1 -
UNA TERRA PULLULANTE DI ǞZI
|
Voci dall'Asia centrale
(✍ 1943) |
Nikolaj K. Roerich (1874-1947), dipinto |
ra i molteplici taptï del cielo e gli
oscuri pūdaq inferi, si stende, come una superficie rivolta verso l'alto,
il Pu Çär, «questo
mondo», anche detto la «terra reale».
Il Pu Çär è governato dagli
ǟzi, o spiriti guardiani. Questi si fondono armoniosamente con il territorio e gli
elementi che hanno in potestà: alcuni sono preposti alle foreste, altri
governano le acque dei fiumi e dei laghi, altri ancora sono i signori degli
animali, i geni del tuono o del fuoco.
Molti
ǟzi vivono accanto agli uomini, nelle yurt, e di loro parleremo
altrove.
Alcuni spiriti guardiani, chiamati yayq, sono legati ai singoli
territori. Il più importante di questa classe è forse Altay
Qan, che vigila sul possente massiccio dell'Altai. Ma altri si
accontentano di regni più modesti: una certa montagna, un particolare fiume, un
ghiacciaio, una piccola foresta. Gli uomini devono accattivarsi le loro simpatie
se vogliono transitare sicuri nei luoghi da loro vigilati, devono ingraziarseli
se desiderano fare buona caccia e tornare a casa con un cospicuo bottino, e
infine devono stare attenti a non offenderli se vogliono scampare le disgrazie e
le malattie. |
2 -
ALTAY QAN, IL SIGNORE DELL'ALTAI
ltay Qan, il «signore dell'Altai», detto
Altay Ǟzi Äkälär, il «padre spirito-guardiano dell'Altai»,
è il genio che governa le cime del massiccio dell'Altai, le magnifiche
«montagne d'oro» della Siberia meridionale. I Karagassi lo invocano come Dag
Ǟzi, lo «spirito-guardiano delle montagne».
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Due mondi (✍
?) |
Nikolaj K. Roerich (1874-1947), dipinto |
Altay Qan dimora
nelle grotte e nei ghiacciai delle montagne di cui è signore e guardiano. D'inverno invia vento, tempeste, maltempo;
distrugge le yurt, uccide il bestiame, invia i lupi, priva i cacciatori
della preda, li fa gelare a morte. Durante la raccolta delle noci provoca la
caduta mortale degli alberi. Altay Qan è talmente possente e robusto che
nessun cavallo può sostenerlo.
Nelle invocazioni viene descritto come un uomo di abbagliante bellezza, con ali di pipistrello,
e viene
invocato come vincitore dei più valorosi eroi, che hanno perduto nella loro
sfida contro di lui. Signore di tutto il selvaggio rigoglio della natura
sul massiccio dell'Altai, gli appartengono il tuono, i fiori, persino l'aurora. È anche
chiamato yäkä, ma non risulta figlio di
Bay Ülgän. Suo padre è Ülbük Qan, col quale
Altay Qan vive sulla cima delle sue montagne
dorate.
Nelle invocazioni e nelle preghiere, Altay Qan è
confuso con la regione della quale è lo ǟzi, o spirito-guardiano:
Altay solare su cavallo bruno!
Allegro nei giorni d'estate,
magnifico nei giorni d'inverno,
tu placido muovi i fiumi.
Nostro Altay dalle cime stupende,
soddisfaci coi tui frutti,
soddisfaci coi tuoi doni!
Fin dalla fanciullezza ti seguiamo, nostro Altay,
tu che hai creato le nostre anime, nostro Altay,
viviamo sotto la tua protezione, nostro Altay! […]
Sulle tue cime dai campi aperti,
tu che nutri i miei cavalli, concedi la prosperità!
Concedi un bottino migliore!
Non infliggerci danni, nostro Altay dei cacciatori!
Concedi più animali e uccelli,
concedi di più nei nostri sacchi! |
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2 - GLI SPIRITI GUARDIANI DELLA FORESTA E DEGLI ANIMALI
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Lo spirito della caccia
(✍ ?) |
Aleksej Leont'evic Ulturgaşev (1955-). Olio su tela. |
ayğa Tös, lo spirito-guardiano della
tajga, abita sulle cime dei monti. Genio assai capriccioso, determina il
fato dell'uomo, concedendo salute e lunga vita. Ma all'occorrenza colpisce e
uccide con la
tubercolosi.
Volubile ǟzi della foresta,
Tayğa Tös decide il destino dei cacciatori che si
avventurano nel suo regno. Può favorirli, concedendo loro un ricco bottino.
Oppure, al contrario, può farli ritornare alle yurt con i carnieri vuoti.
Allo stesso modo, egli ha potere sul bestiame: può accrescere le mandrie degli
allevatori, oppure, al contrario, può decimarle. A Tayğa Tös lui vengono offerti una capra gialla e, ogni tre anni,
un cavallo.
Nelle invocazioni a volte è umanizzato, a volte viene descritto – ma è questa
la natura degli ǟzi – come se fosse egli stesso la tajga.
Insieme a Tayğa Tös, abitavano la foresta gli ǟzi delle
specie animali. Il più importante di essi, presso i Teleuti, era Ärmän Qan,
lo spirito che conferiva l'anima agli animali selvatici. Presso i Karagassi vi
era invece Dag Ǟzi, lo «spirito guardiano della
montagna», nell'aspetto di un candido vecchietto dalla lunga barba bianca, che
dimorava nella foresta. Questi era anche, in particolare, lo spirito protettore
delle renne, il quale riceveva tre sacrifici affinché vegliasse sulle mandrie e
fornisse gli animali del loro bel manto invernale. |
4 - GLI SPIRITI GUARDIANI DELLE ACQUE
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I monti Altai visti dal fiume Ob'
(✍ ?) |
Aleksej Leont'evic Ulturgaşev (1955-). Olio su tela. |
Su Ǟzi, lo spirito-guardiano delle
acque, abita i luoghi montani, i fiumi e le grandi distese d'acqua, di cui è padrone e
guardiano. È per timore di offenderlo, che gli Altai non amano prendere il
bagno.
A Su Ǟzi viene chiesto di rendere medicamentose le
acque delle sorgenti, affinché gli uomini possano guarire le malattie. A lui
vengono offerti ogni tre anni un cavallo grigio scuro e acquavite ancora calda. I Karagassi
cercano di ingraziarlo, prima della pesca, offrendogli tè, latte, burro e grasso, che vengono
consumati su un fuoco acceso presso una betulla ornata con nastri rossi.
Assimilato a Su
Ǟzi è Talay Qan, lo spirito-signore
dell'oceano, chiamate anche Sulay Qan,
Kölböy Qan, Boloy Qan,
Çïmay Qan.
Padre del dio-pesce Kär Balïq, è invocato con belle
immagini:
Arcobaleno che ti rifletti sull'acqua,
madre delle acque, Sulay Qan!
Kölböy Qan, che abiti le acque schiumose!
Boloy Qan, che abiti le acque pescose!
