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MITI GERMANICI
ÞÓRR CONTRO GEIRRØÐR
IL DIO DISARMATO
Inviato da Loki senza il suo martello presso Geirrøðr, malevolo signore degli jǫtnar, Þórr rischia di cadere in una trappola mortale. Sarà Gríðr, la madre di Víðarr, a fornirgli un provvidenziale sostegno...
1 - GUĐMUNDR E GEIRRØĐR

i narra che, navigando a nord-est del Finnland, oltrepassate le remote plaghe del Bjarmaland, si arrivasse in una regione oscura e tenebrosa chiamata Rísaland, «terra dei giganti». Era questa una regione di confine, caratterizzata da una notevole mescolanza di stirpi, e i suoi abitanti erano per lo più semigiganti. In quelle terre, nella fortezza di Grund, re Guðmundr viveva insieme alle sue bellissime figlie. La regione aveva nome Glæsisvellir. Molti uomini ambivano a raggiungere quella lontana terra, in quanto si diceva che vi trovasse un luogo detto Ódáinsakr, il «campo degli immortali»: chi vi arrivava scampava alla vecchiaia e alla morte.

Succeduto al padre, Úlfheðinn trausti, re Guðmundr aveva prestato giuramento a Geirrøðr, sovrano della vicina regione di Jǫtunheimr. Tra i due regni scorreva un fiume scuro e impetuoso, dalle acque gelide come il veleno, e altrettanto mortali. Alcuni dicono che Guðmundr e Geirrøðr fossero fratelli, ma le voci sono discordanti. Pare tuttavia che Guðmundr non fosse affatto felice di essere sottoposto al tributo degli jǫtnar.

2 - UNA DISAVVENTURA DI LOKI

na volta, Loki, che si divertiva a volare sullo Jǫtunheimr con il vestito da falco di Frigg, capitò nei Geirrøðargarðar, fortezze dove aveva la sua dimora lo jǫtunn Geirrøðr. Scese su un lucernario per spiare quanto accadeva all'interno della hǫll. Geirrøðr se ne avvide e ordinò a un suo servo di catturare il rapace e di recarglierlo. Ma il lucernario era posto molto in alto, sul tetto della hǫll, e l'incaricato faticava ad arrivare fin lassù. Loki si divertiva molto a vedere gli sforzi che l'uomo faceva per raggiungerlo e decise, malignamente, di non volar via se non all'ultimo momento, quando quello avesse terminato la pericolosa scalata.

Quando però l'uomo stava quasi per raggiungerlo, Loki spiegò le ali e le agitò con forza, ma a quel punto si accorse di essere stato afferrato per le zampe. Loki venne quindi catturato e portato dinanzi a Geirrøðr. Questi fissò il falco negli occhi e sospettò che si trattasse di un essere magicamente trasformato. Gli ordinò di rivelarsi, ma Loki tacque.

Allora Geirrøðr rinchiuse Loki in una cassa, lasciandolo patire la fame per tre lunghi mesi. Quando poi lo tirò fuori e gli comandò ancora una volta di parlare, Loki non si lasciò certo pregare. Rivelò la sua identità e, in cambio della propria vita, promise a Geirrøðr che avrebbe fatto in modo che Þórr giungesse a Geirrøðargarðr disarmato, senza il martello Mjǫllnir e la cintura megingjarðar.

3 - LE INCERTEZZE DELLA NARRAZIONE

on dovette Loki far molta fatica per indurre Þórr a recarsi nello Jǫtunheimr per schiacciare Geirrøðr. Il dio del tuono era sempre ben disposto, quando si trattava di battersi contro gli odiosi jǫtnar. Non sappiamo tuttavia come Loki abbia potuto convincere Þórr a intraprendere una spedizione tanto rischiosa lasciando a casa la sua arma prediletta, il martello Mjǫllnir, e il megingjarðar, la magica cintura che gli moltiplicava le forze.

Su questa spedizione le opinioni tuttavia divergono: non tutti concordano sul fatto che Þórr non avesse con sé il proprio martello. Pure è incerto chi sia stato compagno di Þórr nella sua spedizione: vi è chi tradisce il proprio imbarazzo affermando si fosse trattato dello stesso Loki. È assai più probabile, come dicono altri, che sia stato Þjálfi ad accompagnare il dio del tuono nello Jǫtunheimr.

4 - L'AIUTO DI GRÍÐR

opo essersi messo in viaggio, Þórr e il suo compagno si accinsero a passare la notte nella dimora della gigantessa Gríðr. A suo tempo amante di Oðinn, costei era madre di Víðarr il silenzioso.

Saputo degli scopi del viaggio, la gýgr non nascose a Þórr tutto quel sapeva di Geirrøðr. Gli disse che si trattava di uno jǫtunn sapiente, contorto, difficile da affrontare. E poiché il dio del tuono era disarmato, gli prestò la propria cintura del potere e i guanti di ferro che possedeva. E con essi, ella gli diede anche la sua verga, la Gríðarvǫlr.

5 - IL GUADO DEL VIMUR

asciata la dimora di Gríðr, Þórr giunse sul limite delle acque gelide e impetuose del fiume Vimur. Questo è il più grande di tutti i corsi d'acqua, forse uno degli Élivágar, forse addirittura un tratto dell'oceano cosmico. Þórr entrò in acqua e avanzò a guado, con il suo compagno. Alcuni dicono fosse Loki, aggrappato alla cintura megingjarðar. Altri sostengono fosse Þjálfi, stretto alla cinghia dello scudo di Þórr.

Onde ghiacciate e violente corsero incontro al dio del tuono, mentre le rocce cedevano malfide sotto i suoi passi. Puntellandosi con Gríðarvǫlr, Þórr avanzò furioso contro le correnti impetuose del Vimur. Quando giunse nel bel mezzo della corrente, il volume d'acqua si era ingrossato a tal punto che le ondate si infrangevano all'altezza delle sue spalle.

Pronunciò Þórr questi versi:

— Ora non crescere, Vimur,
poiché giunger guadando voglio
al recinto degli jǫtnar;
se or cresci sappi tu che
in me cresce l'ásmegin
in altezza pari al cielo.

Poi Þórr alzò lo sguardo verso le rocce scoscese e vide Gjálp, la figlia di Geirrøðr, a cavalcioni sulle due sponde del fiume Vimur. Era lei che orinando lo faceva ingrossare. Þórr prese dal fiume una grossa pietra e, scagliandola contro la gýgr, disse: — Un fiume va arginato alla sorgente! — E non mancò il bersaglio.

