I - PROMĒTHEÚS. UN MITO PER L'OCCIDENTE
Non è
esagerato affermare che il racconto di Promētheús
sia uno dei miti più importanti che la Grecia ci abbia trasmesso: il
racconto del titán incatenato per aver portato il fuoco agli uomini ha
alimentato nel corso dei secoli il pensiero, l'arte, la filosofia,
la politica e la letteratura dell'Occidente, divenendo uno dei temi più rappresentativi della cultura europea. Idealizzato, attualizzato,
rielaborato, il simbolismo di Promētheús si è
rivelato pressoché inesauribile, ed è vivo e vegeto ancora ai giorni nostri.
Queste rende paradossalmente più difficile andare alle origini del
personaggio, cercare di analizzare il mito nelle sue fonti classiche...
fonti che sono poi, ancora una volta, rielaborazioni letterarie di un racconto ancora più antico. Il Promētheús di
Hēsíodos non è lo stesso Promētheús
di
Aiskhýlos, per quanto l'uno e l'altro rielaborino un comune materiale mitico,
ciascuno secondo i suoi scopi letterari. Altri dettagli sono aggiunti da molti
altri autori, ma Hēsíodos ed
Aiskhýlos rimangono le due fonti principali: sicuramente quelle più affidabili
per un'attenta analisi del mito prometeico.
Abbiamo parlato altrove del Promētheús demiurgo,
creatore degli uomini ①. In questa pagina ci soffermiamo al cuore del racconto, o
per lo meno al suo episodio più famoso: il furto del fuoco, o piuttosto, la sua
riconquista. Esso è costituito da quattro momenti distinti:
- Il sacrificio di Mēkṓnē. Promētheús stabilisce
le parti nei sacrifici cercando di ingannare Zeús.
- Il sequestro del fuoco. Zeús, infuriato
che
agli uomini sia rimasta la parte migliore, cessa di elargire loro il fuoco.
- La riconquista del fuoco. Promētheús ruba il
fuoco agli dèi e lo restituisce ai mortali.
- L'incatenamento. Per punizione,
Promētheús viene incatenato a una rupe, nel Caucaso.
Questo mito prometeico – da noi distinto in quattro temi – è a sua volta
parte di un ciclo più ampio, ed è inseparabile da un complesso mitico più vasto,
di cui il racconto di Pandṓra
ne costituisce il seguito e la conclusione. Questo «ciclo di Promētheús
e Pandṓra», visto nel suo insieme, stabilisce i
presupposti della conditione humaine, così come noi la conosciamo: ci
spiega com'è stato che l'uomo, inizialmente sospeso in una felice esistenza
pre-temporale, ha dovuto assoggettarsi alla fatica del lavoro, allo scopo di
procurarsi il cibo, alla gravosa necessità di convivere con la propria
controparte femminile per perpetuarsi. Ma tratteremo in seguito del ciclo nel
suo complesso: ci preme ora focalizzare la nostra attenzione su Promētheús. |
II - SEQUESTRO E RICONQUISTA DEL FUOCO Il racconto del
sequestro del fuoco da parte di Zeús, e della sua
riconquista a opera di Promētheús, è un mito della
conoscenza, o più tecnicamente, un racconto eziologico che rivela le origini di
una conquista culturale – l'uso del fuoco, o più precisamente, la tecnica della
sua accensione e conservazione, – sentita importantissima per il progresso del
genere umano.
La vendetta di Zeús nei confronti di Promētheús,
a causa dell'inganno perpetrato a Mēkṓnē, è infatti privare i mortali del fuoco.
Il racconto è riferito da
Hēsíodos in entrambe le sue opere. In una di esse è
piuttosto laconico: «Per questo [Zeús]
procurò ai mortali tristi affanni: nascose loro il fuoco»
(Érga kaì
Hēmérai [49-5]); nell'altra rivela però dettagli
piuttosto interessanti:
...ek toútou dḕ épeita dólou memnēménos aieì ouk edídou melíēısi pyròs ménos akamátoio thnētoîs anthrṓpois, hoì epì
khthonì naietáousin. |
...e da quel giorno, sempre memore della frode, [Zeús] negò
ai frassini la forza del fuoco indomabile agli uomini mortali che hanno dimora sulla terra. |
Hēsíodos:
Theogonía [562-564] |
Dunque, in quella lontana epoca antidiluviana, gli uomini
alimentavano i loro focolari con le fiamme che ardevano sugli alberi, allorché
Zeús li colpiva con le sue folgori. Gli uomini
raccoglievano direttamente il fuoco celeste, ma non erano in grado di
accenderlo con mezzi tecnici; né evidentemente erano in grado di mantenere il fuoco acceso,
visto che, nel momento in cui Zeús smise di far cadere i suoi fulmini, l'umanità
si ritrovò sprovvista di ogni sorgente ignea e incapace di accendere anche la
più piccola e rudimentale fiammella.
Come e dove Promētheús abbia rubato il fuoco è
taciuto dalla maggior parte delle fonti, che paiono dare i particolari
per scontati.
Hēsíodos si limita a citare
l'avvenuto furto, sottolineando piuttosto il dettaglio che il fuoco venne
portato ai mortali dentro una canna di nartece. L'episodio è narrato in meno di
tre versi sia nelle
Érga kaì Hēmérai [5-52] che nella
Theogonía [565-56], e quasi con le
medesime parole:
Allá min exapátēsen eùs páis Iapetoîo
klépsas akamátoio pyròs tēléskopon augḕn en koḯlōı nárthēki... |
Ma il prode figlio di Iapetós
lo ingannò
e rubò il bagliore lungisplendente del fuoco indomabile
e lo mise in una cava ferula di nartece... |
Hēsíodos:
Theogonía [565-567] |
Pittoreschi dettagli dell'episodio sono riferiti nella tarda versione di Hyginus,
il quale razionalizza sia le ragioni dell'inganno di Promētheús,
attribuendole al fatto che gli uomini non potevano permettersi di fare sacrifici
visto l'elevato costo degli animali da abbattere sugli altari, e sia il tema del sequestro del fuoco da parte di Zeús
con argomentazioni che chiameremmo di propaganda politica, e afferma che Promētheús
si sarebbe recato di nascosto sulla cima dell'Ólympos, per giungere al
«fuoco di Zeús»:
Iuppiter cum
factum rescisset, animo permoto mortalibus
eripuit ignem, ne Promethei gratia plus
deorum potestate valeret, neve carnis usus
utilis hominibus videretur, cum coqui non
posset. Prometheus autem consuetus insidiari,
sua opera ereptum mortalibus ignem
restituere cogitabat. Itaque ceteris remotis,
devenit ad Iovis ignem; quo deminuto et in
ferulam coniecto, laetus, ut volare non
currere videretur [?] ferulam iactans, ne
spiritus interclusus vaporibus extingueret
in angustia lumen. Itaque homines adhuc
plerumque, qui laetitiae fiunt nuntii,
celerrime veniunt. Praeterea in certatione
ludorum cursoribus instituerunt ex Promethei
similitudine, ut currerent lampadem
iactantes. |
Quando Zeús venne a sapere l'accaduto, adirato,
tolse il fuoco ai mortali, perché i meriti di Promētheús
non prevalessero sul potere divino e il consumo della carne sembrasse
loro inutile, dato che non poteva essere cotta. Promētheús,
abituato agli inganni, si studiava di restituire ai mortali il fuoco di cui
erano stati privati per sua colpa. Così, dopo avere eluso tutti gli altri,
giunse sino al fuoco di Zeús, lo smorzò e lo
nascose in una canna; felice al punto che sembrava volare più che correre,
agitava la canna per evitare che la scintilla chiusa dentro venisse soffocata
dal fumo. Ecco il motivo per cui quando un uomo porta una notizia felice cammina
più velocemente che può. Inoltre, nei giochi si usa far correre gli atleti,
sull'esempio di Promētheús, tenendo in mano
una fiaccola. |
Hyginus Astronomus:
De
Astronomia [II: 15, 2] |
Rimane, in quel Iovis ignis, un sospetto di
contraddizione, in quanto Zeús dominava piuttosto
i fulmini. Il «fuoco di Zeús» erano dunque le
folgori? Hyginus non entra in dettagli. Aggiunge però che dall'episodio di Promētheús
che corre via con il fuoco nascosto in una canna sarebbe derivato il rito olimpionico dei dadofori
(De
Astronomia [II: 15, 2]).
Poetica, sebbene di poca sostanza, la versione riferita da Servius nel suo commento alla
sesta egloga di Virgilius (Carmina Bucolica [VI:
42]), dove si dice che Promētheús abbia
raggiunto il sole e abbia acceso la sua fiaccola sulla ruota solare.
Meno conservata, ma più insistente, e convincente, una versione alternativa, nella quale Promētheús
si sarebbe invece recato a Lḗmnos, l'isola dove Hḗphaistos
aveva la sua fucina, e proprio lì abbia rubato il fuoco. Lo apprendiamo di
sfuggita in
Aiskhýlos, dalle
parole che Krátos, uno dei due esecutori della
condanna ordinata da
Zeús, rivolge
ad Hḗphaistos per esortarlo a incatenare il
titán alla roccia.
Hḗphaiste, soì dè khrḕ mélein epistolàs
hás soi patḕr epheîto, tónde pròs pétrais
hypsēlokrḗmnois tòn leōrgòn okhmásai
adamantínōn desmn en arrhḗktois pédais.
tò sòn gàr ánthos, pantékhnou pyròs sélas,
thnētoîsi klépsas ṓpasen. |
Krátos: «[...] Ora, è tua cura ciò che il padre
impone,
Hḗphaistos: ora avvincerai
il colpevole
a queste rocce ardue sull'abisso
con catene più dure del diamante.
La luce artefice di tutto, il fuoco,
il fiore tuo, egli lo ha rubato
e ne ha fatto partecipi i mortali.» |
Aiskhýlos:
Promētheús
desmṓtēs [3-8] |
E poiché Hḗphaistos è riluttante ad assumersi
il ruolo di carnefice, Krátos insiste:
Eîhen, tí mélleis kaì katoiktízēi mátēn?
tí tòn theoîs ékhthiston ou stygeîs theón,
hóstis tò sòn thnētoîsi proúdōken géras? |
Krátos: «Perché indugi? Hai pietà per nulla?
