſa Premislao enixa est, ſed duo præmatura occubuerunt morte: tertius utrique parenti ſuperstes fuit. Paulò ante obitum ſuum Lybuſſa diſcreto per ordines populo, nobilibus quidem Magistratus atque honores capiendi potestatem fecit: colonos verò & opifices intra ſuam quem eorum pelliculam continere ſe juſ﫤t. Libuše partorì a Přemysl tre figli, ma due soggiacquero a morte prematura; solo il terzo sopravvisse ai genitori. Poco prima della sua fine, Libuše, diviso il popolo in classi, diede ai nobili facoltà di assumere le magistrature e le alte cariche, mentre ai contadini e agli artigiani ordinò di accontentarsi del loro stato.  
IV g Obiit autem in arce ſua Lybus, ibidemque ſepulta est, cujus obitu cura administrandæ reipublicæ tota ad Premislaum est devoluta, virum paritem ſuperstitioſum, ut uxor fuit, eademque ſuperstitione, qua uxor populum regentem, ni﫤 quod paulò ille agrestius. Morì poi nella sua rocca di Libušín, dove fu sepolta. Dopo di che, l'intero compito di amministrare il principato fu affidato a Přemysl, uomo del pari superstizioso, com'era stata la moglie, e che resse il popolo con le medesime false credenze di lei, se non un po' più rozze.  
Conjuratio muliebris La congiura delle donne  
IV h Erat inter alumnas Lybuſſæ puella quædam Vlasta nomine, præstigiarum patrona, divinationumque conſcia peritaque: cujus tutelæ Lybuſſa moritura puellas, quas gynecæo habuit, una cum ipſa arce Lybus commendaverat. At illa arcis tutelam indepta, ex ea aſpirare ad altiora cœpit. Itaque apparato ad certum diem festivo in arce convivio, eodem 﫤miles studii audaciæque viragines invitat. Ubi finis edendi fa荒us est, amotis arbitris, Vlasta 﫤c ſocias puellas adoritur: Tra le seguaci di Libuše vi era una giovane, una certa Vlasta, fautrice di incantesimi, abile ed esperta nelle divinazioni, alla cui tutela Libuše, in punto di morte, aveva affidato le fanciulle che teneva nel gineceo, insieme con la sua stessa fortezza di Libušín. Ma [Vlasta], ottenuta la potestà sulla rocca, cominciò a nutrire più alte aspirazioni. Così, organizzato per un certo giorno un allegro convito alla rocca, vi invitò donne agguerrite, simili a lei per intenzioni e audacia. Alla fine del pranzo, allontanati i testimoni, Vlasta si rivolse così alle sue compagne:  
IV h Doleo, inquit, meam, vestramque omnium vicem, quod non perinde ut dignitas nostra postulat, jus nostrum contra viros obtineamus, nimium videlicet à morte Lybuſſæ in ordinem à viris reda荒æ, qua﫤 﫤mul cum Lybuſſa omnium aliarum mulierum virtus interiiſſetm cum ego hic non paucas diſcipulas adeſſe videam, magistra etiam Lybuſſa præstantiores, ſed nec ego libenter ceſſerim eidem Lybuſſæ de arte, quam de illa didici. Si igitur una Lybuſſa ingenio, artificioque tantum potuit, ut viros ſub jugum ſuum mitteret, quid illis fiet postea, 﫤 nos 﫤mul omnes adverſus eoſdem viros, pro dignitate pristina recuperanda conſpiraverimus? Nec est quod rusticum Principem timeamus, rus enim ille merum olet, nec alia ei major quam de rure cura. Vos modò mihi dextram in hoc date, ne me neve cauſam vestram, quovis metu obje荒o prodatis, ſpondeo fore, ut brevi in viros imperium recuperetis. «Mi affliggo per la disgrazia mia, vostra e di tutte, dal momento che, sottomesse all'ordine maschile, proprio in seguito alla morte di Libuše non godiamo più dei nostri diritti davanti agli uomini, come richiede la nostra dignità. È come se insieme a lei fosse morta l'eccellenza di tutte le donne, mentre io qui vedo presenti non poche alunne di Libuše, anche più abili della loro maestra, né io cederei volentieri alla stessa Libuše riguardo alle arti che ho appreso da lei. Perciò, se Libuše, con ingegno e artificio insieme, tanto poté da mettere gli uomini sotto il suo giogo, cosa ne sarà di loro se noi, tutte insieme, cospireremo per recuperare l'antica dignità? E ciò non è perché temiamo il kníže contadino: quello puzza solo di stalla e non ha maggiore interesse che zappare la terra. Perciò, porgetemi la destra, per non tradire, per qualsivoglia timore, né me né la nostra causa, e prometto che in breve recupererete autorità sugli uomini».  
IV h Dant dextras, oblatamque ab Vlasta potionem medicamento odii in viros temperatam, ordine delibant, remanentque ibidem statim complures, quæ invitatæ advenerant, ſeque equestri & pedestri, atque aliorum militarium operum meditatione exercent: Dànno le destre e in ordine gustano una pozione offerta loro da Vlasta, mescolata a un filtro di odio verso gli uomini, e lì rimangono parecchie delle invitate e s'intrattengono a discutere di cavalleria, di fanteria e di altri aspetti guerreschi.  
  Somnium Premislai ominoſum.

Il sogno funesto di Přemysl

 
IV i Inter hæc Premislao dormienti ſpecies puellæ per ſomnum obje荒a est, dextera pateram gestantis, eamque Premislao propinare gestientis, quam cum ille accipere abnueret, puellam viſam eſſe ſanguinem ex eadem patera in terram fundere, malaque multa capitibus virorum canere. Consternatus tali in ſomnio Premislaus, cœtum virorum ad ſe evocat, præmonetque ſaluti ſuæ, rerumque ſuarum ut custodes eſſe vellent diligentiores, ingens enim exitium eis à puellis, imagine, quam per quietem vidiſſet, denunciari. Ibi aliqui riſu, aliqui convitiis etiam, di荒a Premislai inſomnia proſequi, pars vero puellis inſuper applaudere, quod virilia munia fœmineis miſcerent. Nel frattempo, a Přemysl, mentre dormiva, si presentò in sogno l'immagine di una fanciulla. Recava nella destra una coppa e la porgeva a Přemysl; e poiché lui non voleva bere, gli parve che la fanciulla versasse a terra del sangue dalla coppa e invocasse malanni sulla testa degli uomini. Costernato da tale sogno, Přemysl convocò un gruppo di uomini, chiese loro di essere custodi più diligenti della sua incolumità e dei suoi beni, e li informò di aver avuto in sogno la visione di un immenso sterminio deciso dalle fanciulle ai loro danni. E allora, alcuni con risa, altri con schiamazzi, si misero a commentare le parole e i sogni di Přemysl; qualcuno applaudì le ragazze per aver frapposto gli impegni virili alle faccende muliebri.  
  Conjuratio muliebris La congiura delle donne  
IV j Quo Vlasta accepto, majora indies infestioraque tentare audet, ac modò greges in agris infestare, modò per vias obvios ſpoliare, modò ipſos agros populari, prædasque omnium in arcem agere, viris etiam tum cun荒a ista, vel diſ﫤mulantibus, vel negligentibus: donec negligentiam ejusmodi incuriamque, atrociſ﫤mum facinus con﫤lio Vlastæ immani commiſſum viris excuteret. Instruxerat rurſus in arce convivium Vlasta, jamque non cœlibes modò puellas, ſed ipſas etiam matresfamilias, quibus non admodum cum maritis conveniebat, ad id ineundum invitaverat. Posteaquam ſatis ex largiore cibo potuque convivium calere viſum est, interrogat Vlasta nuptas, liberæ an ſervæ vivere mallent? libertatem præferentibus, inare eadem multis verbis, fornitemque odii contra maritos illis ſubminirare, quoad uſque intelligeret tanto eas furore, quanto cupiebat in maritos eſſe incenſas: ibi conlium deinde ſuum aperit, noemque unam omnibus præituit, qua ſomno ſopitos interficiant maritos, imperatque ut cæde perpetrata ad ſe cum ſpoliis maximè equorum & armorum mox revertantur. Compreso tutto questo, Vlasta osava tentare imprese ogni giorno più audaci e più pericolose; ora [le fanciulle] molestavano le greggi nei campi, ora depredavano quelli che incontravano per via, ora saccheggiavano gli stessi campi e portavano nella loro rocca il bottino di tutti. Gli uomini continuavano a trascurare e minimizzare tutto ciò, finché un atroce misfatto, commesso per crudele decisione di Vlasta, non scosse la negligenza e l'incuria degli uomini. Di nuovo Vlasta aveva imbandito nella rocca un banchetto e aveva invitato a parteciparvi non solo le ragazze nubili, ma anche le madri di famiglia, alle quali non conveniva presenziare con i mariti. Quando il banchetto si era ormai acceso per il cibo abbondante e per il bere, Vlasta interrogò le sposate: se preferissero vivere come donne libere o come serve. Poiché preferivano la libertà, lei stessa le incalzò con molte parole e fornì loro motivi di odio contro i mariti, fino a che non si accorse di averle accese, come voleva, di furore contro gli uomini. A quel punto, manifestata la sua decisione, stabilì per tutte la notte in cui uccidere i mariti addormentati, e comandò che, compiuta la strage, ritornassero subito da lei con un bottino soprattutto di cavalli e di armi.  
IV j Quod ubi est fa荒um, attoniti inopinato parricidio affines cognatique & amici cæſorum, ad Principem cum armis adfluunt, existimantes, promptum illum tanti ſceleris ultorem ſe inventuros: at ille fatis ſe impediri, quo minus festinaret, ad exigendas de mulieribus pœnas, ſed & ip﫤s affinibus impendere exitium dicebat, 﫤 per ſe ultionem properarent. Tum verò non contemptus modò, ſed ingens inſuper indignatio adverſus Principem fuit, qua﫤 miſerias, necem deplorantium, ludibrio etiam magis, quam auxilio dignas putaret. Appena queste azioni furono compiute, stupiti per gli inaspettati delitti, i congiunti, i parenti e gli amici degli uccisi affluirono in armi dal kníže, credendo di trovarlo pronto a vendicare tali crimini. Ma quegli disse che il fato gli impediva di affrettarsi ad esigere castighi nei confronti delle donne e che la malasorte avrebbe sovrastato anche i congiunti [degli uccisi], se da soli si fossero apprestati alla vendetta. Sorse allora verso il principe, non solo disprezzo, ma anche grande indignazione, come se considerasse cosa da nulla, degna di scherno anziché di aiuto, l'eccidio di coloro che stavano piangendo.  
IV j Igitur per ſe, 﫤ne Principe conglobantur, vaduntque indignabundi, pœnas de puellis exa荒uri: & quacunque incedunt obvios quoslibet agmini ſuo aggregant, eratque agmen abſque certo Duce & 﫤gnis, prorſus inconditum. Così [i congiunti] si riunirono per conto loro, senza il kníže, e andarono gonfi d'ira a esigere castighi nei confronti delle donne, aggregando alla loro schiera chiunque incontrassero per via; ed era una moltitudine del tutto disordinata, priva di un vero comandante e d'insegne.  
  Vlasta prodit in aciem

Vlasta si schiera in battaglia

 
IV k Contra Vlasta per turmas compo﫤ta venerat, primæ turbæ Milada, ſecundæ Hodeca, tertiæ Suatava, quartæ Radeca, præpo﫤ta fuit. Ipſa Vlasta cum reliquis agmen claudebat. Al contrario, Vlasta era venuta organizzata per squadre: della prima era stata messa a capo Mlada, della seconda Hodka, della terza Svatava, della quarta Radka. La stessa Vlasta chiudeva il contingente con le rimanenti.  
IV k Cœpto prælio, viri pauliſper impreſ﫤onem ſustinuerunt, mox procella equitum à fronte & à lateribus circumfu﫤 in medio turpiter ſunt cæ﫤. Ferunt Vlastam ſua manu ſeptem viros validos interfeciſſe, tantumque ſui metum à vi荒oria illa ſuſcitaſſe, ut cæteri ſuperstites viri multo magis de petendis induciis, quam de bello instaurando fuerint ſolliciti, interim & tributa Vlastæ pendebant. Iniziata la battaglia, gli uomini per un po' sostennero l'impeto, ma all'improvviso, circondati da una tempesta di amazzoni, di fronte e di lato, furono vergognosamente trucidati. Tramandano che Vlasta stessa avesse ucciso di sua mano sette uomini valorosi e che avesse suscitato, in seguito alla vittoria, tale timore di sé, che i superstiti furono molto più solerti a chiedere una tregua che ad organizzare una guerra. Nel frattempo, presero a pagarle tributi.  
  Aſylum muliebre

Il rifugio delle donne

 
IV l Induciarum tempore Vlasta tumulum ad Vultaviam flumen è regione Vicegradi 﫤tum occupat, illoque foſſa, aggere, & ſepibus communito, aſylum mulieribus aperit, ac paulò mox affluente mulierum copia, arcem ibidem ædificat, appellatque Devinam, (quo vocabulo vernacula lingua puellæ cognominantur:) ut invidiam declinaret, quæ 﫤ne dubio exortura erat, 﫤 ſuo privatoque potius, quam communi omnium puellarum nomine arcem in﫤gniiſſet. Nel periodo della tregua, Vlasta occupò un piccolo monte presso la Vltava, nella zona del Vyšehrad, e fortificatolo con un fossato, un argine e delle siepi, offrì asilo alle donne. Dopo un po', affluendone una certa quantità, edificò in quel luogo una fortezza e la chiamò Děvín (così vengono dette le ragazze nella lingua locale): e ciò per evitare l'invidia che senza dubbio sarebbe sorta se, col suo nome piuttosto che con il nome comune di tutte le fanciulle, avesse reso famosa la rocca.
IV l Vasta tunc, incultaque circum illam loca erant, & 﫤 qui agri frumentarii propius apparebant, eos coloni puellis infesti, arabant, frumentumque ſupprimebant, ne emendi illius potestas puellis fieret. Ut igitur ſen﫤t Vlasta ſe arcem fine commeatu tenere diutius non poſſe, rumpendas ante tempus inducias diſſerit, ni﫤 ante tempus fame mori, quam per ſocietatem vivere mallent. Decernitur statim ab univerſo cœtu puellarum, ut traje荒o Vultavia flumine in proxima Principis horrea & armenta impetus fiat. Abripiebantur penè in conſpe荒u Principis frumenta ex horreis, gregeſque ex agris abigebantur, vel non auſo illo, vel nolente vim puellarum arcere, qua﫤 fata ei nondum faverent. I luoghi circostanti, a quel tempo, erano vasti e incolti, e se si scorgevano vicini alcuni campi di frumenti, questi venivano arati da contadini avversi alle donne, che nascondevano le messi per non dare loro la possibilità di comprarne. Pertanto, come Vlasta capì di non poter reggere più a lungo la fortezza priva di viveri, dichiarò di dover rompere la tregua anzitempo, se non volevano morire di fame, invece che vivere per la loro comunità. L'intera assemblea delle donne stabilì subito di attraversare la Vltava, assalire i vicini granai e gli armenti del kníže. E mentre il kníže non osava o non voleva contenere la violenza delle fanciulle, come se il fato non gli fosse ancora favorevole, quelle rubavano, quasi davanti ai suoi occhi, il frumento dai granai e portavano via il bestiame dai pascoli.  
IV l Eò promptius Vlasta pergit inſuper ire adverſus amicos Principis, ut agros eorum populetur, prædas agat pecorum, & colonos in ſervitutem adigat, miraturque non plus animi illis, quam Principi ad re﫤stendum adeſſe. Soli ſupererant juvenes audaciores, qui interdum postremum puellarum agmen, globis aſſilirent, lacerarentque. Illis in hunc modum in﫤dias Vlasta instruxit. Tanto più audacemente Vlasta osava opporsi ai sostenitori del kníže, saccheggiando i loro campi, depredando pecore e riducendo i coloni in servitù, tanto più si meravigliava che non avessero coraggio di opporsi non tanto a loro, quanto al kníže. Soltanto i giovani più audaci erano ancora in grado, con i loro squadroni, di assalire e sgominare le schiere delle fanciulle. Contro di loro Vlasta ordì il seguente inganno.  
  Stratagema in adoleſcentes amatores. Trappola per giovani amanti  
IV m Componi juſ﫤t literas, nominibus puellarum forma præstantium ſubſcriptas, quæ ſe maritandi de﫤derio teneri, nec ni﫤 unam Vlastam 﫤bi obstare, quo minus de﫤derio potiantur, aſ﫤mularent. Hanc capi aut tolli facile poſſe, 﫤 complures armati no荒e illis constituta propius arcem accedant, eamque una cum Domina à ſe illis traditam accipiant. Comandò di mandare messaggi firmati con i nomi delle fanciulle più attraenti, che simulassero di essere arse dal desiderio di sposarsi, e che la sola Vlasta si opponesse al loro esaudimento. Ma [Vlasta] la si poteva facilmente catturare ed eliminare se molti armati, in una notte prestabilita, si fossero avvicinati il più possibile alla fortezza: a quel punto l'avrebbero espugnata e insieme avrebbero avuto in loro potere la sua signora.  
IV m Le荒is hujuſmodi literis juvenes, amoribus perſequendis, quam dolis effugiendis curio﫤ores, præstitutam no荒em bene multi conveniunt, & uſque in vestibulum arcis 﫤ne injuria intromittuntur: progreſ﫤 ulterius, alii eorum de ponte præcipites, alii post vestibulum neci dantur, 﫤ne ullo ſolatio ultionis, quia per cœcas tenebras ulciſci non licebat. Lette missive di tal genere, molti giovani, assai più ansiosi di ottenere l'amore che di sfuggire al pericolo, si riunirono ben volentieri, in una notte prefissata, e arrivarono incolumi fino all'ingresso della fortezza. Ma dopo, avanzati ulteriormente, alcuni vennero fatti precipitare dal ponte, e altri vennero uccisi subito dopo il vestibolo, senza alcuna speranza di restituire i colpi, dal momento che era impossibile difendersi nella fitta oscurità.  
Stiradius Principi ignaviam exprobrat Ctirad biasima l'ignavia del kníže  
IV n Luce orta, primus hujus cædis nuncius ad Stiradium, præcipua authoritate & gratia apud Principem in﫤gnem pervenit, quo ille vehementer permotus in conclave Principis irrumpit, & vincente pudorem dolore, Quid est (inquit) Princeps, quod jam amplius expe荒es, 﫤 te neque parricidium muliebre in maritos commiſſum, neque strages nuper tot virorum, neque hac no荒e totidem penè juvenum, ad vindi荒am ſumendam haud commovet? an non cogitas, quo loco ſis? quàm ſustineas provinciam? non certè eam, ut hîc ſedens ariolum nobis agas, ſed ne nos con﫤lio in periculis, auxilio in præliis, vindi荒a in ſceleribus admiſ﫤s destituas: quod ni﫤 nunc feceris, teque à torpore, quo nimis diu intorpeſcis, excitaveris, ſcias fore, ut quos tu in præſens deſeris, ab eiſdem mox, ut deſerare. Sorto il sole, il primo annuncio delle strage pervenne a un certo Ctirad, insigne per autorità e favore presso il kníže. Fortemente colpito, [Ctirad] irruppe in assemblea e, superata la timidezza con il dolore, esclamò: «Perché mai, o kníže, aspetti ancora di più se né i delitti commessi dalle mogli contro i mariti, né le stragi recenti di tanti uomini, né quella di quasi altrettanti giovani, questa notte, non ti spingono alla vendetta? O non pensi quale sia la tua posizione, quale carica stai sostenendo? No, certo, perché tu, qui sedendo, ci faccia da indovino; ma per non privarci di consigli nei pericoli, di aiuto nelle battaglie, di vendetta per i crimini commessi. E se ora non farai in modo di svegliarti dal torpore nel quale troppo a lungo ti sei assopito, sappi che coloro i quali oggi hai abbandonato, ben presto ti abbandoneranno a loro volta».  
IV n Post hæc di荒a abire parantem, retinet Princeps, rogatque ne ipſe etiam Stiradius ultro 﫤bi malum accer﫤re velit, fatis relu荒ando, nec expe荒ando dum illa ſuo decreto, tempus vindi荒æ constituant. Rogat ille viciſ﫤m Principem, ut de﫤pere de﫤nat, omiſſoque vano augurio, certa ac 﫤bi ſuisque conducibilia, cum ratione ut perſequatur. Porrò Vlasta à coryceis ſubauſcultantibus, quos mercede corruptos in aula Principis habebat, edo荒a, quàm malè Stiradius in puellas animatus eſſet, vi aut fraude quàm primum tollere eum statuit. Detto ciò, Ctirad fece per uscire, ma il principe lo trattenne e lo pregò di non voler procacciarsi il male opponendosi ai fati ma attendesse piuttosto che essi stabilissero, per loro decreto, il tempo della vendetta. A sua volta, Ctirad chiese al principe di smettere di vaneggiare e, ignorato l'inutile vaticinio, di perseguire con la propria testa quel che gli sembrava più sicuro e vantaggioso per sé e per i suoi. Ma Vlasta, messa al corrente dalle spie che aveva corrotto, dietro ricompensa, affinché origliassero nella sala del kníže, di quanto Ctirad fosse ferocemente adirato contro le fanciulle, stabilì di eliminarlo quanto prima o con la violenza o con l'inganno.  
 

Stiradius dolo circumventus immane feminarum 﫤ubit 﫤upplicium.