Giunto alla sponda, Þórr si aggrappò a un sorbo selvatico e così si trasse fuori dall'acqua. Per questo il sorbo selvatico è definito «aiuto di Þórr».

6 - SCONTRO OLTRE LE ACQUE

uperando il flusso delle acque tempestose, Þórr giunse così nello Jǫtunheimr, con Þjálfi che si teneva ben saldo alla sua cintura.

Non tremarono i cuori dei due eroi quando trovarono, ad attenderli, una schiera di giganti.

Gli jǫtnar suscitarono contro di loro un frastuono di spade e di scudi. Ma tosto Þórr li abbatté e li mise in fuga, costringendoli a una precipitosa ritirata alle loro dimore. Il dio del tuono poté così raggiungere la dimora di Geirrøðr.

 7 - IL «CAPPELLO DELLE GIGANTESSE»

uando Þórr e Þjálfi giunsero ai Geirrøðargarðar ed entrarono nella hǫll, fieri e ricolmi di spirito guerriero, vi fu gran frastuono tra gli jǫtnar. Ma i giganti si fecero animo e condussero il dio del tuono, riluttante alla pace, nell'alloggio che avevano preparato per lui: la stalla per le capre.

Vi era qui una sola sedia e Þórr vi si accomodò. Ma di scatto la sedia si sollevò verso il soffitto. Nascoste sotto di essa vi erano Gjálp e Greip, le figlie di Geirrøðr, decise a rompere il cranio del dio contro le assi del tetto. Ma Þórr, puntando la verga Gríðarvǫlr contro il soffitto, fece forza sospingendo di nuovo la sedia verso il basso. Ci fu un grande fracasso, cui seguì un urlo violento. Schiacciate sotto la sedia, Gjálp e Greip ne ebbero spezzata la spina dorsale.

Un'insolita lezione impartì loro Þórr:

— Usai una volta
la mia forza tutta
nel recinto degli jǫtnar,
quando Gjálp e Greip
figlie di Geirrøðr
tentarono di portarmi fino al cielo.

8 - UN «GIOCO» INCANDESCENTE

Allora Geirrøðr invitò Þórr nella hǫll, chiedendogli se volesse giocare con lui. Vi erano grandi focolari lungo tutta la parete della sala. Quando Þórr fu dinanzi al padrone di casa, Geirrøðr spinse le tenaglie nel fuoco, ne trasse un pezzo di metallo incandescente e glielò scagliò contro con forza micidiale. Ma Þórr lo afferrò al volo con i suoi guanti di ferro (altri dicono a che lo fece a mani nude) e lo rispedì al mittente.

Rapido, Geirrøðr si tuffò dietro una colonna; ma il metallo incandescente trapassò la colonna e l'addome del gigante; quindi proseguì la sua traiettoria, sfondò una parete e, piombando all'esterno dell'edificio, si conficcò nel terreno.

Furibondi, gli jǫtnar si levarono in armi. Þórr li massacrò tutti, né gli mancò il sostegno di Þjálfi. In tal modo Þórr sconfisse Geirrøðr e i suoi sgradevoli compagni di bevute.

Fonti

1 Hervarar saga ok Heiðreks [I]
Þorsteins þáttr bæjarmagns
2

Snorri Sturluson: Prose Edda > Skáldskaparmál [26]

3 Snorri Sturluson: Prose Edda > Skáldskaparmál [26]
Eilífr Goðrúnarson: Þórsdrápa [1-2]
4 Snorri Sturluson: Prose Edda > Skáldskaparmál [26]
5 Snorri Sturluson: Prose Edda > Skáldskaparmál [26]
Eilífr Goðrúnarson: Þórsdrápa [3-9]
6 Eilífr Goðrúnarson: Þórsdrápa [10-12]
7 Snorri Sturluson: Prose Edda > Skáldskaparmál [26]
Eilífr Goðrúnarson: Þórsdrápa [13-15]
8 Snorri Sturluson: Prose Edda > Skáldskaparmál [26]
Eilífr Goðrúnarson: Þórsdrápa [16-19]

I - IL CICLO DI GEIRRØÐR: FONTI EDDICHE E SCALDICHE

Il mito del viaggio di Þórr al recinto di Geirrøðr e del suo scontro con il padrone di casa e le sue figlie è stato tramandato da un certo numero di fonti, di carattere assai differente, che presentano tuttavia, nelle loro affinità e discordanze, un quadro piuttosto variegato di questa importante narrazione.

Fonte principale è considerato, di solito, un racconto riportato da Snorri Sturluson nella seconda parte della sua Prose Edda, lo Skáldskaparmál. Snorri cita anche dei brani da due composizioni più antiche: (a) un poema in stile eddico dal titolo sconosciuto, in ljóðaháttr, di cui riporta due strofe in cui Þórr parla in prima persona (la seconda strofa è assente nei mss. Rs, T e W della Prose Edda ed è presente solo nel ms. U); (b) una composizione di diciannove strofe, la Þórsdrápa («Eulogia per Þórr»), dello scaldo Eilífr Goðrúnarson (x secolo), disposta subito dopo il racconto prosastico. La Þórsdrápa è attestata solo nei mss. Rs, T e W, ma è assente in U: vi è dunque la possibilità che non fosse inclusa nel testo originale dello Skáldskaparmál ma vi sia stata aggiunta in seguito. Questo potrebbe spiegare le profonde differenze tra le due versioni della vicenda.

In Snorri il «ciclo di Geirrøðr» connette cinque scene:

  1. Geirrøðr strappa a Loki, trasformato in falco, la promessa di consegnargli Þórr senza il suo martello;
  2. Þórr viene ospitato dalla gigantessa Gríðr, la quale gli fornisce un equipaggiamento sostitutivo;
  3. il guado del fiume Vimur, con Gjálp che ne ingrossa le acque;
  4. a casa di Geirrøðr: nella scena della sedia, Gjálp e Greip vengono uccise da Þórr;
  5. lo scontro finale tra Þórr e Geirrøðr.

L'andamento è piuttosto maldestro: le scene 1 e 2 vengono giustapposte senza alcun raccordo; il finale è sbrigativo e affrettato. Il racconto ha tuttavia il pregio di una certa chiarezza e serve di solito come base per i riassunti divulgativi, sebbene sia forte il sospetto di pesanti interventi da parte dello stesso Snorri.