Non odi un dio che gli dèi maledicono,
che ai mortali donò il tuo privilegio?» |
Aiskhýlos:
Promētheús
desmṓtēs [36-38] |
Per due volte
Aiskhýlos precisa, in termini
molto chiari, che Promētheús rubò
il fuoco ad
Hḗphaistos, del quale costituiva il «fiore» [ánthos]
e il «privilegio» [géras]. Il motivo ritorna in
Loukianós Samosateús, dove
Hḗphaistos accusa
Promētheús: «Tu mi rubasti il fuoco e mi
lasciasti fredda la fucina» (Promētheús
ē Kaúkasos [5]). Allo stesso furto si riferisce probabilmente anche
Marcus Tullius Cicero quando parla del «furto Lemnio» [furtum Lemnium],
pur senza fornire altre precisazioni (Tuscolanae [XI: 10,
23]).
Premesso tutto questo, possiamo contestualizzare l'apologo in forma di mito
che
Plátōn riporta nel suo
Prōtagóras, dove il furto del fuoco viene compiuto per
permettere all'umanità, appena creata, nuda e inerme, di sopravvivere:
|
Promētheús, allora, trovandosi in difficoltà circa
il mezzo di conservazione che potesse trovare per l'uomo, ruba ad
Hḗphaistos e ad Athēnâ
la loro sapienza tecnica, insieme al fuoco, perché senza il fuoco era
impossibile acquisirla o utilizzarla, e così ne fa dono all'uomo. Grazie ad essa
l'uomo possedeva la sapienza necessaria a sopravvivere, ma gli mancava ancora la
sapienza politica, perché questa era in mano a Zeús. Promētheús
non aveva più accesso all'acropoli, dimora di Zeús;
per di più c'erano anche le terribili guardie di Zeús.
Egli allora si introduce furtivamente nell'officina che
Athēnâ ed Hḗphaistos avevano in comune, in
cui essi lavoravano insieme e, rubata l'arte del fuoco di
Hḗphaistos e quell'altra arte che apparteneva ad
Athēnâ, le dona all'uomo: di qui vennero all'uomo i mezzi per vivere. Ma
in seguito, come si racconta, Promētheús
[...] venne punito per quel furto. |
Plátōn:
Prōtagóras
[321c-322a] |
Ma
Plátōn non è una attendibile fonte mitologica. È un
filosofo, e non si fa scrupolo di reinventare i
racconti mitici per i suoi scopi espositivi. Bisogna dunque prendere il suo
racconto cum grano salis. Affiorano tuttavia alcuni interessanti motivi,
prima di tutto la conferma che il furto di
Promētheús
sarebbe stato compiuto ai danni di Hḗphaistos.
Plátōn dà anche una spiegazione sul perché Promētheús
si sia rivolto al fuoco ipoctonio e non a quello celeste: l'Ólympos
era sorvegliato dagli inflessibili guardiani
di Zeús (Krátos e
Bía). Il motivo del furtum Lemnium –
qui ribadito con forza – presenta però alcuni interessanti addentellati.
Ricapitoliamo. Inizialmente, gli uomini utilizzavano il fuoco celeste, inviato
da Zeús sulla terra attraverso le folgori. Allorché
l'invio di fulmini viene sospeso, è necessario rivolgersi a un'altra fonte
ignea, e questa è rappresentata dal fuoco ipoctonio: le fiamme che ardono
all'interno della terra. Promētheús attinge
appunto ad esse,
raccogliendole dalla fucina di Hḗphaistos.
Ma
Plátōn esplicita anche un altro dettaglio:
possedere il fuoco non basta. Bisogna che gli uomini imparino ad accenderlo: ecco perché, insieme al fuoco, bisogna insegnare loro la tekhnḗ.
Il furto diviene doppio: del fuoco (da
Hḗphaistos), e della tecnica di accensione (da
Athēnâ).
In quanto al modo di conservare e
trasportare il fuoco, le fonti insistono sul motivo della ferula di
nartece: una tecnica antichissima,
ancora in uso nelle isole Egee nel
xviii o
xix secolo.
Diódōros Sikeliṓtēs, che accenna di sfuggita all'episodio del furto, si sofferma
a spiegare che l'uso di trasportare il fuoco in una canna era stato inventato
dallo stesso Promētheús
(Bibliothḗkē Historikḗ [V: 67,
1]).
In questo modo, Promētheús
si assicura che gli uomini non rimarranno più senza il «bagliore lungisplendente del fuoco indefesso»
(Theogonía [566]). |
III - IL TEMA DELL'INCATENAMENTO In punizione del suo furto, per aver dato il fuoco ai
mortali, Promētheús viene incatenato alle vette del
Caucaso. È la parte più importante del mito, ma anche quella più delicata,
soprattutto per la nostra difficoltà a far combaciare i testi.
Hēsíodos, come al solito, è piuttosto avaro di
dettagli. Afferma che Promētheús venne
legato a una colonna, con lacci indissolubili, e direttamente da
Zeús.
Dse d' alyktopédēısi Promēthéa poikilóboulon desmoîs argaléoisi méson dia kíon' elássas... |
Egli legò con inestricabili lacci Promētheús
mente sottile, con legami tremendi, spingendo una colonna nel mezzo... |
Hēsíodos:
Theogonía [521-522] |
L'espressione méson
dia kíon’ elássas è piuttosto
problematica. Si è voluto vedere Promētheús
impalato, il corpo trafitto longitudinalmente da un palo, sebbene un tale supplizio renderebbe inutili le corde.
L'interpretazione più semplice è che
Promētheús sia stato legato a una colonna,
così come del resto compare in molte figurazione d'epoca greca. In quanto al
luogo del supplizio, Hēsíodos
non lo rivela.
È
Aiskhýlos a introdurre la
visione, in seguito diventa «canonica», di Promētheús
incatenato direttamente alle
rocce. Nel suo dramma, sono
Krátos e Bía, il
«potere» e la «forza», le due guardie del corpo di Zeús,
a trascinare Promētheús nel luogo del
supplizio, indicato qui come «l'estrema plaga della terra,
la Scizia solitaria, inaccessibile» [khthonòs mèn es tēlouròn hḗkomen pédon,
Skýthēn es hoîmon, ábroton eis erēmían]
(Promētheús
desmṓtēs [1-2]).
Che il Caucaso fosse considerato una vetta della Scizia, lo testimonia
Apollódōros
(Bibliothḗkē
[I: 7]). Che fosse anche
questa la concezione di
Aiskhýlos, lo
apprendiamo da un'annotazione di
Marcus Tullius Cicero, il quale, traducendo in latino una ventina di
versi della perduta tragedia
Promētheús
luómenos, riporta un
passo dove si dice che
Promētheús venne appunto incatenato sulla vetta
del monte Caucaso (Tusculanae
[II: 23]).
In
Aiskhýlos, l'operazione
di incatenamento viene compiuta da Hḗphaistos,
insostituibile tecnico esperto in lavori metallici. Il dio-fabbro si presenta
piuttosto riluttante a obbedire all'ordine di Zeús,
e la pietà traspare più volte dai suoi gesti e dalle sue parole, ma non può
disobbedire al comando che gli è stato ingiunto, e del resto
Krátos e
Bía lo esortano, con i loro modi spietati,
a imprigionare il titán. Hḗphaistos
esegue, soffrendo egli stesso. Gli attacca morsi di ferro ai polsi e alle
caviglie, e questi vengono fissati alla roccia; un cuneo di ferro dinanzi al
petto, un altro a mo' di cintura.
L'incatenamento di Promētheús
viene descritto nei dettagli, in un passo dialogato di grande forza
drammaturgica:
Hḗphaistos: «kaì dḕ prókheira psália dérkesthai pára.
Krátos: «balṓn nin amphì
khersìn enkrateî sthénei
rhaistri theîne, passáleue pròs pétrais.»
Hḗphaistos: «peraínetai dḕ kou matâi toúrgon tóde.»
Krátos: «árasse mâllon, sphínge, mēdami
khála.
deinòs gàr heureîn kax amēkhánōn póron.»
Hḗphaistos: «áraren hḗde g' ōlénē dyseklýtōs.»
Krátos: «kaì tḗnde nŷn pórpason asphals, hína
máthēi sophistḕs ṑn Diòs nōthésteros.»
Hḗphaistos: «plḕn toûd' àn oudeìs endíkōs mémpsaitó moi.»
Krátos: «adamantínou nŷn sphēnòs authádē gnáthon
stérnōn diampàx passáleu' errhōménōs.»
Hḗphaistos: «aiaî, Promētheû, sn hýper sténō pónōn.»
Krátos: «sỳ d' aû katokneîs tn Diós t' ekhthrn hýper
sténeis? hópōs mḕ sautòn oiktieîs pote.»
Hḗphaistos: «horâis théama dysthéaton ómmasin.»
Krátos: «hor kyroûnta tónde tn epaxíōn.
all' amphì pleuraîs maskhalistras bále.»
Hḗphaistos: «drân taût' anánkē, mēdèn enkéleu' ágan.»
Krátos: « mḕn keleúsō kapithōýxō ge prós.
khṓrei kátō, skélē dè kírkōson bíāi.»
Hḗphaistos: «kaì dḕ pépraktai toúrgon ou makri pónōi.
Krátos: «errhōménōs nŷn theîne diatórous pédas.
hōs houpitimētḗs ge tn érgōn barýs.»
Hḗphaistos: «hómoia morphi glssá sou gērýetai.»
Krátos: «sỳ malthakízou, tḕn d' emḕn authadían
orgs te trakhytta mḕ 'píplēssé moi.»
Hḗphaistos: «steíkhōmen. hōs kṓloisin amphíblēstr' ékhei.» |
Hḗphaistos: «Ecco, li guardi il padre, il
morso è pronto.»
Krátos: «Mettili ai polsi e batti con il maglio
con grande forza, inchiodalo alla rupe.»
Hḗphaistos: «E l'opera si compie. E non si perde.
Krátos: «Picchia più forte, chiudi, stringi bene.
È terribile, scopre l'impossibile.»
Hḗphaistos: «Un braccio è già fissato. Non si libera.»
Krátos: «Aggancia duro anche l'altro braccio.
Impari, il savio, che è più tardo di Zeús.»
Hḗphaistos: «Nessuno può rimproverarmi: se non lui.»
Krátos: «E il cuneo di ferro, una mascella splendida,
inchioda forte, fissala sul petto.»
Hḗphaistos: «Promētheús, quanta
pena al tuo patire!»
Krátos: «Esiti ancora? Soffri per chi è nemico di Zeús?
Che tu non debba avere pietà per te, un giorno.»
Hḗphaistos: «È visione di orrore a questi occhi.»
