I - ANALISI GENERALE DEL MITO COSMOGONICO
CONTENUTO NEL PRIMO RUNO DEL KALEVALA
È
difficile dare una valutazione del
Kalevala come fonte mitica. Il grande poema finnico è
essenzialmente una costruzione letteraria ottocentesca
compiuta da Elias Lönnrot a partire da materiale popolare che i
suoi interpreti avevano ormai cessato di comprendere da tempo. Come Lönnrot si premurò di informarci, egli aveva messo
insieme questi canti secondo il suo criterio, scegliendo le
versioni che più si adattavano a costruire un epos unitario e coerente. Detto questo, in questo libro
disordinato e fantasioso che è il
Kalevala, si trovano
incastonati elementi di un'antichità portentosa, forse
risalenti – ma non è facile datarli – a qualche remota
preistoria.
L'analisi di questi
miti è tuttavia molto difficile e dovrà procedere quasi
unicamente per via analogica. Poiché la trama generale
del
Kalevala
è stata
costruita a tavolino dal Lönnrot, ci impedisce di confrontare la struttura con quella di altri miti. È tuttavia probabile che gli episodi minori,
presi come elementi a sé stanti, abbiano un autentico valore mitico
e possano essere utilizzati con un profitto. Avendo tuttavia cura di isolarli correttamente dal resto della narrazione.
Dunque come considerare
il racconto di Ilmatar
e della folaga che le depose le uova sul ginocchio? Quanto vi
è di autenticamente originale in questo straordinario racconto
della creazione? Possiamo tentare di
separare i diversi motivi presenti nel mito cosmogonico narrato nel
primo runo del
Kalevala. Ad un'analisi
superficiale, già si scorgono mescolati due motivi principali:
Il motivo della dea
primordiale che scende dal cielo e, non trovando che
un'infinita distesa d'acqua, crea la terraferma.
Il motivo dell'uccello
che arriva volando al di sopra delle acque cosmiche e, non
trovando un luogo dove posarsi, dà l'avvio alla creazione.
Troviamo, fusi a
questi due miti principali, due altri motivi, qui utilizzati
accessoriamente: uno è il motivo del vento che mette incinta la vergine Ilmatar;
il secondo è quello dell'uovo cosmico dai cui frantumi nascono il
cielo e la terra. Cercheremo ora di analizzare separatamente
questi motivi mitici, di capirne le possibili origini e di
vedere come siano in relazione gli uni con gli altri. |
II
- LA DISCESA DI ILMATAR
La
figura – eterea, evanescente, bellissima – di Ilmatar
è già fonte di perplessità per il mitografo, in quanto il mito
cosmogonico finnico, riportato dal
Kalevala,
sembra non avere analogie con altri miti europei. I due nomi con
i quali la dea è conosciuta, Ilmatar e Luonnotar,
sono entrambi dei patronimici in -tar, come molti altri
di cui è ricco il
Kalevala.
Il loro significato è trasparente: «figlia dell'aria» e
«figlia della natura», essendo ilma e luonto
rispettivamente le parole finlandesi per «aria» e «natura». I
due nomi non indicano tuttavia una filiazione (quindi inutile
andare a cercare un dio *Ilma), quanto piuttosto
un'appartenenza. Questo ci permette di meglio definire il carattere di Ilmatar
a partire da questi due elementi, che in qualche modo ne
definiscono l'essenza.
Quale «figlia dell'aria», Ilmatar
è la prima personificazione che sorge dal caos
primordiale, in cui l'aria non
è tanto vista come semplice elemento, quanto come una sorta di definizione
naturalistica del caos. Non sarà inutile ricordare le
speculazioni dei filosofi presocratici che vedevano nell'aria
o nell'acqua il primordiale arché di tutte le cose.
Forse è anche possibile definire in questi termini
l'espressione «figlia della natura» [Luonnotar] (si
veda la funzione della natura nella creazione dal caos narrata
da Ovidio
in
Metamorfosi [I: 5-20]), in
quanto ella fu la prima delle
forme esistenti ad essersi districata dal fondo
caotico, scoprendosi d'un tratto come entità separata e distinta, assumendo così una propria forma e
identità. ①
È interessante notare
che il mito cosmogonico del
Kalevala
non inizia descrivendo lo stadio caotico, aereo,
sottile, che precede la nascita di Ilmatar,
ma prende l'avvio da Ilmatar
stessa, dal suo essersi già definita come entità. Con queste
parole, chiuso il proemio, prende l'avvio il mito cosmogonico:
Olipa
impi, ilman tyttö,
kave luonnotar
korea.