Tanto Snorri è chiaro, tanto la Þórsdrápa è ostica. Il poema di Eilífr Goðrúnarson è considerato il più intricato di tutta la lirica scaldica: è talmente irto di kenningar e di loci obscuri da renderne la comprensione particolarmente ardua. Neppure il confronto con il racconto prosastico dell'Edda aiuta a far luce sul poema: al contrario, vi sono tra il testo di Snorri e quello di Eilífr delle importanti differenze. Innanzitutto la Þórsdrápa manca completamente delle scene 1 e 2. Vi si dice che fu Loki a convincere Þórr ad andare ad affrontare Geirrøðr, ma non ne viene svelata la ragione e manca qualsiasi accenno al fatto – fondamentale in Snorri – che il dio abbia intrapreso il viaggio disarmato.

Un'altra differenza importante tra i due testi è che nella Þórsdrápa è Þjálfi ad accompagnare il dio del tuono nel suo viaggio; egli si aggrappa alla cinghia dello scudo di Þórr durante il guado e in seguito dà manforte al compagno nella lotta contro gli jǫtnar. Nel testo di Snorri, invece, Þórr si muove e agisce completamente da solo, tranne nella breve scena dell'attraversamento del fiume Vimur, dov'è detto che Loki è aggrappato alla sua cintura. Questi è però citato soltanto in questo punto e scompare nel resto della narrazione. L'assenza di Þjálfi nel racconto di Snorri e la sua maldestra sostituzione con Loki costituiscono una crux comparativa per la quale non è ancora stata data una spiegazione convincente.

In Snorri, Þórr giunge alla terra di Geirrøðr guadando il Vimur, il «più grande di tutti i fiumi». Eilífr si sofferma a lungo sulla scena del guado, che descrive con molte aggrovigliate immagini poetiche, ma non parla di fiumi, né cita mai il Vimur. Piuttosto, nella Þórsdrápa il guado sembra venire compiuto attraverso un tratto di mare: presumibilmente quello che separa Miðgarðr da Jǫtunheimr. La Þórsdrápa non fa nessun accenno al fatto che la piena sia stata causata dall'intervento di Gjálp. I nomi di Gjálp e Greip non sono mai citati nel testo di Eilífr. Questi descrive però due scontri di Þórr con gli jǫtnar del tutto ignorati in Snorri: uno subito dopo la scena del guado, l'altro dopo l'uccisione di Geirrøðr.

Tra le altre fonti scaldiche, segnaliamo una strofa attribuita a Þjóðólfr Arnórsson, poeta di corte di Haraldr harðráði (inizio xi secolo), e contenuta nel Flateyjarbók, si riferisce al «gioco» tra Þórr e Geirrøðr, che si tirano l'un l'altro un proiettile incandescente. Il suo contenuto è tuttavia imitativo dello stile di Eilífr:

Varp úr þrætu þorpi
Þórr smiðbelgja stórra
hvápteldingum hǫldnum
hafra kjǫts at jǫtni.
Hljóðgreipum tók húða
hrǫkkviskafls úr afli
glaðr við galdra smiðju
Geirrǫðr síu þeirri.

 

Þjóðólfr Arnórsson
II - UNA VERSIONE LEGGENDARIA: IL ÞORSTEINS ÞÁTTR BÆJARMAGNS

Un'analisi del ciclo di Geirrøðr non sarebbe completa senza uno sguardo alla versione del Þorsteins þáttr bæjarmagns, una saga breve di argomento leggendario, risalente alla fine del xiii secolo e tradita in una quarantina di manoscritti, tra cui cinque vellum del xiv-xv secolo (Lindow 2014 | Isnardi 1991). La vicenda, svolta in maniera fiabesca, presenta paralleli molto evidenti con la versione di Snorri.

Protagonista è qui un certo Þorsteinn bæjarmagn, campione di re Óláfr Tryggvason. Pur essendo un mortale, Þorsteinn sembra essere un'ipostasi dello stesso Þórr. È descritto come un uomo «grande e forte, caparbio e privo di esitazioni, non importa con chi avesse a che fare» [Hann var mikill ok sterkr, harðúðigr ok óaflátssamr við hvern, sem eiga var], «l'uomo più grosso che vi fosse in Norvegia, così grosso che in tutto il paese non c'era quasi una porta che egli potesse attraversare senza qualche difficoltà» [engi var jafnstórr í Noregi, ok trautt fengust þær dyrr, at honum væri hægt um at ganga]. Lo stesso nome, Þorsteinn, è composto su quello di Þórr; e il suo heiti, bæjarmagn, «potere del palazzo», sembra un calco semantico di Þrúðheimr, «casa della forza», o Þrúðvangar, «campi della forza», nomi del territorio di Þórr. Il «declassamento» di una divinità in un personaggio eroico è un fenomeno comune nel tardo sviluppo letterario di molti miti. Venuto meno il contesto pagano che ne sorreggeva l'ideologia originaria, il racconto viene recuperato e riadattato alla nuova sensibilità storica: così l'antico mito diviene leggenda o fiaba.

Ma diamo ora un riassunto del þáttr, soffermandoci sui punti più significativi ai fini del nostro lavoro (Pálsson ~ Edwards 1985).

Þorsteinn bæjarmagn è un individuo di notevole stazza e anche di pessimo carattere. Il padre, per toglierselo di torno, gli dà una nave e una ciurma, e Þorsteinn si arricchisce tanto con il commercio quanto con il saccheggio. Óláfr Tryggvason, re del Nóregr (♔ 995-1000), ne fa infine uno dei suoi uomini di fiducia e a lui assegna le missioni più pericolose.

Nel corso di una delle sue spedizioni, la nave di Þorsteinn si ritrova arenata sulle sponde del Bálagarðr (sulla costa finlandese?). Una mattina Þorsteinn vede un ragazzo fermarsi presso un tumulo, dicendo: «Madre, mandami il krókstaf («bastone ricurvo») e i guanti. Voglio partire per una cavalcata: c'è una celebrazione nel mondo inferiore [heimr neðan]». Subito un bastone e un paio di guanti vengono gettati fuori dal tumulo: il ragazzo li prende e, infilato il bastone tra le gambe a mo' di cavalcatura, parte. Allora Þorsteinn si avvicina a sua volta al tumulo e ripete le parole del ragazzo: un bastone e dei guanti gli piovono subito tra le mani. Þorsteinn infila il krókstaf tra le gambe e insegue il ragazzo. I due oltrepassano un fiume impetuoso come fosse stato fumo, e giungono in una ricca e popolosa città. Entrano nel palazzo principale e Þorsteinn si accorge che entrambi sono invisibili agli occhi dei presenti. Il re e la regina della città stanno seduti a banchetto: il ragazzo ruba una gran quantità di cibo dal desco e ne riempie il suo sacco; Þorsteinn s'impossessa invece del prezioso anello che il re porta al dito. Ma mentre guadagna la porta, gli cade di mano il krókstaf: subito tutti i presenti si accorgono della sua intrusione e si gettano su di lui. Recuperato il krókstaf, Þorsteinn riusce a fuggire per il rotto della cuffia.