Çïmay Qan, che abiti dove si raccoglie l'umidità,
tu che volteggi nei sette vortici,
che possiedi il taptï fatto a vinco, Talay Qan! |
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Gli spiriti dell'aria e della guerra
(✍ ?) |
Aleksej Leont'evic Ulturgaşev (1955-). Olio su tela. |
5 - GLI SPIRITI GUARDIANI DEL TEMPO E DELL'ATMOSFERA
o spirito-guardiano del tempo piovoso è
Qara Şurlu «nero rumoroso». Usando sei bastoni,
questo ǟzi fa cadere la pioggia sulla terra. |
6 - GLI YAYQ, O SPIRITI GUARDIANI DEI LUOGHI SPECIFICI
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Gli spiriti guardiani della terra
(✍ ?) |
Aleksej Leont'evic Ulturgaşev (1955-). Olio su tela. |
li yayq sono una particolare classe
di spiriti guardiani legati a luoghi specifici. Ci sono yayq preposti ai singoli monti, boschi, fiumi e ghiacciai. Gelosi dei luoghi che
hanno in potestà, essi regnano sugli elementi e sulla fauna, e tengono d'occhio il passaggio dei
forestieri.
Ogni oğus («tribù») possiede il proprio yayq,
che può essere una montagna, un altipiano, o anche solo una parete rocciosa. Lo
yayq all'occorrenza può diventare un accompagnatore sciamanico,
quando non è egli stesso un qam, uno spirito-sciamano.
Ämägän Çalu Gädäçi, la «sorella-sciamana dal bel
copricapo», è lo yayq del monte Yalaŋğïy,
dal quale, se contrastata, manda agli uomini ascessi e ferite. Si vanta di
essere la bellissima madre-antenata dell'oğus Tumat, e in effetti la sua
tomba si trova in un
precipizio di nome Qulusta. Forse Ämägän era veramente stata un'antenata dei Tumat, poi trasformata in
uno spirito-guardiano. Le viene sacrificato un
montone dalla testa nera e le vengono offerti acquavite e tè. Di lei si fanno sette
immagini di capri selvatici di farina dette arğar qoçqor.
Çanağaş Qam è uno spirito-sciamano che dimora su una cima
montuosa oltre il fiume Çarïş. Iroso e vendicativo, questo yayq invia mal di testa e
malattie agli occhi. In ogni momento del giorno può scendere dalle montagne
sotto forma di un vento gelido. Gli sciamani lo invocano come lo
spirito «che s'innalza sulle cime dell'Altai, che dimora nei bianchi
giacciai, che alto si erge sulla
tajga
eterna». I suoi cento manyaq
(mantelli sciamanici) ondeggiano al vento e il suo volto, intravisto tra le
fronde delle betulle, sembra ondeggiare lungo i crinali della montagna.
L'irato Soyon Qam abita la cima sabbiosa del
monte Qoldïqam. Probabilmente è l'antenato sciamanico dell'oğus Soyon
(i Tuvini), e colpisce soprattutto le partorienti, trattiene la placenta, rende difficile il parto ed è causa di tutte le affezioni del dopo
parto. Porta un colbacco nero di traverso, regge una frusta di
nero zibellino e dorme in un giaciglio di nero castoro. La sua pipa è d'argento. A lui
vengono sacrificati un cavallo e un montone chiaro.
Qalpas Qam abita il monte Taylyang Qarağay, alla
foce dell'Irtyš. Da quel luogo invia tosse, reumatismi, emicrania e dolori allo
stomaco.
Moŋğusoy Qam e Soloğoy Qam
abitano i monti dell'Abakan, che attraversano su grigi destrieri, e da laggiù
inviano malattie agli occhi e causano le emicranie. Sono entrambi
spiriti sciamanici. Sologoy Qam, in particolare,
era un tempo invocato dall'oğus Köbök affinché donasse
maggior bottino nelle incursioni e limitasse le perdite dei guerrieri.
Lo spirito Surbay Qam abita l'acqua dei fiumi
e dei laghi. Ogni tre anni, in autunno, a lui viene sacrificato un cavallo
grigio e vengono offerti acquavite e latte. Viene così invocato dai sciamani:
Tu sorridi come Katun,
il tuo capezzolo rigoglioso.
Zio Surbay Qam,
tu cavalchi un grigio pūra!…
Tu risiedi sulle cime,
su di un'alta montagna ti sostieni.
Tu giochi sulle sei cime,
corri sulle sei alture.
Il tuo abito manyaq ondeggia al vento.
Tu ti sostieni sul tamburo stellato yïldïs yodïr,
tu che parli con gli uccelli che volano.
Tu che ricevi la legge naturale di Bay Ülgän,
ascolta coloro che ti pregano! |
Lo spirito Tarqan Qam si aggira lungo l'alto
corso del Katun' e gioca nella foce dell'Irtyš, tra i monti di Muztau [il Belucha]. Si dice
anche che nuoti in un lago celeste noto come Altïn
Köl, «lago d'oro». È uno spirito generoso, ma se irritato può inviare agli uomini
diverse malattie, alle orecchie, alla pelle, agli occhi. A lui viene sacrificato
in autunno un montone bianco e vengono offerti acquavite e latte. In suo onore
si lasciano sventolare nove pezze di stoffa.
Lo yayq Yüräkäy popola la montagna così
chiamata ed è signore del fiume Bayat lungo tutto il suo corso. È
particolarmente venerato dai Teleuti, che
lo chiamano «Madre Yüräkäy dai tre angoli».
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Un mondo di spiriti guardiani
(✍ ?) |
Aleksej Leont'evic Ulturgaşev (1955-). Olio su tela. |
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Fonti
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I - ÏDUQ YER-SUB, LA «SACRA TERRA-ACQUA»
DOVE VIVONO GLI UOMINI
La più arcaica idea cosmologica della terra proviene, ancora una volta, dalle
iscrizioni dell'Orxon, dove yer-sub «terra-acqua» sembra essere una
formula ricorrente per indicare la terra degli uomini. Molto spesso essa è posta
un diretto confronto con teŋri, «cielo». Un esempio tra molti:
TÜRK: TŊRISI:
TÜRK: ÏDUK: YIRI: SUBÏ: |
Türük teŋrisi,
Türük ïduq yeri subï |
Il cielo dei Türük,
la sacra terra-acqua dei Türük |
Xöšȫ Cajdam > Iscrizione di Bilge Qağan [A:
10] |
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Iscrizione di Bilge Qağan |
Foto di Aleksandr Nerozja |
L'espressione yer-sub «terra-acqua»
sembra essere piuttosto arcaica. Vi è probabilmente una
distanza semantica tra yer, la terra in senso
cosmologico, e yer in yer-sub, dove
probabilmente indica la terraferma in relazione con le acque dolci. Quest'ultima espressione è stata
ereditata in diverse lingue altaiche. La ritroviamo nel
mongolo ǰär-su, nel tunguso yorko-lamu, nel čuvašo
şĕr-šyv, a indicare, sì, la terra, ma nell'accezione
di «patria», «terra natale». In tutte queste eccezioni,
inoltre, il senso non è solo cosmologico, ma ha una
connotazione sacrale.
Il rapporto tra teŋri «cielo» e
ïduq yer-sub, nelle iscrizioni dell'Orxon, è
evidentemente un confronto tra entità animate, tant'è vero
che il testo prosegue riportando una loro ammonizione al
qağan: «Il cielo dei Türük [e] la sacra terra-acqua dei
Türük dissero: “Fa' sì che il popolo dei Türük non si
indebolisca, fa' sì che sia ancora una nazione”». Si noti
che teŋri può significare tanto «cielo» quanto «dio
del cielo»; e che l'aggettivo ïduq – il quale
accompagna regolarmente yer-sub – ha, sì, la
connotazione di «sacro», ma nel senso di «animato da uno
spirito-guardiano». A parlare non sono dunque il cielo e la
terra nel loro aspetto cosmologico, ma gli stessi nel loro
aspetto spirituale e animato. (Roux
1984 | Roux 1989)
|
II - LA TERRA PERSONIFICATA. LA DEA ÖTÜGEN
|
I monti Altai |
Foto di Aleksandr Nerozja |
Il culto della terra, in forma di divinità maschile o femminile, è una
componente tipica dell'ideologia religiosa delle culture dei coltivatori
sedentari. Perciò lo troviamo raramente presso i popoli altaici, la cui cultura
tradizionale è quella dei pastori nomadi. In compenso, è attestato in quei
territori in cui gli altaici si sono trasformati in agricoltori o hanno subìto
l'influenza di civiltà agricole.