Piti viikoista pyhyyttä,
iän kaiken
impeyttä
ilman pitkillä pihoilla,
tasaisilla
tanterilla. |
Kave, la figlia dell'aria
Luonnotar, vergin leggiadra,
lungo tempo visse pura,
casta sempre si mantenne,
nei recinti ampi dell'aria
nella volta solitaria. |
Kalevala [I:
115-122] |
Questo procedimento è tipico
del linguaggio mitologico. Lo troviamo ad esempio in Esiodo
(Teogonia [116]),
in cui Cháos viene chiamato con questo
nome soltanto quando si verifica la nascita spontanea di
Gaîa,
Tártaros ed
Éros.
In Esiodo, come nel
Kalevala,
il caos primordiale non è
qualcosa da spiegare, è una situazione su
cui non è possibile dare dettagli e di cui,
anzi, si ha percezione soltanto quando
l'immobilità viene spezzata dalla rottura
operata dalla prima nascita. Così il mito cosmogonico del
Kalevala
inizia giustamente con Ilmatar
già presente, entità personale e individuale, «nei recinti
ampi dell'aria», «nella volta solitaria».
Il poema afferma che da «lungo tempo» essa galleggiava in
questo mondo sospeso. Quanto tempo non è detto, ma non ha
importanza. Il tempo è definito dal movimento e dal
cambiamento. E l'unico avvenimento che
si fosse operato nella coscienza di Ilmatar era stato,
paradossalmente, lo stesso sorgere di quella coscienza.
Finché Ilmatar
era confusa con l'aria circostante, ella non aveva
alcuna percezione di sé, riposava in una specie di torpida
incoscienza in cui il tempo e lo spazio non avevano alcuna importanza. Ma nel momento in cui Ilmatar
non è più semplicemente «aria» ma «figlia dell'aria», non è
più «natura» ma «figlia della natura», ha una sua
identità, una coscienza separata, e scopre di essere sola in
un abisso vacuo e rarefatto che non può offrirle né compagnia né
comunicazione. Ella si accorge, man mano che
prende coscienza di sé, della sua spaventosa solitudine. Ilmatar
è vergine nel senso più assoluto e totale del termine:
Ikävystyi
aikojansa,
ouostui elämätänsä,
aina yksin ollessansa,
impenä
eläessänsä
ilman pitkillä pihoilla,
avaroilla
autioilla. |
De' suoi giorni sentì noia,
sazietà della sua vita,
di star sempre sola sola
e di viver verginella
nei recinti ampi dell'aria
nella volta solitaria. |
Kalevala [I: 117-122] |
A questo punto Ilmatar si lascia calare in basso e
scendendo dalla volta solitaria dell'aria e del cielo, si
abbassa sulle acque di un oceano infinito. Anche qui ci
muoviamo in un ordine di idee che il mitografo conosce bene.
Il caos in configurazione acquea è presente in molte
tradizioni: lo ritroviamo in Mesopotamia e in Egitto, nel mito
omerico della creazione e nella Bibbia ②
(si confronti Genesi [I: 2],
«...e lo spirito di Dio aleggiava sopra le acque», con la
scena in cui Ilmatar
cala fluttuando sulla superficie del mare). In questo
contesto, il caos acqueo deriva però, come vedremo tra poco,
dal fondo comune della mitologia uralica e altaica.
Jop'
on astuiksen alemma,
laskeusi
lainehille,
meren selvälle selälle,
ulapalle
aukealle. |
E dal ciel discese in basso,
si calò fin sopra l'onde,
sopra il mar dal chiaro dorso,
sull'aperta superficie... |
Kalevala [I: 123-126] |
Il
mito di Ilmatar è
essenzialmente un mito di scoperta, di
conoscenza, di realizzazione. Che principia, per Ilmatar,
dalla presa di coscienza di sé stessa, per poi estendersi a
tutto il mondo circostante. Se
per «lungo tempo» l'esperienza di Ilmatar
era limitata a un'informe distesa aerea, in cui nulla era distinguibile da null'altro,
ecco che d'un tratto, nel
suo discendere, si definisce un secondo elemento, l'elemento
liquido. La prima cosa che
distinguiamo sono le onde: solo nel verso successivo si
chiarisce che quelle onde appartengono al mare. Vi è, nelle
parole del poema, un passaggio dal particolare all'universale,
come se il nuovo elemento liquido fosse stato definito a
partire da una sorta di intuizione creativa. La presa di coscienza
di Ilmatar diventa
in qualche modo creazione: il mare comincia ad esistere nel
momento stesso in cui Ilmatar
lo distingue dalla confusione caotica dell'aria.