Tornato al tumulo, il ragazzo vi salta dentro. Þorsteinn vi si affaccia e vede due donne: una tesse una stoffa preziosa, l'altra culla un bambino. Alla domanda di chi abbia preso l'altro krókstaf, il ragazzo dice alla donna: «È stato Þorsteinn bæjarmagn. È venuto insieme a me e per poco non siamo stati uccisi entrambi. Þorsteinn ha rubato i tesori del mondo inferiore, di cui non vi è pari nel Nóregr».

In un viaggio successivo, Þorsteinn arriva nel Rísaland, la terra dei giganti. È questo un paese sconosciuto, silenzioso, dove non si ode né il canto degli uccelli né i versi di alcuna altra bestia. Lasciata la nave in fondo a un fiordo, Þorsteinn si mette in cammino verso l'interno. Più tardi, vede arrivare tre cavalieri di gigantesca statura, in groppa a enormi destrieri grigi. Interrogato, Þorsteinn rivela il suo nome, si presenta come il più forte e coraggioso degli uomini di re Óláfr e non nasconde di essere conosciuto come bæjarmagn. «Assai poco ragguardevole deve essere questo sovrano se non ha ai suoi ordini nessuno più robusto di te» ride il più possente dei tre giganti. «A mio parere bisognerebbe chiamarti bæjarbarn [«bimbo del palazzo»], non bæjarmagn [«potere del palazzo»]».

Dopodiché il gigante si presenta a sua volta: «Io mi chiamo Goðmundr e regno su Glæsisvellir, nel Rísaland. I miei compagni si chiamano Fullsterkr e Allsterkr. Noi siamo tributari di Geirrøðr, re del confinante paese di Jǫtunheimr, anche se non siamo certo felici di essere governati dagli jǫtnar. Mio padre, Úlfheðinn trausti, si stava recando a Geirrøðargarðr per consegnare il tributo annuale quando è morto. Geirrøðr ha imbandito un banchetto funebre in suo onore e noi stiamo andando là».

Þorsteinn si unisce volentieri a Goðmundr e la compagnia si mette in viaggio. Giungono al fiume Hemra, che divide Rísaland da Jǫtunheimr. La sua corrente è così impetuosa che soltanto dei destrieri particolarmente robusti possono guadarlo e le sue acque talmente gelide che basta il semplice contatto per provocare un'immediata cancrena. I quattro indossano abiti speciali, di cui rivestono sé stessi e i cavalli, e scendono al fiume. Ma il destriero di Goðmundr incespica e, nel tentativo di salvare il compagno, Þorsteinn non può evitare di bagnarsi l'alluce. Giunti sull'altra sponda, il dito del piede è congelato. Il norvegese se lo mozza con il coltello e i suoi compagni rimangono impressionati dalla sua durezza.

Goðmundr e i suoi compagni giungono così a Geirrøðargarðr. Re Geirrøðr dà loro una buona accoglienza, e li conduce in una casa rocciosa [steinhús] destinata a ospitarli per il tempo della loro permanenza. Þorsteinn li segue di nascosto: si è infatti reso invisibile grazie al potere del krókstaf. Più tardi, nella hǫll del sovrano, Goðmundr presta giuramento di vassallaggio a Geirrøðr. Vicino gli siede Agdi di Gnipalundr, jarl del regno di Grundir. Costui è un fjǫkunnigr, uno stregone, e i suoi uomini Jǫkull e Frosti sono più simili a trǫll che a esseri umani. Roso dalla gelosia, Jǫkull prende un osso di bue dal tavolo e lo scaglia contro gli uomini di Goðmundr. Ma Þorsteinn lo afferra al volo e lo rispedisce al mittente, senza che nessuno si accorga della sua presenza. L'osso centra Jǫkull in pieno viso, rompendogli il naso e tutti i denti.

Irritato, re Geirrøðr convoca i suoi uomini, Drǫtt e Hǫsvir: «Andate a prendere la mia palla d'oro». I due portano una testa di foca incandescente, dal peso di duecento libbre, da cui sprizzano scintille e gocciola grasso bollente. «E ora palleggiate con questa» ordina il re. «Chi si rifiuta sarà bollato come vigliacco, e chi la lascia cadere sarà considerato un fuorilegge e i suoi beni confiscati.» Così i presenti cominciano a tirarsi l'un l'altro la sfera incandescente e Þorsteinn, sempre invisibile, aggiunge la propria forza a quella dei suoi compagni. Ben presto Frosti si spacca uno zigomo e Agdi si brucia la barba col grasso bollente. Poi Goðmundr rilancia la sfera a re Geirrøðr, ma il proiettile colpisce Drǫtt e Hǫsvir, uccidendoli entrambi. La palla sfonda poi una finestra e cade nel fossato sottostante, sollevando scintille e fiammate.

Il giorno successivo, Geirrøðr convoca i suoi ospiti e propone loro un incontro di glíma. Con l'aiuto dell'invisibile Þorsteinn, Fullsterkr e Allsterkr affrontano rispettivamente Frosti e Jǫkull: il primo ha la nuca spaccata contro il pavimento e si frattura i gomiti, il secondo si sloga una gamba. Toccò allora ad Agdi lottare contro Goðmundr: i due si spogliano e il primo è nero come la morte, mentre il secondo ha la pelle chiara e pallida. Agdi afferra il suo avversario tra le braccia e sta quasi per frantumargli le costole, quando Goðmundr – con l'aiuto di Þorsteinn – lo scaraventa al suolo rompendogli il naso e i denti.

Mentre Geirrøðr va proponendo altre difficili prove, tra cui vuotare due corni giganteschi detti Hvítingar, Goðmundr conduce Þorsteinn, ora tornato visibile, dal re, presentandolo come un servitore mandatogli da Óðinn. «Cosa è in grado di fare questo ragazzino?» chiede con disprezzo Geirrøðr. Þorsteinn gli mostra una pietra magica che, tempo prima, aveva ricevuto in dono da un nano, avendogli salvato il figlio. Stringendo gli angoli della pietra, è possibile suscitare tempeste o tormente, oppure sollevare fiamme e scintille. Così fa Þorsteinn: scatena un turbine di vento attraverso la hǫll, poi fa brillare di nuovo il sole. «Vuoi che continui il mio gioco?» chiede allora al re. «Fammi vedere dell'altro» ordina Geirrøðr. Allora Þorsteinn serra la pietra e fa schizzare un fiotto di scintille negli occhi di Geirrøðr, quindi gliela scaglia in volto. Geirrøðr cade morto. In tal modo, Goðmundr prende il controllo di Geirrøðargarðr e diviene re dell'intero territorio. Þorsteinn torna nel Nóregr e porta un ricco bottino in dono a re Óláfr.