Ctirad, attirato con l'inganno, subisce da parte delle donne un atroce supplizio

 
IV o Prior occa﫤o componendæ fraudis advenit, quam hac ratione compoſuit: Certior fa荒a daturum ſe eſſe in viam Stiradium, ut litibus quarum arbitrium ſuſceperat, finem imponeret, ad proximam ſylvam, qua ei fuerat eundum, puellam elegantem, cui Sarca nomen, arbori alligat, juxtaque lagunculam mul﫤 plenam, & corniculum venatorium ſuſpendit, monstratque cætera, quemadmodum videlicet illam adverſus Stiradium eſſe oporteat ſubdolam. Introeunti ſylvam Stiradio, Sarca voce clariore quiritari, opemque implorare incipit: ad cujus vocem, cum unus comitum de via deflexiſſet, ac mox revertens Stiradio renunciaſſet, virginem eſſe adoleſcentulam, & ni﫤 ornatus falleret, genere non ignobilem, quam neſcio quis ad arborem loris devinxerit. Non temperat 﫤bi Stiradius, quin ipſemet ſpeculator adeat, viſaque adoleſcentula loramentis circum arborem obligata, authorem injuriæ requirit. Alla prima occasione, organizzò il siffatto tranello. Informata che Ctirad si sarebbe messo in cammino, per por fine a un dissidio di cui aveva assunto il giudizio, [Vlasta], presso una vicina foresta per la quale egli sarebbe passato, legò a un albero una leggiadra ragazza di nome Šárka, e insieme sospese una fiaschetta di vino dolce, un piccolo corno da cacciatore, e mise in mostra quanto serviva per ingannare davvero gli occhi di Ctirad. E quando lui entrò nel bosco, Šárka cominciò a gridare a gran voce e a implorare aiuto. A tale grida, un uomo del seguito deviò dalla strada e ritornò a riferire a Ctirad di aver visto una giovane fanciulla che, se l'aspetto non l'ingannava, non era di vile sembiante, e che qualcuno l'aveva assicurata con corde a un albero. Ctirad non si trattenne dall'andare a vedere egli stesso e, scorta la ragazza serrata dalle corde contro l'albero, le chiese chi fosse il responsabile di tale offesa.  
IV o Hîc illa lachrymabunda, ad quemnam alium (inquit) mi Domine hæc injuria, quam ad Vlastam illam mulierum crudeliſ﫤mam ejusque comites pertineat? Cum quibus ego, quia ſceleris ſocietatem contra viros nullo pa荒o inire volui, multis prius convitiis & probris male accepta, deinde ad hoc, quod vides, exemplum, arbori circumligata ſum, ſagittis ni﫤 interveniſſes peritura: nam in hoc jam arcus intentos nonnullæ habebant, ut in me tela torquerent, ſed 﫤mulac hinnitum atque strepitum equorum tuorum audivêre, continuo illæ ſe in pedes dederunt, tanta festinatione, ut & hanc lagenam, & hoc cornu quod in arbore cernis, ſecum auferre oblitæ fuerint. Fac igitur mi Domine, ut te miſereatur puellæ indigna ferentis, indignioraque mox laturæ, 﫤 periclitanti per tempus non ſubveneris, meque parentibus meis non restitueris. A questo punto, in lacrime, Šárka rispose: «A chi altri, mio signore, può competere tale offesa se non a Vlasta, la più crudele delle donne, e alle sue compagne? E dal momento che io non volli aver parte, in nessun modo, delle sue imprese delittuose ai danni degli uomini, fui dapprima maltrattata con urla e ingiurie poi, come vedi, legata a quest'albero e destinata a morire a colpi di freccia, come esempio per le altre, se tu non fossi intervenuto. Alcune avevano già teso i loro archi per scagliare i dardi contro di me, ma non appena udirono il nitrito e lo strepito dei tuoi cavalli, subito si dettero alla fuga. Tale, la fretta, da dimenticare di portar via questa fiaschetta e questo corno che vedi ancora appesi all'albero. Abbi pietà, mio signore, di una fanciulla che soffrì cose indegne e dovrà sopportarne di peggiori, se non porterai per tempo soccorso a chi è in pericolo e non mi restituirai ai miei genitori».  
IV o Tanta per hæc miſeratione Sarca Stiradium implevit, ut ſuis ipſe manibus nodos funium, quibus illa retrorſum innodata fuit, reſolveret. Tum perfida Sarca, repente ut est vincula ſoluta, in terram velut impos animi provolvitur, ac paulatim deinde animum recolligens, ſeſeque attollens, lagunculam depoſcit, qua﫤 vires corporis ſorbitiuncula mul﫤 recreatura, nec tamen ipſa quidquam exſorbet, ſed mulſum medicatum Stiradio exhauriendum propinat, intereaque dum is poculo indulget, ipſa cornu inflato concinit, accepto 﫤gno fraudis conſciæ puellæ, ſubitò è latebris in comites Stiradii effunduntur, ac partem eorum concidunt, partem fugant, de in Stiradium ex potione venefica tam mente quam corpore velut attonitum invadunt, rapiuntque ad ſupplicium, quod rota peragitur, horrendum, atque proxime arcem Vicegradum, confra荒um membratim corpus, & radiis rotarum inſertum constituunt, ut ex conſpe荒u horrendi supplicii dolor Principi increſcat. Con queste parole, Šárka colmò Ctirad di tanta pietà che egli stesso sciolse le funi con le quali era stata legata. Allora la perfida, appena libera dai legami, rotolò a terra, come svenuta; quindi, a poco a poco riprendendo le forze e alzandosi, chiese con insistenza la fiaschetta, come per risollevare le forze del corpo con dei piccoli sorsi. Ma [Šárka] non bevve affatto: piuttosto offrì a Ctirad la bevanda adulterata, affinché lo stordisse, e mentre lui indugiava nel bere, ella stessa suonò soffiando nel corno. Ricevuto il segnale, le ragazze, complici dell'inganno, all'improvviso si gettarono dai loro nascondigli sui compagni di Ctirad e parte li uccisero, parte li misero in fuga, Quindi assalirono Ctirad, frastornato nella mente e nel corpo dalla pozione venefica, e lo trascinarono all'orrendo supplizio della ruota. Infine abbandonarono presso la fortezza di Vyšehrad il suo corpo fatto a pezzi tra i raggi della ruota, affinché alla vista di tale atroce supplizio si accrescesse il dolore del kníže.  
  Sacra [sic] ſylva à perfida puella cognominata

La foresta viene chiamata Šárka dal nome della perfida fanciulla

 
IV p Sylva illa, in qua Stiradius interceptus fuit, in hunc uſque diem Sarca vocabulum à puella in﫤diatrice retinet. Quei boschi nei quali fu catturato Ctirad portano ancora oggi il nome di Šárka, la fanciulla che tese l'agguato.
  Sævitia in infantes

Sevizie sui bambini

 
IV q Ac ne quod exemplum ſævitiæ muliebris in ipſarum imperio de﫤deraretur, ſævitiem adverſus teneram quoque ætatem crudeliter distrinxerunt, pueris & adoleſcentibus, quoſcunque na荒æ erant, dextræ manus pollices amputando, dextrosque oculos eruendo, ne postquam in viros adoleverint, gladios commodè tra荒are, nevè in arcum aciem intendere poſſent. E affinché tale esempio di crudeltà femminile non fosse rimpianto durante il loro dominio, [le ragazze] rivolsero atroci sevizie anche contro la tenera età, amputando ai bambini, agli adolescenti e a quelli in cui si erano imbattute, il pollice della mano destra e cavando l'occhio destro, affinché, una volta divenuti uomini, non potessero usare facilmente la spada, né tendere l'arco in battaglia.  
  Sic ars deluditur arte

Così l'inganno è vinto con l'inganno

 
IV r Hinc tandem à veterno excitatus Premislaus, ad referendam Vlastæ gratiam cœpit advigilare, placuitque ſuis illam artibus per dolum & in﫤dias adoriri. Igitur certum ad illam hominem allegat, qui mitti ad ſe fide publica unam è ſodalitio puellam ſecretorum Vlastæ maximè conſciam postulet. Venit Milada ea coram queritur Princeps, ſe jam pridem tædio dominandi affici, cum ipſa quoque ætas & tempora 﫤bi fuiſſent ad dominandum accomodatiora. Finalmente, Přemysl, destatosi dalla sua codardia, studiò un modo per conquistarsi il favore di Vlasta e gli piacque affrontarla con le sue arti, per mezzo cioè di inganni e di insidie. Così le inviò una persona fidata affinché la invitasse a mandargli, con un salvacondotto, la fanciulla del suo sodalizio che, più di ogni altra, condividesse i suoi segreti. Venne Mlada e, di fronte a lei, il kníže si lamentò di essere stato colto da tempo dal tedio del potere, dal momento che per lui erano passati gli anni, così come i tempi più adatti per governare.  
IV r Nunc ſenem atque identidem languentem quomodo non tædet ejus dominationis, quæ laborum atque periculorum 﫤t plena? 﫤bi igitur locum paratum eſſe & proviſum, ubi otioſus privatusque, 﫤 per Vlastam licuerit, cum ſuis transigat. Cæterùm de arce Vicegrado, quæ Imperii in Bohemia ſedes haberetur, ita ſecum statuiſſe atque decreviſſe, ut illam ſua sponte ad Vlastam transferat, nihil addubitans, quin Vlasta beneficii hujus memor, ſenem ſe injuria omni & calamitate unà cum filio adhuc impubere prohibeat. Laudato Principis, confirmatoque con﫤lio, Milada ad Dominam redire festinat, ut lætiſ﫤mo illam nuncio statim adimpleat, horteturque, ut cœlitùs oblata munera plena statim manu capiat, dilationem enim obeſſe, quàm prodeſſe ſæpius. Ora vecchio, sovente malato, come non poteva detestare un potere che diventava pieno solo di fatiche e di pericoli? Se Vlasta lo permetteva, gli era già stato preparato e organizzato un luogo dove poteva trasferirsi con i suoi, senza impegni e da privato cittadino. Tra l'altro,  disse di avere stabilito e decretato che, per sua volontà, la fortezza di Vyšehrad, sede del governo ceco, fosse trasferita a Vlasta, non dubitando affatto che lei, memore di tale favore, tenesse lontano lui vecchio, insieme con il figlio appena adolescente, da ogni offesa e ogni calamità. Lodato e confermato il progetto del principe, Mlada si affrettò a ritornare dalla padrona per gratificarla subito con quella stupenda notizia e per esortarla ad accettare a piene mani quell'offerta dal cielo, ché l'indugio è più spesso d'ostacolo che di utilità.  
IV r Arridens Vlasta, jubet Miladam ea quæ hortaretur, exequi, ac postridie mox cum dele荒o puellatum globo ad Premislaum reverti, ut poſſeſ﫤onem arcis Vicegranden﫤s ab eo acciperet, 﫤mul ſponderet Vlastam in locum patris 﫤bi Premislaum ſumere, nes ſecus filium ejus, quàm fratrem ſuum curæ 﫤bi perpetuæ futurum. Rediit igitur Milada, multis stipata puellis in arcem, expo﫤tisque Vlastæ mandatis, concedi 﫤bi de arce postulabat.

Sorridendo, Vlasta ordinò a Mlada di eseguire subito quel che il vecchio stava esortando e di ritornare, il giorno successivo, con un gruppo scelto di ragazze, da Přemysl, per prendere possesso, dalle sue mani, della rocca di Vyšehrad, e insieme promettergli che Vlasta lo avrebbe accolto come suo padre, e che suo figlio, non diversamente da un fratello, sarebbe stato oggetto di cura perpetua. Ritornò così Mlada alla rocca, circondata da molte fanciulle, espose le istruzioni di Vlasta e chiese le venisse consegnata la fortezza.

 
  Milada convivii prætextu Vicegradi jugulatur.

Col pretesto di un banchetto, Mlada viene uccisa nel Vyšehrad

 
IV s Hic valde comiter Premislaus Miladam appellat, rogatque ut antea quà ceſ﫤o fiat, ipſa cum toto comitatu ſecum prandeat. Quo impetrato, multa rurſus comitate hilaritateque inter prandendum illam permulcet, usque dum 﫤bi videretur tempestivum eſſe, destinatas in﫤dias perpetrare. Tum ipſe de menſa aſſurgit, qua﫤 ad purgandum, 﫤stendumque narium ſanguinem, quem 﫤bi largius profluere aſ﫤mulabat, re vera, ut 﫤gnum daret armatis ad irrumpendum ex latebris, conficiendumque ſanguinarias puellas eodem genere leti, quo ipſæ nuper juvenes fraude ad ſe ille荒os confeciſſent, cæde nimirum, & præcipitio, extra unam ancillam, quæ custodiendis equis reli荒a, & mox inter primum tumultum elapſa erat, cæteræ omnes chlamydibus nudatæ, vel fenestris deje荒æ, vel ferro transfoſſæ ſunt. A quel punto, Přemysl si rivolse molto cortesemente a Mlada e la pregò affinché, prima che avvenisse la cessione, ella pranzasse con lui, insieme al suo seguito. Ottenuto ciò, durante il banchetto, [Přemysl] la lusingò di nuovo con molta amabilità e ilarità, e continuò fino a quando gli sembrò il momento di far scattare il tranello che aveva predisposto. Si alzò allora dalla mensa, come per detergere e stagnare il sangue che fingeva gli uscisse copioso dal naso, in realtà per dare ai suoi armati il segnale di irrompere dai loro nascondigli e di eliminare quelle vergini sanguinarie, paghi di ucciderle così come esse avevano ucciso i giovani attirati con l'inganno. La strage fu rovinosamente rapida, feroce e, tranne un'ancella che era stata lasciata a custodire i cavalli e che subito, al primo tumulto, era fuggita, tutte le altre, spogliate delle loro clamidi, furono scaraventate giù dalle finestre o trafitte con le spade.  
IV s Celeriter, in tanta vicinitate ancilla, quæ fugerat ad Vlastam cum tristi hoc nuncio pervenit. Poſcit ſubito Vlasta, equum & arma, jubetque ſocias itõ puellas repente armari, & quà breviſ﫤mus per Vultaviam tran﫤tus est, illac tran﫤re. Cum propius rotam, in qua Stiradius nuper pendebat, acceſ﫤ſſet, erumpit continuò ex arce virorum agmen, equis, & clamydibus puellarum, quæ occisæ erant, ita exornatum, ut primo eorum aſpe荒u dubitare cœperit, an vera de nece puellarum ancilla renunciaverit, ſed ubi ex propinquiore loco, fraudem ſubeſſe virorum perſonatam cognovit, ſolita in viros rabie fertur. Rapidamente, data la vicinanza, l'ancella che era fuggita, tornò da Vlasta con la triste notizia. Subito, Vlasta chiese armi e cavallo, e parimenti comandò alle sue giovani compagne di armarsi velocemente e di attraversare la Vltava per il guado più breve. Arrivate presso la ruota alla quale poco tempo prima era stato appeso Ctirad, subito irruppe dalla rocca una moltitudine di uomini con i cavalli e le clamidi delle fanciulle, tanto che, a prima vista, [Vlasta] dubitò che l'ancella le avesse riferito la verità riguardo all'eccidio delle ragazze. Ma quando, giunti più vicini, comprese l'inganno architettato dagli uomini, presa dalla solita furia, si lanciò contro di loro.  
IV s Cæterùm, vis major penes viros, quã penes puellas fuit, libenter vivam Vlastam intercepiſſent, ſed nequaquam viva capi potuit, tantum animi ad tuendum ſe, nec aliter quam pugnando occumbendum ſuperfuit. Gli uomini si batterono con maggior forza rispetto alle fanciulle e volentieri avrebbero preso Vlasta viva, ma in nessun modo riuscirono a catturarla, tanto coraggio le rimase per uccidersi e non soccombere in altro modo se non combattendo.  
  Vlasta prælians occumbit: unà excuſſum est puellare jugum.

Vlasta muore combattendo: insieme viene abbattuto il giogo delle fanciulle

 
IV t Occisa Vlasta, cædes inde non pugna fuit: Ita à præpostero Amazonum erubeſcendoque imperio, Bohemi post ſeptimum tandem annum vindicarunt: Uccisa Vlasta, fu un massacro, non una battaglia; così del dominio vergognoso e fuor di tempo delle amazzoni, i Čechové, finalmente, dopo sette anni si vendicarono.  
IV t Ac ne quis muliebres pugnas, ut rem vanam fi荒amque derideat, ſciat antiquiſ﫤mum morem in Sarmatia fuiſſe, autore Pomponio Mela, ut fœminæ cum viris bella inirent. Idem enim Mela, arcus, inquit, tendere, equitare, venari, puellaria penſa ſunt, ferire hostem, adultarum stipendium est, adeo ut non percuſ﫤ſſe, pro flagitio haberetur, 﫤tque eis pœnæ virginitas: Ut Spartanos 﫤leam, apud quos 﫤militer virginibus palestra, Eurotas, ſol, pulvis, labor, militia, in studio fuerunt, prodente Cicerone. Atque Plato ipſe, nonne artes gymnasticas, & res bellicas æ mulieribus, atque viris in ſua Republica attribuit? ne quis nimis barbarum morem, virgines arma tra荒are autumet. E affinché nessuno derida queste guerre femminili come impresa vana e favolosa, sappia che, presso i Sarmati, secondo Pomponio Mela, vi fu un costume antichissimo, che le donne andassero in guerra con gli uomini. E infatti lo stesso Mela attesta che sia compito delle ragazze tendere l'arco, cavalcare, cacciare, mentre le adulte sono pagate per ferire i nemici, tanto che il non aver colpito viene considerata una vergogna e la stessa verginità diventa loro di pena. Per non parlare degli Spartani, presso i quali anche le giovani donne similmente dividevano la palestra, l'Eurota, il sole, la polvere, la fatica e le attività militari, stando a quanto afferma Cicero. E lo stesso Plato, nella sua Repubblica, non assegna anche alle donne come agli uomini le arti ginniche e quelle marziali? Nessuno consideri perciò un'usanza troppo barbara il fatto che delle fanciulle usassero armi.
  Metallorum indagator Premislaus.

Přemysl scopritore dei metalli

 
IV u Sed, ut redeamus ad Premislaum, ſublatis è medio tumultuo﫤s puellis, magna inde tranquillitate principatum inter viros uſque ad mortem administravit, primusque repertis argenti metallis, argentarias in Bohemia coluit. Ma per ritornare a Přemysl, tolte di mezzo le tumultuose fanciulle, da quel momento egli resse il governo tra gli uomini con grande serenità, fino alla morte, e avendo scoperto per primo le miniere d'argento, coltivò in Čechy l'arte argentiera.  
IV u Moriturus, proferri ex arcula ſua manticam, & carbatinas, qua﫤 in﫤gnem aliquam ſupelle荒ilem, atque in loco religioſo ſeponi juſ﫤t; Non temere alias promendam, palamque ſpe荒atoribus ostendam, ni﫤 in comitiis, creando Principi habendis: Custoditaque est ſolemniter extrema ejus hæc voluntas, non ſolum à profanis Principibus, ſed deinceps etiam à Christianis Regibus, ut eo videlicet die, quo inaugurabatur Rex, unà cum ipſa corona & ſceptro aureis, vilia hæc quoque in﫤gnia, ſacrorum minister ad aram inferret, Regi illa ob oculos commonendi gratia obtrudens, ut primæ ſuæ oirinis memor fortunam reverenter haberet. Sed ut prelaque alia antiquæ conſuetudinis non ſpernandi exempla, 﫤c hujusce moris uſurpatio paulatim exolevit. Stando per morire, ordinò di tirar fuori da una sua cassetta la bisaccia e i calzari di contadino, come si trattasse di un qualche arredo prezioso, e di custodirli in un luogo sacro; [chiese infine] che non si dovesse cavarli fuori e mostrarli agli astanti senza ragione, se non nelle assemblee riunite per la scelta del kníže. Questa sua ultima volontà fu osservata in modo solenne non solo dai knížata pagani, ma successivamente anche dai re cristiani. Nel giorno in cui veniva consacrato il sovrano, insieme alla corona e allo scettro d'oro, il ministro delle sacre cerimonie avrebbe portato all'altare anche queste vili insegne, ponendole di fronte agli occhi del re, affinché, memore della sua antica origine, considerasse la sua fortuna con gran rispetto. Ma come la maggior parte degli esempi atti a non disprezzare le antiche consuetudini, anche l'uso di tale costume a poco a poco si perse.  
V Nezamislius, F. Epimetheus, pater vero Prometheus