Le iscrizioni paleoturche dell'Orxon (VIII
secolo) citano una montagna Ötüken [Ötüken yïş]
o una terra Ötüken [Ötüken yer], quale
semi-mitica patria di origine dei Gök Türük, dal quale essi si sarebbero spostati
a seguito di una secolare migrazione (Iscrizione di Kül
Tiğin [I: 23 | III: 3; 4; 8]; Iscrizione di Bilge Qağan [I: 19 | II: 2; 3; 6]).
Che a un certo punto questa terra, o montagna, finisse per essere divinizzata,
sembra testimoniato da alcune fonti cinesi, dove si dice che i Tūjué (i
Gök Türük) adoravano un dio della guerra rappresentato in forma di montagna, il
Podeng Ningli (trascrizione cinese di But Teŋri).
Ne ritroviamo un esito in Mongolia, dove Ötügen
è divinizzata come dea della terra. Sebbene non tutti gli studiosi siano
d'accordo su tale identificazione, ritroviamo forse Ötügen
(Etügen o Itügen) nel nome Itoga citato dal missionario
francescano Giovanni di Pian del Carpine (1182-1252): «Divinationibus,
auguriis, auruspiciis et veneficiis incantantibus multum intendunt, et cum a
demonibus eis respondetur. Credunt quod deus ipsis loquatur quem deum nominant
Itoga. Sed comani ipsi kam ipsum appellant quem mirabiliter timent et reventur
ac eis oblationes offerunt multas et primicias ciborum et potus»
(Historia Mongalorum [III]). A sua volta
Itoga è stato avvicinato al dio dei «Tartari» Nat(t)igai che il
mercante veneziano Marco Polo (1254-1324) considerava evidentemente di sesso
maschile:
Sappiate che loro legge è
cotale, ch'egli ànno un loro idio ch'à nome
Natigai, e dicono che quello è dio terreno,
che guarda loro figliuoli e loro bestiame e
loro biade. E' fannogli grande onore e
grande riv[er]enza, ché ciascheuno lo tiene
in sua casa. E' fannogli di feltro e di
panno, e 'l tengono i‧loro casa; e ancora
fanno la moglie di questo loro idio, e
fannogli figliuoli ancora di panno. La
moglie pongono da‧lato manco e li figliuoli
dinanzi: molto gli fanno onore. Quando
vegnono a mangiar,e egli tolgono de la carne
grassa e ungogli la bocca a quello dio e sua
moglie e a quelli figliuoli. Poscia pigliano
del brodo e gittane giù l'usciuolo ove stae
quello idio. Quando ànno fatto così, dicono
che lor dio e sua famiglia àe la sua parte.
Apresso questo mangiano e beono; e
sappi[a]te ch'egli beono latte di giumente,
e cónciallo in tal modo che pare ivno
bianco: è buono a bere, e chiàmallo chemmisi. |
Sappiate che tale è la loro legge: essi hanno un loro dio di nome
Natigai, e dicono che sia un dio terrestre, che
protegge i loro figli, il loro bestiame e i loro campi. Lo raffigurano con
immagini di feltro e panno, che tengono in casa; e raffigurano la sua sposa e i
suoi figli, sempre di panno. La sposa viene posta a sinistra, i figli dinanzi, e
molto li onorano. Quando mangiano, [i Tartari] ungono con della carne grassa la
bocca del dio, di sua moglie e dei suoi figli. Poi prendono il brodo e lo
gettano fuori dalla porticina dove si trova il dio. Quando hanno fatto così,
dicono che il dio e la sua famiglia hanno avuto la loro parte. Solo dopo [i
Tartari] mangiano e bevono; e sappiate che bevono latte di giumenta; lo
preparano in modo che sembri vino bianco: è buono da bere e lo chiamano kïmïs. |
Marco Polo: Milione
[69, -] |
Costoro si ànno uno loro
dominedio, ed è fatto di feltro, e chiamalo
Nattigai; e fannogli anche la moglie, e
dicono che sono i dominedii terreni che
guardano tutti i loro beni terreni. E così
li danno da mangiare e fanno a questo cotale
iddio secondo che fanno li altri Tarteri, li
quali v'abbiamo contato adietro. |
Costoro [i Tartari del nord] hanno un loro signore dio, lo raffigurano col
feltro e lo chiamano Nattigai. Gli rappresentano
anche la sposa, e dicono che sono degli dèi terreni, che proteggono tutti i loro
beni terreni. E in tal modo dànno loro da mangiare, comportandosi nello stesso
modo degli altri Tartari, come abbiamo detto prima. |
Marco Polo: Milione
[204, -] |
Le ortografie approssimative dei testi rendono difficili le
identificazioni. Tuttavia il Nat(t)igai di Marco Polo
rende con ottima approssimazione il nomen presente in
un frammento buddhista (1312) del commento di Cos-kyi ʼOd-zer
al Bodhicaryāvatāra in
mongolo, dove si parla di una Načiɣai
Eke, una madre terra, che pare essere la stessa Ötügen.
Rimane da spiegare la ragione per cui Marco Polo le assegni
sesso maschile. (Cardona 1975)
Tuttavia,
più che
il mitologema della madre terra delle civiltà agricole, Ötügen sembra piuttosto la patria
mongola divinizzata. Con il corrispondente termine ǰär-su, designa la
terra mongola, ma anche i santuari locali, i fiumi, le montagne, i laghi come
oggetto di venerazione. (Roux 1984)
La medesima idea di personificazione del paese compare presso i Saxa, che sacrificano cavalli
agli spiriti guardiani dei luoghi santi, delle montagne, dei
laghi, e così via. Nella concezione dei Saxa la dea-terra provoca la
crescita delle erbe per il pascolo e la nascita dei bambini: e troviamo anche
presso di loro una forma di culto
che tende a generalizzarsi in un'ideologia di tipo agricolo; comunque, accanto
ad essa, conoscono anche doïdu iççitä, lo «spirito-signore della terra».
Il termine jakuto orto doïdu indica perfettamente il concetto di «terra
di mezzo», sospesa tra i piani celesti e quelli ipoctoni.
(Di Nola 1970)
I Burjati di Balagansk, invece, immolano una vittima in autunno, al termine
dei lavori agricoli, a Daida Delke Edten, il
«signore del disco terrestre», raffigurato come un veliardo dai capelli candidi,
e alla sua sposa, Däläntä Sagan Xatun, la «signora
dai capelli bianchi». (Di Nola 1970)
Secondo vecchi rilevamenti, i Çăvaši del Volga veneravano
Şĕr-šyv Kudegen,
il «sovrano della terra», accanto alla madre-terra e al
padre-terra, e si ritiene che con la parola şĕr-šyv (letteralmente
«terra-acqua») essi indichino la patria natale. I Çăvaši sacrificavano tuttavia
animali neri alla madre-terra e celebravano un matrimonio rituale con essa. Un
giovanotto assai prestante, disposto a esporsi al rischio di un rapporto con la
dea-terra, veniva accompagnato nottetempo, con un corteo di carri nuziali, a un
posto dove la terra era particolarmente fertile. Uno dei partecipanti più
anziani interveniva come intermediatore e si rivolgeva alla terra, annunciandole
l'arrivo dello sposo e la sua intenzione di possederla. Lo sposo si chinava al
suolo e rivolgeva molte riverenze alla terra. Indi ammucchiava del terreno ricco
in una pelle, che veniva deposta su uno dei carri. Questi ripartivano tra musica
e manifestazioni di gioia. Giunti ai limiti dei campi ai quali si voleva
assicurare la fertilità, lo sposo scendeva dal carro, salutava la sua
sposa-terra e spargeva l'humus sul campo, che sarebbe così stato fecondato.