III - LA TESTIMONIANZA DI SAXO GRAMMATICUS

Alla vicenda fa pure riferimento un interessantissimo episodio riportato da Saxo Grammaticus nell'ottavo libro del suo Gesta Danorum (inizio xii sec.), il cui protagonista, il marinaio Thorkillus [Þorketill aðalfari] è anch'esso un'ipostasi eroica di Þórr.

Geruthus
Alan Lee, illustrazione.

Il re danese Gormo [Gormr], venuto a conoscenza delle leggendarie ricchezze ammassate da Geruthus [Geirrøðr], un malvagio sovrano che dimora ai confini del mondo, prepara una grande spedizione cui partecipano trecento uomini. Come dux sceglie Thorkillus, un marinaio esperto delle rotte settentrionali.

Le navi salpano dal Hálogaland, il porto più settentrionale della Norvegia e, puntate le prue a est, solcano il mar glaciale Artico fino a raggiungere il Bjarmaland (Gesta Danorum [viii, xiv, 2-6]). Le navi arrivano infine in una terra selvaggia, percorsa da fiumi fragorosi e spumeggianti. I marinai scendono a riva e macellano le bestie. A questo punto arriva loro incontro un individuo gigantesco: è Guthmundus [Goðmundr], fratello di Geruthus, il quale invita i danesi a fermarsi nella sua dimora.

Guidati da Guthmundus, Thorkillus e i suoi arrivano a un ponte d'oro che scavalca un fiume: i danesi vorrebbero attraversarlo ma Guthmundus li informa che quel fiume è il limite che separa il mondo degli uomini da ciò che si trova oltre e che non è concesso ai mortali superarlo. Quindi, condotti i danesi nella sua reggia, Guthmundus imbandisce un ricco banchetto e offre loro la compagnia delle sue figlie. Ma Thorkillus avverte i suoi uomini di non accettare né cibo né donne: chi avrebbe condiviso quel cibo avrebbe perduto la memoria e sarebbe stato costretto a passare il resto della sua vita insieme a quei turpi esseri (Gesta Danorum [viii, xiv, 7-9]).

Visti inutili i suoi sforzi di ingannare i danesi, Guthmundus dà loro il permesso di oltrepassare il fiume: al di là si trova il regno di Geruthus. Thorkillus e i suoi giungono in una città lugubre e desolata, circondata da una palizzata: teste umane sono infilzate sulle picche e cani feroci ne vigilano l'ingresso. Solo con difficoltà riescono a varcarne le porte. All'interno è un groviglio di ricchezze ineguagliabili abbandonate in mezzo al più orribile sudiciume, mentre spettri esangui li guatano dai loro seggi. Al centro della sala si presenta loro un'immagine grottesca:

Procedentes perfractam scopuli partem nec procul in editiore quodam suggestu senem pertuso corpore discissae rupis plagae adversum residere conspiciunt. Praeterea feminas tres corporeis oneratas strumis ac veluti dorsi firmitate defectas iunctos occupasse discubitus. Cupientes cognoscere socios Thorkillus, qui probe rerum causas noverat, docet Thor divum, gigantea quondam insolentia lacessitum, per obluctantis Geruthi praecordia torridam egisse chalybem eademque ulterius lapsa convulsi montis latera pertudisse; feminas vero vi fulminum tactas infracti corporis damno eiusdem numinis attentati poenas pependisse firmabat. Avanzando nella sala, scorgono una fenditura nella roccia e non molto distante, seduto su una piattaforma sopraelevata di fronte alla rupe spaccata, un vecchio con il corpo squarciato. Lì vicino vedono anche tre donne, con il corpo ricoperto di scrofole, che sembravano senza forza nella spina dorsale. I suoi compagni bruciavano dalla voglia di sapere, perciò Thorkillus, che conosceva bene la ragione di quelle cose, raccontò loro che il dio Thor era stato una volta sfidato dall'arroganza dei giganti e, mentre lottava contro Geruthus, gli aveva cacciato nelle viscere una verga di ferro incandescente che, attraversandogli il corpo e scivolando più in basso, era arrivata a spaccare i fianchi della montagna, squarciandola. Disse che le donne erano state colpite dai potenti fulmini di Thor e avevano pagato con il corpo spezzato la colpa di avere provocato la divinità.
Saxo Grammaticus: Gesta Danorum [viii, xiv, 15]

Ma i viaggiatori trovano anche quel tesoro di cui hanno tanto sentito parlare. Vedono sette bacili bordati d’oro contenenti una grande quantità di anelli d’argento, un corno potorio impreziosito da pietre preziose, una zanna magnificamente intagliata, un pesante bracciale d'oro. La cupidigia degli uomini è difficile da tenere a freno, ma il pericolo è in agguato:

Cuius immodica quidam cupiditate succensus, avaras auro manus applicuit, ignarus excellentis metalli splendore extremam occultari perniciem nitentique praedae fatalem subesse pestem. Alter quoque, parum cohibendae avaritiae potens, instabiles ad cornu manus porrexit. Tertius, priorum fiduciam aemulatus nec satis digitis temperans, osse humeros onerare sustinuit. Quae quidem praeda uti visu iucunda, ita usu prodigialis exstitit; illices enim formas subiecta oculis species exhibebat. Armilla siquidem anguem induens venenato dentium acumine eum, a quo gerebatur, appetiit; cornu in draconem extractum sui spiritum latoris eripuit; os ensem fabricans aciem praecordiis gestantis immersit. Uno degli uomini, infiammato dalla cupidigia, mise avidamente le mani su quell’oro, senza sapere che dietro lo scintillio del nobile metallo si celava una mortale sventura e che, nella sala luccicante, aleggiavano morte e rovina. Pure un altro non seppe trattenere l’avidità e allungò la mano per afferrare il corno. Il terzo non fu meno temerario degli altri: le dita smaniose, prese la zanna. Ma la ricchezza del bottino era solo inganno per gli occhi: efficace quanto l’effetto terrificante che era in grado di esercitare. Il bracciale divenne un serpente velenoso che morse chi lo aveva afferrato, il corno si trasformò in un drago che uccise chi lo aveva trafugato e il dente si mutò in una spada che conficcò la propria punta nel petto di chi la reggeva.
Saxo Grammaticus: Gesta Danorum [viii, xiv, 16]