Nezamysl significa Epimētheús mentre il padre Promētheús

 
V a Deceſ﫤t Premislaus ſucceſſore filio Nezamislio, qua﫤 tu dicas, hebeti, nullique excogitationi idoneo. Is igitur, ut nomini ſuo reſponderet, nihil ipſe ſuo ingenio excogitare, nihil ſua industria efficere potuit, ſed quicquid ageret, id alieno præ﫤dio agebat, prorſus ut ſolis auribus ſapere eum diceres. Et 﫤 divinare est, (ut Auſonius dixit) nomen componere, quod videlicet 﫤t morum & ingenii futuri indicium, egregius certè vates haberi debuit Premislaus, qui filio rerum ſuarum incurioſo vocabulum Nezamislii, id est Epimethei, indiderit, eum ipſe tanquam providus nomen Promethei poſſederit. Et enim quem Prometheum Græci, eum Bohemi ſua voce Premislaum appellant, rurſus quem illi Epimetheum, Bohemi Nezamislium dicunt. Morì Přemysl e gli succedette il figlio Nezamysl, che diresti quasi ebete, incapace di alcun pensiero. Egli, infatti, per rispondere al suo nome, non seppe escogitare alcuna cosa con la sua mente, né attuarla con le sue capacità: quanto intraprendeva, lo portava a termine con l'aiuto altrui; avresti detto, insomma, che lui capisse solo con le orecchie. E se vaticinare, come disse Ausonius, è scegliere un nome che sarà futuro indizio di comportamento e ingegno, certamente Přemysl dovrebbe essere ritenuto un vate egregio, lui che a suo figlio, indifferente in tutte le cose, impose nome Nezamysl, cioè Epimētheús, mentre lui, preveggente, si chiamava Promētheús. Infatti, quello che i Greci chiamano Promētheús, i Čechové nella loro lingua dicono Přemysl e, certamente, quello che [i Greci] chiamano Epimētheús, i Čechové dicono Nezamysl.
  Gurimen﫤s æmulus Il rivale di Kouřim  
V b Hic tamen ob patris memoriam, favorem ordinum obtinuit, atque ab illis more ſolenni in arce Vicegraden﫤 Princeps conſalutatus est, indigniſ﫤mè ferente vicino, qui oppidum Gurimenſe tantum non Principis titulo poſ﫤debat. Se enim, quam Nezamislium digniorem eſſe ad ineundam legitimi Principis dignitatem existimabat. Impetu igitur in agros Nezamislii ſemel interumque fa荒o, magnas inde prædas agebat, ſperans futurum, ut ille, metu bellorum consternatus, de loco cederet, vitam privatam amplexus. Quod postquam fieri non videt, male facere pergit, hancque maleficii cauſam prætendit, qua﫤 pater Nezamislii pagum quendam attre荒aſſet, 﫤bique vendicaſſet, qui pridem in jus, ditionem Gurimenſem conceſſerat. Questi, tuttavia, a ricordo del padre, ottenne il favore degli ordini sociali e fu salutato kníže con rito solenne nella rocca di Vyšehrad. Tale elezione fu invece mal sopportata da un confinante che possedeva la fortezza di Kouřim, sebbene non il titolo di kníže. Infatti, si riteneva più degno di Nezamysl di ottenere la dignità di principe legittimo. Pertanto, fatta ancora una volta irruzione nei suoi campi, si portò via un gran bottino, sperando che Nezamysl, sconvolto dal timore di una guerra, rinunciasse al suo rango per abbracciare la vita privata. Ma non vedendo accadere quanto sperava, proseguì nelle sue azioni malvagie, adducendo a ragione di tale grave comportamento il pretesto che il padre di Nezamysl, essendosi interessato a un certo villaggio, precedentemente concesso alla giurisdizione di Kouřim, lo avesse rivendicato.  
V b Provocavit ad judicium Princeps, ſed æmulus provocantem ridebat, ludebatque. Veniunt tandem ultro Nobilium primores ad Principem con﫤lii inopem, ei ſuadentes, ut duce & militibus le荒is ferociam Satrapæ contundat, & rebellem vel ad officium, vel ad pœnã petrahat, ſe quoque cum ſuis affuturos, ubi adeſſe illos voluerit. Ad locum cui Styrhow vocabulum, copiæ ſunt contra荒æ, præliumque ibidem atrocius initum, quàm ut iniri in tanta hominum paucitate debuerit, inter affines & cognatos interque cives nuper in Bohemia, velut in una civitate coalitus. Il kníže lo convocò a giudizio, ma il rivale derideva e scherniva colui che lo aveva citato. Alla fine giunsero spontaneamente dal kníže, incapace di prendere una decisione, i nobili più insigni per persuaderlo affinché, al comando di truppe scelte, reprimesse la ferocia di quel satrapo e riconducesse il ribelle ai suoi doveri, o al supplizio; e [dissero] che sarebbero stati presenti, insieme ai loro uomini, dovunque li avrebbe guidati. L'esercito fu radunato nel luogo detto STYRHOW, e lì si accese uno scontro più cruento di quello che si sarebbe dovuto affrontare, data la scarsezza di uomini che vi era in Čechy, tra affini, parenti e cittadini, quasi cresciuti in una sola città.
V b Nam omnes, qui in prima acie stabant, occi﫤 sunt, numerus virorum amplius quadringentorum, vi荒rice tamen acie Principis, cæteri aut vulnerati, aut elap﫤, aut capti. Inter captivos, belli quoque concitator, & author fuit, aliquandiu latitans: dein cognitus, & ad Principem, dedu荒us, quem ille aſpicere dedignatus est. Cæterùm Duci certaminis potestatem dedit flatuendi de illo pro arbitrio ſuo: Dux falce ferrata, nare & auriculis dera﫤s amputatisque, cum magna ignominia dimittit incolumen. Infatti, furono uccisi tutti coloro che si trovavano nella prima schiera, più di quattrocento uomini, ma vinse tuttavia la schiera del kníže; gli altri vennero feriti, fuggirono o furono catturati. Tra i prigionieri vi era anche colui che aveva provocato e causato la guerra, da qualche tempo latitante. Riconosciuto e portato davanti al kníže, quello disdegnò di guardarlo. Però dette facoltà al comandante che aveva condotto la battaglia di giudicarlo a suo arbitrio. Il generale, dopo avergli mozzato naso e orecchie con una falce di ferro, gli risparmiò la vita lasciandolo andar via, con sua grande ignominia.  
  Salina reperta, invidia amiſſa Trovato il sale, eliminata l'invidia  
V c Pax inde tranquilla fuit, ſed non otioſa, nobilitate plebeque occupata in ædificandis novis ædificiis, arcibusque & oppidis, aut ſylvis radicitùs exstirpandis, agrisque inarandis. Affulſerat 﫤mul & ſpes ſalis inveniendi, quo planè Bohemia caret, jamque inventus fuit fons aquis ſal﫤s ſcaturiens, ad quem multæ operæ, ſalis coquendi, ac novi oppidi condendi gratia, undatim adfluxerant. Da quel momento regnò una pace tranquilla, ma non inattiva, essendo nobiltà e plebe occupate a costruire nuovi edifici, rocche e fortezze, ad abbattere le foreste e ad arare i campi. Arrideva, parimenti, la speranza di trovare il sale di cui la Čechy scarseggia del tutto; e presto fu rinvenuta una sorgente di acque salse, presso la quale si intrapresero molti lavori, uno appresso all'altro, al fine di asciugare il sale e fondare una nuova fortezza.  
V c Durat in hunc diem oppidum, à ſale Slana vernacula lingua nuncupatum. Cæterùm, ſal brevi tempore evanuit, vel ip﫤s aquis ſua ſponte fa荒is inſul﫤s, vel hominum potius culpa, aliorum aliis invidentium lautiorem fortunam, qualiter tunc Zatecenſes affe荒i fuisse dicuntur, per invidiam Slanen﫤bus denuntiantes, ne ſalinas  instituerent, alioqui novum opus ſe manu violenta inhibituros. Instant operi Slanenſes, ſecumque adverſarios congreſſos, plus quam centum interficiunt. Zatecenſes ægritudinem animi ex clade acceptam totum annum diſ﫤mularunt, quo evoluto, ſuo dehinc tempore Slanenſes incautos adoriuntur, cædunt, fugantque, & omnes circum ſalinas demoliuntur, obstru荒o fonte ſalis robore lignorum, moleque lapidum, ne qua facultas cuiquam instaurandi ſupereſſet, 﫤mulque oppidum statim occupant, dedu荒is eò colonis ſuis civibus, qui ex frequentia multitudinis civitati ſuæ oneri eſſe videbantur. Tale fortezza esiste ancora ed è chiamata Slaný, dal termine «sale» in lingua locale. Di poi in breve tempo il sale si esaurì, sia per le acque divenute spontaneamente insipide, sia piuttosto per colpa degli uomini. Infatti, alcuni invidiavano agli altri la maggior fortuna; così si dice fu il caso degli abitanti di Žatec, i quali, per invidia, intimarono a quelli di Slaný di non impiantare le saline, altrimenti avrebbero impedito i lavori con la violenza. Gli Slané si misero all'opera e riuniti presso di loro gli avversari, ne uccisero più di cento. I Žatecký, subìto il dolore per il massacro, dissimularono per un anno intero, trascorso il quale, a suo tempo, assalirono gli incauti Slané, li uccisero, li misero in fuga e distrussero tutte le saline all'intorno. Ostruita la sorgente con robusti tronchi e con una massa di pietre, affinché non rimanesse ad alcuno la possibilità di farla nuovamente sgorgare, occuparono contemporaneamente la fortezza, sostituendo i coloni con i propri cittadini, ma l'affluenza di una tale moltitudine fu considerata un peso per la propria città.
V c Nam ex Serbiis gente 﫤militer Sarmatica, qui nunc Lusatii appellantur, pleri deſertis in ſuperiore Luſatia jugis montium, ad plana & ſaltuoſa loca, qualia Zatecenſes incolunt, Lucenſes inde cognominati, immigrabant, Nezamislio interim pulchrè ſecum agi existimante, quòd neminem 﫤bi tam infestum cerneret, qui adverſus ſe hostilia apertè inceptaret. Infatti, dal territorio dei Serbi, popolazione similmente sarmatica, ora chiamati Łusaziani, molte persone, lasciati i monti della Łužyca superiore, si spostavano verso le pianure boschive abitate dai Žatecký, oggi detti Lučané. Nel frattempo, Nezamysl si considerava assai fortunato perché non vedeva nessuno tanto avverso da intentare apertamente azioni ostili contro di lui.  
VI Mnatha venationis indulget Mnata indulge nella caccia  
VI a Post hujus obitum Mnatha filius in legitimo principato ſucceſ﫤t: haud æquè ac pater ingenio hebes, animoque stupidus, ſed neque ille tamen quicquam amplum, atque magnificum ad imperandum attuliſſe viſus, dum in venationis ſæpius, quàm in ſeriis rebus agendis ſeſe exercet. Tanto namque studio venandi tenebatur, ut triennio continuo post adeptum principatum, in ſeceſſu arcis, largam cervorum, aprorum, urſorum, atque aliarum ferarum venationem ſuppeditantis, perduraverit, cura interim ac præfe荒ura Vicegradi, atque etiam jurisdi荒ionis, uni Verſovicen﫤um (quæ tunc familia dignatione cæteris antecellebat) commiſſa. Dopo la sua morte, gli fu legittimo successore al principato il figlio Mnata, non così carente d'ingegno e stolto come il padre; neppure lui, tuttavia, parve destinato ad apportare al regno qualcosa di grande e di magnifico, in quanto si dedicava assai più spesso alle attività venatorie che a quelle politiche. Era preso da tanta passione per la caccia che, per tre interi anni, dopo aver conseguito la sovranità, rimase in un angolo appartato presso la fortezza, abbondante di prede quali cervi, cinghiali, orsi e altri animali; nel frattempo affidava la cura e il governo del Vyšehrad, e anche le questioni inerenti la giustizia, a uno dei Vršovici, stirpe che allora superava in dignità tutte le altre.  
  Verſovicenſes affe荒ant principatum. I Vršovici aspirano al regno  
VI b Cæterùm paulò minus evenit, quin juxta proverbium, ovem lupo commi﫤ſſe videretur, Verſovicio jam pridem ambiente Principis locum, 﫤 qua ſe occa﫤o offerret. Oblata porrò videbatur, aliis abſentiam Principis accuſantibus & negligentiam, aliis ſolemnem cauſarum cognitionem de﫤derantibus, 﫤ne qua fieri  non poſſe dicebatur, ut pacatè ſuum quiſque proprie obtineret. Plurimis præterea ad officium Principis haud pertinere ſuſurrantibus, ut privatas ſuas voluptates communibus utilitatibus anteponeret. Itaque occa﫤one hac ille uſus, exulceratos illorum animos magis adhuc lingua ſua aculeata exulcerare adverſum Principem pergit, nullis in illum verborum contumeliis parcens, ac contra de ſe ingentia pollicens 﫤 Princeps in locum illius declaratus fuerit. Quo audito, rei novitate qui tunc aderant obstupefa荒i (nec enim Principis mutationem per querelas ſuas, ſed vitæ illius morum emendationem exoptabant:) rogitant ad deliberandum ejus diei moram, posteroque die mane ſe redituros ad conſultandum ſuper illo negiotio ſpondent. Ma era un po' come aver consegnato, come si dice, la pecora al lupo, in quanto Vršovic ambiva da tempo a occupare il posto del principe, se si fosse presentata l'occasione. Si offrì più avanti: allorché alcuni accusavano l'assenza e la negligenza del principe, mentre altri desideravano avere una conoscenza legittima dei processi, senza la quale, si diceva, non era possibile vedere riconosciuti i propri diritti in modo pacifico e appropriato. Altri ancora, tra l'altro, mormoravano che non si addicesse ai doveri di un principe anteporre i suoi piaceri privati al bene comune. Così, approfittando della situazione, Vršovic si volse a inasprire contro il kníže i loro animi – fino ad ora irritati più che altro dalla sua lingua pungente –, non risparmiandogli offese verbali e, al contrario, promettendo grandi cose se fosse nominato kníže al posto dell'altro. Udito ciò, i presenti, stupefatti per la novità (infatti non desideravano che le loro proteste portassero alla deposizione del kníže, ma alla correzione della sua vita e dei suoi costumi) chiesero un giorno di tempo per deliberare, dicendo che l'indomani mattina sarebbero ritornati per consultarsi su quella faccenda.  
VI b Mora impetrata, extrudunt confestim ex numero duos viros præstantiores, qui curriculo ad Mnatham currant, ipſumque doceant quo in periculo 﫤ta 﫤t vita & dignitas ip﫤us, ni﫤 prima statim luce in﫤diis occurrat. Adest ille ad tempus, ſeque inter ſuos occultat, ne prius agnoſceretur, quam arce introiret. Ibi accer﫤to Verſovitio, quid hoc rei, inquit, est? Nonne ego te præfe荒um arcis hinc ſecedens reliqui, finesque tibi præſcrip﫤, quibus intra officium vicarium te contineres? Qua tu audacia, munera inſuper principalia tibi uſurpare auſus es, ut istos pro imperio ad te vocares? novaque cum iis con﫤lia, novosque conventus celebrares? An quia tu Principem tuum per ſummam perfidiã prodere eras promptus, istos quo tui 﫤miles futuros putasti? ignarus, quod 﫤cut malus ni﫤 male, ita bonus ni﫤 bene agere neſciat. Quare utrumvis tibi horum elige, ut aut te gladio transfodias, aut acerrimas proditorum pœnas palam ſubeas. Stringit ille protinus ensem, illoque in conspectu omnium supplicium de se sumit. Ottenuto il rinvio, convocarono due tra gli uomini più prestanti, i quali prontamente corsero da Mnata e lo informarono a quale pericolo fosse posta la sua vita e la sua stessa dignità se all'alba non avesse affrontato l'insidia. Egli si presentò a tempo e si nascose tra i suoi per non essere riconosciuto al momento di entrare nella fortezza. Qui, fatto venire Vršovic, «Che significa questo?» chiese. «Andandomene, non ti ho forse lasciato come sovrintendente della rocca e non ti ho prescritto i confini entro quali esercitare il mandato come vicario? Con quale audacia hai osato invocare per te privilegi superiori a quelli dello stesso kníže, tanto da chiamare costoro presso di te? Forse per celebrare con loro nuovi consigli e nuove assemblee? E dal momento che, in sostanza, eri pronto a tradire perfidamente il tuo kníže, credevi che anche costoro sarebbero stati come te? Ignorando che, come il malvagio non sa fare che il male, così il buono non sa fare che il bene. Perciò, scegli ora tra le due: se trapassarti con la tua stessa spada, o subire in pubblico i più atroci supplizi dei traditori.» Quegli, immediatamente, afferrò la spada e al cospetto di tutti, si dette la morte.  
VI b Cadavere elato ſeniores populi Mnatham ſubmiſſe deprecantur, ut in paterna avitaque arce ac ſede re﫤deat, ut animum & voluntatem ad publica negotia administranda, majore quam ha荒enus industria curaque convertat, ſuique adeundi liberiorem potestatem præbeat. Et 﫤 quando relaxandi animi cupido interveniat, ut ſe quidem daret jucunditati, ſed caveret ne venationes negotiis ſeris anteponeret. Portato via il cadavere, gli anziani del popolo pregarono Mnata di stabilirsi nella fortezza, sede paterna e avita, e di convertire, con maggior successo e attenzione, la mente e la volontà all'amministrazione dei pubblici uffici, dimostrando una maggiore capacità di controllo. E se mai gli venisse il desiderio di rilassarsi e divertirsi, badasse bene, però, di non anteporre le cacce agli impegni seri.  
VI c Formidabiliores namque instare venationes dicebant, hinc Gallis & Germanis, cum Imperatore Carolo, non Saxones modò, verum etiam Vandalos & Serbios populares ſuos oppugnantibus: hinc Hunnis, gente omnibus feris ferociore crudelioreque Pannoniam repetentibus. Ab omni itaque parte vigilante opus eſſe Principe, qui ante tempus proſpiciat, ne omnia imparatis veniant agenda. Come infatti dicevano, le cacce più formidabili riguardavano sia i Galli che i Germani – i quali sotto l'imperatore Carolus stavano combattendo non solo i Sassoni, ma anche i Vandali e i loro alleati Serbi – sia gli Unni, più feroci e crudeli di tutte le belve, che si stavano impadronendo della Pannonia. C'era appunto bisogno di un kníže che vigilasse da ogni parte e provvedesse per tempo affinché tutto non venisse affidato a persone impreparate.  
VII Vogenus ac 﫤 dicas Martialis.