Krátos: «Visione di una sorte meritata.
Via, applica ai suoi fianchi la cintura.»
Hḗphaistos: «Farlo si deve: dunque, perché ordini?»
Krátos: «Ordinerò, aizzerò ancora. Càlati,
inanella le gambe con la forza.»
Hḗphaistos: «Fatto. Non era fatica lunga.»
Krátos: «Ora ribatti i ceppi in ogni foro:
il giudice dell'opera è severo.»
Hḗphaistos: «Somiglia al tuo aspetto il tuo parlare.»
Krátos: «E sii tu mite, ma non mi accusare,
per l'ira o la superbia o la durezza.»
Hḗphaistos: «Andiamo. È imprigionato membro a membro.» |
Aiskhýlos:
Promētheús
desmṓtēs [54-81] |
Poche aggiunte vengono compiute dagli autori successivi. Secondo Apollódōros, Hḗphaistos,
su ordine di Zeús,
inchiodò il corpo di
Promētheús alle rocce del monte Caucaso (Bibliothḗkē
[I: 7]). In
Loukianós, sono Herms
e
Hḗphaistos a condurre
Promētheús
al suo luogo di tortura, e Hḗphaistos
appare molto meno pietoso che
in
Aiskhýlos
(Promētheús
ē Kaúkasos [5]).
Anche
Apollṓnios Rhódios situa il «banchetto dell'aquila» sulle
cime occidentali del Caucaso e descrive il volo del rapace in versi che si
suppone siano ispirati a una delle perdute tragedie di
Aiskhýlos. Il poeta sapeva
bene che la nave Argṓ,
già in vista della costa della Colchide, si avvicinava al luogo del supplizio di Promētheús,
e descrive il supplizio del titán dal punto di vista di
Iásōn e degli uomini del suo equipaggio:
|
E già ai naviganti appariva il seno segreto del Póntos
e si levavano le cime impervie dei monti del Kaúkasos,
là dove, le membra inchiodate dalle catene di bronzo
all'aspra roccia, Promētheús nutriva col proprio
fegato l'aquila,
che sempre e sempre tornava a scagliarsi contro di lui.
La videro, a sera, volare vicino alle nuvole,
con uno stridore acuto, alta sopra la nave,
eppure sconvolse tutte le vele col battito delle sue ali,
perché non aveva natura d'uccello del cielo,
ma muoveva le ali simili a remi politi.
Poco dopo udirono anche la voce, il lamento
del titán straziato nel fegato; dei suoi gemiti
risuonava l'aria, finché di nuovo dal monte
videro l'aquila ingorda scagliarsi allo stesso bersaglio. |
Apollṓnios Rhódios: Tá Argonautiká [II: 1251-1259] |
|
IV -
L'AQUILA, AETÓS KAUKASÍOS Ultimo elemento della tremenda tortura messa in atto da
Zeús nei confronti di Promētheús,
è appunto l'aquila [Aetós Kaukasíos] che ogni giorno
scende a divorargli il fegato. Dettaglio aggiuntivo, che unisce crudeltà alla
crudeltà, il tremendo rapace è presente già in Hēsíodos:
...kaí hoi ep' aietòn rse tanýpteron; autar hó g' hpar ḗsthien athánaton, tò d' aéxeto îson hapántē nyktós, hóson própan
mar édoi tanysípteros órnis.
|
...e sopra gli avventò un'aquila dalle ampie ali,
che gli sbranava il fegato immortale, ma questo ricresceva
la notte, quanto il giorno ne aveva sbranato l'uccello dalle ampie ali. |
Hēsíodos:
Theogonía [523-525] |
La tortura dell'aquila diviene
ancor più cruenta nelle parole che Aiskhýlos mette in bocca ad
Herms:
Diòs dé soi
ptēnòs kýōn, daphoinòs aietós, lábrōs
diartamḗsei sṓmatos méga rhákos,
áklētos hérpōn daitaleùs panḗmeros,
kelainóbrōton d' hpar ekthoinḗsetai.
toioûde mókhthou térma mḗ ti prosdóka... |
Herms: «[...] Il cane di Zeús, il cane
alato,
l'aquila fulva come il sangue, avida,
straccerà il grande straccio del tuo corpo;
verrà senza richiamo, silenziosa,
a dilaniarti tutto il lungo giorno,
a cibarsi del tuo fegato nero,
e questa pena non avrà mai fine...» |
Aiskhýlos:
Promētheús
desmṓtēs [1021-1026] |
Ogni giorno l'aquila gli strappa con il becco brandelli di
fegato dal ventre; ogni notte, il corpo immortale del titán rigenera la
parte divorata. Instancabile, e altrettanto immortale, l'aquila torna ogni
giorno per ripetere la sua eterna tortura.
|
Promētheús (?) e l'Aetós Kaukasíos (✍
560-550 a.C.) |
Kylix laconico, attribuito al Pittore di Naucrati
Musée du Louvre, Parigi (Francia) |
L’interpretazione di quest'immagine è duplice, poiché
nell’uomo seduto di fronte al quale sta planando un’aquila, si
può vedere Zeús col suo animale sacro o Promētheús pochi
istanti prima dell’attacco dell'Aetós Kaukasíos.
Entrambe le versioni sono attendibili in quanto l’uomo si
presenta con un abito regale, e acconciatura e barba sono
quelle con cui tipicamente vengono rappresentati gli dèi.
D’altra parte di questo uomo non si vedono le braccia, motivo
per cui potrebbero essere legate. |
Riguardo a quest'aquila, i mitografi si sono sbizzarriti. Secondo
Apollódōros, il rapace era figlio di Typhn
ed
Ékhidna (Bibliothḗkē
[II: 10]): dunque rampollo di una delle più tremende progenie di
mostri della mitologia greca. Typhn, mostro
ctonio dalle cento teste di serpente, e la «lacrimosa»
Ékhidna, metà donna e metà
serpente, erano infatti genitori di
Órthros, Kérberos,
della
Lernaía Hýdra, della
Chímaira e, sembra, anche del serpente Ládōn. Non si trattava dunque di un essere appartenente alla
classe degli uccelli: e del
resto lo avevamo visto scuotere l'intera nave Argṓ
con il battito delle sue poderose ali, le cui penne erano ampie come remi
(Tá Argonautiká
[II: 1251-1259]).
Riguardo alla paternità di questo uccello, Hyginus riporta tre tradizioni
diverse: secondo
alcuni, l'aquila era figlia di Typhn ed
Ékhidna, secondo altri di Tártaros e
G,
ma secondo i più, dice Hyginus, si trattava di una creatura
artificiale: era stata infatti fabbricata da
Hḗphaistos e
Zeús le aveva dato la vita al
preciso
scopo di torturare Promētheús
(De Astronomia [II:
15: 3]). Sempre Hyginus fornisce
altrove il presunto nome dell'aquila: Aeton, la «fulva», in realtà una trasparente latinizzazione del greco aetós «aquila», e afferma divorasse
il cuore – e non il fegato – di Promētheús
(Fabulae [31]).
Che nel mito greco l'animale torturatore assuma l'aspetto di
un'aquila è una scelta quasi ovvia, visto che l'aquila era l'animale sacro a
Zeús. Questi rapaci fungevano da ausiliari del re
degli dèi e da esecutori della sua volontà. Nel mito di
Promētheús,
l'aquila diviene una proiezione dello stesso Zeús,
o comunque del suo spirito di giustizia o di vendetta.
|
V - PROMĒTHEÚS E IL
PRAMANTHA
Sulla scolta dei primi studi indoeuropeistici, molti studiosi si premurarono di
cercare tracce di Promētheús nella mitologia
indiana e non tardarono a trovare, nella sterminata letteratura sanscrita, una
coppia di fratelli chiamati Manthu e
Pramanthu. Robert Graves li presentò come dei prototipi
di Epimētheús e Promētheús,
seguìto da altri studiosi. Senonché i due nomi compaiono in un'unica
fonte, che è una semplice genealogia:
madhoḥ sumanasi vīravratas |
Nel grembo di Sumanā, Madhu
generò Vīravrata. |
tato bhojāyāṁ
manthu-pramanthū jajñāte |
Nel grembo di Bhoja,
Vīravrata generò Manthu e
Pramanthu. |
manthoḥ satyāyāṁ bhauvanas |
Nel grembo di Satyā, Manthu
generò Bhauvana... |
Śrīmad Bhāgavatam [V: 15:
14-15] |
Ma non c'è davvero nulla che permetta di collegare questi
Manthu e Pramanthu ai
nostri Epimētheús e Promētheús,
se non una vaga rassomiglianza dei nomi e un rapporto di fratellanza.
Sebbene la pista si rivelasse poco fruttuosa, gli indologi non tardarono
a notare che, in sanscrito, pramantha è il nome dell'asticella verticale
del trapano da fuoco che, sfregata contro un'esca, permette di accendere una
fiamma. L'immagine di Promētheús che porta il
fuoco, rubato agli dèi, nel cavo di una canna, assumeva d'un tratto nuovi
significati.
Più che interpretare un'etimologia, bisognava in realtà spiegare
un'assonanza. E ad aumentare la confusione, contribuiva il vasto numero di
possibili impieghi delle radice manth-,
legata al movimento rotatorio alternato. La parola manthana significa
peraltro «frullatura», indicando l'operazione di produzione del burro in una
zangola; in uno scenario mitico, il termine rimanda all'Amṛtamanthana,
la frullatura dell'oceano di latte dalla quale era stata prodotta l'amṛta,
la bevanda d'immortalità degli dèi indiani, di cui abbiamo parlato in proposito
della titanomachia. Il verbo manth/math significa «mescolare, agitare,
strofinare, suscitare, affliggere», ma anche «produrre fuoco per frizione»; da
cui pramath, «colpire, strappare, trascinare via».
Nella seconda metà dell'Ottocento, il filologo Adalbert Kuhn (1812-1881),
iniziatore di una scuola di studi mitologici basati sulla filologia comparativa,
ipotizzò che proprio dal verbo sanscrito ma(n)thati, nel significato di
«predare», si fosse sviluppato il greco manthánō, «imparare», visto come
istruzione compiuta appropriandosi del sapere altrui. Il nome di Promētheús
si sarebbe formato, secondo Kuhn, da una polisemia tra le parole sanscrite
pramātha, «rapina», e pramantha, «asticella del trapano da fuoco»
(Kuhn 1886). Sebbene assai criticata dai classicisti, questa ipotesi ebbe
vita lunga, tanto che, settant'anni dopo, nel suo lessico antico-indiano, l'indologo
Manfred Mayrhofer trovava «credibile» il collegamento tra il sanscrito
pra-math- (nel significato di «predare») e il greco Promētheús,
dorico Promatheús (Mayrhofer 1956). Anche
Robert Graves non si fece scrupolo di derivare direttamente il greco dal
sanscrito e scrisse che il nome di Promētheús
«ebbe forse origine da un'errata interpretazione greca della parola sanscrita
pramantha, indicante la svastica o fiaccola che, si dice, Promētheús
avrebbe inventato» (Graves 1955).