Assistendo alla fine dei loro compagni, gli altri si guardano dal toccare i preziosi. Giungono poi a un uscio che, attraverso uno stretto passaggio, conduce in un altro locale: un forziere segreto straripante di nuovi tesori. Si scorgono armature più grandi della normale statura umana, un mantello regale, uno splendido copricapo e una cintura altrettanto sgargiante. Gli oggetti seducono gli occhi di Thorkillus che, alla fine, cede al desiderio di appropriarsene, nonostante abbia comandato ai suoi uomini di tenere le mani a posto. Afferra il mantello e subito tutti gli altri si lanciano sui tesori. In quel momento l’edificio comincia a tremare. Le figure umbratili, fino a quel momento incoscienti, tornano in vita e aggrediscono gli intrusi. I danesi rispondono alle lamiae con le armi e tengono lontano quel branco di mostri con frecce e lance. Ma solo venti tra gli uomini del hirð sono abbastanza abili da salvare la pelle: gli altri finiscono sbranati dalle orride creature. I danesi scappano a gambe levate e tornano al fiume.

Più tardi, Guthmundus li accompagna sull’altra riva con una chiatta. Con gentilezza li invita più volte a sostare nella sua dimora ma, non potendo costringerli a fermarsi, li lascia andare con il loro ricco bottino (Gesta Danorum [viii, xiv, 12-18]).

IV - IL REGNO DI GEIRRØÐR: UNA GEOGRAFIA IPERBOREA

Snorri colloca il regno di Geirrøðr in maniera piuttosto vaga, nello Jǫtunheimr. Non fornisce altre informazioni, tranne una: che Þórr, per arrivarvi, deve guadare il Vimur, il «più grande di tutti i fiumi» [allra á mest] (Skáldskaparmál [26]). Sebbene il nome del Vimur appaia in una delle due strofe dell'anonimo poema eddico citato da Snorri, esso non è presente in nessun'altra fonte: non compare neppure nel lungo elenco idronomastico di Grímnismál [27-29], a meno che non lo si debba considerare una forma alternativa del nome del fiume Vina (Grímnismál [28a]). Nessun idronimo è citato nella Þórsdrápa, dove il guado di Þórr, descritto con notevole ricchezza di immagini poetiche, sembra piuttosto svolgersi attraverso un tratto di mare, almeno a giudicare dalle numerose kenningar, più o meno oscure, che costellano il brano: Endils mó («brughiere di Endill»), Gangs dreyri («sangue di Gangr»), háfmǫrk («selva della rete»), stopvǫll hnísu («terra sconnessa delle focene»?), e via dicendo. Certamente le due interpretazioni (fiume o mare) non sono tra loro contraddittorie: se ci proiettiamo in una cosmologia mitica, il «più grande di tutti i fiumi» può benissimo essere un tratto dell'oceano che circonda il mondo.

Ci aiuta il fatto che numerose fonti descrivano il regno di Geirrøðr come confinante a quello di re Goðmundr. Nel Þorsteins þáttr bæjarmagns, il regno di Goðmundr si trova nel Rísaland e il regno di Geirrøðr nello Jǫtunheimr, entrambe mitiche terre di giganti, e tra i due regni scorre il mortale fiume Hemra. Come Saxo, anche la Bósa saga colloca il regno di Goðmundr a oriente del Bjarmaland. Si comprende il ragionamento di Martti Haavio, il quale ha interpretato il guado della Þórsdrápa come un percorso attraverso il mar Artico: secondo l'autore, il Vimur altro non sarebbe che la Dvina Settentrionale, fiume a cui viene di solito associata la Vina citata nel Grímnismál (Haavio 1965). Il lettore tuttavia non ce ne vorrà se le interpretazioni geografiche ci convincono poco, soprattutto se stiamo trattando di reami mitologici.

Nel racconto di Saxo Grammaticus, il marinaio Thorkillus sa bene che, per raggiungere il regno di Geruthus e impadronirsi delle sue immense ricchezze, dovrà affrontare un viaggio «quasi inaccessibile per dei mortali»: bisogna attraversare l'oceano che circonda il mondo, lasciandosi alle spalle sole e stelle, e viaggiare in un regno caotico, immerso in una perenne oscurità (Gesta Danorum [viii, xiv, 1]). È un percorso assolutamente mitologico, sebbene Saxo finisca per fissarlo nella geografia delle spedizioni vichinghe della sua epoca: dopo essersi immesso nel mar glaciale Artico, Thorkillus costeggia la costa settentrionale della Scandinavia e arriva nella parte più lontana del Bjarmaland. Questa regione – estrema propaggine nord-orientale delle spedizioni vichinghe – si trovava sulla costa settentrionale dell'odierna Russia, oltre la penisola di Kola. In Saxo è però descritta come un luogo mitologico, avvolto da una notte perenne e abitato da orribili mostri. Qui egli colloca i regni di Guthmundus e Geruthus. Tra i due si registra la presenza di un fiume assai pericoloso:

Procedentibus amnis aureo ponte permeabilis cernitur. Cuius transeundi cupidos a proposito revocavit, docens eo alveo humana a monstruosis secrevisse naturam nec mortalibus ultra fas esse vestigiis. Durante il tragitto, [gli uomini di Thorkillus] scorgono un fiume scavalcato da un ponte fatto d'oro. Gli uomini volevano attraversarlo, ma Gurthmundus li invitò a desistere dal loro proposito, dicendo che il letto di quel fiume era il limite che la natura aveva creato per separare il mondo degli uomini da quello non umano e che non era concesso ai mortali di spingere i passi al di là.
Saxo Grammaticus: Gesta Danorum [viii, xiv, 7]

Il ponte d'oro rimanda al Gjallarbrú dell'Edda, che scavalca uno dei fiumi inferi (ganga of Gjallarbrú è metafora scaldica per «morire»). I regni di Geirrøðr e di Goðmundr appaiono essere delle espressioni del mitema del Tartarus septentrionalis.