(Di Nola 1970)
|
III - GLI SPIRITI GUARDIANI Nella «mitologia minore» dedicata agli
spiriti guardiani, caratteristica delle popolazioni nord-euroasiatiche possiamo
indovinare sistemi di credenze e comportamenti cultuali particolarmente arcaici
e meno assoggettati all'influenza delle civiltà «superiori». Ne risulta una
visione del mondo naturalistica e polidemonistica, connesso alle varie
condizioni dell'habitat e alle strutture delle diverse società.
Gli spiriti guardiani – definiti in letteratura anche
spiriti-signori o spiriti possessori – formano una caratteristica delle
mitologie dei popoli tanto uralici quanto altaici. Essi hanno
poco a che vedere con le possenti divinità indoeuropee, come agli dèi dei Greci o dei Germani, fortemente caratterizzati e forniti di
dettagliate biografie. Sono piuttosto dei genî che abitano armoniosamente gli
elementi da loro governati e con i quali gli esseri umani tendono a un rapporto
di buon vicinato. Gli spiriti guardiani sono innumerevoli, visto che ogni
parte del territorio, ogni essere o elemento può essere animato da uno spirito, oppure è sotto la potestà di una potenza invisibile. Gli uomini cercano
continuamente di ingraziarli con offerte, piccoli servizi e parole gentili,
affinché si prendano cura di chi li invoca e forniscano primizie o cacciagione.
|
Stele erette davanti
alle cime dell'Altai |
Gli spiriti guardiani dei popoli altaici sono noti soprattutto attraverso i
dati etnografici. Sono designati con il termine mongolo e tunguso
eǰen, il burjato ežen/äžän, il saxa iççitä, l'altai ǟzi, oppure il turco iziq.
Quest'ultima parola deriva da un antico termine iduq, così definita nel
dizionario turco di Maḥmūd al-Kāšġarī (Kâşgarlı Mahmud, 1005-1102?): «Qualsiasi
cosa fortunata e santa. Si dà questo nome a un animale che viene lasciato
libero: non lo si può più caricare di pesi, né mungere e tosare. È protetto da
un voto fatto dal suo proprietario» (Dīwān al-Luġat
al-Turk). Nelle iscrizioni paleoturche dell'Orxon, il termine iduq
viene riferito alla «terra-acqua», alla «foresta», alla «montagna di Ötüken»,
alla «sorgente» o alle «sorgenti del Tamir», cioè a una serie di territori
sentiti come sacri: iduq sembra indicare una sorta di sacralità o di
immanenza insita nel territorio. Nessuna operazione umana può essere compiuta
nei luoghi iduq, e un rispetto assoluto circonda gli elementi naturali
che vi si trovano. È possibile che il processo di sacralizzazione di un
territorio, definito dalla parola iduq all'epoca dei Gök Türük o dei
Mongoli, riguardi in realtà la presenza di uno spirito-guardiano insito nel
territorio stesso. (Roux 1989)
Si è sostenuto che gli spiriti guardiani avessero la loro dimora negli obo,
cumuli di pietre erette in luoghi particolari, come crocicchi, alture, etc. Ma è
più probabile che si tratti soltanto di spiriti guardiani particolari, o anche
di manifestazione del sacro di tutt'altra natura.
Oggi, il turcico iziq (da cui l'altai ǟzi), il saxa iççitä, il mongolo e tunguso
eǰen non riguardano dei territori, dagli elementi, o dei particolari animali
o piante ritenuti «sacri», ma le entità che li animano. La loro importanza è
funzione dell'interesse che un essere, un oggetto, un luogo presenta agli occhi
di questa o quella popolazione, e ad essi sono legati gli innumerevoli usi
cultuali, le precauzioni e i tabù connessi con tutto quanto sia animato da un
iziq (ǟzi, iççitä, eǰen). Non è esagerato dire che a tale nozione
sia alla base di tutti gli spiriti guardiani delle montagne, dei boschi, delle
sorgenti dell'area altaica.
In Turchia, gli iziq sono stati facilmente assimilati ai ǧinn
della tradizione musulmana, e in una certa misura anche ai santi, le cui tombe,
reali o supposte, trasmettono la baraka agli oggetti circostanti. |
IV - LA MITOLOGIA DEI CACCIATORI Tra i gruppi di
cacciatori, ma anche presso gli allevatori che hanno la caccia come attività
accessoria, compare di frequente la mitologia di uno «spirito-signore della
foresta», che è quasi sempre anche uno «spirito-signore degli animali».
Sorta di capricciosa figura di genio o spirito dalle caratteristiche silvane
e paniche, lo «spirito-signore della foresta» era un dio della quiete dei
boschi, ma anche dei rumori misteriosi, dell'eco, dello stormire delle fronde.
Egli partecipava, non visto, alle partite di caccia, poteva rilasciare o
sottrarre le prede, e addirittura scatenare tempeste. La sua risata, confusa tra
ai rumori del bosco, era un sicuro segnale della sua presenza. Come ha osservato
Una Harva, questa doppia qualificazione sembra essere legata alle esigenze della
caccia: il silenzio numinoso corrisponde alla cura dei cacciatori di evitare con
voci e rumori la fuga della selvaggina; il riso e le grida accompagnano le
manifestazioni di gioia dopo la cattura degli animali.
Tra gli Altai era attestato innanzitutto Tayğa Tös, il
guardiano delle immense foreste della Siberia meridionali, una sorta di potente
spirito dendrico, che impersonava l'intera tajga e teneva d'occhio le
intrusioni nel suo regno da parte degli esseri umani. I Karagassi (Altai
settentrionali) lo chiamavano Dag Ǟzi, lo «spirito
guardiano della montagna», e lo rappresentano come un vecchietto dalla barba
bianca, inquilino della foresta e padrone degli animali. Ma
Dag Ǟzi era anche il guardiano delle mandrie di
renne. Forniva gli animali della loro pelliccia e vegliava sulle mandrie,
ragione per cui gli si offrivano tre sacrifici nel corso dell'anno: in
primavera, in estate e in autunno.
Presso i Tatari del Qazan,
Urman Äyäse era lo spirito-guardiani degli animali, mentre Bay
Qudurguy sovrintendeva alla caccia e ai
cacciatori.