Vojen, o come diresti, il guerresco

 
VII a Approbat magis con﫤lium Mnatha, quam exequitur, iterum ad eundem relapſus ſeceſſum, ibidemque ex pestilenti tandem lue mortuus, filio adoleſcentulo hærede reli荒o, cui Vogeno nomen (bellicum quiddam hoc vocabulum perſonat) huic tantiſper datus tutor, dum po﫤ta prætexta, virilem togam ſumeret. Approvò Mnata il consiglio, più che metterlo in pratica, e di nuovo ritornato nel medesimo ritiro, alla fine vi morì di malattia, dopo aver lasciato come erede il figlio appena adolescente, di nome Vojen (termine che evoca l'idea della guerra). A costui, per un certo tempo fu dato un tutore finché, deposta la toga pretesta, non indossasse quella virile.
VII a Rohovitius autem Verſovicen﫤s erat, cui tutela illa ac plane totius principatus administratio demandata fuit, opinantibus cun荒is talem in administratione officii futurum, qualis in vita privata fuerit, in qua illi ad ſpeciem comitatis, æquitatis, moderationis nihil deerat. Se non temere à veteribus di荒um est, Magistratus indicat virum. Vi era però, un altro della stirpe dei Vršovici, un certo Rohovic, al quale fu affidata quella tutela e la quasi completa amministrazione dell'intero principato, ritenendo tutti che egli si sarebbe rivelato nell'adempimento dei suoi compiti, così com'era nella vita privata: non sembravano infatti difettargli cortesia, equità e moderazione. Ma non senza ragione è stato detto dagli antichi che il potere svela l'uomo.  
VII b Id quod brevi tempore apparuit, ut ille 﫤mul omnia male diu diſ﫤mulata per vitam privatam vitia in magistratu profunderet, agrestem arrogantiam, pervicacem contumaciam, ſummam iniquitatem & aviditatem, qua ſuccenſus, ad patrandum uſque cædem intolerabilem exar﫤t. E come fu subito chiaro, egli fece conoscere tutti insieme, nell'esercizio del potere, i vizi a lungo mal dissimulati durante la vita privata: arroganza da villano, pervicace ostinazione, somma ingiustizia e avidità; acceso da quest'ultima, si infiammò fino a commettere un orribile delitto.  
VII c Senex quidam erat ordinis equestris, amiſſa uxore, & liberis, viduus orbus, cæterùm opibus pollens: Hunc sæpius captando blanditiisque, & aliis illecebris venando, cum ſeſe nihil proficere videt, ad cœnam vocat, ſenem poculis provocat, convivium ad Solis occaſum producit, ſublataque menſa invitat ad ambulatiunculam, postremo ſedu荒um in locum arcis arduum, de ſaxo agit præcipitem, affingens vertigine ex ebrietate correptum ſua ſponte decidiſſe. Sed non latent diu enormia ſcelera. Ipſe namque paulò post ſemet prodidit, dum à morte interfe荒i in omnes illius fortunas ſua libidine invadit, frustra cognatis & affinibus lementantibus, quoad rerum omnium potestas in manibus Rohovitii erat. C'era un vecchio vladyka che, persa la moglie, era vedovo e senza figli, ma ricchissimo. E quando Rohovic si avvide che nulla otteneva a prenderlo con frequenti lusinghe e non riusciva a conquistarlo con altri allettamenti, invitò il vecchio a cena, lo sfidò col troppo bere e portò avanti il convito fino al tramonto del sole. Poi, tolta la mensa, lo invitò a fare una passeggiatina. Infine, portatolo in disparte in un punto assai alto della fortezza, lo fece precipitare giù dalla rupe, asserendo poi che l'altro, colto da vertigine per l'ebbrezza, fosse caduto da solo. Ma non rimangono nascosti a lungo i grandi delitti. Infatti, poco dopo [Rohovic] si tradì avventandosi con la sua cupidigia su tutti i beni di chi era stato colto da morte, mentre invano i parenti e gli affini si lamentavano che ogni proprietà fosse caduta nelle sole mani di Rohovic.  
  Principem tam puberem Vicegrado excludit. Il giovane kníže viene escluso dal Vyšehrad  
VII d Properatum igitur cum virili toga, qua cum induiſſent Vogenum proceres, fidem ei ſuam, ut Principi obligant, & ad ſedem Principalem, in arce tunc Vicegraden﫤 po﫤tam deducere parant. Arci appropinquantes, portas clauſas, quemadmodum aliàs fieri ſolebat Rohovitio abſente, reperiunt. Rati itaque eum abeſſe, pulſari magno strepitu, portasque aperiri jubent. Ibi tandem Rohovitius de fenestra proſpe荒ans caput exerit, voce alta exclamat inquiens: Si ut privatus, tutelæque suæ creditus Vogenus veniat, ſe ut privatum eum admiſſurum: 﫤n ſecus, neque de arce, neque de jure ſuo communi omnium ſuffragio ad gubernandum regnum 﫤bi acqui﫤to, conceſſurum. Gliſcente verborum contentione, admovet quidam ſecurim, portasque perfringit, per quas cæteri quoque irruperunt. Affrettandosi a investire Vojen della toga virile, i maggiorenti del popolo concessero a lui, come kníže, la loro fedeltà e si prepararono a condurlo alla sede appropriata, cioè alla fortezza di Vyšehrad. Avvicinandosi alla rocca, trovarono le porte sbarrate: cosa che di solito accadeva soltanto durante l'assenza di Rohovic. Perciò, convinti che questi fosse uscito, ordinarono che si bussasse sonoramente e si aprissero le porte. A questo punto, Rohovic, guardando da una finestra, si affacciò ed esclamò a gran voce che se Vojen fosse venuto da privato cittadino e si fosse affidato alla sua tutela, come privato sarebbe stato ammesso: altrimenti, né da coloro che erano nella rocca, né per il diritto acquisito dal comune assenso di tutti, gli sarebbe stato concesso di governare il regno. Lamentando la violenza delle parole, uno afferrò una scure e spaccò la porta, attraverso la quale irruppero anche gli altri.  
  Fugit ad Zatecenſes Fuga presso gli Žatecký  
VII e Ægrè Rohovitius muro clam demiſſus elabitur, pauliſperque in arce quadam ſua ſub 﫤stens, dum comites videlicet contrahit, cum illis ad Zatecenſes profugit, adjicitque ad dominandum urbi animum. Quo cives intelle荒o renuntiant illi, 﫤 ab incœpto non de﫤erit, 﫤mili eum præcipitio periturum, atque ſenex ille, ab eo nuper præcipitatus, miſerè periit: Con difficoltà Rohovic, calatosi di nascosto da un muro, fuggì via e, soffermandosi un po' in una sua fortezza, radunò alcuni compagni, si rifugiò con loro presso gli Žatecký e si apprestò ad assumere il potere sulla città. Compreso ciò, i cittadini gli fecero sapere che se non avesse desistito dai suoi propositi, lo avrebbero gettato in un precipizio simile [a quello in cui] era miseramente morto quel vecchio, da lui fatto precipitare poco tempo prima.  
VII f Non ere荒is ut aliàs, ſed demiſ﫤s auriculis, ut iniquæ ſortis aſellus, ista audiens, ejicit ſe protinus foras, locumque de proximo quam potest ad muniendum idoneum occupat, illum cæ﫤s arboribus & vallo, foſſaque communit, atque inde in Lucenſes hostiliter graſſatur, tanta audacia, ut ab ip﫤s mœnibus pastores cum gregibus ad aſylum ſuorum latronum abigeret, tantoque ſucceſſu, ut quum à civibus plenis, repente portis effu﫤s jam interciperetur, clamitans ille, pugnamque ſuos iterare jubens, non ſolum manus civium evaſerit, ſed occi﫤s illorum centum, & alterum præterea tantum captivorum ſecum abduxerit. Non con le orecchie dritte come altre volte, ma reclinate come quelle di un asinello [abbattuto] dalla cattiva sorte, udendo queste parole, [Rohovic] subito si allontanò e occupò un luogo nelle vicinanze, idoneo, quanto possibile, a essere fortificato. Abbattuti gli alberi, lo munì di un vallo e di un fossato, e da quel luogo prese a infierire ostilmente contro i Lučané, con tanta audacia da ricacciare dalle mura i pastori con le loro greggi, verso i nascondigli dei suoi predoni. Riuscì così bene nei suoi propositi che, mentre guidava i suoi uomini e li esortava a rinnovare lo scontro, i cittadini uscirono in gran folla dalle porte della città e, quando erano ormai sul punto di intercettarlo, [Rohovic] non solo schivò le mani della gente ma, uccisi cento di loro e facendone altrettanti prigionieri, li trascinò via con sé.  
  Legato caput præſcindit. Mozzata la testa a un ambasciatore  
VII g Aliquanto tamen eam rem Vogenus mitius tulit, quam quod legatum ſuum, contra jus Gentium capite truncaverit, caputque ejus clam ad portas arcis Vicegraden﫤s in mantica ſuſpenderit: Itaque convocatis ad con﫤lium ſubditis armarique, & ad certum diem in armis apparere juſ﫤s, ipſe quoque Princeps, armatus ante agmen progreditur ad expugnandum Rohovitium qui cum à pugna, cui ſe parem eſſe non videbat, ad ob﫤dionem tolerandam animum convertiſſet, indignum militibus viſum, trahere ſecum juvenem Principem ad ob﫤dium latronum. Illo igitur in oppido reli荒o, ip﫤 duabus ex partibus clauſum intra vallum Rohovitium oppugnare contendunt, irrito plusquam unum menſem conatu. A  tali fatti, Vojen mantenne un atteggiamento piuttosto tollerante, almeno fino a che [Rohovic] mozzò la testa  a un suo ambasciatore, contro il diritto delle genti, e la fece appendere dentro una sacca davanti alle porte della fortezza di Vyšehrad. A quel punto, convocati i sudditi in assemblea e ordinato loro di armarsi e di affluire in un giorno stabilito, lo stesso kníže avanzò in armi alla testa delle schiere per assediare Rohovic. Questi, vedendosi impari nella battaglia, si era risolto a subire l'assedio, mentre sembrava ai soldati cosa indegna portare con loro il giovane kníže all'assalto dei predoni. Pertanto, lasciatolo nella fortezza, essi stessi si cimentarono a contrastare Rohovic, chiuso entro il vallo da due parti, in un assedio vano per più di un mese.  
  Laqueo vitam finit Rohovitius Rohovic chiude la sua vita con un cappio  
VII h Eruptione tandem latronum fa荒a, multisque illorum interfe荒is, milites vi荒ores cum vi荒is in vallum penetrant, ibidem Rohovitium capiunt, & ad Principem deducunt, nihil aliud rogantem, nisi carnifici ut ne traderetur. Conceſſum ut ipſe 﫤bi laqueum indueret, ac ſe in quercu juxta viam po﫤ta, ſuſpenderet. Finalmente, avvenuta una sortita da parte dei predoni e uccisi molti di loro, i guerrieri vincitori penetrarono con i prigionieri nella fortificazione, catturarono Rohovic e lo condussero dal principe: quegli chiese soltanto di non essere consegnato al carnefice. Gli venne concesso di mettersi da solo il cappio e di impiccarsi a una quercia posta lungo la via.  
  Narvali Miſnen﫤ũ prædonum in Bohemia prima excur﫤o La prima incursione dei predoni Míšni  in Čechy  
VII i In eadem paulò post Regione, Miſnii (portio est Saxonum) primi externorum, ad populandum Bohemiam, remigio lintrium & ſcapharum, quas adverſo Albi flumine agebant, irruperunt, prædas hominum atque jumentorum ex agris Litomericen﫤bus ac Belinen﫤bus abigentes: & priusquam oppidani ad arcendam vim advenarum concurrerent, ſecundo rurſum flumine cum præda effugientes. Con﫤lium Principi datum, ut proximè Albim firmam conderet arcem, ex qua inhiberi hostibus licentia navigandi, latrocinandique poſſet. Nella medesima regione, poco tempo dopo, irruppero i Míšni (cioè una parte dei Sasové), primi tra gli stranieri a saccheggiare la Čechy, con un remeggio di barche e scafi che essi conducevano attraverso il fiume Labe, portando via gran bottino di uomini e bestiame dai campi di Litoměřice e di Bílina. E prima che gli abitanti della fortezza accorressero per contenere la violenza dei forestieri, essi erano già fuggiti con le loro prede attraverso il fiume. Consigliarono allora al kníže di fondare una roccaforte vicino alla Labe, dalla quale si potesse inibire ai nemici la possibilità di navigare e di fare razzie.
VII i Arci nomen Straka fuit:  Sed ut canis à corio nunquam absterrebitur un荒o, ni﫤 ei cruri perfregeris, 﫤c tum Miſnii dulcedine prædæ capti, ad degustatum bolum ore ſemper hiabant. Itaque omiſſa navigatione, ad montes & ſylvas, ſubter quas Albis illic labitur, defle荒unt, præmiſ﫤s ad explorandum ſuis, 﫤cubi stratis arboribus aut custodiis obje荒is itinera eſſent impedita. Fottè in duo 﫤bi obvios illi incidunt, atque utrumque corripiunt, cognitoque ex nova illa arce eos veniſſe, ambos ad Centuriones ſuos adducunt. Interrogat ſeor﫤m, hæc pariter reſpondent: Nudius tertius præfe荒um arcis ad Vogenum eſſe profe荒um cura arcis quinquagenario cum quinquaginta militibus commiſſa, reliquam manum eſſe opificum quoniam opus arcis nondum effet abſolutum. Alla rocca fu dato il nome di Střekov. Ma come un cane non si riterrà mai disgustato da un pezzo di carne grassa, a meno che tu non lo percuota a una zampa, così allora i Míšni, attirati dalla squisitezza della preda, stavano sempre a bocca aperta a gustare il cibo. Così, smesso di navigare, si ritirarono sui monti e tra i boschi, nelle terre bagnate dalla Labe, ma non prima di aver mandato i loro uomini in avanscoperta, per accertarsi se da qualche parte il cammino fosse impedito da distese di alberi o dall'opposizione dei difensori. Per caso, si imbatterono in due uomini, che andavano loro incontro, li assalirono e, saputo che erano venuti dalla nuova fortezza, li condussero entrambi dai loro capi. Interrogati, diedero queste stesse risposte: tre giorni prima, il prefetto della fortezza si era recato da Vojen, affidando la difesa a un cinquantenne con cinquanta soldati. Il resto del personale era costituito da artigiani, dal momento che il lavoro della rocca non era ancora ultimato.  
  Capta & direpta arx à Miſniis La fortezza presa e distrutta dai Míšni  
VII j Læti ex hoc ſermone Miſnii, continenti agmine prævios illos ſubſequuntur, juſ﫤s ita diſpenſare iter, ut circiter quartam no荒is vigiliam ad arcem pervenire poſſent. Inde magno tumultu, locum qui nondum obstru荒us erat, aggrediuntur, opifices ſemiſomnes interficiunt: mox per milites ad re﫤stendum excitatos, vi & ferro 﫤bi viam, uſque ad quinquagenarium aperiunt, quem statim captum in Miſniam mittunt, direptaque & combusta arce, ad vastandos alios pagos convertuntur, prædamque recuperata navigatione, per Albim ratibus avehunt, brevi tempore ad oppida quoque expugnanda ſe reverſuros palàm denunciantes. Soddisfatti da questo discorso, i Míšni si avviarono con le loro schiere, facendosi precedere da essi, con l'ordine di regolare il cammino in modo da raggiungere la fortezza intorno alla quarta vigilia notturna. A quel punto, con gran tumulto, assalirono la roccaforte, la quale non era stata ancora adeguatamente munita e uccisero gli operai mezzo addormentati; in fretta, usando la violenza e le armi, si aprono la strada tra i soldati chiamati in difesa, fino al cinquantenne, e catturatolo, lo mandarono subito a Míšeň. Poi, distrutta e bruciata la rocca, si volsero a devastare altri villaggi e, ripresa la navigazione, portarono via il bottino su zattere annunciando apertamente che in breve sarebbero ritornati per espugnare anche la cittadella fortificata.  
VII j Redierat tunc Vogenus ab expeditione contra Moravos fa荒a, qui Bohemiam, 﫤militer atque Miſnii, incur﫤onibus ac deprædationibus infestabant, ſaltus 﫤militer & juga montium occupabant, at inde in pagos & colonos impetum faciebant. Vojen era tornato allora da una spedizione contro i Moravané che, similmente ai Míšni, infestavano la Čechy con incursioni e saccheggi, e alle stesso modo occupavano le selve e i gioghi dei monti e di là assalivano villaggi e contadini.
VII j Quem quidem tumultum Princeps interventu ſuo repreſ﫤t: ſed non plane compreſ﫤t, quia nuſquam in apertum Moravus, aut in aciem deſcendere voluit. Et Principem illuc reverti res hortabatur, ubi majus periculum imminebat. Novo igitur dele荒u habito, castra adverſus hostes promovet, cum jam illi viribus Saxonum au荒i, Lucen﫤um mœnibus inſultarent: ſed appropinquante Principe ob﫤dionem omittunt, ſeque ad locum, ad quem Bilina fluvius in Albim influit, conferunt, ut ibi manus cum Bohemis conſerant. E per la verità tale scompiglio fu represso dal kníže col suo intervento, ma non del tutto eliminato perché in nessun luogo il moravo volle scendere in campo aperto o in battaglia. E la situazione esortava il principe a volgersi colà dove incombeva maggiore pericolo. Perciò, effettuata una nuova leva militare, mosse gli accampamenti contro i nemici dal momento che quelli, accresciuti dalle forze dei Sasové, assalivano le mura dei Lučané. Ma avvicinandosi il principe, abbandonarono l'assedio e si riunirono nel luogo dove il fiume Bělá affluisce nella Labe, per battersi con i Čechové.  
VII j In duo cornua hostes divi﫤 erant, dextrum Saxones, 﫤nistrum Miſnii tenebant: contra Bohemi utrunque. Dato pugnæ 﫤gno fit acris utrinque impreſ﫤o, & planè commoritura dimicatio alteris in alteros, propter mutuum odium, 﫤ne ullo mortis metu ruentibus, neutrisque loco ſuo demigrantibus. I nemici erano disposti su due ali: quella destra la tenevano i Sasové, la sinistra i Míšni: i Čechové erano di fronte a entrambi. Dato il segnale della battaglia, vi fu da ogni lato uno scontro violento, un combattimento degli uni contro gli altri, reso mortale dall'odio reciproco e senza alcun timore della morte per coloro che si lanciavano rovinosamente e senza cedere dalla propria posizione.  
VII j Quo Princeps conſpe荒o, ſubmittit ad Cadanum, à quo etiam oppidum Cadana vocabulum obtinet, qui ei nuntiet tempus emergendi ex in﫤diis adeſſe. Advolat mox ille cum ſuis, ac latera hostium invadens, perturbat illorum ordines: non expe荒ant amplius Bohemorum Triarii, qui fustuariam inire pugnam ſolent cum flagellis, quibus frumenta in areis flagellant, ſed strepitu ex illorum agitatione commoto, haud 﫤ne terrore hostes adoriuntur, plagas ingerunt, crura & oſſa comminuunt, ac reliquos in Albim flumen agunt. Non alia ante Bohemorum pugna adeo atrox fuit, nec ad audaciam Saxonum retundendam conducibilior. Visto ciò, il principe si rivolse, in segreto, a un certo Kadan – da cui anche la cittadella di Kadaň trae il nome – per fargli sapere che era giunto il tempo di risollevarsi dalle insidie. Quegli corse prontamente con i suoi e, avventandosi ai fianchi dei nemici, scompigliò le loro file; non aspettarono oltre i triari dei Čechové, i quali erano soliti entrare in battaglia a suon di legnate, usando i bastoni con i quali nei campi battevano il frumento. Scoppiato un clamore per quella agitazione, assalirono non senza panico i nemici, procurando ferite, spezzando gambe e ossa e gettando gli altri nel fiume Elba. Nessun precedente scontro dei Čechové era stato così atroce, né più utile a rintuzzare la furia dei Sasové.  
  Expeditio in Moravos Spedizione contro i Moravané  
VII k Ab hac cura liberatus Vogenus, intendit animum in ultionem Moravorum, qui paulo minus ſexcentos Bohemos in oppugnatione arcis Lipnicæ occiderunt, quam arcem Moravi 﫤bi in Bohemia in hoc excitaverant, ut propinquum ac tutum in illam à prædationibus in Bohemia fa荒is receptum haberent, illiusque præ﫤dio plus, quam viribus freti, debachari graffari, indies magis ac magis haud de﫤nebant, plurimumque Gzaſavien﫤bus incommodabant. Quorum querelas tam frequentes diutius ferre Princeps non ſustinens, impetum tandem expellendi Moravos è Bohemia cœpit, veniensque ad Lipnicam arcem, eam exercitu circumdedit, ita ut nec introire, nec exire quiſquam poſſet. Sed ne ea res Moravos terret, commeatu abunde instru荒os, & ad defendendum ſe animo paratos. Jacula hincinde telaque volare cœpta, ſed Moravorum ex loco ſuperiore miſſa, rarò frustra cadebant, compluresque Bohemos  interficiebant, 﫤militer cadebant, qui ſuccedere vallo, foſſamque complere conabantur. E Vojen, liberato da questa incombenza, si dispose alla vendetta sui Moravané. Questi avevano ucciso poco meno di seicento cechi nell'assedio della rocca di Lipnice, la quale fortezza, i Moravané avevano eretto per sé, per avere un sicuro, vicino rifugio dopo le razzie perpetrate in Čechy; e confidando più in quel presidio che nelle loro forze, non smettevano ogni giorno di più di infuriare, di fare ruberie, e soprattutto nuocevano agli abitanti di Čáslav. E il kníže, non potendo sopportare più a lungo le loro frequenti querimonie, finalmente intraprese lo sforzo di espellere i Moravané dalla Čechy e, venendo alla roccaforte di Lipnice, la circondò con l'esercito cosicché nessuno potesse entrare e uscire. Ma quella situazione non spaventò i Moravané, ben forniti di viveri bastanti e preparati a difendersi. Incominciarono a volare da una parte all'altra dardi e frecce ma, quelli dei Moravané, scoccati da un luogo più alto, raramente cadevano invano e uccisero gran parte dei Čechové; similmente cadevano coloro che tentavano di attraversare il vallo e riempire il fossato.  
  Lipnica arx flammis ab ſumpta La fortezza di Lipnice data alle fiamme  
VII l Qua re commotus Princeps, ignem ja荒are in ſæpes, arborumque strues, & alia ſepta lignea jubet, atque illa vento coorto ſuccenſa, repente tam validas excitarunt flammas, ut cætera quo arcis loca, & ipſa lignea inflammarentur, arderentque intus omnia, adeo, ut qui in arce clau﫤 erant dubitarent, quid peterent, quid vitarent. Præstare tandem unus illorum dicit, eruptione fa荒a, vel mori potius per virtutem, quam per ignominiam flammis torreri. Il kníže, turbato da ciò, ordinò di appiccare il fuoco alle siepi, alle cataste di alberi e alle altre barricate di legno; e quelle, incendiate dal vento che intanto si era levato, repentinamente sollevarono fiamme così alte che anche le altre parti della roccaforte e tutto ciò che era in legno prese fuoco e tutto arse, tanto che quelli che stavano rinchiusi nella fortezza, non sapevano che cosa chiedere e come scampare. Uno disse alla fine di essere pronto, fatta una sortita, a morire con onore piuttosto che a bruciare tra le fiamme in modo vergognoso.  
VII l Hæc dicentem, atque erumpentem, extra pauculos, qui mox intercepti ſunt, ſequuntur alii omnes in unum qua﫤 globum conglobati, quia viderant diſperios eſſe Bohemos, & ad comburendam arcem intentos: Hinc minore cum periculo ac cæde Moravi per vacua penè Bohemorum castra evadunt. Mox tamen Princeps quoque ſuos in unum contrahit, 﫤mulque hortatur, ut instent fugientibus, ultionemque maleficiorum & injuriarum de illis exigant, nec prius finem perſequendi, quam in Moravia, faciant: Currentes (quod ajunt) incitabantur, adeò ſua ſponte ad inſequendum prompti erant. A colui che così parlò e uscì fuori, seguirono altri, e tutti serrati insieme – tranne pochissimi, subito uccisi –, in quanto avevano visto che i Čechové erano dispersi e intenti a dare fuoco alla fortezza. Da qui, con minore pericolo e minori vittime, i Moravané evasero attraverso gli accampamenti quasi vuoti dei Čechové. Ben presto, tuttavia, anche il kníže radunò i suoi uomini e insieme li esortò a incalzare i fuggitivi, a esigere la propria vendetta per i loro misfatti e le loro offese, e non smettere di inseguirli prima di arrivare in Morava. A tal punto venivano incitati a correre – dicono – che spontaneamente scattavano all'inseguimento.  
  Profligati Moravi Cacciata dei Moravané  
VII m Quum noviſ﫤mum agmen aſſecuti, nonnullos neci dediſſent, alii ſummum collem ad re﫤stendum capiunt. Sed ne in loco quidem ſuperiore con﫤stere illos Bohemi patiuntur: imò dilapſos, per ſylvas proximas, uſque in Betoviam, arcem in Moravia 﫤tam, inſequuntur, atque inde quoque hostes expellunt, arcem demoliuntur. Posthac Vogenus pacatiorem Bohemiam habuit. Rinforzati da nuove schiere e avendo ucciso non pochi nemici, altri [moravané] presero la sommità di un colle, cercando di resistere. Ma i Čechové non permisero loro neppure di fermarsi in un luogo più alto, anzi, li inseguirono, ormai disfatti, per i boschi vicini, fino a Bítov, castello sito in Morava, e anche là cacciarono i nemici e distrussero la roccaforte. Dopo questi fatti, Vojen resse una Čechy più pacificata.
VIII Vneslaus & Vratislaus fratres I fratelli Vnislav e Vratislav  
VIII a Hic duos post obitum ſuum filios ſuperstites reliquit, Vneslaum natu majorem, & minorem Vratislaum: huic proceritas corporis, & forma Principe digna, plusquàm alteri lenocinari viſa est. [Vojen], dopo la sua morte, lasciò due figli, Vnislav il maggiore e Vratislav il minore: l'altezza e la bellezza degne di un kníže sembrarono far credito più a quest'ultimo che al primo.  
VIII a Sed vicit alter tamen ætatis prærogativa, qua ut prior erat, partes quoque priores in ſucceſ﫤one Principatus abstulit. Ac ne quando fratrum concordiam individuus Principatus dirimeret, ita inter illos hæreditatem dividi placuit, ut ſeptentrionalis plaga, ad quam Lucen﫤s ſeu Zatecen﫤s Regio po﫤ta est, Vratislao attribueretur, totam autem reliquam Bohemiam Vneslaus, tanquam Bohemiæ Princeps, ut obtineret. Sorte ſua uter contentus, fraternam inter ſe benevolentiam colebant, mutuaque 﫤bi invicem auxilia præstabant adverſus Carolum Cæſarem, Saxones etiam tum & Vandalos, ipſosque præterea Bohemos oppugnantem. Vratislao, qui prior deceſ﫤t, Vlastislaus filius, in Principatu Lucen﫤 hæres fuit, 﫤cut Vneslao, paulò post mortuo Crevomislius, qua﫤 tu Latine dicas flexanimus, quod à re荒o animum defle荒eret ad curva & obliqua. Tuttavia vinse l'altro per la prerogativa dell'età, in base alla quale, essendo primo, ottenne anche le parti migliori nella successione al principato. E affinché un principato indivisibile non mettesse fine alla concordia tra fratelli, decisero di dividere così l'eredità fra di loro, in modo che la zona settentrionale, verso la quale è posta sia la regione dei Lučané che quella dei Žatecký fosse affidata a Vratislav; mentre tutta la rimanente parte ceca l'ottenesse Vnislav, in quanto kníže di Čechy. Entrambi contenti della loro sorte, rispettavano fra loro una benevolenza fraterna e si portavano reciprocamente aiuto contro l'imperatore Carolus che combatteva anche allora i Sasové, i Vandali e gli altri Čechové. A Vratislav, che morì per primo, succedette come erede nel principato dei Lučané il figlio Vlastislav, così come a Vnislav, morto poco dopo, succedette Křesomysl, il quale era – per dirla alla latina – di «animo volubile» [flexanimus], in quanto volgeva il suo interesse da una direzione retta verso linee curve e oblique.  
IX Crevomislius ad mala proclivis Křesomysl, incline al male  
IX a Sic olim Pertinax Cæsar Crestologus est appellatus, quod bene diceret, & male faceret. Depravati autem parumque 﫤nceri animi Crevomislius adverſus Horymirium hanc memoriam ad fabulam uſque commemorandam reliquit. Annonæ fortè caritas tunc invaluerat, ejus rei culpam vulgo omnes Principi aſ﫤gnabant, quod aratores ab agris colendis, ad metalla effodienda transferret. Nemo tamen præter Horymirium inventus, qui hanc culpam Principi exprobrare auderet. Huic cum mox horrea arderent, juxta, ſchedæ eſſent repertæ cum hac inſcriptione contumelioſa: Fame pereat, qui inter frugum acervos famen timebat: Quas adeo ſchedas ſatis constabat foſſores metallorum ſpar﫤ſſe Horymirio infestos, qua﫤 non ſolum Principis, ſed illorum quoque lucra intercipere ſatageret. Come un tempo l'imperatore Pertinax fu chiamato Chrestologus perché parlava bene ma agiva male, Křesomysl, anch'egli di animo depravato e poco sincero, consegnò alla leggenda questa memoria [del suo conflitto] contro Horymír, affinché venisse tramandata. Si era allora aggravata, per sfortuna, la penuria dei viveri, della qual cosa tutti, comunemente, davano la colpa al kníže per aver trasferito i contadini dalla coltivazione dei campi all'estrazione dei metalli. Non si trovò nessuno, tuttavia, tranne Horymír, che osasse rimproverare al kníže tale colpa. Ben presto, essendo andati a fuoco i suoi granai e subito dopo essendo state trovate delle scritte con questa frase ingiuriosa: «muore di fame chi la fame temeva fra cumuli di frumento», risultò abbastanza chiaro che tali scritte erano state sparse dagli estrattori di metallo avversi a Horymír, quasi che lui brigasse a intercettare non solo i guadagni del principe, ma anche i loro.
IX a Igitur tanquam incendii reis dicam illis Horymirium ſcrip﫤t, ſed illi conſcio Principe ad dolum ver﫤, officinam quandam ſuam nullius pretii, ſua ſponte exurunt, accuſantque viciſ﫤m Horymirium velut inflammatorem manifestarium. Cæteri qui cognitioni interfuerunt, ſuis Horymirium ſententiis abſolverunt, ſolus Crevomislius pravo capitis ſui indicio inſontem damnavit. Pertanto, Horymír scrisse a quelli – come a dire, ai responsabili dell'incendio –, ma essi, vòlti all'inganno con la complicità del principe, bruciarono volontariamente una sua bottega senza alcun valore e a vicenda accusarono Horymír come manifesto incendiario. I presenti al processo emisero sentenze di assoluzione nei confronti di Horymír. Solo Křesomysl, per un malvagio indizio della sua mente, condannò l'innocente.  
  Fabella de Horymirio Favoletta di Horymír  
IX b Sequitur nunc fabula, quam Historiæ non inſeruiſſem, ni﫤 adeò ſcriptis aliorum invulgata, fidemque tantam apud Bohemos adepta eſſet, ut juxta adagium veriora iis, quæ apud Sagram acciderunt, continere videatur. Ferunt igitur Horymirium post damnationem ſui precibus egiſſe cum Principe, ut 﫤bi ante ſupplicium ſubeundum, inſcendere equum, quem in﫤gnem habuit, ac bis ter intra arcem Vicegradenſem, portis arcis occlu﫤s obequitare liceret: atque illum precibus tanquam ludicris & frivolis annuiſſe. Vadit Horymirius ad sternendum ſella equum, & verba quædam ei, ceu auſcultanti at intelligenti dicit ad aurem. Mox illo inſcenſo, arcem ſaltabundus perequitat, tanto equi ardore, ut impetum illius eques ultra non ſustinuerit, quo ille à porta us ad portã, & ab illa per muros, & flumen transvolavit, inſeſſorẽ in altera Vultaviæ ripa incolumen 﫤stens, eo loci, quo in hodiernum diem è regione arcis Vicegrand﫤s pagus Zliichow, ab aſper﫤one cognominatus, 﫤tus est: quoniam idem equus ad alteram ripam, aqua conſperſus hoc verbo Zliichow, uſus fuiſſe narratur. Segue ora una leggenda che non avrei inserito tra i fatti storici se non fosse stata così divulgata dagli scritti altrui e non avesse conseguito tanto credito presso i Čechové da sembrare loro che [anche] le cose più reali che avvennero presso Sagra contenessero quasi un significato allegorico. Tramandano, infatti, che Horymír, dopo la sua condanna, si fosse rivolto al kníže con una supplica affinché gli fosse concesso, prima di subire il supplizio, di montare il suo magnifico stallone [Šemík] e di cavalcare due o tre volte intorno alla rocca di Vyšehrad, a porte chiuse; e [narrano] che [il kníže] avesse assecondato una preghiera tanto risibile e stravagante. Si diresse Horymír a bardare il cavallo della sella e gli sussurrò all'orecchio alcune parole, come se quello potesse ascoltarlo e capirlo. E appena montato, girò intorno alla rocca e, galoppando, il cavallo mostrò tanto ardore che il cavaliere non riuscì a sostenere il suo impeto, finché esso, da porta a porta, volò oltre le mura e il fiume, lasciando il cavaliere incolume sull'altra riva della Vltava, nel luogo in cui, oggi, si trova il villaggio di Zlíchov, [così chiamato] in seguito all'«aspersione»; dal momento che si narra che il medesimo destriero, sulla riva opposta, madido d'acqua, avesse pronunciato questa parola: ZLÍCHOV.  
IX b Id videlicet fabulæ defuerat, ut equus etiam cum ſuo Horymirio, cui per tempus ſalutem attulit, loqueretur. Nihil est, quod præterea aliud hic Princeps memoratu dignum geſſerit. E certamente questo mancava alla leggenda, che anche il cavallo parlasse con il suo Horymír, al quale, a tempo opportuno, aveva arrecato salvezza. Oltre a ciò non vi è altro che questo kníže abbia fatto, degno di essere ricordato.  
       