Hafs-botn
Il mar Artico come «golfo». (Nansen 1911)

Il contesto è dunque oltremondano. Che nelle fonti i regni di Geirrøðr e Goðmundr appaiano collocati oltre il Bjarmaland, e quindi nei termini di una geografia reale, è il risultato delle interpretazioni razionalizzanti eseguite da Saxo Grammaticus e dagli altri autori di epoca tarda. La concezione cosmografica sottesa a questi testi, cui è rimasta traccia nelle ballate e nelle saghe, si muoveva tuttavia lungo traiettorie piuttosto diverse da quelle a noi abituali. Secondo Liestøl e Moe, questa remota terra era immaginata oltre un vastissimo golfo che collegava la Groenlandia alla Norvegia. (Liestøl ~ Moe 1920-1924)

Il territorio situato dall'altra parte del golfo (formato dal mar glaciale Artico), viene chiamato Hafsbotn nella Landnámabók e nelle fornaldarsǫgur, Norðrbotn [Sinus septentrionalis] nella Historia Norwegiae, Trollebotten o Trollabotnar nelle ballate, o semplicemente Botnar. Il termine botn indica il «fondo» di un fiordo o di una valle; cfr. inglese bottom (Taglianetti 2016). È in questo paese iperboreo che si recano gli eroi delle saghe e delle ballate a conquistare tesori, abbattere mostri e rapire splendide fanciulle. Ma questo luogo non appartiene alla geografia, bensì alla cosmologia. Luca Taglianetti ricorda che nella ballata Jomfrua Ingebjørg il toponimo Trollebotten indica l'inferno (Taglianetti 2016).

La terra di Goðmundr e di Geirrøðr va parimenti collocata in questi remote plaghe iperboree.

V - L'EQUIPAGGIAMENTO DI GRÍÐR

Un motivo interessante, nello Skáldskaparmál, sta nella panoplia che la gýgr Gríðr fornisce a Þórr per la sua spedizione. Nella versione di Snorri, infatti, Þórr è disarmato: Loki lo ha convinto a recarsi da Geirrøðr senza il suo martello e il dio sta per cadere in una trappola mortale. Gríðr ospita Þórr nella sua dimora e, prima di lasciarlo andare, gli fornisce degli strumenti sostitutivi del Mjǫllnir, che gli permettano di superare l'impresa.

Hon léði honum megingjarða ok járngreipr er hon átti ok staf sinn er heitir Gríðarvǫlr. Ella gli prestò anche la cintura di potere e i guanti di ferro che possedeva, insieme alla sua verga, chiamata Gríðarvǫlr.
Snorri Sturluson: Skáldskaparmál [26]

Su Gríðr non sappiamo molto. Skáldskaparmál [26] è l'unica fonte che ci fornisca delle notizie su di lei. Era madre di Víðarr, da cui si deduce che sia stata amante di Óðinn. Questo dettaglio sembra essere confermato da Snorri, il quale definisce Frigg <elju Gerðar>, espressione di solito emendata in elju Griðar, «rivale di Gríðr» (Skáldskaparmál [27]). Il nome della gigantessa deriva dal norreno gríðr, «ira» (cfr. inglese greed), termine che compare in senso apparentemente generico in un verso della Ljoða Edda, dove l'espressione gránstóð gríðar, «cavalcature grigie della strega», è kenning per «lupo» (Helgakviða Hundingsbana ǫnnor [25]). Altre occorrenze del nome (ad esempio nella Illuga saga Gríðarfóstra) si riferiscono a personaggi non direttamente rapportabili alla Gríðr snorriana. Così Grytha, sposa di re Dan di Danimarca, definita da Saxo summae inter Theutones dignitatis matrona (Gesta Danorum [I, i, 3]).

Gli oggetti prestati da Gríðr a Þórr sono:

  1. la cintura del potere [megingjarðar],
  2. i guanti di ferro [járngreipr],
  3. la verga Gríðarvǫlr.

Di questi oggetti, i primi due fanno già parte dell'usuale panoplia di Þórr: la cintura di potere [megingjarðar], in grado di moltiplicare le forze del dio, e i guanti di ferro [járngreipr], che Þórr usa per impugnare il suo incandescente martello. Gríðr sembra dunque fornire a Þórr degli strumenti analoghi, se non identici, a quelli che il dio ha lasciato a casa. Entrambi gli strumenti saranno funzionali al seguito del racconto di Snorri: Loki si aggrappa alla megingjarðar nel corso del guado del Vimur, mentre i guanti serviranno a Þórr per afferrare il pezzo di metallo incandescente scagliatogli addosso da Geirrøðr. Nonostante ciò, la duplicazione di oggetti così particolari sembra un dato ridondante. Il forte sospetto è che l'episodio di Gríðr sia stato, in origine, il mito che spiegava come Þórr fosse venuto in possesso per la prima volta della cintura della forza e/o dei suoi guanti di ferro.

Diverso il caso del bastone [stafr] detto Gríðarvǫlr, «verga di Gríðr», che non appartiene alla tradizionale panoplia del dio del tuono. Il termine vǫlr indica una sorta di bacchetta magica, ma nel seguito del racconto lo strumento è defunzionalizzato. Þórr se ne serve per puntellarsi durante il guado del Vimur e quindi per evitare di venire schiacciato contro il soffitto della casa di Geirrøðr: due azioni per cui non sono necessari particolari poteri o virtù. L'impressione è che Snorri si limiti a registrare la presenza del Gríðarvǫlr più che la sua funzione.

Si noti che la sosta di Þórr presso Gríðr è presente soltanto nel testo di Snorri: la Þórsdrápa non conosce affatto l'episodio e non entra mai nel merito dell'equipaggiamento del dio. Nel poema di Eilífr Goðrúnarson manca anche qualsiasi accenno al fatto che Þórr abbia intrapreso il viaggio disarmato: al contrario, un verso ci informa che il dio abbia compiuto un massacro tra gli jǫtnar utilizzando il suo «martello insanguinato» [dreyrgum hamarr] (Þórsdrápa [18]).

In quanto alla cintura, la Þórsdrápa sembra citarla in una kenning, dove Þórr è definito njótr njarðgjarðar, «colui che beneficiò della cintura chiusa» (Þórsdrápa [7: 4]). Non è affatto scontato che njarðgjǫrð («cintura chiusa») sia il megingjarðar, e val la pena ricordare che la cintura del potere è del tutto sconosciuta nei poemi eddici: primo e unico a testimoniarne l'esistenza è proprio Snorri. Ma pure ammettendo che la kenning si riferisca alla megingjarðar, l'espressione va vista come una circonlocuzione poetica e non dimostra che Þórr indossasse la cintura nel corso del racconto. Più contestualizzata è la scena del guado, dove Eilífr afferma che Þjálfi sia aggrappato «alla cinghia dello scudo del signore del cielo» [skaunar á seil himinsjóla] (Þórsdrápa [9: 1-2]), ma anche qui non vi è alcuna evidenza che ci si riferisca a megingjarðar. È Snorri a effettuare tale identificazione, peraltro sostituendo Loki a Þjálfi. Leggiamo infatti nella Prose Edda che, mentre Þórr era impegnato ad avanzare a guado lungo la corrente impetuosa del Vimur, «Loki stava dietro, stretto alla cintura del potere» [Loki helt undir megingjarðar] (Skáldskaparmál [26]).