Particolarmente ricca la mitologia boschiva dei Saxa, dove il tïa iççitä,
lo «spirito-signore della foresta», si chiamava Bāy
Bayanay (o Bāy Barïlāx). Rappresentato come
un vecchietto con capelli e barba grigi, vestito come un saxa o come un əvenki,
dal carattere allegro, spensierato e lubrico, Bāy Bayanay
era legato alla fertilità e alla ricchezza, e in generale a tutto ciò che
concerneva il rigoglio della vita. A capo di una numerosa famiglia di geni
boschivi,
accompagnava i cacciatori nelle loro partite di caccia. Al primo
pernottamento, i cacciatori accendevano il fuoco, versavano del burro su di esso e
invocavano il «nonno» Bāy Bayanay. La soddisfazione
dello spirito, da cui dipendeva il successo della caccia, si manifestava
inducendo nei cacciatori uno
stato di riso irrefrenabile. A Bāy Bayanay si
affiancavano molti altri spiriti boschivi e degli animali, tra cui ricordiamo
Sarï Tanğalay
Ālïp Sägäyän, la fanciulla Ḑïlïk Kïs, il
signore delle trappole Baltïsax Xan, il dio degli
ostacoli Mosol, e il vecchietto
Ähäkǟn, ciascuno con la propria famiglia e i suoi numerosissimi
epiteti. (Marazzi 1984)
In alcuni casi lo «spirito-signore della foresta» presentava relazioni con
gli spiriti dei defunti, visti come anime di morti che vagavano nei boschi, sia
come antenati che proteggevano i cacciatori e li aiutavano nelle loro battute di
caccia. A volte, però, si trattava di un rapporto negativo, nel senso che il
dio, assumendo i caratteri del revenant, si caricava di energia malefica.
L'Oin Ežen dei Burjati, al contrario dell'allegro
Bāy Bayanay dei Saxa, era uno spirito
insoddisfatto, difficile da placare, che attirava gli uomini nelle foreste e
faceva loro perdere la strada del ritorno.
La caccia ha sempre costituito, insieme alla pesca, la più antica base di
sostentamento dei Tungusi, come hanno dimostrato le scoperte archeologiche. Non
sorprende dunque il fatto che la mitologia dei cacciatori abbia occupato un
posto centrale nella religione fra tutti i gruppi tungusi. Omologo tunguso di Bāy Bayanay,
il «ricco padre»
Bainača (o Bajan Ami) era forse la maggiore
divinità della caccia presso gli Ǝvenki. Raffigurato come un vecchio
dalle bianche chiome,
Bainača abitava la tajga insieme agli animali
selvatici, e concedeva ai cacciatori, a suo
piacere, fortuna e sfortuna della caccia. Il dio Ehekon
(o Hinkn), omologo del saxa
Ähäkǟn, era invece presente presso gli Ǝvenki
occidentali (Tungusi dello Enisej) come spirito-signore degli animali della
foresta (soprattutto degli alci e delle renne selvatiche), e veniva rappresentato
in forma umana o animalesca. Le statuine di legno gli Ǝvenki intagliavano a
immagine del dio avevano un ruolo centrale durante le cerimonie di purificazione
dei cacciatori e delle loro apparecchiature di caccia, che avevano luogo in
autunno, prima delle battute di caccia vere e proprie, le quali si svolgevano in
inverno. Ehekon
sembra tuttavia una forma specifica di una classe generica di
spiriti della caccia, definiti nei vari dialetti tungusici, soprattutto
occidentali, con i termini singkn, šingkn, hingkn, per i
quali l'etnografo Arkadij Fëdorovic Anisimov fornisce tre interpretazioni: «spirito
guardiano degli animali e della caccia», «fortuna o successo nella caccia»,
«feticci di caccia» (amuleti e talismani dei cacciatori fatti con pelle di
animali). (Anisimov 1958 | Lot-Falck
1970-1976)
Gli Ǝvenki attribuivano agli animali ora delle anime individuali,
ora degli spiriti guardiani per ciascuna specie (genii speciei), e i
cacciatori, se volevano avere successo, dovevano guadagnarsi la benevolenza di
questi spiriti osservando puntualmente i riti di caccia. Fra gli Ǝvenki della Podkamennaja gli
spiriti guardiani delle specie animali erano concepiti come
«madri» [enim], e fra queste Dunne Mušun, la
«regina della terra» (o Buḡady Dunne, la «regina
del mondo») rivestiva il rango di suprema divinità della caccia. Gli sciamani,
che avevano rapporti con questi spiriti guardiani delle specie animali, creavano
delle apposite «trappole per anime»: figurine in legno, in scorza di betulla o
in altro materiale, che poi colpivano con delle frecce. In questo modo,
catturando preventivamente l'anima dell'animale, si riteneva che il cacciatore
fosse facilitato a catturare la preda, a patto di colpirla proprio nel punto in cui la freccia aveva
colpito la figurina. (Anisimov 1958 | Lot-Falck
1970-1976)
Analoghe concezioni troviamo tra i popoli paleosiberiani. Tipico popolo di cacciatori
primitivi, gli Jukagiry
rivolgevano un culto a numerosi esseri soprannaturali, spiriti e divinità
protettrici della selvaggina e dei pesci, in quanto dipendeva soprattutto dalla
loro benevolenza il successo in queste attività. Perciò essi erano arrivati a
raggruppare in un sistema organizzato gerarchicamente i vari spiriti guardiani
che controllavano tutti i livelli del mondo naturale. Ogni uomo e animale aveva innanzitutto un'«anima libera»
individuale (a'ibi
secondo gli Jukagiry del Kolyma, nu'ññin secondo quelli della tundra),
definita anche «anima della testa» perché si riteneva risiedesse nel capo. La a'ibi (o
nu'ññin)
veniva percepita come la manifestazione extracorporea dell'individuo nello
stato di sogno o nelle visioni. Dopo la morte, l'a'ibi scendeva nel «regno delle ombre», nel sottosuolo, dove la vita continuava come sulla
terra: i parenti vivevano insieme per famiglie o per tribù; c'erano tende,
trappole per la caccia, cani, e via dicendo, ma tutto in forma di «ombre»; in
altre parole le a'ibi degli uomini cacciavano le a'ibi
delle renne, degli uccelli e dei pesci. Come osserva l'etnografo Vladimir Iochel'son,
«Gli animali cacciati dai membri viventi della famiglia sono identici a quelli
le cui ombre sono già state cacciate dalle anime dei parenti del cacciatore nel
regno delle ombre». Il successo della caccia nel mondo umano era dunque
condizionato a un analogo dramma di caccia che si svolgeva nel regno delle
ombre. In questo modo si delineava la credenza in una funzione protettiva degli spiriti dei
morti: prima che il cacciatore potesse abbattere una renna o un altro animale,
era necessario che un suo parente morto provvedesse ad abbattere l'ombra
dell'animale destinato a essere ucciso. (Iochel'son 1926 | Lot-Falck 1970-1976).
Accanto all'a'ibi (o
nu'ññin),
ciascun animale aveva anche uno spirito-guardiano detto pe'djul, termine
che significava «successo nella caccia», in quanto era il pe'djul che
concedeva al cacciatore di prendere l'animale da lui protetto. Le a'ibi
in qualità di «anime custodi» e il pe'djul sembravano alternarsi nel
mondo concettuale dei Nivx; per catturare un animale un cacciatore non solo
doveva conquistare il pe'djul che gli assicurava il «successo nella
caccia», ma dovevo anche impossessarsi dell'a'ibi, compito che in genere era
riservato allo sciamano.
Al di sopra del singolo protettore di ciascun animale, vi erano i mo'ye
«custodi» o moru «sorveglianti», cioè gli spiriti guardiani delle varie
specie, ad esempio delle renne selvatiche, degli alci, delle lepri, dei pesci. I
mo'ye erano a loro volta sottoposti ai pógilpe (sing.
pógil), gli
spiriti-signori dei tre principali ecosistemi: Lebie-pógil,
il «signore della terra», O'gin-pógil, il «signore
delle acque dolci», Čobuñ-pógil, il «signore dei
mari». A costoro erano anche sottoposti tutti gli spiriti guardiani dei luoghi
specifici. A Lebie-pógil obbedivano gli
spiriti guardiani delle montagne, dei boschi e delle tundre, a
O'gin-pógil i guardiani dei fiumi e dei laghi, a
Čobuñ-pógil i guardiani dei golfi, degli stretti,
etc. Tutti gli spiriti guardiani della natura svolgevano insieme il ruolo di
signori delle prede che si trovavano nella loro rispettiva sfera. Essi vivevano
per famiglie e raramente venivano concepiti come esseri solitari.