L'ipotesi è stata ripresa in tempi recenti da Giorgio de Santillana ed Hertha
von Dechend nel loro monumentale Hamlet's Mill. Sebbene criticando gli
eccessi etimologici degli indoeuropeisti, i due studiosi analizzano la figura di
Promētheús e il suo mito di furto e ri-accensione
del fuoco in termini astronomici (De Santillana ~ Von
Dechend 1969). Il loro studio, per molti versi imprescindibile, è
tuttavia lontano dai nostri scopi. |
VI - UNO SGUARDO NEL CAUCASO Che gli antichi Elleni collocassero il supplizio di Promētheús
tra le più aspre vette del Caucaso non era certamente dovuto a un semplice
gusto di esotismo, sebbene non si possa celare – nella sua fase più antica – una
sorta di intuizione cosmologica, visto che il Caucaso era considerato il più
remoto lembo orientale del mondo conosciuto. Scrive
Strábōn:
|
I Greci hanno chiamato questi monti Caucaso, pur se distano dall'India più di
tremila stadi. Lì si svolge il racconto mitico di Promētheús
e del suo incatenamento: ma questo perché, allora, il Caucaso era l'estremo
limite orientale conosciuto! |
Strábōn: Geōgraphiká [XI,
5, 5] |
Eppure, questo paese lontanissimo, la Colchide (greco Kolkhís, georgiano Kʻolxeṫi),
meta degli Argonaûtai nella loro
leggendaria spedizione alla ricerca del vello d'oro, era ben noto al mondo egeo,
con il quale aveva stretto una fitta rete di traffici già dalla prima metà del
Primo Millennio a.C. Intorno al VII sec.
a.C. i mercanti milesi avevano stabilito i primi emporia commerciali
sulla costa del Mar Nero, poi divenuti vere e proprie colonie. Vi furono dunque intensi scambi culturali tra il Caucaso e la Grecia, per
quanto sia difficile stabilirne entità e direzioni.
Ciò che è certo è che, già
nell'antichità, un'intera tradizione affermava
che il mito di Promētheús provenisse proprio dal
Caucaso.
Lucius Flavius Arrianus (±95-±175), che esplorò il Ponto Eusino intorno al
130, annota che, presso Dioskouriás, nella Colchide, gli fu indicato il monte dove, secondo le tradizioni locali, era stato incatenato Promētheús:
«Ci mostrarono un cima del Caucaso, chiamata Strobil, sulla quale, come
dicono i miti, Promētheús era stato
incatenato da Hḗphaistos, per comando di
Zeús» (Periplus Ponti
Euxini [II, 5]). Secondo Doûris di Samo (±340-±270 a.C.), a sua volta citato
dallo scoliaste di
Apollṓnios Rhódios, il personaggio di Promētheús
era così popolare presso gli abitanti del Caucaso occidentale, che essi si
rifiutavano di praticare il culto di Zeús
e di Athēnâ, ritenuti responsabili del suo
supplizio, ma celebravano invece Hērakls, suo liberatore. Il sofista Phlávios Philóstratos (170/172-247/250)
riporta tutta una serie di interessanti indicazioni a proposito delle leggende
locali legate a un personaggio incatenato sulle vette del Caucaso:
|
Riguardo a queste montagne circolano tra i barbari le stesse tradizioni dei
poeti greci, che cioè vi era stato incatenato Promētheús,
per la sua filantropia, e che Hērakls, non avendo
sopportato tale cosa, uccise con una freccia l'uccello che dilaniava le viscere
di Promētheús. Secondo gli uni, egli era
incatenato in una caverna sul fianco della montagna, che viene ancora indicata.
Dámis dice addirittura che nella roccia sono ancora infisse le sue catene, la
cui grandezza è inimmaginabile. Secondo altri, [Promētheús
era incatenato] sulla vetta di una certa montagna: questo monte ha due cime che
distano tra loro più di uno stadio, e si dice che egli era incatenato con una
mano a una e con l'altra all'altra, tanto era smisurato! Quanto all'aquila, gli
abitanti del Caucaso la considerano nemica e dànno fuoco, per mezzo di frecce
incendiarie, ai nidi da essa costruiti sulle rocce e le tendono insidie,
spiegando questo modo d'agire col desiderio di vendicare Promētheús:
questo mostra fino a che punto essi sono convinti della verità della tradizione. |
Phlávios Philóstratos:
De vita Apollonii Tyanensis [II, 3] |
Difficile dire quanto siano effettivamente «caucasiche» le notizie riferite da Doûris, Philóstratos e Arrianus,
e se non siano state piuttosto colorate a tinte elleniche. Dioskouriás,
l'attuale Soxumi in Abxasia, era una colonia greca: i racconti riferiti dagli
autoctoni ai
viaggiatori e mercanti greci avevano avuto tutto il tempo di ispirare,
influenzare e fondersi con i miti ellenici.
Ma a ritrovare la figura di Promētheús
tra le inviolate vette del Caucaso, a duemila anni di distanza, furono proprio i
folkloristi russi e georgiani, i quali, tra la fine del XIX secolo e l'inizio
del XX raccolsero, presso diversi popoli caucasici, una mutrita serie di
leggende popolari incentrate su un titanico guerriero incatenato sulla cima di
una montagna per aver sfidato la collera del dio supremo. Il suo nome è
Amirani presso Georgiani e Svaneti,
Abrysk’yl presso gli Abxasi,
Teʒau
presso i Circassi Adǝgė, Nesren presso i
Circassi Cabardini, sebbene siano registrate anche altre lezioni. Il suo ciclo
ha avuto il suo massimo sviluppo in Georgia dove è stato raccolto in quasi
duecento varianti, e ancora oggi sembra vivo e produttivo. La data recente di
queste raccolte non deve trarre in inganno: la storia dell'eroe incatenato è
infatti molto antica. La troviamo attestata in un romanzo medievale, l'Amiran-Dareǯaniani, di Mose
Xoneli (✍ XII sec.), opera giudicata tuttavia troppo letteraria e distante dalla
materia orale per essere di qualche utilità per il mitologo. Una versione ancora
più antica è
contenuta nella
Hayoc‘ Patmowt‘yown, la «Storia della Grande
Armenia» di Movsēs
Xorenac‘i (✍ IV sec.?). ①
|
Amirani, con spada e fiaccola |
Marneuli (Georgia) |
A rendere noto in Occidente questo ciclo di leggende ha pensato soprattutto lo studioso
franco-georgiano Georges Charachidzé (Giorgi Šarašiʒe, 1930-2010), nel suo
magistrale studio, Prométhée ou le Caucase (Charachidzé
1986). Secondo il «mito di riferimento» utilizzato da Charachidzé per la
sua analisi, Amirani è
concepito in tre notti dagli amori melusiniani di un cacciatore
e della dea
Dali, protettrice della selvaggina cornuta. Questa,
sorpresa dalla moglie del suo amante, deve allontanarsi dal mondo. Ma prima di
andarsene, costringe l'uomo a squarciarle il ventre, ed egli ne estrae un
bambino prematuro, la cui gestazione sarà portata a termine successivamente nel
ventre di un torello e di una giumenta. Esposto presso una sorgente, il bimbo
viene «battezzato» da un vecchio, il quale non è altri che
Morige Ḡmerṫi, il dio supremo degli antichi Cartveli. Il padrino gli conferisce, oltre al nome,
anche capacità sovrumane. Poi un contadino lo raccoglie e lo alleva
con i suoi due figli Badri e
Usip‘.
Divenuti adolescenti, Amirani, Badri e
Usip‘ lasciano la propria abitazione e si avviano
verso una serie di imprese eroiche. Lasciatisi ben presto alle spalle i due
fratelli, troppo «umani» al confronto delle proprie capacità, Amirani
si batte contro avversari soprannaturali sempre più potenti. Sconfigge dapprima
un dev tricefalo, Baq‘baq‘, quindi i tre
serpenti [vešapʻebi] che fuoriescono dalle sue tre teste: il terzo
lo ingoia ed Amirani deve strapparsi dal suo ventre
ed emergere dal mondo sotterraneo. Dopo di che rapisce Q‘amar,
figlia del re dei dèmoni-fabbri
aǯebi, per farne la propria sposa, ma deve combattere
contro il padre di lei e tutta l'armata demoniaca. Ucciso, quindi riportato in
vita, Amirani prosegue un'esistenza solitaria ed
errabonda, combattendo contro ogni possibile avversario e uscendo sempre vincitore. Ha un
momento di défaillance quando non riesce a sollevare la gamba del defunto
gigante Ambri Arabi, ma il dio
Morige Ḡmerṫi gli accorda una forza supplementare, pur
sapendo che l'eroe non ne avrebbe fatto buon uso. Una biografia guerriera,
dunque, che abbiamo qui riassunto in pochi tratti (per i dettagli rimandiamo il
lettore al nostro studio apposito ②), estranea al complesso prometeico: si
tratta infatti di un complesso mitico di origine indo-iranica, di cui troviamo
elementi nella lotta tra Θraētaona e
Aži Dahāka. ③
Arrivato al culmine delle proprie forze, sterminati tutti gli avversari, Amirani
si ritrova senza nessuno con cui battersi. Il mondo è divenuto un deserto. Sfida
allora il suo padrino,
Morige Ḡmerṫi. Il dio supremo rifiuta
la lotta, ma gli impone una sfida: di sradicare il bastone che egli pianterà al
suolo. Amirani accetta. Il dio pianta il bastone al
suolo, ma l'eroe riesce a sradicarlo per due volte. La terza volta, il bastone
mette radici talmente profonde che Amirani non
riesce nemmeno a smuoverlo. È allora che
Ḡmerṫi, per punirlo della sua tracotanza,
incatena Amirani al bastone, ormai divenuto un
inamovibile palo di ferro
(Č‘ič‘inaʒe 1896). Molte sono le varianti registrate riguardo al motivo della punizione di
Amirani. In in un caso,
Amirani viene sfidato a sollevare una pietra, ma
non riesce neppure a smuoverla e rimane con le mani attaccate alla pietra
(Čʻikʻovani 1947). Diverse varianti specificano che
il dio non incatena personalmente Amirani, ma manda dei aǯebi, i quali lo assicurano al
palo.