Quanto affermiamo non è
soltanto una nostra interpretazione delle espressioni formali del
Kalevala,
in quanto il loro senso è chiarito dall'omologia con altri
miti. Ad esempio, nel mito cosmogonico egiziano, presente nei
Testi delle
piramidi, troviamo una creazione che procede
ugualmente per presa di coscienza, distinzione e processo dialettico. Qui l'immobilità
primordiale è spezzata dalla nascita del dio-sole
Atum il quale, nel riconoscersi
quale entità personale e individuale, opera il
passaggio alla dualità. Subito dopo Atum si
guarda intorno e scopre sé stesso distinto da una sorta di increato mare
primordiale, che a questo punto – ma solo a questo punto –
verrà chiamato nûn. Atum stesso aveva fatto parte del
nûn
fino a pochi istanti prima, eppure, paradossalmente, il nûn
non esiste davvero prima che
Atum non ne prenda coscienza
dall'esterno.
Anche
se la corrispondenza col mito egiziano non è perfetta, è
evidente che nel mito finnico avviene
qualcosa di simile. La primordiale volta d'aria da cui Ilmatar è scaturita altri non è
che l'equivalente di quello che nei
Testi delle
piramidi era il fondo caotico primordiale prima
dell'irrompere della dualità (e che solo in seguito sarà chiamato
nûn). Il mare in cui Ilmatar scende, è il
nûn
definito dopo la presa di coscienza da parte del soggetto. E Ilmatar è il soggetto
cosciente, colei il cui processo di coscienza diventa, in
questo modo, processo creativo.
La
«figlia dell'aria» è diventata ora la «madre delle acque». Il
termine è forse giustificato dal fatto che il testo ci dice
che il vento e l'acqua fecondano la vergine Ilmatar,
alla quale si ingrossa il ventre ma senza che ella riesca a
dare alla luce il figlio. Questo motivo sembra estraneo alla
linea principale del mito cosmogonico e lo esamineremo
separatamente. Sofferente per le doglie, Ilmatar
rimane per un tempo lunghissimo a galleggiare senza mèta sulla
superficie di questo mare infinito, sballottata dalle onde,
affranta dal freddo e dalla fatica. Tanto che ad un certo
punto ella si chiede se non avesse fatto meglio a rimanere
nell'aria (Kalevala
[I: 161-168]).
Il passaggio dall'aria all'acqua è comunque un passaggio dall'elemento aeriforme a
quello liquido, un primo passo
compiuto nella progressione del processo creativo. Il passo
successivo, il passaggio dall'elemento liquido a quello solido, per
cui dall'infinito abisso del mare sorgerà finalmente la
terraferma, Ilmatar lo
avvia volontariamente, in base ad una decisione improvvisa
(Kalevala
[I: 255-262]).
Ma
anche qui, Ilmatar non
crea terra e isole, rosse e alberi; almeno non nel
senso a cui ci ha abituato la speculazione biblica. È evidente
che non vi è un progetto alla base dell'opera creatrice di Ilmatar
ma, ancora una volta, una sorta di presa di coscienza. Il
processo è teleologico: Ilmatar
si limita a dare al mondo la forma che esso, in qualche modo,
già possedeva in potentia (in quanto, si potrebbe anche dire, compresa
nell'esperienza di coloro che crearono il mito). Prima di allora il mondo
era evidentemente celato nell'indistinto abisso acqueo del caos
primordiale: Ilmatar
si limita a liberarlo tracciandone i contorni e le forme con i
movimenti del suo corpo:
Kussa kättä käännähytti,
siihen niemet siivoeli;
kussa pohjasi jalalla,
kalahauat kaivaeli;
kussa ilman kuplistihe,
siihen syöverit syventi. |
Dove
la mano stendeva,
facea sorger promontori;
dove il piede suo premeva,
ecco buche per i pesci;
si tuffava, e più profondi
si scavavano gli abissi. |
Kylin maahan kääntelihe:
siihen sai sileät rannat;
jaloin maahan kääntelihe:
siihen loi lohiapajat;
pä'in päätyi maata vasten:
siihen laitteli lahelmat. |
Se
volgeva il fianco a terra,
si stendevano le sponde;
se voltava a terra il piede,
ecco fosse da salmoni;
se piegava il capo a terra,
s'allargavan tosto i golfi. |
Ui
siitä ulomma maasta,
seisattelihe
selälle:
luopi luotoja merehen,
kasvatti
salakaria
laivan laskemasijaksi,
merimiesten
pään menoksi. |
Nuotò
poi più là da terra,
si sdraiò del mar sul dorso,
d'isolette sparse il mare,
vi creò scogli nascosti
dove la nave sprofonda,
dove muore il marinaro. |
Kalevala [I: 263-280] |
Questo è un punto molto particolare. Ricordiamo che il
Kalevala
è il
poema in cui viene esaltato il potere della parola creatrice:
in molte occasioni, i maghi-eroi del
Kalevala,
primo tra tutti
Väinämöinen, ci mostrano come sia possibile creare,
evocare e trasformare cose e persone semplicemente
cantandole. È una delle caratteristiche più
significative del grande poema finnico, in relazione agli
epoi degli altri popoli europei, dove si privilegiano
invece la
forza e il valore guerrieri. Eppure, Ilmatar non crea il mondo cantandolo, bensì
lo evoca e lo plasma tramite gesti ed azioni. Fa sorgere i promontori
stendendo la mano, crea i fondali oceanici tuffandosi negli
abissi, crea le rive, gli estuari ed i golfi, con movimenti
dei fianchi, dei piedi e del capo.