LIBER TERTIVS LIBRO TERZO  
       
X Neclan

Neklan

 
X a Defun荒o Crevomislio filius ipſius Neclan principatu potitutr. Neclan autem Bohemis est, vir imbellis, & ad feriendum hebes, ut eſſe cuneus ſolet, qui aciem gerit obtuſam, & ad findenda ligna ineptam. Ad hunc fanè modum, ingenio animoque degenerem, cum Vlaſtislaus patruelem ſuum eſſe videret, bello terrendum principatumque illi armis extorquendum putavit. Cujus rei gratia, armorum officinas per oppida ſua instruit, & undecunque poteſt artifices opificesque contrahit, atque ex improviſo cum armata manu in fines Neclan populabundus inſilit, repertoque loco intra duos montes, novo condendo oppido idoneo, condere protinus id cœpit, atque ex nomine ſuo Vlatislaviam vocavit. Morto Křesomysl, s'impadronì del regno suo figlio Neklan. Ma costui fu, per i Čechové, un uomo imbelle, incapace di ferire, come suole essere un cuneo dalla punta smussata e inadatto a spaccare pezzi di legno. E Vlastislav, vedendo che suo cugino era proprio così, privo d'ingegno e di coraggio, pensò di atterrirlo con una guerra per usurpargli, con le armi, il principato. A tal fine fece costruire nelle sue città fabbriche di armi e, ovunque poteva, radunò artigiani e operai, finché, all'improvviso, si lanciò oltre i confini di Neklan, devastando. Quindi, trovato un luogo tra due monti, idoneo a fondare una nuova città, senza indugio cominciò a costruirla, chiamandola, dal suo nome, Vlastislav.  
X a Pavore Neclan perculſus, duos ex intimis aulicos ad patruelem legat, pacem & mutuam amicitia moraturos, quos ille quaſi exploratum miſſos, coclites domum remittit, ſuo utrique effoſſo oculo. Supervenerunt mox alii, qui iratum muneribus haud ſpernendis placarent. Sed & illi di荒a contumelioſa minarum plena retulerunt. Sic orationem ſuam Vlastislao finiente, non muneribus, ſed toto Principatu miſſo opus eſſe, ſi ſuam orexim ſedare Neclan voluerit. Stri荒um deinde enſem per Lucenſem regionem, cum ejusmodi edi荒o circumferri jubet, ut mares omnes qui enſis longitudinem corporis proceritate adæquarent, militatum venirent, alioquin enſe illo perituri, quicun illorum militiam detre荒averint. Ad hoc tam durum aſperumque edi荒um, cum major quàm animo præceperat multitudo conveniret, tum quaſi de vi荒oria futura certus, multa vana gloriabundus ja荒at, & inprimis pedites ad barbaram crudelitatem acuit, injungens, ut nemini prorſus tam in via quàm in acie parcerent, non ſeni, non juveni, non puero, non puellis, quinetiam la荒entes infantes ab uberibus matrum abreptos confoderent, ipſis matribus in hoc duntaxat incolumibus ſervatis, ut illæ pro infantibus ſuis catellos Lucenſium poſt hanc vi荒oriam nutrirent. Tum ad equites converſus, abjicite inquit ſcuta, quibus in fuga & cæde hoſtium nihil opus eſt: ac vice illorum, accipitres, falcones, cæterasque aves rapaces in manus ſumite, ut illarum ingluviem hoſtili carne ſaturetis. Hæc ferox Vlaſtislaus. Neklan, preso da gran timore, inviò al cugino due cortigiani, tra i più fedeli, per accattivarsi pace e reciproca amicizia, ma [Vlastislav], quasi fossero stati mandati come spie, li rimandò indietro dopo averli fatti accecare da un occhio. Ne vennero altri, per placare quell'iracondo  con doni certamente da non disprezzare, ma anche loro riferirono offese e minacce. Così Vlastislav finiva il suo discorso: non c'era bisogno di doni, ma di consegnare tutto il regno, se Neklan voleva sedare il suo appetito. Ordinò, quindi, che una spada sguainata fosse portata in giro per il territorio dei Lučané con un editto siffatto: che tutti gli uomini i quali in altezza eguagliassero la lunghezza della spada, venissero a combattere, altrimenti sarebbero morti di quella stessa spada, e così tutti coloro che si fossero sottratti alla coscrizione. Ed essendo convenuta, a questo aspro e duro discorso, moltitudine maggiore di quanto avesse pregustato dentro di sé, gloriandosi, tirò fuori molte parole vane e soprattutto spinse i fanti a una barbara crudeltà, ingiungendo loro che assolutamente non risparmiassero nessuno, né quelli trovati per via né in battaglia: non un vecchio, non un giovane, non un bambino, non le fanciulle: che anzi, uccidessero anche i lattanti strappati al seno materno, e che fossero lasciate incolumi soltanto le madri affinché nutrissero, dopo quella vittoria, i cuccioli dei cani dei Lučané. Poi, rivolto ai cavalieri, disse: «Gettate via gli scudi dei quali non ci sarà bisogno, giacché i nemici saranno uccisi o messi in fuga; al posto loro prendete sparvieri, falconi ed altri uccelli rapaci per saziare la loro voracità con carni umane».  
  Sagarum ænigmatæ fallacia

La fallacia degli enigmi di Saga

 
X b At Saga mulier, quam in oppido ſuo habebat, alium prælii eventum futurum privigno ſuo canebat, illum clam ſubmonens, ut ſi domum ex prælio cruento & infauſto ſuperſtes reverti cupiat, eum qui primus hoſtium ſibi occurrerit, gladio transfonderet, atque utramque ejus auriculam amputaret, ſecumque celeri curſu domum repetens, ad uxorem ſuam referret. Ma un'indovina, una certa Saga, che aveva nella sua città, prediceva al suo figliastro [Straba] che si sarebbe verificato un diverso fatto di guerra, ammonendolo segretamente che, se voleva ritornare a casa incolume da uno scontro così violento e infausto, doveva trapassare con la spada il primo uomo che gli si fosse fatto incontro, amputandogli entrambe le orecchie e, riportandole con sé nella sua corsa veloce verso casa, le consegnasse alla moglie.  
  Siderius à Chaynovo ſuppoſititius Princeps

Štyr, di Chýnov, sostituisce il kníže

 
X c Habuit tunc & Neclan in exercitu ſuo Sagam quoque ſuam, quæ Aſello diis ſuis ad fontem quendam immolato, fecunda omnia & proſpera divinabat. Cæterum Principem ignavum timidumque, ad aciem ne divinatione quidem ſua protrudere valuit: in morem enim ſoricis in conſpe荒u felis apparere non audentis, in tabernaculo illo, quaſi in cavernula forex deliteſcebat: propius deinde accedente Vlaſtislao, atque inſtantibus omnibus, præſentiamque ipſius multum flagitantibus, Siderium à Chaynovo equitem ſtrenuum, qui æmula facie perſimilis habebatur, equo & armis ſuis armat, magniſque precibus rogat, ut perſonam & nomen Principis gerat, omnesque Ducis partes in prælio obeat, relaturus ob iſtud officium honores à ſe & præmia lauta. Quod est calcar equo ſponte currenti. Hæc fuerunt di荒a promissaque Principis ad exſtimulandum Siderium, ut tanto videlicet promptius libentiusque juſſa capeſſeret, atque omnia in acie præſtaret, quæ Ducem ſtrenuum præſtare oportet. Allora anche Neklan ebbe nel suo esercito la propria indovina, la quale, sacrificato ai suoi dèi, presso una fonte, un asinello, profetizzava tutti eventi favorevoli e prosperi. Ma neanche le sue profezie furono capaci di spingere in combattimento un kníže così ignavo e timido; infatti, come un topo che non osa apparire di fronte a un gatto, [Neklan] si nascondeva nella sua tenda come un sorcio nella sua tana. Poiché Vlastislav si faceva più vicino e tutti quanti reclamavano la sua presenza, [Neklan] vestì del suo cavallo e delle sue armi un certo Štyr, di Chýnov, valoroso cavaliere che, emulandolo nell'aspetto esteriore, era ritenuto molto somigliante a lui e, con magnifiche parole, lo pregò di rappresentare la persona e la dignità del kníže e di assumere, in battaglia, il ruolo del condottiero: per questo incarico avrebbe ottenuto da lui onori e lauti premi. Era come dare di sprone a un cavallo che corre da sé. Tali furono le parole e le promesse del principe per stimolare Štyr, è evidente, affinché tanto più prontamente e di buon grado eseguisse gli ordini e, in combattimento, compisse tutto quanto è opportuno che faccia un comandante valoroso.
X c Prælium in campo Turſcho commiſſum fuit, meliore ſucceſſu eorum qui ſcuta retinuerunt, quàm qui illa abjecerunt. Mirabatur ſimul & indignabatur Vlaſtislaus, ubi vidit Neclan (hunc enim ſe videre putabat) quovis alias lepore pavidiorem, tunc in prima acie velut leonem verſari, in ipſum itaque inflammatus, infeſtusque haſtam dirigit: Cui haſtatus occurrit Siderius, Vlaſtislaumque cuſpide transfixum, equo moribundum deturbat. La battaglia si combatté nel campo di Tursko, con maggior successo da parte di coloro che avevano trattenuto gli scudi che da parte di quelli che se ne erano disfatti. Vlastislav si meravigliava e nello stesso tempo s'irritava vedendo Neklan (credeva infatti di vedere costui), altre volte più pavido di una lepre, che ora si agitava nelle prime file come un leone, perciò infiammato e minaccioso, diresse l'asta contro di lui; a questi andò incontro Štyr, a sua volta armato d'asta, la cui punta trafisse Vlastislav buttandolo, moribondo, giù dal cavallo.  
X c Ab occaſu Ducis, tanta repente conſternatio, tantusque ſtupor equos pariter at homines Lucenſes inceſſit, ut nec ultra progredi, nec retrò pedem referre poſſent, à Saga, ſuo quiſque loco ne profugerent, miro ſtupore inje荒o affixi. Extra unum privignum, qui domum reverſus, non hoſtem, ut opinabatur, ſed uxorem ſuam gladio confoſſam, & auribus truncam reperit, ſeroque tandem agnovit, à noverca nurui infeſta, hanc cædem fuiſſe procuratam, ſiquidem auriculæ illæ, quas ſecum retulit, capiti uxoris admotæ protinus in loco ſuo coaluerunt. Per la morte del capo, rapidamente, tanta costernazione e tanta sorpresa colpì sia i cavalli sia gli uomini dei Lučané, da non poter avanzare oltre né retrocedere, inchiodati da Saga ciascuno al suo posto per non avere scampo, essendo loro infuso un incredibile torpore. A parte uno, il figliastro che, ritornato a casa, scoprì che non il nemico, come credeva, ma sua moglie era stata trafitta da spada e amputata delle orecchie; troppo tardi alla fine capì che quella strage era stata procurata dalla matrigna, ostile alla nuora, dal momento che quelle piccole orecchie che aveva portato con sé, mozzate dal capo di sua moglie, subito si riattaccarono al loro posto.  
X c In hac pugna Syderius cecidit non tam ab hoſtibus, quàm à fuis, qui virtuti & gloriæ ipſius invidebant, oppreſſus. Inde porro ad evaſtandam rapinis incendiisque totam Lucenſem regionem itum, urbem namque Zateciam latis foſſis altisque muris tutam, capere non poterant. In questa battaglia Štyr morì, sopraffatto non tanto dai nemici quanto dai suoi, invidiosi del suo valore e della sua gloria. Di là, poi, si procedette a devastare, con rapine e incendi, tutta la regione dei Lučané, finché infatti poterono conquistare la città di Žatec, protetta da ampi fossati e da alte mura.  
  Duringi Alnus

L'ontano di Duryňk

 
X d Sed inſtar urbis captæ erat captivus Vlaſtislai filiolus, apud matronam Vlaſtislai affinem, unà cum pædagogo quodam Duringo interceptus, & ad Principem Neclan addu荒us. Quo ille conſpe荒o, cum vix ſeptimus annum ageret, miſericordia puelli motus, reduci continuo eum, curæque illorum reſtitui, quorum tutela ejus à parente demandata fuit, jubet, aſſignatis inſuper agris quibusdam pupillo, ex quibus commodius honeſtiusque nutriretur. Placebant agri Duringo, ſed niſi pupillo ſublato, ſpes aſſequendi illorum nulla aderat. Vi荒us igitur agrorum ſacra fame Duringus, nefarium conſilium interficiendi pupilli capit, beneficium Principis ſic interpretans, quaſi ille non miſericordia, ſed metu invidiæ addu荒us, puero ad tempus pepercerit, cæterum gratiorem illi maturam hoſtis mortem, quàm longiorem illius vitam futuram. Amputat igitur illi caput, linteoloque involutum, ſecum ad Principem adfert. Ma altrettanto importante che prendere la fortezza fu avere come prigioniero [Zbislav], il figlioletto di Vlastislav, sorpreso presso una sua parente, insieme con il suo pedagogo, certo Duryňk, e condotto da Neklan. Il kníže, guardatolo e preso da compassione per il bambino, che aveva appena sette anni, ordinò di ricondurlo immediatamente e restituirlo alla cura di coloro ai quali il padre ne aveva affidato la tutela; e [dispose] inoltre che fossero assegnati al fanciullo certi terreni grazie ai quali sarebbe stato allevato in modo più conveniente e dignitoso. Piacevano quei campi a Duryňk, ma non si profilava alcuna speranza di ottenerli se non togliendo di mezzo il ragazzino. Vinto, però, da quella maledetta fame di terra, Duryňk, prese la malvagia decisione di uccidere il fanciullo, interpretando così la buona azione del kníže come se egli, a suo tempo, avesse risparmiato il ragazzo spinto non da compassione, ma dalla paura [di essere tacciato] d'invidia e che, tra l'altro, a Neklan sarebbe stata più gradita la morte precoce di un nemico che, per lui, una vita più lunga. Pertanto, gli mozzò la testa e, avvolta in un panno, la portò con sé dal kníže.  
X d Prandebat tum fortè Neclan, cum introgreſſus Duringus, ſe quoque ferculum prandenti afferre diceret, non edule quidem, ſed tale potius, quale ei ſolidam in poſterum ſecuritatem ſpondeat. Et cum di荒o, amoto linteolo, caput puerile, ita ut adhunc erat cruentum ob oculos prandentis obtrudit. Cruore viſo Neclan adeò ſubito obriguit, ut velut femianimis aliquantiſper in menſa jaceret. Recepto dein animo ſententiae eorum ſubſcribit, qui cenſuerant, & ad hoc coegerant Duringum, ut ipſe ſe, verſa facie, vultuque ad Duringiam ſuam, in arbore Alno penſilem faceret, quæ quoad arbor illa ſteterat, Duringi Alnus dicebatur. In quel momento, Neklan stava pranzando, allorché Duryňk, presentatosi, si mise a dire che anche lui portava un piatto, per il commensale, certamente non da mangiare ma tale da garantirgli, in futuro, una sicurezza duratura. Detto ciò, rimosso il telo, gettò con violenza davanti agli occhi di chi mangiava quel capo infantile, imbrattato di sangue, così come era stato fino ad allora. Visto il sangue, Neklan s'irrigidì così da rimanere mezzo morto, disteso sulla mensa, per un po' di tempo. Ripreso vigore, sottoscrisse la sentenza di coloro i quali avevano stabilito e a ciò avevano costretto Duryňk, che egli stesso, rivolto lo sguardo verso la sua Turingia, s'impiccasse a un ontano. Quell'albero, finché durò, fu detto l'ontano di Duryňk.  
  Craſnitius Gurimenſuis negotium faceſſuit Neclam

Krasník di Kouřim fa fallire i negoziati di Neklan

 
X e Sed ut ille haud abſurdè dixit, leone dormiente, mediam illius cervicem vel murem percurrere, ita tunc, Principe per inertiam & ignaviam ſtertente, multi mures ad rodendum illius Principatum ſuboriebantur, præter alios Craſnitius juvenis ferox & ja荒abundus, ac ſibi propterea in primis placens, quod Tetrarcha Gurimenſis regionis diceretur, cum interim nihil in arca nummaria poſſideret nummorum, qui belli nervi ſunt, quod ei imminebat, qui ad Principatum alterius per vim eripiendum anhelabat: Vana nihilominus fiducia atque audacia elatus, dum ſibi perſuadet, cum omnium meticuloſiſſimo Principe negotium fore, villas quaſdam Principales diript, & agros quoquo verſus devaſtat. Hac indignitate, Montanus vir ex ordine equeſtri commotus, adit Principem: ſi jubes, inquit, hoſtem ego tuum, aut vivum aut mortuum tibi ſiſtam. Vicinus enim ego illi habito, cognitaque & explorata itinera & omnia diverticula habeo, ad quæ ſæpiſſimè ille divertere ſoleat. Laudat Princeps, ſtrenuum & promptum militis animum, ac præmia pollicetur, ſi deſtinatum facinus pera荒um fuerit. Montanus cum duodecim viris dele荒is, in ſaltum ſe abdit ſecundum viam, quam animi laxandi gratia Gurimenſis ſæpius terere ſolebat, in appropinquantem ſubito impetu magnoque clamore inſilit. Clientes re improviſa territi, ac ſuſpicantes majores copias intra ſylvam latere, fugæ ſe mandant: interim Gurimenſis equum in Montanum concitat, manuque ab illo vulneratus, fugit & ipſe, Montanumque ſe perſequentem velocitate equi fruſtratur. Ma come giustamente si dice che, a un leone che dorme può correre anche un topo in testa, così allora, dormendo il kníže profondamente, sia per l'inerzia che l'ignavia, erano sorti molti topi a erodere il suo regno. Oltre agli altri c'era Krasník, giovane forte e millantatore che piaceva soprattutto a se stesso, in quanto veniva detto vévoda della regione di Kouřim; in cassa, però, non aveva un soldo, e i soldi sono risorse essenziali in una guerra e questa gli pendeva sul capo dal momento che anelava a impadronirsi con la forza di un regno altrui. Sostenuto da una fiducia per lo meno vana e dalla sua audacia, mentre si persuadeva che sarebbe stato interesse di tutti [chiudere] con quel kníže così pavido, assalì alcune fattorie di sua proprietà devastando anche le campagne. Colpito da questi atti indegni, un certo Horák, un vladyka, si presentò al kníže dicendo: «Se lo comandi, ti porterò il tuo nemico vivo o morto. Abito infatti vicino a lui e ho già conosciuto ed esplorato tutti i sentieri per i quali egli molto spesso suole deviare». Il kníže lodò il pronto e risoluto coraggio del soldato e promise premi se avesse portato a termine il disegno stabilito. Horák, con dodici uomini scelti, si nascose in una zona boscosa lungo la via che più spesso Krasník soleva percorrere per ritemprare lo spirito; quindi, con impeto improvviso e grande clamore, si lanciò contro l'uomo che si stava avvicinando. Il seguito [di Krasník], atterrito da questo evento inaspettato e, sospettando che nella selva si nascondessero più uomini, si dette alla fuga. Frattanto Krasník spronò il cavallo contro Horák e, dopo aver ricevuto una ferita a una mano, fuggì eludendo Horák che lo inseguiva, per la velocità del suo cavallo.
X e Poſtquam inſidiæ non ſucceſſerunt, obſidione cingi oppidum Gurimenſe, quo Craſnitius ſe receperat, qui præter libidinem dominandi, nullam aliam belli cauſam habebat, placuit. Miſſæ à Principe de conſilii ſententia copiæ, cum prope oppidum caſtra poſuiſſent, cottidie oppugnationem continenti labore urgebant. Oppidani ubi intelligunt, quintum jam diem tam acriter ſe ob unum Craſnitium peti, eum ſilentio no荒is per murum demittunt, ac mane ipſi de deditione agunt. Qua non impetrata, muro & turribus præsidio completis, ſe oppidumque ad o荒avum uſque diem fortiter defendunt: eodemque die tandem vi荒i, ad internecionem à vi荒oribus cæſi ſunt, ſalvis oppidi ædificiis, in quæ nec ferro nec igne ſævitum eſt. Craſnitius in Moraviam ad Regem Hormidurum perfugiens, illius opem ad recuperandum Principatum amiſſum, quaſi non feciſſet, ſed accepiſſet injuriam, ſupplex implorat, perfan荒eque illi jurat, nullum poſthac Dominum, niſi Regem Moraviæ ſe agniturum. Rex qui jam pridem cupiditate regnandi in Bohemos flagrabat, tam equitum quàm peditum catervas (magna ea manus fuit) cum illo in Bohemos mittit. Ultra oppidum Czaslaviam Moravis occurrunt Bohemi, pugnamque illorum excipiunt, violentius inſtantiusque equitibus pugnantibus, quàm peditibus: non enim diu peditum acies impreſſionem Bohemorum ſuſtinuit. At equites præliari urgereque Bohemos non ante deſtiterunt, quàm viderent Craſnitium cum equo confoſſum in terram defluxiſſe. Interea Rex Moraviæ dum retra荒are arma, viresque reparare ſtudet, peſte interceptus moritur. Poiché l'agguato non ebbe successo, si decise di cingere d'assedio la città di Kouřim entro la quale si era rifugiato Krasník, che non aveva altro motivo di far guerra che il desiderio sfrenato di potere. Le truppe, mandate dal kníže per decisione dell'assemblea, avendo posto l'accampamento vicino alla città, ogni giorno incalzavano all'assedio, sostenendo lo sforzo. I cittadini, appena capirono che si stavano avviando ormai al quinto giorno, in modo così aspro e per colpa di uno solo, Krasník, nel silenzio della notte lo lasciarono scappare attraverso un muro e l'indomani trattarono la resa. Ma non avendola ottenuta, presidiati il muro e le torri, difesero con vigore se stessi e la città fino all'ottavo giorno: in quello, ormai vinti, furono dai vincitori massacrati fino all'ultimo; furono risparmiati unicamente gli edifici della città contro i quali non s'infierì nel col ferro né col fuoco. Krasník, riparando in Morava, presso re Hormidurum, perso il suo sostegno per recuperare il regno, quasi non avesse fatta ma anzi avesse ricevuto egli stesso un'offesa, lo implorò e gli giurò, su quanto aveva di più sacro, che in avvenire non avrebbe riconosciuto nessuno come signore, se non il re di Morava. Questi, che già un tempo ardeva dal desiderio di regnare sui Čechové, inviò con lui un gran numero di cavalieri e di fanti (era infatti una grande schiera), contro di loro. Al di là della cittadella di Čáslav, i Čechové affrontarono i Moravané, sostenendo il loro scontro, nel quale i cavalieri [moravi] combatterono con maggior violenza e vigore rispetto ai fanti, la cui schiera, infatti, non sostenne a lungo l'incalzare ceco. I cavalieri, invece, non smisero di combattere e di premere contro i Čechové, prima di vedere Krasník che, ucciso, a crollato a terra con il suo cavallo. Intanto, il re di Morava, mentre si proponeva di ritirare le armi e reintegrare le forze, morì di peste.
XI Hostivitius Princeps