Il castigo, però, non è ancora terminato. Dio scuote le montagne e fa
cadere su Amirani
la cima dell'odierno monte Qazbegi (o lo Ialbuzi/Ėlbrus, nelle versioni
occidentali). L'eroe si ritrova così ricoperto da un'immensa cupola di roccia,
che lo isola
completamente dal mondo. Come compagno di prigione, ha il cane alato Q‘urša,
figlio di un'aquila. Il cane lecca giorno e notte una maglia della catena,
assottigliandola sempre di più. Ma all'alba del lunedì
di Pasqua, nel momento in cui la catena sta per cedere all'usura e
Amirani è sul punto di essere liberato, i fabbri di
tutta l'umanità entrano nella fucina e, nel più assoluto silenzio, percuotono a
tre riprese l'incudine o plasmano un piccolo oggetto simbolico. Immediatamente,
le catene di Amirani riprendono la loro
saldezza, l'eroe rimane prigioniero e il cane alato ricomincia il suo lavoro,
fino all'anno successivo.
È impossibile riportare nei dettagli tutti gli addentellati della splendida
ricerca di Charachidzé, e d'altra parte ci interessano qui soltanto le
relazioni con la figura di Promētheús. Tra Promētheús e
Amirani vi è infatti un'incolmabile differenza di carattere: il titán
greco è caratterizzato dalla sua intelligenza, laddove gli eroi caucasici sono
presentati come guerrieri. A tale differenza fa da contraltare, simmetricamente,
il fatto che Promētheús
non è mai un guerriero. Anzi, rifiuta con decisione l'uso sistematico della violenza
propugnato dai Titânes, per mettere la sua astuzia dalla
parte di Zeús. Il campione caucasico, al contrario,
sembra del tutto ignaro della possibilità di utilizzare strategie più complesse
della semplice applicazione di un impeto superiore a quello del nemico. Quando si
trova di fronte ad avversari più potenti di lui,
Amirani risolve imparando nuove tecniche di
combattimento o chiede al dio supremo una forza supplementare che lo aiuti a
superare l'ostacolo. Più significativo, in questa sede, è il modo in cui
i due
personaggi esplicano le loro facoltà. Promētheús
eccelle in intelligenza, tanto che può permettersi
di gareggiare in scaltrezza con lo stesso Zeús. Nel
Caucaso, Amirani è il più forte guerriero
del mondo: ha
sconfitto ogni possibile nemico, umano o diabolico, tanto che
non vi è più, sulla Terra, un avversario che possa sostenere il suo impeto: è a
questo punto che, nella sua sicurezza e tracotanza, Amirani arriva a sfidare il dio supremo.
Dunque, seppure diversi nella natura delle loro capacità,
Promētheús ed Amirani sono presentati come coloro
che hanno elevato le loro capacità – rispettivamente
intellettuali e guerriere – al massimo grado concepibile. Il dettaglio, come
giustamente nota Charachidzé, è connaturato agli schemi ideologici delle due
aree culturali, la Grecia e il Caucaso. Un campione che disputi su livelli
diversi dal valore guerriero sarebbe stato del tutto inconcepibile tra i
montanari della Georgia e dell'Abxasia. La sfida che
Amirani lancia al dio supremo è un invito a battersi; e la risposta del dio prende sempre la forma
di una sfida fisica, sebbene opponga poi una resistenza ontologica.
(Charachidzé 1986¹)
④
I popoli caucasici sembrano ignorare il tema della riconquista del
fuoco, cosa che ha indotto molti studiosi a ricercarne presunte tracce nel ciclo
amiranico. Ad esempio, si è voluto interpretare il personaggio di
Q‘amar, figlia del re dei
aǯebi, come una figura solare, e quindi il suo rapimento da parte di
Amirani avrebbe rappresentato un equivalente metaforico del furto del fuoco
(Nucubiʒe 1960). Analogamente, il folklorista Mixeil Čʻikʻovani afferma di
aver raccolto, nel 1948, nel villaggio di Imereti, «un frammento della leggenda
di Amirani, da cui si ricava che l'eroe incatenato
fu punito per aver rubato il fuoco» (Čʻikʻovani 1966);
notizia che lascia lo stesso Charachidzé piuttosto perplesso, sia perché non si
tratta né di un racconto, né di un poema, ma di una semplice dichiarazione del folklorista; sia
perché il motivo, così com'è riferito, gli sembra troppo vicino al modello greco
– troppo «prometeico» – per essere autentico. Stessa cosa si può dire su un racconto
cabardino su Nesren, talmente vicino al racconto
esiodeo da far sospettare il plagio (Charachidzé
1986). ⑤
|
VII - PROMĒTHEÚS, SYRDON E LOKI. LO SCHEMA INDOEUROPEO Le
relazioni rilevate tra leggende greche e caucasiche hanno suscitato un vivo
interesse tra gli studiosi, e al riguardo è sorta un'interessantissima
letteratura comparatistica, a cui rimandiamo per ulteriori studi. Ciò che è
sfuggito, o comunque è rimasto in sottotono, è il fatto che il complesso
caucasico trova una corrispondenza con il mito greco solo nel quarto
punto dello schema che avevamo rilevato in precedenza:
- Il sacrificio di Mēkṓnē. Promētheús stabilisce
le parti nei sacrifici cercando di ingannare Zeús.
- Il sequestro del fuoco. Zeús, infuriato
che
agli uomini sia rimasta la parte migliore, cessa di elargire loro il fuoco.
- La riconquista del fuoco. Promētheús ruba il
fuoco agli dèi e lo restituisce ai mortali.
- L'incatenamento. Per punizione,
Promētheús viene incatenato a una rupe, nel Caucaso.
Nei vari esiti del mito del prometeo caucasico troviamo solo il
motivo dell'incatenamento. La biografia di
Amirani è infatti una biografia guerriera e,
nonostante gli sforzi degli studiosi – soprattutto georgiani – di trovare tracce
del mito del furto del fuoco nella leggenda amiranica, esso ha continuato
semplicemente a eluderli. La leggenda di Amirani è un
collage in cui riconosciamo tradizioni caucasiche, miti iranici legati alle
gesta di Θraētaona e il tema prometeico
dell'incatenamento.
Eppure, lo schema da noi delineato, in quattro punti, non è casuale, bensì
perfettamente rintracciabile in ambito indoeuropeo. Un primo esito è attestato presso gli Osseti,
unico popolo del Caucaso a parlare un idioma indoiranico, in un racconto del
ciclo dei Nartæ, di cui Georges Dumézil ha
pubblicato ben sette varianti (quattro ossetiche, una čečena, una cabardina e
una tatara) nel suo Légendes sur les Nartes, senza però notare le affinità
con il mito greco (Dumézil 1930). Protagonista di
questo racconto è Syrdon, il narte astuto e
ingannatore, che Dumézil ha giustamente avvicinato a
Loki, ma che non sfigurerebbe neppure di fronte a
Promētheús.
Nel racconto in questione, riportato nell'antologia
Narty kaǯǯitæ, tutti i più famosi eroi narty (Uryzmæg,
Xæmyc, Soslan,
Batraʒ, etc.) partono per una
spedizione, e portano con loro Syrdon, allo scopo
di prendersi gioco di lui. Esasperato dai continui scherzi dei suoi compagni,
Syrdon fa sparire loro gli acciarini, e così,
venuto il momento di arrostire un cervo, i nartæ si scoprono
impossibilitati ad accendere il fuoco. Syrdon viene
allora spedito a cercare del fuoco, ma egli escogita invece un
tranello per liberarsi dei suoi compagni, i quali cadono nelle
mani di un branco di wæjug, orchi o giganti delle leggende ossete. Finalmente solo,
Syrdon accende il fuoco per suo conto e arrostisce
il cervo, con sua grande soddisfazione. In seguito, grazie alla sua astuzia,
Syrdon salva i compagni dall'essere a loro volta
divorati dai wæjug, ma questi, per tutta ricompensa, lo legano sulla cima di un albero e lo lasciano lì, tra cielo e terra, a morire di
fame. Ma Syrdon riesce a convincere un pastore a
liberarlo, mettendolo poi al suo posto. I nartæ, che pensavano di
essersi liberati di Syrdon una volta per tutte, si stupiscono
grandemente di vederlo tornare, vivo e vegeto, e con una mandria immensa.
(Dumézil 1965). ①
|
Loki (✍
1765-1766) |
Ms. SÁM 66. Stofnum Árna Magnússonar,
Reykjavík (Islanda). |
La tradizione scandinava presenta un mito simile incentrato su
Loki. Anch'esso personaggio
ambiguo, astuto, di animo malvagio e volubile, facile alle falsità e agli
inganni, Loki è chiamato bǫlsmiðr, «fabbro di
mali» e, proprio come
Promētheús, è destinato a venire
incatenato dagli dèi in punizione delle sue malefatte. Un confronto tra
Loki e
Promētheús, più volte proposto da studiosi e appassionati, non è mai
stato delineato con sufficiente chiarezza. Eppure, i due personaggi presentano un gran numero di sorprendenti
somiglianze e, naturalmente, anche degli interessanti punti di distacco. Entrambi sono degli elementi inizialmente estranei ai rispettivi panthea.
Anzi, appartengono per nascita alla
schiera dei nemici degli dèi.
Promētheús è figlio di un
titán, accolto sull'Ólympos da Zeús, come suo
stratega, nel corso della titanomachia.
Loki è figlio di due giganti,
Fárbauti e Laufey, e
ci piacerebbe sapere come sia entrato in
Ásgarðr: il mito in
questione non è stato tramandato, sebbene in un poema eddico si parli di un
patto di sangue che Óðinn e
Loki avrebbero stipulato all'inizio dei
tempi (Lokasenna [9]).