Ci si può chiedere
perché Ilmatar non
evochi il mondo cantandolo, bensì evocandolo e
plasmandolo. Perché la sua
volontà venga applicata tramite l'azione e non – come
sembrerebbe più logico al lettore del
Kalevala
–
tramite la parola. Difficile da dirsi: forse
Ilmatar, essendo sempre vissuta sola tra il cielo e il
mare, non possedeva le parole necessarie per definire le cose.
Sia che ella dia una forma al mondo sia che, come sosteniamo,
la crei nel momento in cui ne prende coscienza, è comunque la
parola a individualizzare e definire le singole
cose. I maghi e gli stregoni del
Kalevala
sono in grado di dominare
le persone e le cose perché ne conoscono il nome e l'origine
(ad esempio
Väinämöinen deve cantare l'origine del ferro per poter
guarire la ferita di una spada). Ma non avendo le parole necessarie
per dominare le cose, Ilmatar
deve sostituirle con i gesti e le azioni: deve toccare con
mano, come un bambino che prenda per la
prima volta coscienza del mondo. In un certo senso, Ilmatar
deve diventare il mondo, in una sorta di
identificazione che le parole stesse del testo
contribuiscono ad accentuare, associando mani, piedi, fianchi,
testa, ai vari elementi del paesaggio: promontori, fondali
marini, coste, golfi.
Il
mito di Ilmatar è
stabilisce dunque una progressione dal cháos
al kósmos
attraverso alcuni livelli di progressiva condensazione degli
elementi, dapprima liberi e sottili, poi pian piano sempre più
definiti e ordinati. Il testo del
Kalevala
passa
abilmente da una situazione primordiale fatta soltanto d'aria, una sorta di foschia leggerissima che
tutto pervade e nel quale nulla sia
distinguibile, ad un fluttuare di
onde si riveleranno essere le creste di un mare infinito, e da
questo mare, alla creazione della terraferma, i cui primi elementi
a comparire – e non è un caso – sono proprio quelli
di transizione tra l'acqua e la terra: coste, estuari, golfi,
isole, come se l'elemento solido si formi attraverso una
condensazione di quello liquido, e solo poi si parlerà di
pietre, rupi e solchi.
Secondo il linguaggio simbolico del mito, il passaggio
dall'aereo al liquido, e dal liquido al solido, non va inteso
come un semplice mutamento di nello stato di
aggregazione della materia ma, soprattutto, come progressione
metafisica: è il passaggio dal sottile al grossolano, dallo
spirito alla materia, dalla potenza all'atto. Non si tratta
dunque – come potrebbe parere alla nostra mentalità – di una «costruzione» progressiva degli
elementi del mondo, bensì di una meditata e profonda
interrogazione sulla natura della realtà, sulla relazione tra
realtà concettuale e materiale.
Robert
Graves, ne I miti greci, cita un mito
pelasgico che sembra riecheggiare la cosmogonia del
Kalevala. La dea
Eurinómē
che compare nel caos e danza nuda sulle onde del mare, per poi
essere fecondata dal vento, ricorda fin dal nome (Eurinómē
vuol dire «vagante in ampi spazi»)
l'Ilmatar finnica. Il
guaio è che questo presunto «mito pelasgico» è, né più né
meno, un'invenzione di Graves. L'autore lo ha costruito a
tavolino partendo dalle cosmogonie orfiche citate da Ferecide
di Samo ed Apollonio Rodio. In realtà non vi sono indicazioni
che possano permetterci di ricondurre il mito di
Ilmatar all'antica
sapienza preellenica. |
|
|
Lo scrittore J.R.R. Tolkien fu un
grande estimatore del
Kalevala,
al punto di creare una delle sue lingue
elfiche proprio a partire della fonetica
finlandese. Il racconto cosmogonico con cui
apre il Silmarillion è, nello spirito,
profondamente finnico; non solo esempio è evidente
che il tolkieniano Ilúvatar riecheggia nel nome
l'Ilmatar
finlandese. La creazione del mondo a partire
dal canto degli Ainur è infatti un'idea
prelevata di peso dal
Kalevala,
in cui gli stregoni creano o trasformano
le cose cantandole. Tuttavia
nel
Kalevala,
questa idea non viene riferita al motivo
della creazione. |
|
|
III - L'UCCELLO CREATORE
All'interno del mito
cosmogonico di Ilmatar
(Kalevala
[I: 103-280])
è incastonato un secondo mito della creazione, secondo cui
l'universo sarebbe invece venuto dai frantumi dall'uovo
deposto da una folaga o da un'anatra che volava al di sopra
delle acque (Kalevala
[I:
177-244]).