Il kníže Hostivít

 
XI  Læto Principe Neclan, fortunæque ſuæ gratias agente, cujus favore, citra ſementem (ut dicitur) citraque arandi laborem omnibus vi荒oriæ commodis frueretur, uſque ad exitum vitæ ſuæ: Hoſtivitius natu major filius, in locum patris ad ordinibus ſuffe荒us, graviter ferente juniore fratre, cui Miſtibogio nomen, quòd in nullam partem Principatus, non ad Lucenſem, non ad Gurimenſem regionem aſcitus fuerit, ſed ut planè alienus ab hæreditate præteritus ac negle荒us. Sic affe荒o Croſmilius Verſovicenſis ſe in amicitiam inſinuat, iram juvenis acuit, cupiditatem inflammat, & ad paternum Principatum aſſequendum impellit, promittens non hortatorem ſolùm, verum etiam auxiliatorem cum ſuis omnibus, tam affinitate quàm familiaritate ſibi conjun荒is, ſe futurum. Il kníže Neklan, ringraziando la sua fortuna, per il cui favore – indipendentemente (come si dice) dalla qualità della semente e dalla fatica di arare – aveva fruito di tutti i vantaggi della vittoria, arrivò soddisfatto in fondo alla sua vita. Al suo posto fu nominato dagli ordini il figlio maggiore Hostivít, e ciò fu preso assai male dal fratello minore, Mstiboj, il quale non era stato accettato in nessuna regione del knížectví, né presso i Lučané, né presso Kouřim. Come un perfetto estraneo, fu escluso dall'eredità e messo da parte. Verso di lui, così maltrattato, s'insinuò in amicizia un certo Krosměl, di Vršovice. Costui inasprì l'ira del giovane, infiammò la sua cupidigia e lo spinse a conquistarsi il regno paterno, promettendo di essergli non solo di sprone ma anche di aiuto, con tutti i suoi [uomini], uniti a lui sia per parentela che per amicizia.  
XI a His auditis juvenis hoſtilem advertſus fratrem induit animum hoſtiliterque cum turba temere colle荒a agros fraternos invadit. Mox au荒is viribus oppidum Caſinum, in alto monte ſitum, unde longe deſpe荒us in campos patebat, & receptus in illo tutus eſſe videbatur, inſtanter oppugnat. Sentite quelle parole, il giovane assunse un comportamento ostile verso il fratello e, da nemico, con una turba radunata alla ventura, invase i suoi possedimenti. Ben presto, aumentata la soldatesca, assalì con forza la cittadella di Klapý, posta su un alto monte da cui si estendeva un'ampia vista sui campi, così da sembrargli un rifugio sicuro.
XI a Sed non cun荒atur Hoſtivitius oppidanis laborantibus venire ſubſidio, virtuteque militum nixus, promiſcuam ex gregario milite turbam facilè diſcutit, fratremque cum Verſovicenſi in fugam vertit. Apparebat non ſublatam per hæc, ſed exacerbatam potius inter fratres contentionem, ex qua ad colonos inprimis & agricolas, magnum per populationem agrorum detrimentum redundaret, ſi nemo eſſet, qui diſcordes fratres ad concordiam reduceret. Qua de re Hoſtivitius admonitus, cauſam finiendarum ſimultatum fautoribus concordiæ committit. Illique hac lege rem controverſam compoſuerunt, ut apud Hoſtivitium, ad quem de jure gentium, tanquam ad ſeniorem fratrem ſucceſſio ſpe荒aret, Principatus remaneret Pragenſis, & interim Miſtibogius tanquam junior, contentus ut eſſet poſſeſſione bonorum quæ Gurimenſis poſſidebat. Quod ſi Hoſtivitius prior decederet, frater ut ei ſuccederet, non autem filius: fratre mortuo, ut rurſus legitimis ſuccedendi ordo ad liberos Hoſtivitii rediret, excluſis Miſtibogii liberis ad Gurimenſem hæreditatem. Tuttavia, Hostivít non esitò a venire in aiuto degli abitanti in difficoltà e, contando sul valore dei soldati, facilmente disperse quella schiera confusa di mercenari mettendo in fuga il fratello con [Krosměl] di Vršovice. Era chiaro che, per tali motivi, la contesa tra i due fratelli non si superava, piuttosto si esacerbava; da essa sarebbe derivato un gran danno soprattutto per i coloni e per i contadini, a causa della devastazione dei campi, se nessuno avesse ridotto alla pace i due fratelli discordi. Consapevole di ciò, Hostivít affidò ai sostenitori della pace il procedimento per por fine alle ostilità. Ed essi composero la controversia con questa risoluzione: che  ad Hostivít, il quale, secondo il diritto delle genti, come fratello maggiore spettava la successione, rimanesse il knížectví di Praha, e nel frattempo Mstiboj, in quanto fratello minore, si accontentasse delle proprietà di Kouřim; che se Hostivít fosse morto per primo, gli succedesse il fratello e non il figlio; morto il fratello, per il legittimo ordine di successione, [il knížectví] ritornasse di nuovo ai figli di Hostivít, escludendo dall'eredità di Kouřim quelli di Mstiboj.  
  Succoslaus Bilinaus Principi inſultat

Sukoslav di Belín insulta il kníže

 
XI b Finita hoc modo inter fratres offenſarum acerbitate, atque utroque ſua portione contento, non tenuit ſe intra fines ſuos, eodem Verſovincenſe incentore, Sucoslaus Bilinæ præfe荒us, ſed majora quam pro facultate conatus, hoſtem ſe Principi denunciat, ja荒ans, ſe quoque ex eo ligno fa荒um, unde Principes dedolantur. Huic Princeps, Creſſum audacia parem, opibusque non multo inferiorem adverſarium opponit, eidemque injungit, ut damna per latrocinia illata, talione retaliet, & ſi præterea poſſit, Sucoslaum quo intercipiat. Accepto imperio Creſſus, poſſeſſiones & agros hoſtis flamma ac ferro populatur, nec prius vaſtandi finem facit, quàm ſe e Sucoslaus cum filio Mileſio infeſtus objicit. Initur prelium utrin cruentum: Quippe ex utra parte amplius trecenti viri ſunt interfe荒i, & in iis Mileſius, neſcio tunc patre, exiſtimanteque, quòd ſe fugientem filius ſequeretur. Nece mox comperta, jurat manes Mileſii, capite Principis, ejusque filii morte ſe expiaturum, ſimulque injuriam Miſtibogii ulturum. Esauritasi in questo modo, tra i fratelli, l'asprezza delle offese, ed essendo entrambi soddisfatti della propria parte, non si tenne dentro i propri confini, per istigazione di Krosměl, il prefetto di Belín, Sukoslav, ma osando più di quanto ne avesse facoltà, si dichiarò nemico del kníže, vantandosi di essere fatto anche lui di quel legno di cui si scolpiscono i principi. A costui il kníže oppose come avversario, Křes, pari in audacia e di poco inferiore in ricchezza, ingiungendogli di applicare la legge del taglione per i danni arrecati dalle ruberie e, inoltre, se poteva, di intercettare anche Sukoslav. Ricevuto il comando [da Hostivít], Křes mise a ferro e a fuoco i possedimenti e le proprietà terriere del nemico e non cessò di devastare non prima che Sukoslav, con il figlio Miléš, gli venisse incontro minaccioso.  Ebbe inizio lo scontro, per entrambi cruento; in verità da entrambe le parti furono uccisi più di trecento uomini, tra cui Miléš e, non so come, dal momento che suo padre credeva che il figlio lo stesse seguendo nella fuga. Scoperta la morte, immantinente Sukoslav giurò che avrebbe placato i mani di Miléš con la testa del kníže e con l'uccisione di suo figlio, e insieme avrebbe vendicato l'offesa di Mstiboj.  
XI b Currit ad Miſtibogium Verſovicenſis, narratoque ei Sucoslai juramento, quo ſe ad vindicandum ipſius injuriam obſtrinxerat, à juvene impetrat, ut tres militum centurias clàm armaret, quas ille per ſylvas & diverticula ad Sucoslaum adduxit. Milite accreſcente, crevit rurſus Sucoslao audacia, nodum tamen ad prælium ineundum, ſed incurſandos duntaxat agros, maximè circum Budinam, ubi Creſſus habitabat, & circum Melnitium, quod oppidum Salinborius incoluit ſitos. Uterque horum Principi percharus, ideoque ne deſertos auxilio amicos relinquere videretur, impetum Hoſtivitius caput adoriendæ arcis, in quam ſe hoſtis abdidit, illiusque expugnandæ & evertendæ, ne denuò latronibus receptaculum eſſe poſſet. Expugnatis munitionibus, & in iis plerisque militibus ex utraque parte confoſſis, arx ſcalis tandem capitur, cumipſo Sucoslao, qui ad Ducem perdu荒us, veniam vitamque, humili, (ex tam inflata arrogantia) degenerique voce precatur: Faciliore in illum Principe, quam futurus erat in Verſovicenſem, qui inter primum tumultum per feneſtram arcis elapſus eſt. Hanc verò in Sucoslaum ſententiam Princeps di荒avit ut incolumi vita perpetuo attineretur carcere. At miles cuſtodibus ereptũ, in vitam quo illius crudeliſsimè deſeviit, manus enim illi pedesque detruncat, totum reliquum corpus in Egram flumen projicit, & submergit. [Krosměl] di Vršovice corse da Mstiboj e, riferitogli il giuramento di Sukoslav, il quale si era impegnato a vendicare l'ingiuria dello stesso [Mstiboj], ottenne dal giovane di armare di nascosto tre centurie di soldati che, poi, lui stesso condusse, per luoghi boschivi e vie traverse, da Sukoslav. Aumentando i numeri dei soldati crebbe di nuovo l'audacia di Sukoslav, non abbasganza, tuttavia, per iniziare un conflitto ma soltanto per fare incursioni nelle campagne, soprattutto intorno a Budín, dove abitava Křes, e intorno a Mělník, dove abitava Slavibor. Entrambi erano molto cari al kníže, perciò affinché non sembrasse di lasciare gli amici privi di aiuto, Hostivít prese la decisione di circondare la rocca nella quale si era rifugiato il nemico, di espugnarla e di ridurla in rovina affinché non potesse più essere un luogo di rifugio per i briganti. Espugnata la fortezza, ed essendo stati uccisi in essa la maggior parte dei soldati dei due schieramenti, la fortezza venne finalmente espugnata per mezzo di scale e con essa [fu catturato] lo stesso Sukoslav, il quale, condotto dal kníže, supplicò il perdono e la vita con voce umile e lamentosa (dopo tanta arroganza), dicendo che sarebbe stato più facile per il kníže andare contro di lui che contro Krosměl, il quale, all'inizio del tumulto, era fuggito dalla fortezza attraverso una finestra. Invero il kníže dettò questa sentenza: che, risparmiandogli la vita, [Sukoslav] fosse rinchiuso in carcere per sempre. Ma un soldato, sottrattolo alle guardie, incrudelì ferocemente contro la sua vita: infatti gli troncò mani e piedi e gettò, sommergendolo, il resto del corpo nel fiume Ohře.
  Suatoplucus Moravus Noſiſlaum Miſtibogio opponit

Svatopluk di Morava oppone Nosislav a Mstiboj

 
XI c Non ceſſat interim profugus Verſovinceſis furere cum tota gente ſua, Principibus semper infeſtiſſima, rurſusque inter ipſos fratres odia ferere, ac Miſtibogium ad ſpes & cupiditates novas impellere conabatur. Sed nulla ratione Miſtibogius pellici ad rebellandum denuò fratri potuit, quanquam avidus amplificationem aliunde quàm ex fratris fortunis quærendam ratus, animum ad Moraviam intendit, decerpere aliquid ſibi de illa meditans, Rege præſertim abſente. Rex tunc Moravorum Suatoplucus erat, ad Cæſarem Arnolphum profe荒us, cui adeò commendatus fuerat, ut Cæſar filium ejus Suatobogium è ſacro fonte lavaverit, transferens in illum hoc boum tributum, quod Bohemi à Carolo domiti, Cæſaribus pendendum receperant. Igitur in fines Moraviæ perpetrans Miſtibogius, complures Moravos circumvenit, captosque in Bohemiam abduxit, prædam cum fratre partiens, quam ille Regi mox à reditu ſuo in Moraviam reſtituit. Ægrè verò Miſtibogius id tulit, quòd frater captivos reddiderit. Nel frattempo, il fuggiasco Krosměl non cessava d'imperversare con tutta la sua gente, sempre molto ostile ai due knížata, e a seminare, di nuovo, odio tra gli stessi fratelli, tentando d'indurre Mstiboj a nuove speranze e nuove bramosie. Ma per nessuna ragione Mstiboj poté essere spinto a ribellarsi per la seconda volta al fratello, benché desiderasse ampliare il suo knížectví; pensando, tuttavia, che tale ampliamento dovesse essere ricercato da un'altra parte rispetto ai beni del fratello, rivolse la sua attenzione alla Morava, meditando di strappare da essa qualcosa per sé, soprattutto ora che il re era assente. A quel tempo, era král dei Moravané Svatopluk, partito presso l'imperatore Arnulf, al quale era stato così raccomandato che l'imperatore aveva fatto bagnare presso la sacra fonte il figlio di lui, Svatoboj, trasferendogli quel tributo di buoi che i Čechové, assoggettati da Carolus, avevano ripreso, per pagarlo agli imperatori. Pertanto, entrando Mstiboj nei confini della Morava, assalì molti Moravané e li portò prigionieri in Čechy, dividendo la preda con il fratello, il quale la restituì al re subito dopo il suo ritorno. Ma Mstiboj mal sopportò che il fratello avesse restituito i prigionieri.  
XI c Inter ſuos juveniliter hæc ja荒ans: Non tot frater meus Moravos reſtituere ſufficiet, quot ego illorum vel capiam, vel occidam. Sed poſtea quam cognovit copias adverſus ſe in Moravia comparari, ſuppetias qui ferrent, mitti ſibi à fratre poſtulabat. Hortatur ille fratrem, ne pergat irritare crabrones: ſatius eſſe conciliare ſibi Regem qui plus poſſet, quàm illi, cum ſuo forſan malo repugnare. Ingrata Miſtibogio hæc fratris adhortatio fuit. Ita ad illos converſus, quos nuper in Moravia ſecum habuit, cedimusne? inquit, commilitones Moravis, ceu frater ſuadet, an potius reſiſtimus illis quos paulò ante vicimus? Cun荒is velut una voce reſspondentibus: Inſtandum eſſe cœptis, Moravosque perſequendos: dat vela ventis Miſtibogius, bonamque pergentibus auram precatur. Tra i suoi, con la vanità di un giovane, diceva così: «Non conta il numero di Moravané che mio fratello restituirà, ma quanti di loro io riuscirò a catturare e a uccidere». Ma dopo essere venuto a sapere che in Morava si stavano preparando delle truppe contro di lui, chiedeva al fratello di mandargli soccorsi in grado di resistere. Quegli lo esortò a smettere di irritare i calabroni: era più vantaggioso conciliarsi il re più potente, anziché opporsi a lui, forse con proprio danno. Mstiboj non gradì questa esortazione del fratello. Perciò, rivolto a quelli che poco prima ebbe in Morava con sé, disse: «Cediamo, o soldati, ai Moravané come consiglia mio fratello, o piuttosto resistiamo a coloro che poco fa abbiamo vinto?» E poiché tutti rispondevano con una sola voce, che bisognava insistere con quanto incominciato e incalzare i Moravané, Mstiboj spiegò le vele ai venti, augurando una brezza leggera a chi intendeva andare avanti.  
XI c Noſislaum à vico in Moravia Noſislavia noncupatum, ſuis copiis Rex Moraviæ præfecerat, mandavitque ne cui alii niſi Miſtibogio, ditioni & ſubditis ejus noceret. Quæ mandata dum exequi parat præfe荒us, occurrit illi Miſtibogius, fuis nondum omnibus coëntibus. Nam & Czaslavienſes & Malinenſes aberant, & Chrodus miles ſtrenuus, alio itinere cum bona militum manu ibat. Placuit igitur certamen differri, donec convenirent omnes. Contra Miſtibogius dicebat, quidquid temporis intercederet, hoc omne vi荒oriam morari, datoque ſigno prælium incipit, quod quidem haſtati, ſcutatique parumper ſuſtinuerunt, cæteri cum ipſo Miſtibogio in fugam vertuntur. Il re di Morava aveva messo a capo delle sue schiere un certo Nosislav, così chiamato dal villaggio moravo di Nosislav, e gli ordinò di non nuocere ad alcuno se non a Mstiboj e a chi era sottoposto al suo potere. E mentre il comandante si preparava ad eseguire quegli ordini, gli si fece incontro Mstiboj che, però, non aveva ancora riuniti tutti i suoi. Infatti erano assenti sia gli abitanti di Čáslav che quelli di Malín, e Chrud, soldato valoroso, aveva preso un'altra strada, con buona parte dei suoi soldati. Sembrava opportuno, perciò, differire lo scontro finché tutti non si fossero riuniti. Al contrario, Mstiboj disse che, qualsiasi tempo si fosse aspettato, sarebbe stato un ritardo alla vittoria; così, dato il segnale, iniziò la battaglia che, in verità, gli armati di asta e di scudo per un po' riuscirono a sostenere, mentre gli altri, compreso Mstiboj, vennero messi in fuga.  
XI c Noſislaus, veritus ne ad inſidias devenirent, fugientes non eſt inſecutus, ſed ad populationem agrorum ſe convertit, cum poſtridie tandem Miſtibogius colle荒is ex diſſipato curſu militibus, Chrodo quoque ſibi adjun荒o, non jam ad arbitrium ſuum tantùm, ſed ad cæterorum præterea conſilium refert, ut conſultent, quænam via ineunda ſit ad arcendum hoſtem, adeò effuſè populationem facientem. Conclamant omnes, ignominiam temeritate acceptam, redintegrata cum hoſtibus pugna eſſe abolendam. Juſſi no荒e illa quieſcere, ac mane ſtatim corpora cibo curare, ut ſi longior pugna illos exciperet, viribus ſufficerent. Nosislav, temendo d'incappare in agguati, non inseguì i fuggitivi, ma si diede a saccheggiare i campi, allorché, finalmente, il giorno dopo, Mstiboj, riuniti i soldati dispersi qua e là nella fuga, e aggiuntosi anche Chrud, non si rimise, ormai, soltanto al suo arbitrio, ma soprattutto al giudizio degli altri, al fine di stabilire quale via si dovesse prendere per respingere il nemico che stava destando un così vasto tratto. Gridarono tutti che, rinnovato lo scontro, si dovesse dimenticare per sempre il disonore subìto per un comportamento sconsiderato. Si ordinò di dormire per quella notte e, di giorno, provvedere subito al cibo affinché avessero forze sufficienti, se li avesse impegnati un combattimento più lungo.  
XI c Inde claſſico ſignum profe荒ionis datum, militibus quadrato agmine incedentibus, ne ad ſubitum hoſtium accurſum, ordo illorum tam facilè turbaretur. Sed apud hoſtes ex ſucceſſu ea negligentia fuit, ut ne ſpeculatores quidem haberent, qui cum ſilentio explorarent, quid hoſtes agerent. Turpius igitur quàm pridem Bohemi locis pulſi, fugatique, & omnibus rebus, quas interceperant ſpoliati ſunt. Fu dato, con uno squillo di tromba, il segnale della partenza, mentre i soldati avanzavano in quadrato affinché le loro fila non venissero facilmente scompigliate da un improvviso assalto nemico. Ma, in seguito al successo, era derivata per i nemici quella negligenza a causa della quale non disponevano neppure di spie che esplorassero, in segreto, le mosse degli avversari. Così furono ricacciati da quei luoghi in modo più vergognoso di quanto in precedenza non fosse capitato ai Čechové. Furono messi in fuga e privati di tutte quelle cose che i nemici avevano loro sottratto.  
XI c Ex hac quoque pugna Miſtibogius captivos ad fratrem miſit, brevique plures ſe miſſurum gloriabatur, ere荒us ad ſpem nuncio turbatæ pacis, quæ aliquandiu tranquilla inter Ungaros & Moravos fuerat, tunc verò illam præfe荒us Pannoniæ, quem Ungari Giulam vocabant, (nondum enim Reges noverant,) fa荒o in Moraviam per incurſiones impetu, turbaverat, unde ſatis negotii adeſſe Moravis ad ſuſtinendos vel ſolos Ungaros, nedum alios inſuper hoſtes irritandos proſpiciebat. Anche dopo questa battaglia, Mstiboj mandò prigionieri al fratello, gloriandosi che in breve tempo ne avrebbe mandati anche di più; ma incoraggiato a sperare dalla notizia che la pace tra Moravané e Maďaři, rimasta tranquilla per lungo tempo, era stata turbata. Era stata sconvolta dal prefetto della Pannonia, che i Maďaři chiamavano gyula (infatti non conoscevano ancora i re), il quale aveva attaccato la Morava con incursioni, per cui [Mstiboj] prevedeva che i Moravané fossero abbastanza preoccupati di fronteggiare anche i soli Maďaři e, a maggior ragione, di provocare altri nemici.
XI c Hac denique ſpe prove荒us, novam proprius Moraviam arcem, vocabulo Oheb, counivit, ex quà in agros hoſtiles excurſiones faceret. Sed non diu Giula Ungarus à tumultu excitato ſuperſtes fuit, telo fulminis ſupernè miſſo interfe荒us. Ne igitur poſthac Ungari, tam facilè Moraviam incurſarent, Suatoplucus Rex, qui ſatis providens eſt habitus, primum ad vada fluvii Vagi, qui Moraviam à Pannonia tunc velut limes dirimebat, caſtella inædificare, præsidiaque illis imponere, tum deinde montes ſylvis defe荒is ſepire, & alibi foſſis ac vallo munire, poſtremò arces & oppida mœnibus cingere, murisque firmare. Atque id tunc maximè fecere, cum jam nemo reſtaret, qui regnum ipſius temere infeſtaret. Nam Miſtibogius quoque, inſolito genere mortis animam nuper efflaverat, à Demone ſub humana ſpecie ipſum invadente, ſuffocatus. Spinto, dunque, da questa speranza, [Mstiboj]fortificò una sua rocca, più vicino alla Morava, di nome Oheb, dalla quale poter fare incursioni ostili nelle campagne. Ma dall'assalto che ne derivò, il gyula magiaro non rimase superstite a lungo, essendo ucciso dal dardo di un fulmine scoccato dall'alto. Dopo di ciò, affinché i Maďaři non attaccassero tanto facilmente la Morava, il král Svatopluk ritenuto assai previdente, dapprima ai guadi del fiume Váh, che allora separava come un confine la Morava dalla Pannonia, si mise a costruire fortezze, imponendo su di loro presidi, a proteggere le alture dopo aver abbattuto le foreste, a munire di fossati e di valli altre zone, infine a cingere le piazzeforti e le cittadelle di mura, fortificandole con pareti di pietra. E fece ciò soprattutto allora, quando ormai non restava più nessuno a travagliare, senza ragione, il suo regno. Infatti anche Mstiboj era spirato da poco con una morte insolita: soffocato da un demone che, sotto apparenza umana, se ne era impossessato.  
XI c Atque hoc ex pietate ſua, quam Chriſtiana religione eximiè coluit Suatoplucus, tulit ſolatium, ut videret inimicos ſuos abs opera ſua, fineque magno detrimento ſuorum divinitùs fuiſſe proſtratos. Nam adverſus Hoſtivitium Miſtibogii fratrem, quanquam & ipſum Ethnicum, adusque tamen vitæ ipſius finem pacem, fidemque ſervavit incorruptam. E dalla sua stessa clemenza, che ingentilì straordinariamente Svatopluk, grazie alla religione cristiana, egli derivò questo conforto: di vedere che i suoi nemici erano stati prostrati dall'opera sua, per volontà di Dio e senza grave pregiudizio per il suo popolo. Infatti, nei confronti di Hostivít e del fratello Mstiboj, per quanto anche verso lo stesso Ethnicus, mantenne sino alla fine della sua vita, pace e perfetta fedeltà.  
XI c Ac tantùm de Principibus, cum Chriſtianiſmo nullum commercium habentibus. E questo soltanto [dovevo dire] sui knížata  che non ebbero alcuna pratica con il Cristianesimo.  
       