Loki è caratterizzato da un'intelligenza
astuta, assai affine a quella di Promētheús. Ma mentre
Promētheús dirige la sua astuzia contro
l'autorità costituita, Loki non
fa
alcuna distinzione sulle vittime che prende di mira, siano essi dèi, nani o giganti,
e gode semplicemente nel danneggiare gli altri con i suoi
scherzi atroci. Loki commette le
sue malefatte obbedendo al genio del momento: l'idea che sarà
scoperto e severamente punito non lo tocca nemmeno. Ma anche Promētheús,
a dispetto del significato del suo nome, il «preveggente», sembra incapace di
prevedere le conseguenze delle sue azioni ②. La contraddizione è talmente palese
che
Aiskhýlos sente addirittura la necessità
di esplicitarla. Una volta incatenato il titán alla sua rupe, infatti,
Krátos
e Bíē si
allontanano sibilando queste parole:
«Pseudōnýmōs se daímones Promēthéa
kaloûsin. autòn gár se deî promēthéōs,
hótōi trópōi tsd' ekkylisthḗsēi tékhnēs.» |
Krátos: «[...] Le potenze celesti hanno mentito
chiamandoti Promētheús, il preveggente,
perché hai bisogno tu, di chi preveda
come uscire da questi nodi esperti.» |
Aiskhýlos:
Promētheús
desmṓtēs [85-87] |
Nello
Skáldskaparmál, Snorri racconta il mito
del rapimento della dea Iðunn
da parte del gigante Þjazi
trasformato in aquila: storia interessantissima e ricca di addentellati, di cui
abbiamo parlato alla pagina apposita ③. Snorri trae la vicenda da una composizione dello
scaldo Þjóðólfr ór
Hvíni (attivo tra la fine del e l'inizio del
secolo), l'Haustlǫng, o «Lungo
come un autunno», nel quale il medesimo mito è narrato nello stile ellittico
e involuto della poesia scaldica. In entrambe le versioni, il mito del rapimento di
Iðunn
viene fatto precedere da un lungo racconto introduttivo nel quale
Óðinn,
Loki e Hǿnir, durante un
viaggio, uccidono un bue e mettono a cuocerlo nel seyðir, una sorta di
forno campestre allestito in una buca scavata nel terreno. Ma il bue rifiuta di
cuocersi. I tre æsir scoprono che a rendere il fuoco inoperante è
un'aquila appollaiata su una vicina quercia. L'aquila li informa che il bue
cuocerà solo se le offriranno una porzione. Gli dèi accettano e
Loki viene chiamato a fare
quattro parti uguali. Ma l'aquila vola giù dalla quercia e ghermisce i quattro
quarti del bue, ovvero l'intero animale.
La situazione, nel mito vichingo, si presenta analoga a quanto
avevamo visto in Grecia a proposito del sacrificio di Mēkṓnē. C'è da suddividere
un animale abbattuto tra due fazioni. In Grecia, avevamo da una parte gli
uomini, dall'altra parte Zeús; in Scandinavia,
abbiamo da una parte gli æsir, dall'altra parte un'aquila
appollaiata su una quercia.
Forse non è inutile far notare che il secondo partito, nei due complessi mitici, si
equivale, perlomeno a livello simbolico: l'aquila e la quercia erano
rispettivamente l'uccello e l'albero sacri a Zeús.
In posizione di mediatore, inoltre, abbiamo
Loki in Scandinavia e Promētheús in
Grecia: è a loro che
viene chiesto di fare le parti.
In entrambi i miti, la divisione si risolve con un inganno. In Scandinavia è l'aquila
a prendersi l'intero bue, mentre in Grecia Zeús
appare piuttosto la vittima della beffa (sebbene la sua porzione si rivelerà la
migliore).
Il sequestro del fuoco, in entrambi i miti, serve a impedire la cottura
del bue a chi vorrebbe cibarsene, ma le finalità sono diverse: in Grecia,
Zeús toglie il fuoco per punire coloro che si sono aggiudicati la
carne con l'inganno; in Scandinavia,
Þjazi impedisce l'uso del fuoco per costringere
i tre æsir a consegnargli una porzione del bue. Il racconto scandinavo
sembra il più alterato: non ha senso che
Þjazi renda inoperante il
fuoco al fine di estorcere agli æsir la promessa di cedergli un quarto del
bue, se poi ha intenzione di prenderselo tutto.
Ma i due miti hanno rielaborato, ciascuno a suo modo, il medesimo
complesso di elementi.
- Abbattimento di un animale.
Sia a Loki
che Promētheús viene chiesto di fare le parti del bue
abbattuto, allo scopo di dirimere una contesa nella spartizione della carne.
- Inganno nella spartizione. Promētheús
presenta due porzioni «taroccate» in modo che Zeús scelga
quella sbagliata e tocchi agli uomini la parte commestibile.
Þjazi estorce la promessa che
gli toccherà una porzione, ma sarà lui stesso a trasgredire al patto prendendosi
tutto il bue.
- Sequestro del fuoco. Zeús toglie agli uomini il fuoco per punirli dell'inganno e costringerli
a mangiare cruda la parte che hanno ottenuto.
Þjazi rende il fuoco inoperante
per estorcere loro la promessa di cedergli una porzione.
Ma non è finita qui. Loki
reagisce picchiando l'aquila con un bastone. Accade però una cosa inaspettata:
il bastone aderisce alla schiena dell'aquila e lo stesso
Loki non può più staccare le mani dal bastone. Come risultato, l'áss
viene trascinato in cielo da Þjazi,
in un volo spaventoso. Inutilmente
Loki, in preda al dolore, implora l'aquila di lasciarlo andare:
Þjazi acconsente solo quando
Loki gli giura che gli avrebbe condotto la giovane dea
Iðunn.
Non solo i due episodi risultano maldestramente
collegati, ma la scena di
Loki
attaccato a un'asta che a sua volta aderisce al dorso di
un'aquila, appare piuttosto grottesca e macchinosa. Quando, in un mito, troviamo elementi così ridondanti e mal
combinati, è segno che l'autore cerca di rimanere fedele a una materia che non comprende
del tutto. Gli
elementi di questa scena appartengono senza dubbio a un mito ancora più
antico, divenuto ormai incomprensibile sia a Þjóðólfr che a Snorri. Un possibile suggerimento su come sciogliere l'enigma ci arriva proprio dal
Caucaso. Vi è infatti una versione alternativa della cattura di
Amirani (LA22) che fa intervenire il dio Givargi,
il san Giorgio degli spazi selvaggi. In questa
storia, piuttosto romanzata,
Amirani
tenta di
sedurre e rapire la figlioccia di
Givargi. Il nume
si reca allora da
Ḡmerṫi e gli propone
di far morire
Amirani. Il dio supremo preferisce però essere
conciliante e intima ad
Amirani di rinunciare alla fanciulla. La risposta di
Amirani
è tracotante: «Non solo io farò a modo mio, ma se tu mi sbarri la strada, io
lotterò con te.
Ḡmerṫi gli disse: «Se le cose stanno
così, io ora lascerò libero un uccello, Tu siediti sul tuo tappeto volante e
inseguilo. Se lo pigli, allora sei un valoroso.»
«Bene» disse
Amirani.
E si lanciò sul suo tappeto all'inseguimento dell'uccello. Ma più andavano e più
cresceva la distanza tra loro. L'uccello volava sempre più in alto e finì per
raggiungere il monte Ialbuzi [Ėl'brus].
Amirani
non abbandonò l'inseguimento e raggiunse l'uccello sullo Ialbuzi.
Mentre si preparava ad afferrarlo, si accorse che teneva tra le mani un palo, un
gran palo di ferro. Ed era incatenato a questo palo.
Amirani
si disperò, ma che fare? |
LA22 |
Sebbene sia lontana dalle altre versioni caucasiche, questo strano
inseguimento aereo di
Amirani
ricorda in maniera
irresistibile la scena del volo di
Loki. Non deve trarci in inganno il fatto che qui l'eroe
disponga di un tappeto volante, che è una
trovata puramente accessoria di LA22. Quello
che ci interessa è piuttosto il riaffacciarsi degli stessi elementi in
contesti simili, sebbene
differisca la loro funzione. Nelle due vicende, un
uccello è causa del sollevamento dell'eroe:
Loki
viene sollevato da Þjazi, trasformato in aquila, contro la sua
volontà; Amirani si ritrova a inseguire un uccello
che vola sempre più in alto, ben oltre le sue capacità di raggiungerlo. In
entrambi i casi, si presenta il superamento di un limite:
Loki
viene sollevato oltre la resistenza fisica del suo corpo, Amirani
si ritrova a inseguire un uccello più veloce di quanto lui stesso non riesca a volare.
In entrambi i casi, infine, il contatto tra il protagonista e l'uccello non è diretto, ma mediato da un bastone, da un'asta.
Loki
si ritrova le mani incollate al bastone e non riesce a staccarle, mentre l'aquila lo trascina in cielo.
Nella versione caucasica,
Amirani, nel momento in cui sta per catturare
l'uccello, si ritrova una bastone tra le mani, senza che l'autore del testo
sappia dirci come e perché, e rimane incatenato ad esso. Il materiale è corrotto in entrambi
i racconti, ma a questo punto una cosa è chiara: il bastone
è il palo del
supplizio.
Dopo quanto abbiamo detto, è
facile pensare all'immagine di Promētheús punito da Zeús,
incatenato a una colonna, sulla cima a un'altissima montagna, con un'aquila
che
scende a rodergli il fegato.
Loki non è incatenato a una
colonna, ma è avvinto a una stanga ed anch'egli è sospeso tra il cielo e
la terra; l'aquila è anche qui uno strumento di tortura, sebbene non gli
frughi il ventre con il becco, ma è essa stessa a sollevarlo in cielo. Gli elementi
del supplizio sono gli stessi per
Loki e Promētheús,
sebbene utilizzati in maniera affatto diversa.
- Incatenamento a una colonna o a una stanga (con lacci e/o catene nel mito
greco, con un incantesimo in quello nordico).
- Sollevamento tra il cielo e la terra (letterale nel caso di
Loki, sulla cima di una montagna
per Promētheús).
- Presenza di un'aquila (la quale solleva
Loki nel mito nordico; in quello
greco si limita a torturare Promētheús rodendogli il fegato).
In conclusione, è evidente che
Þjóðólfr e Snorri abbiano utilizzato gli elementi di un mito assai più antico, ma
tali elementi, sebbene singolarmente scombinati, appartengono al medesimo tema
che in Grecia ha prodotto il
complesso mitico del sacrificio di Mēkṓnē, con relativo inganno,
sequestro del fuoco e condanna di Promētheús.