Nel racconto del
Kalevala,
la folaga si sarebbe posata sul ginocchio di Ilmatar
e lì avrebbe costruito il suo nido e deposto sette uova che,
rompendosi, si trasformano nel cielo e nella terra, nel sole e
nella luna, nelle nuvole e nelle stelle.
L'impressione – probabilmente corretta – è che il motivo di Ilmatar
e quello dell'uccello siano due miti diversi
finiti col sovrapporsi nel racconto del
Kalevala.
Difficile dire se la fusione sia stata operata dal Lönnrot o
se fosse già presente nei canti da lui raccolti,
tuttavia è preferibile considerare i due racconti
separatamente.
Kului aikoa vähäisen,
pirahteli pikkaraisen.
Tuli sotka, suora lintu;
lenteä lekuttelevi
etsien pesän sijoa,
asuinmaata arvaellen. |
Poco tempo era passato,
un momento sol trascorso;
volò dritta un'anatrella,
una folaga leggiadra:
e cercava un posto al nido
ed un posto ove fermarsi. |
Lenti iät, lenti lännet,
lenti luotehet, etelät.
Ei löyä tiloa tuota,
paikkoa pahintakana,
kuhun laatisi pesänsä,
ottaisi olosijansa. |
Volò a oriente, ad occidente,
a maestrale, a mezzogiorno:
non trovò luogo nessuno;
non un posto dei peggiori
dove il nido fabbricare,
dove un poco riposare. |
Kalevala [I: 177-188] |
Diciamo subito che la creazione della terra da una distesa
infinita di acque è un mitologema diffuso in tutta la fascia
euroasiatico-settentrionale. Su questa base troviamo una serie di modelli
di creazione, di cui il più diffuso – e recente – è quello che
prevede l'azione di due princìpi contrapposti, generalmente
definiti come «dio» e il «diavolo», in conflitto con loro
nella maggior parte di casi, altre volte cooperanti.
Ad esempio, nella
leggenda degli Jacuti, Ürüŋ Ay Toyon,
il «Bianco signore creatore», mentre avanza sopra le acque,
vede emergerne una bolla, le chiede chi sia e, dalla risposta,
apprende che essa è il diavolo, dimorante nella terra già
esistente ma sommersa negli abissi. Dio sfida il diavolo a
dimostrargli la verità di quanto afferma e lo invita a
immergersi ed a portargli un poco della terra. Il
diavolo risale con un po' di fango in bocca. Dio prende quel
fango, lo assottiglia e lo pone sulle acque, creando così la
terraferma. Il diavolo tenta allora di distruggere l'opera del
creatore tirando la terra per farla sempre più sottile e
provocare l'annegamento di Dio. Ma la terra diventa sempre più
solida e copre una buona parte della superficie del mare.
Si tratta di un tema
mitico che, arricchito di molti motivi locali e di
caratterizzazioni autoctone, si ritrova diffuso tra molti
popoli della Siberia: non solo tra gli Jacuti, ma anche tra i
Buriati, i Tatari, i Tungusi. L'origine del mito è ancora
dibattuta: si è parlato di componenti iranico-zǝrvanistiche
trasmesse attraverso il Manicheismo e di sètte gnostiche
siriaco-armene, di una qualche componente dualistica diffusa
dal Bogomilismo, o anche di una più antica influenza nestoriana.
Si tratta, come si vede, di correnti relativamente recenti, in
cui si avverte molto forte l'azione religiosa dei coloni russi stanziati
nel territorio siberiano.
In alcuni popoli,
tuttavia, questa leggenda della creazione mostra un curioso
motivo dove il «diavolo» è presentato in forma di
uccello. Presso gli stessi Jacuti, ad esempio, è presente una
variante del mito sopra descritto dove il diavolo, per
riuscire a trasportare la terra dal fondo del mare, si
trasforma in una rondine. In una leggenda diffusa nell'Altai,
vediamo Dio e il diavolo volare sul mare primordiale in forma
di oche nere, dopodiché il diavolo si immerge nelle acque e
riporta a Dio del fango, con il quale Dio crea la terraferma.