LIBER QVARTVS LIBRO QUARTO  
       
XII Borivorius primus Chriʃtianorum Bohemia ducum

Bořivoj, primo kníže cristiano di Čechy

 
XII a Meliore Bohemiæ fato incremento Borivorius Hoʃtivitio prognatus, regimen paternum excepit, nec enim diu illud, ut impius & profanus, ʃed uti religioni Chriʃtianæ deditus rexit. Hoc verò modo ille Chriʃtianiʃmum subiit: Diverterat ad Regem Moraviæ Svuatoplucum, partim officii, partim amicitiæ paterne confirmandæ gratia, venit eo fortè die & tempore ad Regem ʃalutandũ, quo ille à . Dominicæ cœnæ convivio, in aulam reverʃus, menʃæ accumbere ʃuæ parabat. Reddita igitur ʃalute Rex: Ignoʃcas (inquit) Boheme hoʃpes, quòd ad prandium hoc noʃtrum in præsentiarum non invitêre, nec enim fas eʃt, nec jura Chriʃtiana ʃinunt, revertenti à menʃa vivi Dei, eum convivam habere, qui menʃæ Deorum mortuorum accumbere, de que illorum ʃacrificiis participare ʃoleat. Proinde ʃi tibi noʃtra convivia arrident, fac ut ʃimul tibi noʃtra etiam arrideat religio. Ac tum demum noʃter eris, & valde gratus conviva. Bořivoj, figlio di Hostivít, assunse il potere paterno con migliore destino e incremento per la Čechy: infatti non lo resse a lungo da persona sacrilega e pagana, bensì come seguace del Cristianesimo. E, in verità, in tal modo si sottomise alla nuova religione. Se ne era andato presso Svatopluk, re di Morava, in parte per cortesia, in parte per consolidare l'amicizia paterna, giungendo, probabilmente, nel giorno e nel momento del saluto, in cui il král, ritornato nella sala, dopo la santissima Messa, si accingeva prendere posto alla sua mensa. Restituito il saluto, il re disse: «Sappi, ospite ceco, perché per ora non ti ho invitato a questo nostro banchetto: infatti non è lecito, né lo permettono le regole cristiane, per colui che ritorna dalla mensa del Dio vivente, di avere come convitato chi sia solito accomodarsi alla mensa di divinità morte e partecipe dei loro sacrifici. Perciò, se ti sono graditi i nostri conviti, fa in modo che ti piaccia anche la nostra religione. E quando sarai, finalmente, dei nostri, allora sarai anche un commensale assai gradito».  
XII a Pupugerunt iʃta animum Borivorii, ʃed magis adhuc eidem cogitationem de mutanda ʃuperʃtitione injecerunt honores ab Arnolpho Cæsare ipʃi Suatopluco habiti, poʃteaquam religione Chriʃtiana incitatus fuit. Nam tanta inde Arnolphus benevolentia, tantoque favore Suatoplucum proʃecutus eʃt, ut in gratiam ejus venire in Moraviam ad diem non gravaretur, ad quem invitatus erat, un filiolum ʃuum è ʃacro fonte levaret. Ubi hac præterea in illum uʃus eʃt liberalitate, ut tributum illi attribueret, quod Pricnipes Bohemiæ Cæʃari tunc pendebant. Queste parole percossero l'animo di Bořivoj ma ancor più gli insinuarono il pensiero di cambiare religione, gli onori riservati allo stesso Svatopluk dall'imperatore Arnulf, dopo di che fu esaltato dal Cristianesimo. Infatti, se allora Arnulf trattò Svatopluk con tanta benevolenza e tanto favore da non dispiacergli di venire per lui in Morava nel giorno in cui era stato invitato per sollevare dal sacro fonte il suo figlioletto. Inoltre, Arnulf manifestò verso di lui anche questo gesto di liberalità: di attribuirgli, cioè, il tributo che il kníže dei Čechové allora pagava all'imperatore.  
XII a Cum itaque non solùm honorificam Borivorius, ʃed etiam fru荒uoʃam videret eʃʃe religionem Chriʃtianam, ad illam vehementer aʃpirare cœpit: Sed meliore mox Spiritu afflatus fuit, quum Divum Methudium, Divi Cyrilli collegam, ambos Moraviæ & primos Antiʃtites, de fide & religione Chriʃtiana differentem audivit; alios videlicet honores, & alia præmia cultoribus illam ʃuis polliceri, neutiquam fluxa & caduca, ʃed planè ʃtabilia atque æterna, ʃi quis illa per baptiʃmus, qui fidem perficit, conʃummaverit. Perciò Bořivoj, vedendo che la religione cristiana non solo era onorifica, ma anche fruttuosa, cominciò a desiderarla ardentemente. Ma fu subito investito da uno Spirito divino allorché sentì san Methódios, collega di san Cýrillos, entrambi moravi e primi sacerdoti, che dissertava di fede e di religione cristiana, ed evidentemente prometteva ai suoi cultori altri onori e altri premi per nulla effimeri e caduchi, ma assolutamente saldi ed eterni, avendoli ricevuti attraverso il battesimo che conduce alla fede.  
XII a Adfuit Spiritus san荒i gratia, animumque Borivorii luce fidei Chriʃtianæ ʃic illuʃtravit, ut ibidem ʃtatim, cum bene multis ʃuis clientibus, aqua ʃalutari à Methodio tingeretur: deinde uxor quoque ejus, cui Ludmillæ nomen, in Bohemia ab eodem tin荒a fuit, & magnus præterea Bohemorum utriusque ʃexus numerus ad baptiʃmum adfluebat. Si palesò la grazia dello Spirito Santo e illuminò con la luce della fede cristiana l'animo di Bořivoj, tanto che lì fu subito immerso con molti del suo seguito del divino Methódios; quindi anche sua moglie, di nome Ludmila, fu battezza in Čechy dallo stesso santo, e così un gran numero di cechi di entrambi i sessi affluiva per il battesimo.  
       

NOTE

I a Kníže (plurale knížata), in genere tradotto come «principe» o «duca»  è il titolo assunto dai sovrani di Boemia. Il femminile è kněžna. Il titolo, derivato da un proto-slavo *kŭnędzĭ (a sua volta da un antico germanico *kuningaz), è diffuso in tutti i paesi slavi (russo e ucraino knjaz', polacco książę, slovacco kňaz, bulgaro knjaz, serbocroato knȇz, etc.). In ceco kněz vuol dire oggi anche «prete».

Estensione di Marcomanni e Quadi nel I sec. a.C.
Fonte: <Wikipedia>.

b ― Quadi e Marcomanni, popoli germanici di stirpe suebica, erano migrati in Boemia e Moravia ai tempi delle campagne condotte da Druso Maggiore, figliastro di Ottaviano Augusto, negli anni tra il 10 e il 9 a.C.. In particolare, i Marcomanni avevano cacciato i galli Boii dalla regione a cui avevano dato il nome di Boemia. In seguito i Quadi migrarono ancora più a est, occupando parte dell'attuale Slovacchia. Di contro, il territorio dei Marcomanni comprendeva anche la regione della Slesia, oggi perlopiù in territorio polacco. Gli Slesiti sono un popolo slavo settentrionale, oggi individualizzato con una sua specifica lingua. ― Per quanto riguarda i Misni, v. [infra]▼.

c ― Si tratta di Karel IV, uno dei più celebrati re di Boemia (♔ 1346-1378), il quale per un certo periodo fu anche imperatore del Sacro Romano Impero (♔ 1355-1378). ― Hradecium Reginæ è l'attuale città di Hradec Králové, «castello della regina», capitale dell'omonima regione (tedesco Königingrätz, poi Königgrätz).

dClattovia, Glattovia, etc., sono alcune delle diverse traslitterazioni latine utilizzate per l'odierna cittadina di Klatovy (tedesco Klattau), nella regione di Plzeň (Cechia). ― Misa è nome latino dell'attuale città di Stříbro, nella regione di Pilsen (Cechia). Il toponimo cèco è legato alle miniere d'argento di cui è ricca la regione (cfr. ceco stříbro «argento»). Il toponimo latino deriva da quello del fiume che attraversa la città, l'odierno Mže (tedesco Mies). ― Hradecium Henrici «Castello di Enrico» è uno dei nomi latini dell'odierna città di Jindřichův Hradec (tedesco Neuhaus), nella Boemia Meridionale. ― Buduicium Crumlovia è l'attuale Český Krumlov (ted. Krummau an der Moldau o Böhmisch Krummau), nella Boemia Meridionale. Il nome «Crumlovia dei Boemi» è atta a distinguerla da una città omonima sita in Moravia Meridionale, la Moravský Krumlov o «Crumlovia dei Moravi». ― I toponimi latini Austa, Austia, Ustia, Usta corrispondono alla città di Ústí (tedesco Außig), attuale Ústí nad Labem, nella regione omonima, sul fiume Elba. ― Con il latino Pons «ponte», Dubravius intende l'attuale città di Most, capitale dell'omonimo distretto, dallo stesso significato. La stessa località è citata da Cosma da Praha con il nome di Gnevin Pons (cèco Hněvínský most). ― Cura è probabilmente l'odierna Chorzów (ceco Chořov, tedesco Königshütte), cittadina del voivodato di Slesia (Polonia). ― Glacium è l'odierna Kłodzko (ceco Kladsko, tedesco Glatz), cittadina della Bassa Slesia (Polonia). ― Cutta, Cutna, Cuttna, Cuttina (scritto anche Ch- o K-) è la cittadina di Kutná Hora (tedesco Kuttenberg), nella Boemia Centrale. ―Pelsina è probabilmente l'attuale Plzeň (tedesco Pilsen), capoluogo dell'omonima regione, nella Boemia Occidentale. ― Colonia è l'attuale città di Kolín, nella Boemia Centrale, fondata nel XIII secolo da re Přemysl Otakar II con il nome di Colonia nova. ― Verona è qui Beroun (tedesco Beraun), cittadina della Boemia Centrale. ― Launa è la cittadina di Louny, nel Ústí nad Labem. ― Lana è la cittadina polacca di Wleń (tedesco Lähn), nella Bassa Slesia (Polonia).

e ― Il Vyšehrad «alto bastione» è, almeno stando ai dati della leggenda, la più antica fortezza di Praha, posta su una sprone sulla sponda sinistra della Vltava, a sud della città. I dati archeologici, tuttavia, fanno risalire la costruzione della primitiva fortezza solo al X secolo. La «reggia» di cui qui si parla è il Pražský Hrad, il «castello di Praha», posto invece nel quartiere Hradčany, sulla sponda destra del fiume, a nord-ovest della capitale boema. Le due costruzioni sono le due sedi tradizionali dei sovrani cechi. Il Vyšehrad  godette di una certa rinomanza durante la seconda metà dell'XI secolo, quando il kníže Vratislav II vi stabilì la sua sede principale e il complesso venne ristrutturato in modo da comprendere, oltre al palazzo ducale, una chiesa e la sede del Capitolo di Praha. Solo in seguito, intorno al 1140, Sobeslav I riportò la sede ducale al Pražský Hrad. Questo è tuttora la sede presidenziale della Repubblica Ceca. ― I re a cui si riferisce il testo sono rispettivamente Karel IV (♔ 1346-1378) e Vladislav II Jagellonský (♔ 1471-1516). Nel 1485 quest'ultimo intraprese la ricostruzione del Pražský Hrad, rimasto danneggiato e disabitato durante le guerre hussite.

f ― Gli Hermunduri, antica popolazione germanica di origine suebica, erano stanziati, all'epoca di Tacitus, a ovest del medio corso dell'Elba, nell'attuale Turingia. ― Cfr. Tacitus: «Nel territorio degli Hermundurinasce l'Elba, fiume famoso e in passato ben noto» [In Hermunduris Albis oritur, flumen inclutum et notum olim] (Germania [41]). Ma come giustamente afferma Dubravius, l'Elba nasce in Boemia, tra i Monti dei Giganti, nella catena dei Sudeti, a circa 1400 metri d'altezza. Dopo aver percorso un ampio arco, in territorio boemo, piega verso nord e percorre l'intera Germania, bagnando tra l'altro Dresda, Magdeburgo e Amburgo, fino a gettarsi nel Mar del Nord. I Monti dei Giganti (ceco Krkonoše, polacco Karkonosze, tedesco Riesengebirge), che segnano il confine tra Cechia e Polonia, sono i più alti rilievi della Boemia: la cima più alta, lo Sněžka (in ceco) o Śnieżka (in polacco), raggiunge i 1602 metri.

g ― Con Gilova si intende qui, probabilmente, la cittadina oggi chiamata Jílové u Prahy (ted. Eule), nella Boemia centrale (Cechia).

g ― Il pesce di cui si parla è la carpa [Cyprinus carpius], di cui esiste una varietà senza squame, la nuda bohemica, ottenuta dai carpicultori boemi già intorno al IX-X sec. ― Dubravius si riferisce qui alla sua opera precedente, il Libellus de piscinis et piscium, qui in eis aluntur natura.

j ― Il famoso racconto di Livius, sulla migrazioni dei galli Segovesos e Bellovesos nelle terre che sarebbero divenute rispettivamente la Boemia e la Gallia Cisalpina, è un raro frammento di epica celto-continentale, in questo caso conservato in una fonte romana. Livius era nato a Patavium (attuale Padova), e forse poté raccogliere quelle parti di leggende galliche ancora disponibili alla sua epoca.

...ii regem Celtico dabant. Ambigatus is fuit, virtute fortunaque cum sua, tum publica praepollens, quod in imperio eius Gallia adeo frugum hominumque fertilis fuit ut abundans multitudo vix regi videretur posse. Hic exonerare praegravante turba regnum cupiens, Bellovesum et Segovesum, sororis filios, impigros iuvenes, missurum se esse in quas di dedissent auguriis sedes ostendit; quantum ipsi vellent numerum hominum excirent ne qua gens arcere advenientes posset. Tum Segoveso sortibus dati Hercynei saltus; Belloveso in Italiam viam di dabant. [Dai Biturigi] proveniva il re del popolo celtico. Tale era Ambigatos, potentissimo per meriti e fortuna sia privata che pubblica, perché sotto il suo regno la Gallia fu tanto ricca di messi e di uomini che non sembrava facile tenere a freno tutta quella popolazione. In età avanzata e desideroso di togliere al suo regno il peso di quella popolazione eccessiva, [Ambigatos] manifestò la volontà di mandare i figli della sorella, Bellovesos e Segovesos, entrambi giovani e di grandi energie, nelle sedi che gli dèi avessero indicato mediante augurii; portassero pure con loro tutti gli uomini che volevano, in modo che nessun popolo potesse impedire il loro passaggio. Allora a  Segovesos la sorte assegnò la Hercynia silva, mentre a Bellovesos gli dèi indicavano l'itinerario che conduceva in Italia.
Titus Livius: Ab Urbe condita Libri [V: 34]

― In quanto al brano di Caesar, cfr. De bello Gallico [I: 5].

j ― Cfr. Tacitus: Germania [28].

j ― Cfr. Strábōn: Geōgraphiká [IV: 3: 4]

j ― Cfr. Tacitus: Germania [42]. Lo scrittore latino aggiunge anche:

Marcomanis Quadisque usque ad nostram memoriam reges manserunt ex gente ipsorum, nobile Marobodui et Tudri genus (iam et externos patiuntur), sed vis et potentia regibus ex auctoritate Romana. Raro armis nostris, saepius pecunia iuvantur, nec minus valet. Marcomanni e Quadi ebbero re della propria gente, della nobile stirpe di Maroboduus e di Tudrus (ora accettano anche re stranieri), ma la forza di questi re deriva loro dall'autorità di Roma. Raramente ricevono da noi aiuti in armi, più spesso in denaro, che non vale meno di quelle.
Tacitus: Germania [42]

― Cfr. Velleius Paterculus: Historiae romanae [II: 108-109].

k ― Dubravius trae qui le sue informazioni dal tomo primo dell'imponente Historia naturalis di Plinius Secundus, dedicato alla geografia e alla cosmologia. Riguardo al nord della Germania, egli scrive:

Mons Saevo ibi, anmensus nec Ripaies iugis minor, inmanem ad Cimbrorum usque promunturium efficit sinum, qui Codaus vocatur, refertus inutilis, quarum clarissima est Scatinavia, inconpertae magnitudinis... In quella zona l'immenso monte Sævo, non inferiore neppure alla catena dei Rifei, forma una gigantesca baia che arriva fino al promontorio dei Cimbri; ha nome golfo Codano, ed è fitto di isole, di cui la più celebre è la Scandinavia, di grandezza imprecisata...
 Gaius Plinius Secundus «Maior»: Historia naturalis [I: iv: 96]

Effettivamente nell'antichità si conosceva soltanto la parte meridionale della Scandinavia, che era dunque reputata un'isola, una delle tante del sinus Codanus, il mar baltico. Il mons Sævo sembra essere il Siggjo della costa norvegese che, con i suoi 474 m di altezza è assai sovrastimato da Plinius, il quale lo paragona addirittura ai semi-mitici monti Rifei (l'antichità intendeva con questo nome un'imponente catena montuosa ritta dinanzi all'oceano boreale, vagamente identificabile con gli Urali). Il «promontorio dei Cimbri» altro non sarebbe che il Ryvingen, la punta meridionale dell'odierna Norvegia.

k ― Successivamente, Plinius tratta delle terre poste oltre lo Jutland, delle quali tradisce una conoscenza piuttosto approssimativa e, mescolando tra loro popolazioni molto diverse, scrive:

Quidam haec habitari ad Vistlam usque fluvium Sarmatis, Venedis, Sciris, Hirris tradunt... Secondo alcuni queste terre sono abitate, fino al fiume Vistola, da Sarmati, Venedi, Sciri e Irri.
 Gaius Plinius Secundus «Maior»: Historia naturalis [I: iv: 97]

Parlando dei popoli stanziati nelle steppe dell'odierna Ucraina, a nord del Mar d'Azov [lacum Maeotium], Plinius ne elenca alcune tribù tra cui: «Maeotici, Vali, Serbi, Serrei, Scizi, Gnissi» (Historia naturalis [I: vi: 19]). Sono semplici etnonimi su cui è difficile dire qualcosa; con ogni probabilità si trattava di popolazioni iraniche, affini agli Sciti. È anche possibile che qualcuna di queste popolazioni fosse proto-slava, per quanto sia impossibile entrare nel merito della questione. I Serbi di Dubravius sono identificati con i Sorbi o Łusaziani, popolo slavo insediato soprattutto nella Germania orientale e nel Magdeburgo, ma anche nella Slesia polacca e in una piccola regione nel nord della Cechia. La ricorrenza dei medesimi etnonimi in regioni lontane tra di loro è frequente presso gli Slavi, ed è dovuta di un risultato della complessa dispersione delle tribù nel periodo delle migrazioni (cfr. Conte 1986).

l ― Dubravius costruisce qui una serie di paraetimologie tra etnonimi simili, al fine di costruire una storia delle migrazioni slave. Un caso particolare è tuttavia rappresentato dal popolo dei Venedi o Vendi, che già nelle fonti tardo-classiche troviamo attestato sulle sponde della Vistola. L'etnonimo Venedo ha un'etimologia nota, derivando da una radice *WEN- «amare»; i *Wenetoi sarebbero quindi «gli amati, gli amichevoli». Questo termine è peraltro attestato presso molti popoli della famiglia indoeuropea; vi sono i Venetici, antico popolo italico dell'Adriatico settentrionale che diede nome a Venezia; una tribù illirica dei Balcani che i greci chiamarono Enetoí; la tribù gallica dei Veneti, conosciuta da Caesar, e che ha lasciato traccia nel nome della città francese di Vannes. La variante con l'occlusiva sonora [d], Venedi o Vendi, lo si deve alla trasmissione attraverso le lingue germaniche, dove la forma originaria con la sorda [t] ha subito gli effetti della rotazione consonantica (sonorizzazione di Verner). Venedi o Vendi è dunque il nome con il quale i popoli germanici indicavano, già in epoca tardo-romana, le popolazioni stanziate oltre la Vistola. I Venedi sono citati, oltreché da Plinius, anche da Pomponius Mela e da Tacitus. Quest'ultimo manifesta un minimo di perplessità non sapendo come classificarli:

Peucinorum Venethorumque et Fennorum nationes Germanis an Sarmatis ascribam dubito. I Peucini, i Venedi e i Finni, non so se comprenderli fra i Germani o i Sarmati.
Tacitus: Germania [46]

Che i Venedi fossero o meno un popolo slavo è materia dibattuta. I fautori indicano che il forma del nome che Plinius assegna alla Vistola, Vistla, coinciderebbe con la ricostruzione protoslava antecedente alle più forme storiche slave di questo fiume (Wisła) (Villar 1991). Certamente è un argomento piuttosto debole e, d'altra parte, l'epoca indicata (a cavallo tra il I sec. a.C. e il I d.C.) è precedente al periodo della diaspora slava. È probabile che questi Venedi fossero genti appartenente al ramo finnico, all'epoca ancora ben distribuito sul lato orientale del mar Baltico, nell'odierna Russia, in Finlandia e nel nord della penisola scandinava. Dopo l'arrivo degli Slavi, tra il IV e il V secolo, il nome dovette continuare a essere assegnato dai Germani anche ai loro nuovi vicini. Ma dobbiamo aspettare il VI secolo, perché Iordanes identifichi gli Slavi nel popolo dei Venedi, stanziato tra i Carpazi e la Vistola:

Iuxta quorum sinistrum latus, qui in aquilone vergit, ab ortu Vistulae fluminis per inmensa spatia Venetharum natio populosa consedit, quorum nomina licet nunc per varias familias et loca mutentur, principaliter tamen Sclaveni et Antes nominantur. Sul loro versante sinistro rivolto a nord e proteso per immensi spazi fino alle sorgenti della Vistola, ha stanza la popolosa gente dei Venedi. Sebbene la denominazione di questo popolo oggi muti secondo le diverse tribù e i loro stanziamenti, tuttavia essa designa principalmente gli Slavi e gli Anti.
Iordanes: De origine actibusque Getarum [V: 34]

Col tempo le terre dei Venedi furono progressivamente inglobate dalle popolazioni germaniche e, ai tempi di Dubravius, così come anche oggi, gli unici due gruppi definiti Venedi sono i Sorbi della Łusazia (Germania orientale) e i Casciubi della Pomerania (Polonia settentrionale). Ma contrariamente a quanto afferma Dubravius, i Venedi non hanno nulla a che vedere con i Vandali, i quali furono un popolo germanico che, dall'Europa orientale, si stabilì in seguito in Spagna, poi in nord Africa, dove costituì un importante regno.

l ― Vedi sopra [k].

l ― È alquanto azzardato associare, come fa Dubravius, gli Irri citati da Plinius con gli Illiri. È vero tuttavia che questi ultimi, stanziati sulla costa occidentale della penisola balcanica, videro il loro territorio occupato dagli Slavi meridionali nel corso delle loro migrazioni. È ritenuto probabile, seppure con qualche margine di dubbio, che gli odierni albanesi siano i discendenti degli Illiri.

m ― Il nome degli Slavi (slavo ecclesiastico Slověne) potrebbe derivare tanto dalla parola slava «gloria, fama», nel senso di «famosi, rinomati, gloriosi», quanto da slovo «parola, discorso, canto», nel senso di «coloro che parlano una stessa lingua». Secondo alcuni, questa ipotesi sarebbe appoggiata dal fatto che gli Slavi chiamano i Germani němĭci, i «muti», cioè quelli che parlano un'altra lingua (Villar 1991). Per quanto abbiano i loro detrattori, si tratta di etimologie piuttosto attraenti; e d'altra parte sembra naturale che i popoli tendano a dare a sé stessi dei nomi celebrativi, encomiastici, che alludano alla fama, al valore, al potere. La parola Slověne assunse nel greco bizantino la forma Sklabēnós, appellativo con il quale gli storici dell'impero d'Oriente designavano gli Slavi che, varcato il Danubio, iniziavano a penetrare nella penisola balcanica. Da questa parola si formò presto un derivato regressivo sklabós, già attestato dal VI secolo, e, poiché per tutto il medioevo gli Slavi furono vittime del commercio schiavista di Bisanzio, questa parola venne accolta nelle lingue romanze come sclavus, «schiavo». Così, per un bizzarro scherzo del destino, un etnonimo che inizialmente indicava la gloria e la fama di un popolo, finì con l'indicare il suo opposto.

n ― Si tratta di Sophronius Eusebius Hieronymus, meglio conosciuto come san Girolamo (347-420), dottore della Chiesa e autore della Vulgata, la traduzione della Bibbia in latino. Era nato a Strido, nella provincia romana della Dalmazia (non lontano dall'attuale Ljubljana, in Slovenia). Illirico di nascita, Dubravius si sente autorizzato a trasformarlo in «slavo».