Non esiste però un mito dove
Loki va a riprendersi il
fuoco (anche se partirà alla ricerca di
Iðunn rapita da
Þjazi: ma è difficile sostenere
la sostituzione di un tema con un altro tanto diverso). Dobbiamo
dunque rinunciare a questo motivo, presente in Grecia, ma non in Scandinavia, e
accontentarci di mettere in sequenza il resto del racconto. ④
Il nostro studio, a questo punto, ha dunque evidenziato tre racconti omologhi
diffusi in ambiti indoeuropei: quello di Promētheús
in Grecia, di Loki in
Scandinavia, di Syrdon in Ossezia. I tre miti
mostrano una serie di strette correlazioni:
|
GRECIA |
SCANDINAVIA |
OSSEZIA |
0 |
Promētheús è caratterizzato dalla mtis,
l'intelligenza astuta. È un personaggio dall'ingegno fervido, inventore di
tecniche e strumenti. A dispetto del suo nome, sembra incapace di prevedere le
conseguenze delle proprie azioni. |
Loki
è caratterizzato da un'astuzia maligna, incline a fare dispetti e scherzi. È
l'inventore della rete da pesca e di altri strumenti. È incapace di prevedere le
conseguenze delle proprie azioni. |
Syrdon è
caratterizzato da un'astuzia maligna, incline a fare dispetti e scherzi. È
l'inventore di uno strumento musicale. È incapace di prevedere le conseguenze
delle proprie azioni. |
1 |
Promētheús discende dai titânes, ma
si schiera dalla parte degli dèi e mette la sua intelligenza al loro servizio.
Grazie ai consigli di Promētheús,
Zeús vince la guerra contro i titânes. |
Loki
discende dagli jǫtnar, ma stringe un patto di sangue con
Óðinn e viene accolto in
Ásgarðr. Assai ambiguo,
utilizza la sua intelligenza ora al servizio degli æsir, ora a loro
danno. |
Syrdon viene
accolto nel villaggio dei narty, pur essendo un estraneo. Ambiguo,
utilizza la sua intelligenza ora al servizio dei narty (come quando li
salva dai wæjug), ma più spesso a loro danno. |
2 |
Promētheús viene chiamato a spartire la
carne di un bue tra gli dèi e gli uomini, ma ordisce un tranello in modo da
riservare agli uomini la parte migliore. Zeús, in
punizione, toglie il fuoco agli uomini. |
A Loki
viene chiesto di dividere la carne di un bue abbattuto tra gli æsir e il
gigante Þjazi. Quest'ultimo,
ha reso inoperante il fuoco in vista di un inganno che gli assicurerà l'intero
bue. |
Syrdon, dopo aver
rubato gli acciarini ai narty, impedendo loro di accendere il fuoco, li
inganna, facendoli cadere nelle mani dei wæjug, e si assicura l'intero
cervo. |
3 |
In punizione, Promētheús viene legato a
una colonna, sui monti del Caucaso, e lasciato lì a soffrire. Ogni giorno,
un'aquila gli rode il fegato. |
Loki
rimane con le mani avvinte a un bastone, e il gigante
Þjazi, trasformato in aquila,
lo solleva in cielo, fino ai limiti della resistenza fisica. |
I narty puniscono
Syrdon appendendolo in cima a un altissimo albero e lasciandolo lì a
morire di fame e di sete. |
Questo schema, già piuttosto dettagliato, non mostra tuttavia
il motivo escatologico, legato a fino doppio questo schema mitico, e che vedremo
nel prossimo capitolo.
|
VIII - IL MOTIVO ESCATOLOGICO Il mitema
dell'incatenamento del prometeo è solitamente legato a un motivo
escatologico. Abbiamo visto che, nel Caucaso, si cerca di evitare che
Amirani si liberi delle proprie catene, perché
quando questo accadrà, sarà la fine del mondo ①. Un simile
mito veniva narrato per l'eroe Artawadz in Armenia ②.
Tale motivo appare soltanto implicito nel racconto greco di
Promētheús, sebbene trovi compiuta
realizzazione sia nel mito scandinavo di
Loki.
Nel mito scandinavo, Loki
viene incatenato dagli dèi per aver causato la morte di
Baldr, figlio di
Óðinn.
Baldr è il dio della
giustizia e della pace. E la sua morte, orchestrata da
Loki, è l'ultimo atto di un
crollo etico e morale che investirà tutto il mondo, conducendolo in quello che è
lo stato attuale delle cose: violenza, ingiustizia, impudicizia, slealtà e
crudeltà. Si tratta di uno degli episodi più importanti del mito scandinavo e più efficacemente esplorati dagli studiosi. Catturato,
Loki viene incatenato in un'oscura caverna e non gli si risparmia un'orrendo
supplizio. ③
Nú var
Loki tekinn griðalauss ok farit með hann í helli nǫkkvorn. Þá tóku þeir þrjár
hellur ok settu á egg ok lustu rauf á hellunni hverri. Þá váru teknir synir Loka,
Váli ok Nari eða Narfi. Brugðu æsir Vála í vargslíki ok reif hann í sundr Narfa,
bróður sinn. Þá tóku æsir þarma hans ok bundu Loka með yfir þá þrjá eggsteina,
einn undir herðum, annarr undir lendum, þriði undir knésfótum, ok urðu þau bǫnd
at járni. Þá tók Skaði eitrorm ok festi upp yfir hann svá at eitrit skyldi
drjúpa ór orminum í andlit honum. En Sigyn kona hans stendr hjá honum ok heldr
mundlaugu undir eitrdropa, en þá er full er munnlaugin, þá gengr hon ok slær út
eitrinu, en meðan drýpr eitrit í andlit honum. Þá kippisk hann svá hart við at
jǫrð ǫll skelfr. Þat kallið þér landskjálpta. Þar liggr hann í bǫndum til
ragnarøkrs. |
Loki fu dunque imprigionato senza scampo e portato dentro una caverna.
Qui gli
Æsir presero tre lastre di pietra, le appoggiarono su un lato e fecero
un foro su ciascuna. Furono quindi presi i figli di
Loki, Váli e
Nari o Narfi.
Gli
Æsir tramutarono in lupo
Váli, il quale straziò immediatamente
Narfi, suo
fratello. Ne presero dunque le budella e le usarono per legare
Loki sulle tre
lastre: una gli sta sotto le sue spalle, la seconda sotto i reni e la terza
sotto le caviglie e quelle corde divennero di ferro.
Skaði, poi, prese un
serpente velenoso e lo fissò sopra di lui, in modo che il veleno uscisse dal
serpente e cadesse sul suo volto, ma Sigyn, moglie di
Loki, gli sta vicino e
tiene una conca sotto la pioggia velenosa. Quando la conca è piena, ella si alza
per vuotarla, ma nel frattempo il veleno cade sulla faccia di
Loki, il quale si
agita così violentemente che la terra tutta trema. Voi chiamate questi
terremoti. Laggiù Loki resterà legato fino al
ragnarøkr. |
Snorri:
Prose Edda >
Gylfaginning
[50] |
L'incatenamento di
Promētheús è legato al passaggio dell'umanità dallo stato edenico
primordiale al mondo così come lo conosciamo, voluto in questo caso da
Zeús come punizione, ereditata dal genere umano,
per gli inganni di
Promētheús e il furto del fuoco. Nel mondo scandinavo, le relazioni di
causa-e-effetto sono opposte: Loki
viene punito per aver ucciso
Baldr, e quindi aver provocato il crollo dello
stato di giustizia e pace in cui si trovava l'umanità prima di allora. Lo stato
che segue all'uccisione di
Baldr e prelude alla fine del mondo, è
descritto dalla
Vǫluspá con parole e termini che
appartengono, in fondo, alla tradizione universale:
Bræðr munu berjask
ok at bǫnum verðask,
munu systrungar
sifjum spilla,
hart 's í heimi,
hórdómr mikill,
skeggǫld, skalmǫld,
skildir klofnir,
vindǫld, vargǫld,
áðr verǫld steypisk
mun engi maðr
ǫðrum þyrma. |
I fratelli si aggrediranno
e alla morte giungeranno,
tradiranno i cugini
i vincoli di stirpe,
prova dura per gli uomini,
immane l'adulterio.
Tempo di asce, tempo di spade
s'infrangeranno scudi,
tempo di venti, tempo di lupi,
prima che il mondo crolli.
Neppure un uomo
un altro ne risparmierà. |
Ljóða Edda
>
Vǫluspá [45] |
Il ragnarǫk o
ragnarøkr, il «destino
[tramonto] delle potenze divine», è il termine tecnico per indicare la battaglia
escatologica che metterà fine tanto agli dèi quanto al mondo, ed essa sarà
causata allorché, le potenze eversive, esiliate dagli dèi ai confini dello
spazio e del tempo, si libereranno e attaccheranno l'ordine istituito e
garantito dagli dèi. La principale è appunto
Loki: è la sua liberazione a
segnare l'inizio del ragnarǫk;
con lui vi sono due dei suoi figli: il lupo
Fenrir e il serpente
Jǫrmungandr, i
quali uccideranno, rispettivamente,
Óðinn e
Þórr. Quindi, il mondo
arderà nelle fiamme ecpirotiche. Nel mito scandinavo, tuttavia, la distruzione
dell'universo è propedeutica alla nascita di un nuovo mondo, che sarà posto
sotto la tutela di
Baldr. Il figlio di
Óðinn, ucciso da
Loki ed esiliati negli inferi,
tornerà infatti per governare un universo ricondotto alla felice età aurea.
In Grecia, nulla di tutto questo, almeno in apparenza. Sebbene il mito greco
abbia visto un doppio passaggio di consegne nella regalità divina (da
Ouranós a Krónos,
quindi da Krónos a Zeús),
il regno di Zeús viene visto come stabile ed
eterno. In un passo,
Hēsíodos allude a un futuro crollo morale
dell'umanità, seguìto dalla fine del mondo
(Érga
kaì Hēmérai [14-21]),
con parole quasi identiche a quelle della
vǫlva nordica, sebbene non vi sia alcun legame con il mito di
Promētheús, e soprattutto la regalità di Zeús
non venga mai messa in discussione. Se dunque, nel mondo nordico, la
liberazione di Loki è legata,
oltre che al motivo del ragnarǫk, a un passaggio di consegne nella
suprema regalità, da
Óðinn a
Baldr, nel mondo greco
la regalità di Zeús non subisce scosse. Ma è
davvero così? La risposta, inaspettatamente, è no. Ed è
Aiskhýlos a seminare questi
dubbi. Il suo
Promētheús, incatenato alle vette del Caucaso, così grida rivolto al
cielo:
«È mḕn éti Zeús, kaíper authádēs phronn,
éstai tapeinós, hoîon exartýetai
gámon gameîn, hòs autòn ek tyrannídos
thrónōn t' áiston ekbaleî. patròs d' arà
Krónou tót' ḗdē pantels kranthḗsetai,
hḕn ekpítnōn ērâto dēnain thrónōn.
toinde mókhthōn ektropḕn oudeìs then
dýnait' àn auti plḕn emoû deîxai saphs.
egṑ tád' oîda kh trópōi. pròs taûta nŷn
tharsn kathḗsthō toîs pedarsíois ktýpois
pistós, tinássōn t' en kheroîn pýrpnoun bélos.
oudèn gàr auti taût' eparkései tò mḕ ou
peseîn atímōs ptṓmat' ouk anaskhetá.
toîon palaistḕn nŷn paraskeuázetai
ep' autòs hauti, dysmakhṓtaton téras.
hòs dḕ keraunoû kreísson' heurḗsei phlóga,
bronts th' hyperbállonta karteròn ktýpon,
thalassían te gs tinákteiran nóson,
tríainan aikhmḕn tḕn Poseidnos, skedâi.
ptaísas dè tide pròs kaki mathḗsetai
hóson tó t' árkhein kaì tò douleúein díkha.» |
Promētheús: «Eppure Zeús, anche se è superbo,
sarà meschino. Si prepara nozze
che lo rovesceranno dal suo trono,
l'annienteranno. E la maledizione
che Krónos gli andava rovinando
dal seggio antico, si farà in tutto vera.