Aventi perlopiù parvenza umana e appartenevano a entrambi i sessi in qualità di
«madri» (emei) e «padri» (ečei) delle varie sfere d'influenza e
dei vari elementi naturali. (Lot-Falck 1970-1976)
Tra i paleoartici, anche i Nivxi popolavano l'intera natura di spiriti
guardiani, chiamati ys «signore». Tra questi i più
importanti era lo spirito della montagna e del bosco,
Pal-ys, e lo spirito del mare, Tol-ys.
Entrambi erano considerati signori e padroni degli animali, nelle loro
rispettive sfere, e venivano venerati da cacciatori e pescatori. Gli stessi animali
selvatici, una volta abbattuti, venivano fatti segno a particolari forme di
rispetto. Anche secondo i Nivxi tutti gli animali possedevano una loro anima. Un
posto di rilievo occupava l'orso tra le bestie terrestri e il narvalo tra quelle
marine: li si definiva a loro volta degli ys e li si
considerava messaggeri delle rispettive divinità. C'erano inoltre particolari
genii speciei, quali ad esempio Osk-ys, il
«signore delle lepri» o Tlangi-ys, il «signore
delle renne selvatiche» (Lot-Falck 1970-1976).
Tra gli An'kalyt della Kamčatka,
êtinwit (sing.
êtin) è il termine che comprende
spiriti guardiani dei vari tipi di piante, fiumi, mari e altri luoghi naturali.
Essi rivestivano un'autorità in quanto signori della selvaggina nelle loro
rispettive sfere di sovranità. Gli êtinwit avevano un aspetto semi-umano
e semi-animalesco, e ad essi venivano fatte modeste offerte. Ma la più
importante divinità della caccia presso gli An'kalyt
delle coste, Pičwu'čin,
era signore e padrone delle renne
selvatiche, di tutta la selvaggina terrestre e degli animali marini. Secondo gli
abitanti dell'interno, egli vive sulle montagne, in profonde voragini e in
grandi boschi da dove manda ai cacciatori le renne selvatiche. È lui a far
approdare le balene sulla riva, a vantaggio degli abitanti della costa. Ma se è
irritato priva gli esseri umani di qualunque tipo di preda. Esige che vengano
rigorosamente osservati gli antichi riti di caccia e che si compiano i sacrifici
relativi. Nella mitologia Pičwu'čin ha subito molte
e varie metamorfosi, ed è l'eroe prediletto di molte leggende popolari.
Non fanno eccezione, spostandoci invece verso occidente, i popolo uralici.
I Samoiedi credevano a loro volta in un gran numero di spiriti guardiani (ŋuo,
ŋua, ŋa), a cui praticavano anche sacrifici, come di
renne, soprattutto agli spiriti del sole, della terra, del fuoco,
delle renne e allo spirito del cielo Ŋuo. Oltre a
questi, conoscevano una gran quantità di spiriti guardiani della foresta (nenėc
nedara jete, ėnec mugo beno, söĺqup mačil-los) e della
montagna (nenėc na jere, ėnec nu bemo), ma anche delle acque, dei
fiumi e dei laghi (nenėc jind jere, ėnec budo bemo, söĺqup
ütkyl los, ŋanasan bida ŋua). Ogni specie animale aveva il suo
spirito-guardiano [ŋuo], e gli Ŋanasan veneravano soprattutto i
protettori degli orsi, dei lupi, delle renne selvatiche, delle volpi, delle oche
selvatiche, dei pesci. I Nenėc veneravano gli spiriti guardiani [sjāttȳ]
degli scoiattoli e lo spirito-guardiano delle acque, signore dei pesci. Gli
animali, esattamente come l'uomo, avevano una o più anime e per ottenere
successo nella caccia lo sciamano doveva andare nei luoghi consacrati della
foresta per riprendersi, dagli spiriti guardiani, le «ombre» degli animali,
secondo uno schema che ci è già familiare
(Lot-Falck 1970-1976).
Il concetto di spirito-guardiano è ancora ben conosciuto all'estremo occidente
dell'area nord-euroasiatica, dove viene indicato dalla parola finlandese
haltija. Tapio, il signore dei
boschi del
Kalevala, ne è forse il caso più emblematico. Abbigliato con una
lunga veste marrone, con un manto di muschio e un cappello di aghi di pino,
Tapio governa il suo regno
boschivo, che nei laularunot assume il nome poetico di
Tapiola o
Metsola. A detenere le chiavi
di Tapiola è la consorte di
Tapio,
Mielikki, patrona degli orsi.
Loro figli sono il maestoso
Nyyrikki, il cui compito consiste nel rendere praticabili le paludi
attraversate dalle mandrie che si recano ai pascoli, e la leggiadra
Tellervo, patrona dei
cacciatori.
Nel mondo baltofinnico compare anche
Hiisi, un antico dio delle foreste che, già nel Cinquecento, Mikael Agricola
considerava una versione careliana del
Tapio finlandese
(Hämälaisten ja Karjalaisten Jumalat). Sebbene Agricola lo descriva come un dio protettore
della caccia, il termine hiisi indicava in origine un bosco sacrificale,
luogo sacro o funebre, situato presso una comunità. Nella concezione precristiana, Hiitola era il
luogo dove risiedevano i morti che dimostravano benevolenza nei confronti dei
vivi, ma con l'arrivo del Cristianesimo il toponimo cominciò ad essere usato con
un'accezione negativa per indicare un mondo remoto e ostile agli umani. In
seguito personificato, Hiisi è
stato per lungo tempo identificato nello spirito residente nelle foreste, poi
trasformato in un gigante (estone hiid) oppure in un essere
soprannaturale maligno. Al plurale, gli hiidet sono spiriti ctoni,
maligni, legati al mondo silvestre o comunque a luoghi investiti di valore numinoso e terrifico. (Di Luzio ~ Giansanti 2014)
Il concetto degli spiriti guardiani della foresta e degli animali, diffuso dalla Finlandia alla Kamčatka, non poteva non lasciare una profonda traccia nel folklore russo, dove
ha prodotto la figura del lešij, lo spirito dendrico che dimora nel
profondo dei boschi. Questo ricompare nei panni del possente boscaiolo
Dubynja, il quale, nelle skazki (le
fiabe di magia russe), funge da aiutante del protagonista nelle sue imprese.
|
V - MITOLOGIA DEI PESCATORI Così come esisteva un ricco
mondo mitologico legato ai boschi e alla cultura dei cacciatori, il mondo
altaico e uralico presentava immagini legate, allo stesso modo, alle acque dei
laghi e dei fiumi, propria dei pescatori e dei gruppi di allevatori nomadi che
integrano la loro cultura con attività piscatorie. Così come per i Greci ogni
fiume era sede di una divinità, anche Saxa, Altai e molti altri popoli conoscevano
una gran quantità di spiriti guardiani legati tanto ai singoli corsi d'acqua,
quanto all'elemento idrico nel senso più generale.