Presso i Mansi (Voguli), la creatura incaricata di immergersi è
parimenti un diavolo con aspetto di uccello.
Sembra evidente che il tema dell'uccello sia il più arcaico e
quello del confronto tra «dio» e il «diavolo» una più tarda
rappresentazione di derivazione manicheo-cristiana. Infatti,
presso molti popoli, non vi è più alcun conflitto dualistico e
l'uccello è invece l'aiutante del creatore. Presso gli Jenisseiani, il potente sciamano
Doh
volava sulle acque primordiali con cigni, pettirossi, smerghi
e altri uccelli acquatici; poiché non vi era terra dove essi
potessero posarsi, il pettirosso si immerse e portò del fango
col quale lo sciamano creò un'isola. Nella leggenda dei Tatari
Lebedini, un cigno bianco è inviato da dio a cercare la terra.
Un pettirosso tuffatore bianco ha la stessa funzione presso i
Buriati. I Buriati di Balagansk dicono che
Sombol-Burxan incontrò sulle
acque un uccello con i suoi dodici piccoli; ordinò all'uccello
di portargli la terra nera nel becco e il fango rosso con le
zampe e, ricevutili, creò la terra, per poi benedire l'uccello
e i suoi discendenti. Per gli Jacuti settentrionali, la Madre
di Dio, avendo deciso di creare la terra, fa nascere il
pettirosso tuffatore e l'anatra selvatica; entrambi gli
uccelli si tuffano per prendere dal fondo del mare il fango
occorrente per la creazione: l'anatra vi riesce ma il
pettirosso no.
D'altronde troviamo il mito dell'uccello creatore diffuso
anche ad est, tra i Čukči, dove esso è un corvo, fino alle
latitudini settentrionali del Nord America, in cui il corvo
ricompare nella medesima funzione presso gli Eschimesi.
Ritornando dunque al
Kalevala,
è evidente che la presenza della folaga che si posa sul
ginocchio di Ilmatar
arriva a noi dal livello più antico del mito cosmogonico
uraloaltaico. Difficile dire come si sia evoluto il mito, se
le figure di Ilmatar e
della folaga derivino da una medesima tradizione (magari
analoga a quella degli Jacuti, dove la terra viene creata
dalla collaborazione di due uccelli con una figura femminile,
qui chiamata la Madre di Dio) o se siano venuti a combinarsi in epoca
recente e, se così è, difficile dire quanto recente.
|
IV
- IL VENTO E L'UOVO
Il racconto cosmogonico del Kalevala,
dunque, si compone dell'intersezione di due miti differenti
che sono venuti a interlacciarsi in epoca non ben definibile:
il motivo
di Ilmatar e quello
della folaga, ciascuno dei quali è ulteriormente composto da
ulteriori sotto-motivi che, crediamo, vadano analizzati insieme.
Ci viene detto infatti
che, non appena Ilmatar,
vissuta da sempre sola e vergine, toccò la superficie delle
acque, il vento e l'acqua la fecondarono. Settecento anni
(nove vite di eroi) durò la gravidanza della Figlia dell'Aria,
ma senza che ella, pur prostrata dalle doglie, riuscisse a
dare alla luce quel figlio che portava nel ventre:
Tuuli
neittä tuuitteli,
aalto impeä ajeli
ympäri selän sinisen,
lakkipäien
lainehien:
tuuli tuuli kohtuiseksi,
meri paksuksi panevi. |
Cullò il vento la fanciulla,
spinse l'onda la donzella
sopra il mar dal dorso azzurro,
sopra i flutti spumeggianti:
fu dal vento fecondata,
fu dal mare ingravidata. |
Kantoi
kohtua kovoa,
vatsantäyttä vaikeata
vuotta seitsemän satoa,
yheksän
yrön ikeä;
eikä synny syntyminen,
luovu
luomatoin sikiö. |
Portò quella il grave peso,
la penosa gravidanza,
la portò settecent'anni,
per ben nove età d'eroi:
né nasceva ancor quel germe,
increato, dal suo seno. |
Kalevala [I: 131-142] |
Il motivo del vento
fecondante è ben conosciuto al linguaggio del mito. È lo stesso spirito divino, il
biblico rûḥ,
è quel vento che in Genesi
[I: 2] aleggia sulle acque
dell'abisso (non diversamente dalla nostra
Ilmatar che scende dal cielo per fondersi con la
superficie del mare), è quello stesso alito di
vita che, insufflato nelle narici di una statua di fango,
lo rende uomo. Ed è infine quello stesso spiritus sanctus
che permetterà alla vergine Maria
di concepire suo figlio.