Nessuno degli dèi può rivelargli
come sfuggire a questa sorte: io solo.
Io lo so, io so come. Riposi, allora,
forte del tuono di cui trema il cielo,
lanciando la sua folgore di fuoco.
Perché non basteranno tuono e folgore
quando cadrà per sempre e senza gloria.
Da sé ora si prepara un avversario
molto duro da vincere, un prodigio,
e la sua fiamma sarà più che una folgore,
la sua percossa sarà più che tuono,
e sperderà il funebre tridente
del mare, che agita la terra,
lancia di Poseidn: a questi mali
urterà Zeús, e allora imparerà
se servire è altra cosa che regnare.» |
Aiskhýlos:
Promētheús
desmṓtēs [908-943] |
Ciò che
Promētheús, dal suo luogo di tortura, profetizza a
Zeús, è che anche il grande signore degli dèi è destinato ad essere
spodestato dal proprio figlio. Da un dio ancora più potente del padre, che deve
ancora nascere. E l'unico che sa come evitare questa sventura è proprio lui,
Promētheús. Presto, arriva Herms
al
cospetto del titán incatenato, cercando di indurlo a rivelare qualcosa di
più su questa sibillina profezia, ma
Promētheús non si smuove, e così investe il nuovo arrivato:
«Néon néoi krateîte kaì dokeîte dḕ
naíein apenth pérgam'. ouk ek tnd' egṑ
dissoùs tyránnous ekpesóntas ēisthómēn?
tríton dè tòn nŷn koiranoûnt' epópsomai
aískhista kaì tákhista. mḗ tí soi dok
tarbeîn hypoptḗssein te toùs néous theoús?
polloû ge kaì toû pantòs elleípō.» |
Promētheús: «[...] Siete signori nuovi, e vi pensate
di abitare la rocca dell'eterna
serenità: ma da quella rocca
ho sentito cadere due sovrani.
Il terzo lo vedrò crollare presto
e con più obbrobrio. Credi che io tremi,
che m'inginocchi innanzi ai nuovi dèi?
Come poco ci penso!» |
Aiskhýlos:
Promētheús
desmṓtēs [955-959] |
Di cosa sta parlando
Promētheús? Si rifiuta di rivelare a Herms
quel che sa sul futuro re dell'universo. È probabile che Aiskhýlos abbia sciolto
l'enigma nelle successive tragedie del ciclo prometeico, le quali però sono
andate perdute. Il motivo è tuttavia ben attestato presso altri mitografi. Apollódōros
afferma quanto segue:
|
Alcuni dicono che quanto Zeús partì per sedurre
Téthis,
Promētheús lo avvisò che il figlio che avrebbe avuto da lei sarebbe
diventato il sovrano del cielo. |
Apollódōros: Bibliothḗkē
[III: 13, 5] |
Questa Téthis era una delle
Nērēḯdes, figlie del dio
marino Nēreús. A seguito della
profezia di
Promētheús, Zeús rinunciò a unirsi a lei ed
ella in seguito sposò il mortale Pelías:
loro figlio sarebbe stato l'eroe
Akhilleús. Ora, può sembrare strano che
Promētheús, che
Aiskhýlos mostra così restio a
rivelare chi fosse il discendente destinato a spodestare
Zeús, sia
così facilmente disposto, in Apollódōros,
a rendere questo servizio al re degli dèi.
Il motivo è attestato in molte varianti, dove l'oracolo viene
attribuito anche ad altri personaggi (Thémis, o
Prōteús).
Ma la presenza di
Promētheús in questo luogo riaffiora continuamente, fino a trovare
consacrazione nei mitografi più tardi. Leggiamo in Hyginus:
|
Era destino che il figlio della nereide Téthis
sarebbe stato più forte del padre. Solo
Promētheús conosceva questo segreto. Così, quando
Zeús fu preso dal desiderio di unirsi a lei,
Promētheús promise di rivelarglielo se fosse stato liberato dalle catene:
il patto fu giurato e allora
Promētheús ammonì Zeús ad astenersi da
Téthis, per evitare di dare alla luce un figlio più
forte di lui che l'avrebbe cacciato dal regno come lui aveva fatto con
Krónos. Così, Téthis
fu data in sposa a Pelías, figlio di Aiakós, ed
Hērakls fu mandato a uccidere l'aquila che rodeva
il cuore di
Promētheús. Essa fu abbattuta, e
Promētheús venne liberato dal Caucaso dopo una prigionia di trentamila
anni. |
Hyginus: Fabulae [54] |
Lo stesso racconto, è riportato sempre da Hyginus, con alcune
varianti, in De Astronomia [II: 4].
Loukianós lo utilizza come pretesto per un
dialogo scoppiettante di ironia, che riportiamo per intero:
|
Promētheús: «Liberami, Zeús: ho già
patito sofferenze terribili.»
Zeús: «Liberarti, dici? Ma se dovrei farti mettere ceppi ancora più
pesanti e l'intero Caucaso in testa, con sedici avvoltoi che non solo ti
divorino il fegato, ma ti cavino anche agli occhi, in cambio delle belle
creature che ci hai plasmato, gli uomini, e dell'aver rubato il fuoco e creato
le donne! E dei raggiri che mi hai fatto nella distribuzione delle carni,
imbandendomi ossa rivestite di grasso e serbando per te le parti migliori, cosa
si dovrebbe dire?»
Promētheús: «Non ho dunque pagato un fio sufficiente, restando
inchiodato per tanto tempo al Caucaso e nutrendo col mio fegato l'aquila, il più
maledetto degli uccelli?»
Zeús: «Questa non è neanche una minima parte di ciò che devi soffrire.»
Promētheús: «Eppure non mi libererai senza ricompensa, ma ti rivelerò una
cosa davvero importante, Zeús.»
Zeús: «Tu mi vuoi abbindolare con dei bei discorsi,
Promētheús.»
Promētheús: «E che vantaggio ne avrò? In futuro non ti scorderai
mica dov'è il Caucaso, né ti mancheranno le catene, se verrò sorpreso a
macchinare qualcosa.»
Zeús: «Di' prima quale ricompensa così importante per noi pagherai.»
Promētheús: «Se ti dirò lo scopo per cui adesso sei in viaggio, sarò
per te degno di fede anche quando ti predirò il resto?»
Zeús: «Come no?»
Promētheús: «Vai da Téthis per giacere
con lei.»
Zeús: «Di questo sei a conoscenza: e che cosa accadrà in seguito? Mi
sembra che dirai qualcosa di importante.»
Promētheús: «Non unirti alla figlia di Nēreús, Zeús.
Se resterà incinta di te, il figlio che darà alla luce ti farà le stesse cose
che tu hai fatto...»
Zeús: «Dici che sarò scacciato dal mio dominio?»
Promētheús: «Che non accada, Zeús. Se
non che l'unione che lei minaccia qualcosa del genere.»
Zeús: «Tanti saluti a Téthis, allora. E in
quanto a te, grazie a queste notizie, che Hḗphaistos
ti liberi.» |
Loukianós hò Samosateús:
Theṓn diálogoi [5] >
Promēthéōs kaì Diós |
Ciò che traspare da questo raffronto, è che il mito
prometeico, in Grecia, ha rielaborato il rapporto tra la
liberazione del titán e la fine del mondo.
L'incatenamento del prometeo è, dovunque, garanzia della
continuità del mondo che noi conosciamo. Alla sua liberazione,
corrisponde la fine dell'ordine cosmico e il ristabilimento del
tempo primordiale. Poiché è il dio supremo a garantire l'attuale stato delle cose, l'apocatastasi
è possibile solo abbattendo il suo dominio.
Ciò è visto, in molte tradizioni,
come un ulteriore passaggio di consegne della suprema regalità. In Scandinavia,
Loki ha sia la funzione di esiliare
agli inferi il futuro re dell'universo, ma anche quella di sgombrare il campo
per il suo ritorno, causando la fine del mondo e la caduta degli dèi. Il
pensiero teologico greco, che pone l'autorità di Zeús
come stabile ed eterna, ha invece rielaborato questo mito, eliminando in primis
ogni idea di un futuro ristabilimento dell'età aurea sotto gli auspici di un
futuro sovrano.
Mentre
Loki causa la morte del figlio di
Óðinn,
Promētheús impedisce la nascita del figlio di Zeús.
Assassinio e aborto sono, ai fini del processo mitico, rielaborazioni dello
stesso concetto. Nell'elaborazione dei due miti, tuttavia, il rapporto di
causa/effetto è rovesciato, e con effetti contrapposti: il misfatto
di
Loki produce il suo incatenamento,
la profezia di
Promētheús la sua liberazione. D'altra parte, mentre la futura
liberazione di
Loki produce la fine del mondo e
del regno di
Óðinn, la liberazione di
Promētheús, espressa come evento mitico concluso, ha prodotto
l'attuale stabilità del mondo e la continuazione indefinita del regno di Zeús.
|
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vol. 1. Milano 1989.
- VERNANT Jean-Pierre, L'univers, les Dieux, les
Hommes. Récits grecs des origines. 1999. →
I., L'universo,
gli dèi, gli uomini. Il racconto del mito. Einaudi, Torino 2000.
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BIBLIOGRAFIA ► |
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