Presso gli Altai, come abbiamo visto, Su Ǟzi era
lo spirito-signore delle acque. I Karagassi gli offrivano, prima della pesca,
tè, latte, burro e grasso, che venivano consumati presso una betulla ornata di
nastri rossi. Tra i Saxa, Ukulan Toyon era lo spirito-signore di tutte le acque,
a cui venivano gettate offerte di cibo prima della pesca. I Saxa conoscevano
anche dei geni delle acque, chiamati sïlïkïn.
Particolarmente ricca, la mitologia delle acque attestata presso i Burjati,
dove gli uxan ežen principali sono nove. I loro capi erano
Ulan Mönxön
Täŋri e Kökö Möŋkön Täŋri. Gli altri erano:
Quman Kökö Täŋri, Čudal Täŋri e
Budal Täŋri; la coppia formata da
Gokoči Noyon e Kälmäči Xatan (patroni
rispettivamente della pertica [goko] e del remo [kalma],
protettori della pesca); lo spirito Uta Xaraŋa Noyon e il leggendario sciamano
Urianxa, che per primo aveva introdotto degli uxan ežen. Questi e molti
altri, per un totale di ventisette o trentasei spiriti, dimoravano sul fondo del
lago Bajkal in un palazzo di pietra rosso scuro, a cui si accedeva con un ponte
fatto di acqua. Non solo governavano sulle ricchezze dei laghi e dei fiumi, ma
anche sulle attività piscatorie e sulle tecniche di navigazione.
Gli An'kalyt delle coste veneravano una serie di spiriti caratterizzate,
collettivamente, come creature del mare [anga-wairġit]. Il più importante
di costoro era il dio del mare, Kere'tkun. Questi
vive con sua moglie al largo, in fondo al mare, in una grande casa liquida.
Hanno entrambi forma umana, anche se la loro statura è gigantesca, hanno un viso
annerito e portano ampie vesti bianche di pelle di tricheco.
Kere'tkun regna su tutti gli animali marini, in
particolare sui trichechi, preda principale degli abitanti della costa. Quando
si sente uno strano rumore provenire dal largo, gli An'kalyt dicono che è il dio
del mare che richiama i trichechi dalle coste per sottrarli ai cacciatori.
Kere'tkun è in definitiva un essere malvagio, che
lascia annegare i cacciatori e si nutre dei loro cadaveri.
Per quanto riguarda il mondo uralico, soprattutto i Hanty e i Mansi hanno una
ricca mitologia fluviale, dopo molti spiriti-signori [tonx] amministrato
i vari corsi d'acqua del territorio ob-ugrico e le creature che vi abitano. I
principali spiriti-signori di questi luoghi erano la Zlata
Baba o «vecchia d'oro», così chiamata nelle fonti russe del
XIV secolo
alla foce del fiume Ob'; una figura presumibilmente imparentata con questa, la
Kältas-anki o «madre che partorisce» dei Hanty settentronali (Kaltas-ēkwâ presso
i Mansi); l'Ort-iki o «principe vegliardo», e altre figure analoghe dei
Hanty e
Mansi delle varie zone, nonché l'As-iki, il «vecchio dell'Ob'», venerato dai
Hanty alla confluenza tra l'Ob' e l'Irtyš. C'erano poi altre divinità locali
nelle zone dei fiumi Konda, Irtyš e Salym, del distrutto di Surgut, del Varjugan,
tra i Hanty settentrionali e i Mansi.
In Finlandia, l'analogo haltija è Ahti, già citato da Mikel
Agricola (Hämälaisten
ja Karjalaisten Jumalat); nel
Kalevala costui prende il nome di Ahto
ed è lo
spirito-guardiano delle acque, signore delle creature marine e di tutte le
ricchezze del mare, nonché regolatore delle attività dei pescatori. Vive con la
moglie, la benigna Vellamo, sul fondo del mare, nella dimora di
Ahtola, e da
loro discendono gli Ahtolaiset, che hanno dominio non solo sul mare, ma
anche su fiumi, laghi, sorgenti e cascate. Ma presso i Kareliani, ci informa
sempre Agricola, era conosciuta una Veden Emä, o «madre delle acque». Essa
veniva invocata quando si pescava poiché intrappolava i pesci nella rete, ma
anche perché portasse il bel tempo (Ganander 1789).
Anche in questo caso sono possibili confronti con analoghi personaggi del
folklore e dell'epica russa, dove sono arrivati per tramite uralico, finnico in
particolare. Il Vodjanoj, lo spirito russo
delle acque, presenta molti tratti caratteristici di questa classe di esseri, ed
è stato detto che i sïlïkïn saxa rassomiglino molto alle rusalki
russe (Di Nola 1970). Ma ciò che in questa
cavalcata attraverso l'Eurasia abbiamo appreso sugli spiriti guardiani, possiamo
anche applicarlo allo Car' Morskoj, il «re del
mare» della famosa bylina russa, che il mercante Sadko incanta con le melodie
suonate sulla sua gusli. La bylina si riferisce in realtà al lago
Il'men' nei pressi di Novgorod, una regione a forte prevalenza finnica; la
vicenda di Sadko ha certamente più di un rapporto con l'episodio in cui
Ahto
s'impadronisce del kantele di
Väinämöinen, caduto nei flutti del mare, e
lo trattiene a eterno diletto del suo popolo
(Kalevala
[42]). |
VI - MITOLOGIA DEL FULMINE E DEL TUONO Tuono e fulmine sono oggetto di una diffusa
mitologizzazione presso tutti i popoli altaici. Rappresentato via via come
potenza divina o come animale mitico, il fulmine viene fortemente temuto dagli
Altaici, i quali, tuttavia, raramente gli conferiscono i caratteri di una forza
maligna o demoniaca. Al contrario, tuono e fulmine sono un'epifania numinosa che
provoca eccezionali condizioni di sacralità nei luoghi, negli oggetti e nelle
persone colpite.
Nella Siberia settentrionale, come anche nel Nord-America, appare il motivo
dell'uccello-tuono. Il rimbombo del tuono si origina infatti dal battito delle
ali di questo uccello secondo gli Ǝvenk dello Enisej. Esso viene
rappresentato sopra una pertica presso la tenda in cui si compie una kamlanie,
in modo che lo sciamano possa utilizzarlo contro i suoi nemici nel corso del suo
viaggio estatico. Per i Nani/Oroči transbajkalici, anch'essi di lingua tungusica,
spirito del fulmine e del tuono è l'uccello Tamnïdira.
Presso alcuni popoli di lingua turcica, appare attestato un dio-tuono dal
carattere folgoratore. Presso i Saxa troviamo Sügä
Toyon, il «signore dall'ascia», detto anche il «carrettiere».
Straordinariamente simile al norreno
Þórr, il dio-tuono saxa perseguita gli spiriti
maligni, che al suo brontolio si nascondono negli alberi e tra le pietre. I
Teleuti dell'Altai hanno invece desunto dalla tradizione ortodossa la figura di
Il'ja
Gromovnik («Elia il
folgoratore»), il quale già in Russia aveva sostituito, nel culto, l'antico
dio-tuono
Perunŭ. Un'ulteriore
affinità tra queste classi di figure è forse attestata dal fatto che
Il'ja fosse rappresentato, presso i Teleuti, da
un'aquila, tradizionale uccello sacro alla tradizione indoeuropea del dio-tuono.