Ma
torniamo al racconto del
Kalevala,
ad Ilmatar che giace
abbandonata sulla superficie del mare, incapace di dare alla
luce quel figlio che le gonfia il ventre. Mentre
Ilmatar galleggia tra le onde, arriva la folaga e fa il
nido sopra il ginocchio di lei. L'uccello depone sei uova
d'oro ed uno di ferro. Ma Ilmatar,
non resistendo al calore della cova, scuote il ginocchio, le
uova cadono in mare, si rompono, e da quei frammenti nascono
il cielo e la terra, il sole e la luna, le nuvole e le stelle:
Ei munat mutahan joua,
siepalehet
veen sekahan.
Muuttuivat murut hyviksi,
kappalehet kaunoisiksi:
munasen alainen puoli
alaiseksi
maaemäksi,
munasen yläinen puoli
yläiseksi
taivahaksi...
yläpuoli ruskeaista
päivöseksi
paistamahan,
yläpuoli valkeaista,
se kuuksi
kumottamahan;
mi munassa kirjavaista,
ne tähiksi
taivahalle,
mi munassa mustukaista,
nepä ilman
pilvilöiksi. |
Non si persero nel fango,
non spariron dentro l'acqua:
preser nuova, bella forma
quei frantumi, quei pezzetti:
la metà del guscio sotto
diventò la madre terra:
l'altro mezzo guscio sopra
si mutò nel firmamento...
quel che c'era sopra, giallo,
brillò in cielo come sole:
quel che bianco c'era sopra
diventò luna splendente;
quel che c'era di screziato
brillò in cielo come stelle:
quel che l'uovo avea di scuro
diventò nube nell'aria. |
Kalevala [I: 229-244] |
Solo in seguito, dopo
aver portato a termine la creazione della terraferma,
Ilmatar darà alla luce quel figlio che da ben settecento anni
portava nel ventre, e questi sarà
Väinämöinen,
l'eterno cantore (Kalevala
[I: 281-288]).
Come si vede, la
sovrapposizione dei motivi è ancora più complessa. Vi sono almeno due miti di
creazione che si mescolano nel racconto cosmogonico del
Kalevala,
tra cui quello di Ilmatar
e quello della folaga. Viene detto che
Ilmatar crea la terraferma, mentre alla folaga viene
attribuita la cova di quell'uovo cosmico da cui nasceranno il
cielo e la terra.
Il mitologema dell'uovo
cosmico (chiara connotazione
di nucleo iniziale che racchiude in sé, in fase
di potenza, ciò che deve ancora manifestarsi) lo troviamo parimenti attestato in alcune zone
dell'area uraloaltaica, ad esempio presso i Mongoli, dove il
mito è filtrato con ogni probabilità dalla Cina e dall'India.
La versione che troviamo nel Nihongi
giapponese, con la rottura del guscio e gli elementi leggeri
che salgono e quelli pesanti che scendono, può essere
agevolmente messa in correlazione con il mito finnico. Tale
mitologema può inoltre essere fatto risalire
sia alle speculazioni orfiche e, parallelamente, in Egitto,
alla teologia tebana.
Questo motivo dell'uovo
cosmico è dunque un mito di creazione indipendente, che nel
racconto del
Kalevala è venuto a sovrapporsi al racconto dove è
Ilmatar a foggiare la terraferma. Parallelamente, tale
motivo è stato probabilmente associato alla folaga per
ragioni di ordine esteriore (sono gli uccelli a deporre le
uova) ma in origine doveva esserne indipendente. Come abbiamo
mostrato, alla base della presenza della folaga vi era
invece un racconto cosmogonico di matrice subartica,
affatto diverso, dove all'uccello veniva attribuita
la raccolta di terra e fango su cui poi il dio creatore
avrebbe costruito la terraferma.
Dunque, a nostro
avviso, il motivo dell'uovo cosmico va separato dalla presenza
della folaga e va forse messo in correlazione con la gravidanza
di Ilmatar. A favore della nostra ipotesi vi sono una serie di
antichi miti da cui è possibile trarre una serie di
interessanti paralleli. Nel mito orfico, ad esempio, si narra
di come Nýx,
la notte dalle nere ali, fosse amata dal vento e depose un uovo
d'argento nel grembo dell'oscurità; da quell'uovo sarebbe poi
nato Érōs,
anche detto Phánēs, che avrebbe
messo in moto l'universo. Questo mito è da mettere in
correlazione con le cosmogonie fenice citata da Filone di
Biblo e da Damascio, sull'Aria e l'Etere che, fecondate dal
vento, avrebbero dato origine all'Uovo Cosmico, da cui sarebbe
venuto l'universo. Quest'Aria e quest'Etere non possono che
non ricordare
Ilmatar, la
Figlia dell'Aria, a sua volta fecondata dal vento e
dall'acqua. |
V - STRATIFICAZIONE DI MOTIVI NEL MITO
COSMOGONICO DEL KALEVALA
Per concludere, nel
mito di creazione presente nel primo runo del
Kalevala
sembrano
confluire diverse tradizioni, per lo più tipiche dell'area
uraloaltaica, anche se la loro origine più remota può essere
fatta risalire a molti luoghi e tempi diversi. Osserviamo
dunque:
-
La creazione della
terra è vista come un progressivo processo di aggregazione che
passa dall'aeriforme, al liquido, al solido.