Cartina del regno di Polonia intorno al 1000
In questa cartina tedesca del regno di Polonia sotto re Bolesław I Chrobry ( 992-1015), la Croazia Bianca è indicata con il nome latino di Chrobatia.

I a ― Nell'Alto Medioevo, era detta Croazia Bianca (latino Chrobatia) una regione storica presumibilmente posta a est della Slesia e della Moravia, e a nord dell'Ungheria, dunque corrispondente alle attuali Piccola Polonia (Małopolska) e Galizia. Suoi importanti centri erano le attuali città di Kraków e Przemyśl. Non mancano tuttavia ipotesi alternative che tenderebbero a localizzare la Croazia Bianca in direzione della Baviera e dell'impero franco. Intorno al VI-VII secolo, i Croati Bianchi, insieme ai loro vicini, i Serbi Bianchi dell'Elba, intrapresero una migrazione verso la penisola balcanica. Si riferisce a questa fase la leggenda dell'arrivo in Dalmazia delle tribù croate, guidate da sette fratelli – i maschi Kluk, Lobel, Muhlo, Kosjenc e Hrvat e le femmine Buga and Tuga –, invitati dall'imperatore bizantino Hērákleios (♔ 610-641) per popolare l'area e stabilire un cuscinetto contro gli Àvari, come narra Kōnstantînos VII Porphyrogénnētos (♔ 613-659) (Pròs tào ídion hyiòn Rōmanón / De Administrando Imperio). Pare che l'imperatore, in cambio del loro contributo alla vittorio contro gli Àvari, abbia assegnato a Serbi e Croati ampi territori che si stendevano a nord della Dalmazia, più o meno in un territorio corrispondente all'antico regno slavo di Samo. I Croati Bianchi, in cèco Bílí Chorvati, ebbero un ruolo importante nel consolidamento dei nascenti stati boemo, moravo e polacco; probabilmente anche in quello ungherese. Santa Ludmila, principale artefice della diffusione del cristianesimo in Boemia, era di origine bielocroata: il suo matrimonio permise di associare i Češy e i Bílí Chorvati intorno al 870-875. I Croati Bianchi scomparvero dalla storia quando Praha divenne capitale del nuovo stato cristiano.  I Serbi Bianchi furono gli antenati degli odierni Sorbi (o Sorabi) di Pomerania. ― È a un gruppo di Croati «di ritorno», provenienti dalla regione compresa tra la Drava e il Danubio (odierne Slovenia e Ungheria), che Dubravius, facendo forse un po' di confusione, assegna le origini di padre Čech, il quale sarebbe appunto tornato in una terra «occupata in precedenza dalla sua gente» (per i dettagli si vedano i paragrafi successivi). Si noti che lo scrittore ceco Alois Jirásek (1851-1930), nella sua riscrittura post-romantica e nazionalistica delle leggende cèche, pone l'origine di padre Čech in una semimitica terra di Charvátská, che egli pone tra i monti Tatra, nel bacino della Vistola  (Starých pověstech českých, ✍ 1894). 

II b ― Prokópios ho Kaisareús (490-565) scrive riguardo alla religione degli Slavi: «Così credono in un solo dio, autore del fulmine, ed egli solo signore di tutti al quale sacrificano buoi e vittime d'ogni specie. Del destino non sanno nulla, né ammettono che abbia alcuna influenza sugli uomini, ma quando si trovino innanzi la morte, sia colti da malattia, sia in un guerra, fanno voto di offrire, se scampino, subito un sacrificio al dio per la loro vita e, scampati che siano, sacrificano secondo la promessa, ritenendo d'aver comperato la salvezza con quel sacrificio. Adoperano però anche fiumi e ninfe e taluni altri numi, ai quali tutti sacrificano, e da quei sacrifici traggono auguri» (Hyper tôn polémōn lógoi > De bello Gothico [III, 14]).

II c ― Questo Sventovit è citato come dio supremo degli slavi del Baltico. Sia Helmond di Bosau nella sua Chronica Slavorum, sia Saxo Grammaticus nel Gesta Danorum gli dedicano descrizioni abbastanza dettagliate: da esse veniamo a sapere che aveva il suo santuario ad Arkona, sull'isola di Rügen; era considerato superiore rispetto agli altri dèi ed era legato alla divinazione. Saxo descrivere il suo idolo con quattro teste, due sul petto e due sul dorso, e di ogni coppia l'una rivolta a destra e l'altra a sinistra; la barba rasa, i capelli corti (come nell'uso dei Rügiani); nella mano destra il dio teneva un corno, e possedeva una spada. La prima parte del suo nome viene di solito collegato alla radice slava *svętŭ «sacro, santo». Secondo Helmond e Saxo, tale nome deriva dal fatto che i monaci dell'abbazia di Corvey convertirono i Rügiani al cristianesimo e fondarono presso di loro un oratorio a sanctus Vitus. Tornati in seguito i Rügiani al paganesimo, presero ad adorare sanctus Vitus [*Svętŭ Vitŭ] come un dio.

II f ― La tradizione polacca, parallela a quella cèca, assegna a Krak la fondazione della città di Kraków. Nella Chronica seu originale regum et principum Poloniae, di Wincenty Kadłubek (1161-1223), Krak viene eletto re dopo una vittoriosa campagna contro i Romani e diviene il  primordiale legislatore del primo nucleo di quello che diventerà il futuro stato polacco. I suoi figli, Krak II e Lech II, vengono inviati a uccidere la całożercą, un orribile mostro che infesta il monte Wawel facendo strage di uomini e bestiame. I due fratelli uccidono la całożercą con uno stratagemma, inducendola a divorare la carcassa di una mucca imbottita di zolfo, ma poi litigano su a chi spetti il merito della vittoria e Krak II viene ucciso da Lech II, il quale viene mandato in esilio (la versione più nota della leggenda è tuttavia quella della Kronika polska, attribuita a Marcin Bielski (1495-1575), dov'è il ciabattino Skuba a uccidere lo Smok Wawelski). Alla morte di Krak, sulle pendici del Wawel viene fondata in suo onore la città di Kraków (nel testo di Kadłubek, il nome del re viene trascritto nella forma Gracchus, e la città Gracchovia). Gli succede la figlia Wanda. Divenuta in epoca romantica l'eroina nazionale polacca, Wanda sarà causa di un assedio della città a parte di un principe tedesco, invaghitosi di lei, e sceglierà la via del suicidio, gettandosi nella Vistola, per salvare la città. Si noti che, nella Glaciographia (✍ 1625) di Georgius Aelorius, sicuramente ispirata alle leggende ceche, a Wanda vengono attribuite due sorelle, Waleska, fondatrice di Kłodzko, e appunto Libusza, fondatrice di Praha.

II g ― In Cosmas Praguensis, la maggiore delle tre figlie di Krak ha nome Kazi; ma mentre le due sorelle minori Tetka e Libuše fondano rispettivamente le fortezze eponime di Tetín e Libušín, a Kazi non viene attribuita la costruzione di alcuna fortezza, ma si ricorda piuttosto il suo tumulo funerario innalzato lungo il fiume Mže (Chronica Bohemorum [4a-4c]). Questa asimmetria viene «corretta» nella cronaca in versi a attribuita Dalimil  (✍ XIV sec.), dove tutt'e tre le sorelle fondano una loro fortezza e quella di Kazi prende regolarmente nome Kazín (Dalimilova Kronika [III]). Altri dettagli vengono aggiunti nella cronaca di Václav Hájek z Libočan († 1553), dove Kazi (Kasa nell'ortografia di Hájek) edifica la sua fortezza nella valle della Vltava, di fronte a Zbraslav. Hájek aggiunge anche il racconto del matrimonio tra Kazi e Bivoj, il quale aveva ucciso un cinghiale a mani nude (Hájkova Kronika Česká). In precedenza, tuttavia, Přibík Pulkava z Radenína († 1380), segretario dell'arcivescovo di Praha, notando l'inesistenza di un toponimo chiamato Kazín, nega veridicità alla cronaca di Dalimil e muta il nome della donna da Kazi in Bela, costruendolo proprio a partire dalle diverse località chiamate Bílina (Nová kronika česká) (David 2006). I tardi cronisti latini, come Ioannes Dubravius (ma come vedremo anche in Piccolomini e Marignoli) accettano il nome Bela come anche il nome della fortezza di Belín a lei attribuita.

III a ― Cfr. Tacitus, Germania [8].

III c ― Nel testo latino, per coerenza, dovrebbe apparire un perfetto, detulistis, in luogo del futuro anteriore detuleritis.

IV e ― La stirpe dei přemyslidi governò la Boemia per  oltre quattrocento anni, sia come knížata («duchi, principi») che come králové («re»). L'ultimo sovrano della dinastia, l'incapace král Václav III (♔ 1305-1306), fu assassinato a sedici anni di età, pugnalato alla schiena mentre riposava, a Olomouc. Il presunto assassino, il cavaliere Konrád z Botenštejna, venne ucciso a sua volta prima di essere interrogato, cosicché l'autore del delitto, i mandanti e le vere ragioni dell'assassinio sono ancora sconosciute. Konrád era tuttavia considerato un discendente di Duryňk, l'uomo fatto uccidere dallo kníže Neklan. Dubravius interpreta dunque la fine della stirpe dei přemyslidi come l'esito di una vendetta, eseguita dopo secoli, per l'uccisione di Duryňk.

IV f Svatý Václav (san Venceslao, 907-935), discendente di Přemysl, fu kníže di Boemia (♔ 921-929/935). Educato alla religione cristiana grazie alla nonna, svatá Ludmila (santa Ludmilla, ±860-921), dovette scontrarsi con la parte della nobiltà ancora pagana, tra cui la madre, Drahomíra ze Stodor, e il fratello Boleslav. Venne assassinato nel 929 (o 935), durante un banchetto, da sicari inviati da Boleslav, il quale gli succedette sul trono (♔ 929/935-967). Venerato il 28 settembre, svatý Václav è considerato protettore della Boemia, attuale patrono della Repubblica Ceca. ― Svatý Vojtěch (sant'Adalberto, ±956-997), fu vescovo di Praha; venne martirizzato insieme al fratello Radim durante un tentativo di evangelizzare i Prussiani del Baltico ancora pagani. Venerato il 23 aprile, è considerato patrono di Boemia, Polonia, Ungheria e Russia.

IV l ― In cèco, děva (pl. děvy) vuol dire «fanciulla, ragazza». Il termine, da un proto-slavo *děva, è comune a tutte le lingue slave (cfr. russo deva, ucraino diva, serbo e croato djeva, polacco dziewa, polabico devă, slovacco deva). ― Nel battezzare la fortezza, Vlasta evita di darle il proprio nome (così come avevano fatto la stessa Libuša con la fortezza di Libušín o Tetka con Tetín); ma chiamandola Děvín essa ne assegna la proprietà a tutte le ragazze, cementando i loro comuni ideali nel nome e della dignità della fortezza stessa.

IV p ― Šárecké Údolí, la «vallata dello Šárka», dal nome dell'omonimo torrente, fa oggi parte del parco naturale Šárka-Lysolaje, a nord-ovest di Praha.

IV t  ― Pomponius Mela: «Guerrieri, liberi, indomiti, e barbari e feroci a tal segno, che le donne con gli uomini vanno alla guerra; e perché siano abili al mestiere delle armi, appena nate si brucia loro la mammella destra. Perciò, essendo libera a menare colpi la mano che si usa a combattere, il petto diventa simile a quello degli uomini. Tendere l'arco, cavalcare, cacciare, sono i compiti delle fanciulle; ferire il nemico è dovere delle adulte; di maniera che il non aver percosso un nemico si tiene in conto di obbrobrio, e loro s'infligge in pena la verginità» [Bellatrix, libera, indomita, et usque eo immanis atque atrox, ut feminae etiam cum viris bella ineant; atque ut habiles sint, natis statim dextra aduritur mamma: inde expedita in ictus manus quae exseritur, virile fit pectus. Arcus tendere, equitare, venari, puellaria pensa sunt: ferire hostem, adultarum stipendium est; adeo ut non percussisse, pro flagitio habeatur, sitque eis poenae virginitas] (Chorographia [III: 4]). Marcus Tullius Cicero: «le fanciulle spartane hanno più cara la palestra, il [fiume] Eurota, il sole, la polvere, la fatica, gli esercizi militari che non la barbara fertilità» [apud Lacaenas virgines, quibus magis palaestra, Eurota, sol, pulvis, labor militiae studio est quam fertilitas barbara] (Tuscolanae [II, 36]).

V a  Promētheús ed Epimētheús, i due Titánes del mito ellenico, figli di Iapetós, hanno in greco dei nomi parlanti, dal rispettivo significato di «[colui che] vede prima» e «[colui che] vede dopo», cioè il «preveggente» e il «postveggente», da un termine *mḗthos (cfr. *mḗdos «piano, progetto, artificio»), a sua volta da un indoeuropeo *MEN- «pensare».  In cèco, i nomi Přemysl e Nezamysl significano «[colui che] pensa prima» e «[colui che] pensa dopo», questa volta da un verbo myslet «pensare», da mysl «mente, pensiero» (da un antico slavo myslĭ, cfr. russo mysl', polacco myśl, serbocroato mȋsao, etc.).

V b  ― Dubravius scrive in caratteri gotici quei termini che non riesce a ridurre in latino. La località di Styrhow non è stata identificata con certezza: si tratta forse di Štěrboholy, oggi un quartiere periferico di Praha.

V c  ― La tribù dei Lučané era stanziata intorno al fiume Ohře. L'annessione dei Lučané al principato boemo, avvenuto nel corso delle cosiddette «guerre lucensi», si è verificato intorno al 900-925. Il centro principale dei Lučané corrispondeva probabilmente all'odierna città di Žatec (Ústí nad Labem), sebbene la prima citazione storica della città, con il nome di Sacz, appaian nella cronaca latina di Thietmar di Merseburg (✍ 1004).

VII a  ― Il nome Vojen richiama la parola slava vojna, «guerra». Secondo lo storico cecoslovacco Záviš Kalandra (1902-1950) i nomi dei sette knížata potrebbero essere messi in correlazione con i sette giorni della settimana: Vojen corrisponderebbe quindi al martedì, giorno di Mars, dio romano della guerra (Kalandra 1947).

VII i Misnia, Misna o Misena è il nome latino dell'odierna città di Meißen (ceco Míšeň, sorbo Mišno, ceco Míšeň, polacco Miśnia)(Sachsen, Germania).  A dispetto di quel che afferma Dubravius, che identifica i Míšni con i Sassoni, la regione era originariamente  abitata dai Głomacze (lat. Dolomici), una tribù polabica già attestata da Thietmar di Merseburg (975-1018): «provinciam quam nos Daleminci vocamus, Slavi autem Glomaci vocant» (Chronicon [I, 3]). Il processo di germanizzazione ebbe inizio solo a partire dal 929, quando Misnia fu proclamata città dal Kaiser Heinrich der Vogler (♔ 919-936), per poi divenire diocesi e capitale di margraviato nel 968, tanto che in seguito sarebbe stata definita «culla della Sassonia». L'etnonimo Polabici (ted. Wenden), o «Slavi dell'Elba», si applica a un gruppo di tribù lechitiche stanziate lungo il corso del fiume Elba (cèco Labe, polacco Łaba), tra gli Erzgebirge (i «Monti Metalliferi») e il Limes Saxoniae. La loro lingua apparteneva, insieme al polacco, al casciubo e allo slesiano, al sotto-ramo lechitico delle lingue slave occidentali. È dunque possibile che i «Sassoni» citati da Dubravius fossero in realtà anch'essi degli slavi, o slavi germanizzati. Più sotto, Dubravius li distingue.

VII j ― La Moravia (cèco Morava), dal nome della tribù slavo-occidentale dei Moravljane (lat. Marharii, ceco Moravané, slovacco Moravania), è attualmente la parte orientale della Cechìa. Questa regione corrisponde più o meno al principato di Moravia, una confederazione di tribù organizzata in regno intorno alla fine dell'VIII secolo. Con la conquista del prospicente principato di Nitra, nell'833, da parte di Mojmír (♔ ±820/830-844), primo sovrano moravo a convertirsi al cristianesimo, la confederazione si estese in quella che fu detta Grande Moravia (Megálē Morabía, secondo la dizione di Kōnstantînos VII Porphyrogénnētos (Pròs tào ídion hyiòn Rōmanón)), un potente stato che comprendeva, oltre alla Moravia storica in terra ceca, anche l'attuale Slovacchia sud-occidentale, una piccola parte dell'Ungheria, la bassa Austria e la Łusazia. Non sappiamo nulla di preciso sulla originaria costituzione tribale della regione: i Moravané costituivano senz'altro il nucleo intorno a cui si accentrò la grande Moravia.

VII m  Betovia corrisponde all'attuale villaggio di Bítov, nel distretto di Znojmo, nella  Moravia meridionale (Cechìa).

IX a ― Publius Helvius Pertinax (126-193) fu il diciannovesimo imperatore di Roma, e regnò per soli tre mesi, nel 193. Era chiamato «Crestologus» (dal greco chrēstologos) perché parlava bene e agiva male.

X c ― Il toponimo latinizzato Chaynovus corrisponde all'attuale villaggio di Chýnov (variante: Chejnov), nel comune di Tábor, kraj Jihočeský («Boemia meridionale»).

X e ― Il titolo che Dubravius fornisce nella forma classica Tetrarca corrisponde probabilmente al titolo di vojvoda (cèco moderno vévoda), letteralmente «signore della guerra, condottiero» (cfr. latino dux), titolo militare e nobiliare con funzioni di governatore. Il titolo, ben presente fin dall'etnogenesi slava, è attestato presso tutti i popoli slavi (polacco wojewoda, russo e ucraino voevoda, bulgaro vojvoda/voevoda, slovacco, sloveno, croato, serbo e macedone vojvoda), ma anche presso popolazioni confinanti (rumeno voievod, ungherese vajda, lettone vaivads). ― Il nome dell'eroe Horák viene reso in latino da Dubravius con Montanus, in analogia con il sostantivo ceco hora «montagna» (da un proto-slavo *gora; cfr. russo, ucraino, bulgaro, macedone gora, serbocroato gòra, polacco, kasubio e basso-sorbo góra, slovacco e alto-sorbo hora).

X e ― Il nome di Hormidurum, re dei Moravi, a quanto ne sappiamo non viene citato in fonti storiche. Potrebbe essere un eventuale predecessore di Mojmír I. Václav Hájev z Libočan, nella sua Kronika Česká, afferma semplicemente che Krasník andò a rifugiarsi presso il král («re») dei Moravané, senza citare il suo nome.

XI a ― La località che Dubravius chiama Casinum corrisponde forse alla fortezza di Hrad Házmburg, in cima all'omonima collina, presso il villaggio di Klapý (kraj Usti nad Labem), di cui oggi rimangono soltanto delle rovine. È la Dalimilova Krónika a sostenere che il primo attacco di Děpolt [Mstiboj] e Krosměl avvenne ai danni di una fortezza chiamata Klep, il cui nome derivava da quello dell'impudica moglie di Vlastislav, che aveva dimorato in quel luogo. L'espressione casinum, utilizzata da Dubravius, indica probabilmente un casino di caccia o altra costruzione di campagna. Václav Hájev z Libočan, nella sua Kronika Česká, non dà il nome di questa località, ma afferma che Mstiboj l'avrebbe in seguito chiamata Mstibín.

XI b ― Mělník è un antico centro nel kraj Středočeský, 30 km a nord di Praha. Il luogo è famoso, tra l'altro, per aver dato i natali a Slavibor (con ogni probabilità il Salinborius di Dubravius), padre di santa Ludmila (in Cosmas Praguensis e in Kristiánova legenda). 

XI c ― Il termine gyula, che nel testo è fornito quasi come nome proprio, era in realtà un titolo degli antichi Magiari, presso i quali, tra il IX e il X secolo, due sovrani regnavano congiuntamente: il kende (o kündü), con funzioni sacrali, e il gyula, con funzioni guerriere. Il titolo di gyula, ereditato dall'epoca delle migrazioni, sarebbe in seguito divenuto nome proprio.

APPENDICE

Le tribù slavo-occidentali

La struttura tribale degli antichi Boemi non è facile da tracciare. Vi erano originariamente una dozzina di tribù che avevano i propri nuclei e la centralizzazione si verificò più tardi che non in Moravia. Il Cristianesimo vi fu portato intorno all'870, quando venne costruita la prima chiesa sulla collina di Levý Hradec (fuori Praha), dove si trovava la sede della tribù dei Čechové/Češy, che in seguito divenne dominante e fondò il primo nucleo del regno di Boemia. I Čechové controllavano l'intera Boemia centrale e fondarono Praha come sede principale del paese. A est di Praha era stanziata la tribù degli Zličané, che reggeva la Boemia orientale e aveva la sua sede a Libice. Essi erano governati dai Slavníkovci, dinastia fondata da Slavník († 981), un sovrano di origine sassone, e da sua moglie Střezislava († 987), genitori tra l'altro di svatý Vojtěch. Gli Zličané controllavano altre tribù, tra cui, forse, i Bílí Chorvati, la regione di Stará Kouřim e di Świdnica. Essi vennero annessi da svatý Václav intorno al 925. Mantennero tuttavia una struttura semi-indipendente finché non furono distrutti da Přemyslidi il 28 settembre del 995, quando vennero massacrati nel sacco di Libice.

A ovest e a nord-ovest di Praha si trovava la tribù dei Lučané, la quale era centrata intorno al fiume Ohre e alla città di Žatec. L'unificazione della Boemia, nelle cosiddette «guerre dei Lučané», avvenne intorno al 900-925. La struttura tribale scomparve intorno al 950.

A nord di Praha vi era un'altra importante tribù slava, quella dei Bílí Chorvati. Questo popolo era stanziato intorno all'odierna Mělník. Svatá Ludmila, la prima duchessa cristiana veniva da questa tribù, e il suo matrimonio con kníže Bořivoj I (♔ ±872-±883 e ±885-888/890) permise l'associazione tra i Čechové e i Bílí Chorvati, intorno al 870-875. I Bílí Chorvati scomparvero dalla storia come Praha divenne capitale del nuovo stato cristiano. Da altre fonti compaiono altre tribù come Litoměřici, Doudlebové, Lemuzi e Děčané, poi incorporati da Boleslav I Ukrutný, il «crudele» (♔ 935-967/972), in vari distretti.

Kosmas Praguensis cita le seguenti tribù:

  • Čechové/Češi
  • Lučané
  • Děčané
  • Litoměřici
  • Lemuzi
  • Pšované
  • Chorvati
  • Slezané
  • Třebované
  • Bobřané
  • Dědošané
  • Milčané

Altre tribù:

  • Domažlici
  • Doudlebové
  • Hbané
  • Sedličané
  • Zličané

Non tutte queste tribù sono di lingua ceca. Gli Slezané (polacco Ślężanie), antenati degli attuali Slesiti, erano infatti di lingua lechitica; stessa cosa bisogna dire dei Połabianie o «Połabici», stanziati nel bacino del medio e basso Elba: la lingua połabica era ancora parlata nel XVII secolo. Dai Pomorzanie (casciubo Pòmòrzónie) o «Pomeraniani», stanziati tra le foci dell'Oder e della Vistola, discendono le attuali popolazioni di lingua casciuba e slovincia.

Alcune tribù erano invece di lingua sorba: è il caso dei Milčané (polacco Milczanie) e i Bílé Srbsko («Serbi bianchi») sono alla base degli attuali Sorbi o Sorabi.

Bibliografia

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BIBLIOGRAFIA
Archivio: Biblioteca - Guglielmo da Baskerville
Area: Slava - Koščej Vessmertij
Traduzione di: Giuseppina Gatti.
Cura e note di:
Dario Giansanti.
Creazione pagina: 06.05.2014
Ultima modifica: 04.12.2015
 
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