Tra i popoli di lingua mongolica, l'immagine del tuono è perlopiù desunto
dalle fonti cinesi: per i Mongoli, ad esempio, è un dragone cosmico che vaga tra
il cielo e il mare primordiale, provocando le tempeste. Tungusi orientali e
Nanai hanno credenze analoghe. Presso i Burjati, però, gli dèi del tuono
sono numerosi gli dèi del fulmine, poiché molti täŋri hanno tale potere
e si servono di fabbri che forniscono loro le saette. Infine, i Torɣūd – una
delle quattro tribù degli Ojrad – ritengono che il tuono sia prodotto da
Şulma, il diavolo, il quale, assunto aspetto di un
giovane cammello, entra nell'acqua dove crea le nuvole sbuffando denso vapore
fuori dalle sue froge e produce i tuoni e i fulmini digrignando i denti e spuntando
fuoco e scintille. A tale mito del cammello è connessa una leggenda che riguarda
il privilegio di immunità dal fulmine toccato all'oğuz torɣūto dei Merküt. Un
giorno il cammello-tuono cadde sulla terra, e un eroe Merküt riuscì a montargli
in groppa. Esso rimase tra le gobbe dell'animale per cinque giorni e cinque
notti, e lo liberà soltanto quando il cammello gli promise che non lo avrebbe
mai colpito con il fulmine se avesse gridato, nella tempesta, “Io sono Merküt!”.
Si noti che un oğuz dello stesso nome compare presso i Teleuti.
In ambito uralico, i Samoiedi orientali identificano il tuono con un'oca
selvatica, la quale provoca la pioggia con i suoi starnuti, oppure con un
uccello di ferro, che causa il rimbombo del tuono sbattendo le ali. I Nency (Samoiedi
occidentali) ritengono che tale oca sia uno spirito protettore degli sciamani.
Anche presso i Hanty di Tremjugan il tuono è un uccello
nero.
Le caratterizzazioni di tremendun numinoso che i popoli altaici
connettono ai fulmini e al tuono sono particolarmente evidenti nei comportamenti
rituali e nei tabù che riguardano luoghi e persone colpite. Il missionario
fiammingo Willem van Ruysbroeck (~1220-~1293), che visitò la Mongolia tra il
1253 e il 1254, riferisce quale atterrita reazione i Mongoli avessero dinanzi ai
fulmini: se scoppiava una tempesta, essi allontanavano dalle loro tende ogni
straniero, si coprivano con un panno nero e attendevano la fine dell'uragano
(Itinerarium fratris Willielmi de Rubruquis).
Così, sono attestati tentativi rituali di difendersi dai fulmini nel corso delle
tempeste: i Torɣūd percuotono un calderone, i Saxa gridano battendo tra
loro oggetti di ferro.
Se un uomo è colpito da un fulmine, diviene destinatario della potenza
teofanica che si è scatenata sulla terra e il suo cadavere è subito oggetto di
eccezionali cure, quasi vittima di un sacrificio scelto dal dio. I Calmucchi tentano prima di rianimare il fulminato con
aspersioni di acqua e, qualora il tentativo non riesca, lo pongono su una
piattaforma elevata su quattro pilastri, lo incensano con fumo di ginepro, lo
ricoprono con un feltro o un panno bianco. Il cadavere viene vegliato da uomini
armati nei tre giorni successivi, in modo da allontanare con grida lo spirito
del tuono, qualora questi – in forma di cammello acefalo, oppure di ombra –
torni per rapirlo. I parenti del fulminato sono soggetti a particolari tabù,
anche per diverse generazioni: non possono offrire a stranieri latte dolce o
acido, né teste di animali abbattuti durante la caccia; non possono consumare
teste di animali, né portarle fuori dalla loro tenda.
I Burjati di Balagansk costruiscono una speciale tenda sul luogo in cui un
uomo è stato fulminato; questa viene recintata da una barriera in modo che il
bestiame non possa più accedervi. Il cadavere viene incensato e vestito. Nove
giovani cantano presso di lui i canti funebri per tre giorni. Indi il corpo è
messo su un cavallo e portato in una foresta, dove è collocato su una
piattaforma sollevata tra i tronchi di due alberi. Su tale piattaforma si pone
il cibo per il defunto. Si noti che simili rituali vengono adottati anche per
gli animali colpiti dal fulmine.
Presso i Mongoli Xalxa nove uomini a cavallo, vestiti di bianco, girano
intorno alla tomba di un uomo fulminato, gridando. Se è un animale a essere
colpito, si evita di mangiarne la carne, a meno che non sia presente un membro
dalla stirpe dei Merküt. Solo accompagnati da un Merküt, infatti, ci si può
avvicinare all'animale per trarne le parti commestibili. In tal caso, però, il
Merküt ha diritto a esigere dal proprietario dell'animale colpito dal fulmine
uno speciale prezzo di riscatto: perlopiù un cammello bianco, ma all'occorrenza
due secchi di acquavite o un pezzo di montone. Infatti, è grazie a lui se il
fulmine ha colpito l'animale e non il suo padrone.
Sono anche attestate, in ambito altaico, offerte al fulmine. Gli Altai, ai
primi tuoni di primavera, spandono latte ai quattro punti cardinali. I Torɣūd di
Tarbaɣatai versano un secchio di latte al suolo e fanno tre volte il giro della
yurt. I Kïrgïz dell'Altai fanno urtare il secchio da latte contro la
tenda, lo depositano dinanzi alla porta e dicono: “Il vecchio anno se n'è
andato, il nuovo anno è venuto”, calcolando l'inizio dell'anno all'apparire
della prima tempesta. Altrove si provvede a un sacrificio animale. I Tatari di
Minusinsk offrivano al dio del tuono un cavallo bianco che, con particolari
preghiere, veniva liberato dalle briglie e lasciato libero, divenendo così
intangibile. Nel rito burjato, sul dorso del cavallo si poneva una scodella di
latte. Indi si versa latte sul cavallo e verso i quattro punti cardinali.
Infine, il cavallo, lasciato libero, è incensato e adornato con nastri.
Preghiere vengono recitate nel punto in cui cade la scodella di latte posta sul
dorso del cavallo. (Di Nola 1970 | Roux 1984) |
VII - MITOLOGIA DEL VENTO Interessanti culti e personificazioni,
nell'area altaica, riguardano anche l'atmosfera e il vento. Tra i popoli di
lingua tungusica, i Nanai e i Nani/Oroči conosco uno spirito del vento
detto Bučču, del quale fanno immagini per indurlo a
trattenere i venti pericolosi.
I Saxa conoscono l'hallorak iççitä, lo «spirito-guardiano del
turbine di vento», un genio turbinante che procurava danni a cose e persone.
Esso è forse da mettere in correlazione con Vichor,
lo spirito russo dei vortici, ben conosciuto alle skazki.
Tra i Burjati è attestato Zada Sagan Täŋri, lo
spirito-guardiano dello zada, ovvero di un particolare vento che porta la
pioggia e la neve, soprattutto in primavera e in autunno. Lo zada può
essere provocato con l'uso di una speciale radice, nota ai cacciatori. I Mongoli
credono che il vento può essere provocato da una particolare pietra, detta
ǰada, che a seconda delle tradizioni può essere nascosta tra le montagne,
oppure nella testa del cervo, di un uccello acquatico o di un serpente, o anche
nel ventre di un bue. Di essa si servono i cacciatori quando vogliono far cadere
la neve per meglio seguire le orme degli animali.
La medesima pietra magica ricompare con il nome di sata presso i Saxa,
mentre gli Altai la chiamano yada-taş, tutti nomi connessi all'iranico
yātu, persiano žādū «mago». |
BIBLIOGRAFIA
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BIBLIOGRAFIA ► |
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