-
La condizione
immediatamente
preesistente alla formazione della terraferma è rappresentata
come un caos liquido. Questo motivo è tipicamente diffuso nell'area uraloaltaica, anche se lo ritroviamo in altre
tradizioni antiche (in Egitto, in Mesopotamia, nella Bibbia,
nel mito omerico della creazione).
-
La presenza di Ilmatar,
la figlia dell'aria, sembra essere un unicum del
Kalevala, non trovando riscontri
in altre cosmogonie. Si potrebbe pensare alla «Madre
di Dio» del mito cosmogonico degli Jacuti, che crea la
terraferma con l'ausilio di un'anatra e di un pettirosso.
-
L'origine della
terraferma, che nei miti uraloaltaici è spiegata come un
'impresa di recupero di una materia già esistente sul fondo
dell'oceano primordiale, nel
Kalevala
assume un aspetto più astratto: Ilmatar
crea la terraferma liberandola dal caos acqueo grazie ai suoi
movimenti, che le permettono di applicare una sorta di
identificazione attiva con il mondo.
-
La presenza
dell'uccello creatore, che nel
Kalevala
è una folaga o un'anatra, appartiene invece
al più antico strato mitico uraloaltaico, in cui a un uccello
è deputato il compito di prelevare dal fondo del mare la terra
o il fango che verranno impiegati per creare la terraferma.
-
La compresenza di Ilmatar
e della folaga è probabilmente dovuto alla sovrapposizione di
due separati temi mitici, ma non si può escludere che alla
base possa esserci il motivo della cooperazione tra il dio
creatore e un uccello acquatico, di cui troviamo esempi in
tutta l'area uraloaltaica, anche se altrove interpretato in
chiave dualistica.
-
Il motivo dell'uovo
cosmico, dalla cui frammentazione si originano il cielo e la
terra, diffuso presso i Mongoli, è a sua volta un residuo
di concezioni indiane e cinesi. Ma può essere messo in
correlazione con le cosmogonie orfiche e fenice.
Difficile dire quale possa
essere stato il mito originale da cui è derivata la splendida
cosmogonia del
Kalevala. Vi troviamo fusi alcuni motivi di diversa
provenienza. Nel mito più arcaico, di origine uraloaltaica,
assistevamo probabilmente all'arrivo di una folaga o a
un'anatra che, al comando di un dio creatore, gli recava della
terra e del fango dal fondo del mare, con la quale il dio
avrebbe creato la terraferma. Forse, come risulta in alcune
tradizioni della Jacuzia, il creatore era una dea. Questo non
possiamo saperlo.
Questo mito arcaico si
è poi fuso a un mito di diversa origine. Quello di una dea
dell'aria che, fecondata dal vento, deponeva un uovo; poi
l'uovo si rompeva e nasceva l'universo. Quando i due miti si
confusero, forse il loro significato originale andò
dimenticato e vennero reinterpretati. Allora si disse che fu
la folaga a generare l'uovo e allo strano motivo della
gravidanza di Ilmatar
fu associato quello della nascita di
Väinämöinen, che
però rimane una nascita anomala, non ben inquadrabile
nell'economia di un racconto mitico, ché il vecchio cantore
viene alla luce in un mondo che, desolato all'inizio, troviamo
subito dopo già abitato e decadente.
Quanta parte ebbe Elias
Lönnrot in queste rielaborazioni e in questi aggiustamenti? Fu
lui a operare la fusione dei due miti? Li trovò in forma
corrotta e cercò di mettervi delle toppe? O già la fusione
risale ai cantori da cui egli trasse i versi del
Kalevala? Non lo sappiamo ma, in rispetto agli strani
processi mitogenetici, ci rifacciamo all'alto magistero all'ultimo cantore e
Lönnrot è colui che ha, una volta per tutte, fissato il mito
nazionale di Finlandia. |
Bibliografia
- LÖNNROT Elias, Kalevala, 1849.
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BIBLIOGRAFIA ► |
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