I guanti di ferro [járngreipr] sono analogamente ignorati da Eilífr Goðrúnarson. Nella Þórsdrápa Þórr sembra piuttosto afferrare a mani nude il frammento di ferro incandescente lanciatogli da Geirrøðr.

Svá at hraðskyndir handa
hrapmunnum svalg gunnar
lyptisylg á lopti
langvinr síu Þrǫngvar...

E quindi colui che si affretta alla battaglia,
afferrandola in aria con la rapida bocca delle mani,
avidamente bevve la bevanda del grumo di ferro fuso,
il vecchio amico di Þrǫng...

Eilífr Goðrúnarson: Þórsdrápa [16: 1-4]

Sebbene il brano non sia dei più semplici, l'espressione hrapmunnr handa, la «rapida bocca delle mani», indica lo spazio tra il pollice e l'indice: la metafora per cui la mano diviene una bocca trova affinità semantica con l'immagine del «bere» il metallo incandescente che Geirrøðr ha scagliato contro Þórr (definito «vecchio amico di Þrǫng [Freyja]»). Nella scena non si fa alcuna menzione di guanti: anzi, l'affinità mano ≈ bocca suggerisce un'idea di nudità che porta a escludere la presenza di un'armatura.

Anche per quanto riguarda la verga Gríðarvǫlr, Eilífr non ne registra mai l'uso. Nella scena del guado, Þórr resiste alla corrente impetuosa puntellandosi con delle «lance» [skotnaðrar]. Nella scena della sedia, si limita a dire che le gigantesse cercano di uccidere Þórr spaccandogli la testa contro il soffitto ma si ritrovano schiacciate al suolo con la schiena spezzata. Anche qui nessun riferimento all'uso di una verga:

Ok hám loga himni,
hall- fylvingum vallar
tráðusk þær, við tróði
-tungls brá- salar þrungu...

Spinsero l’alto cielo della fiamma
verso le travi della sala
e vennero schiacciate
…della luna delle ciglia, contro il suolo roccioso.

Eilífr Goðrúnarson: Þórsdrápa [14: 1-4]

È anche possibile che Snorri abbia inserito nel testo la verga Gríðarvǫlr a partire da un arduo distico del poema di Eilífr, che Eysteinn Björnsson normalizza e traduce nel modo seguente:

Stop- hnísu fór steypir
stríðlund með -vǫll Gríðar

Oltre la sconnessa terra delle focene,
l’abbattitore di Gríðr portò l’albero di battaglia.
Eilífr Goðrúnarson: Þórsdrápa [9: 7-8]

Questa coppia di versi, che il Codex Wormianus fornisce nella lezione <stophnisv for steyp stríðlvndr með vꜹl griþar>, è stata tradizionalmente ricostruita dagli studiosi nella forma <stríðlundr steypir stophnísu fór með Gríðarvǫl>, «il furioso abbattitore delle focene delle montagne portò Gríðarvǫlr». Si presume che stophnísa, «focene delle montagne», sia una kenning per indicare le gigantesse; il loro «furioso abbattitore» è dunque Þórr. La parola <vꜹl>, opportunamente normalizzata in vǫlr, «verga», viene connessa al genitivo Gríðar e fornisce la base per la creazione della verga Gríðarvǫlr. Tale ricostruzione poggia però sull'autorità di Snorri. Ma se lo stesso Snorri avesse mal interpretato il testo? Eysteinn sottolinea una serie di difficoltà che renderebbero ardua la suddetta interpretazione e suggerisce una diversa ricombinazione del distico: <Stopvǫll hnísu fór steypir Gríðar með stríðlund>, «Oltre la sconnessa terra delle focene, l’abbattitore di Gríðr portò l’albero di battaglia».

Þórr e le figlie di Geirrøðr
Gottfried F. Carl Ehrenberg (1840-1914), illustrazione.

Qui la parola <vꜹl> non è più intesa come vǫlr, «verga», ma come vǫllr, «terra, campo», e viene combinata in stopvǫllr, «terra sconnessa»; stopvoll hnísu, «terra sconnessa delle focene», diviene ora una kenning per «mare, oceano». In questa ricostruzione, Þórr è indicato come steypir Gríðar, «l'abbattitore di Gríðr». (Eysteinn 2010). Quest'ultima kenning presenta però una difficoltà non da poco, in quanto contraddice il testo di Snorri, dove Gríðr è presentata come amica e soccorritrice di Þórr. È piuttosto difficile ritenere che Snorri abbia alterato il mito fino a rovesciare i rapporti tra il dio del tuono e la gigantessa. Una possibilità, non così remota, è che Eilífr usi il nome Gríðr come kenning per indicare i giganti, o le gigantesse, in generale.

Queste note dànno un'idea di quanto sia arduo dare un senso a certi passaggi della poesia scaldica. È presumibile che, nel combinare le fonti che aveva sottomano, Snorri abbia adattato il racconto del viaggio di Þórr presso Geirrøðr a quello del suo incontro con Gríðr, mito dove si spiegava come la gigantessa avesse dato al dio del tuono i guanti di ferro e la cintura della forza. In tal caso, possiamo pensare che Snorri abbia aggiunto a tale panoplia anche una verga «Gríðarvǫlr», citata o forse mal inferita dal testo della Þórsdrápa. Ciò spiegherebbe i maldestri tentativi di Snorri di trovare una collocazione o un uso più o meno appropriato al nuovo equipaggiamento posseduto da Þórr. Le cose sono andate veramente così?

Un interessante indizio riguardo a questo problema ci viene dal Þorsteins þáttr bæjarmagns, dove entrambi gli episodi trovano una loro logica connessione. Dapprima Þorsteinn ottiene, ingannando le donne soprannaturali che vivono all'interno del cumulo, un krókstaf («bastone ricurvo») in grado di renderlo invisibile; in seguito, raggiunto il regno di Geirrøðr, utilizzerà le proprietà del bastone nei momenti culminanti della vicenda. Questa trama in due tempi, in cui l'eroe si procura dapprima un talismano o un oggetto magico che in seguito utilizza per sconfiggere i suoi nemici, fa parte dei più collaudati meccanismi fiabeschi. Il tema viene sviluppato dal Þorsteins þáttr bæjarmagns in modo assai più rigoroso che non nel racconto di Snorri. In Skáldskaparmál [26] la verga Gríðarvǫlr non ha un uso specifico: Þórr la utilizza più o meno come potrebbe fare con un comune bastone. Al contrario le proprietà magiche del krókstaf vengono utilizzate da Þorsteinn in modo appropriato, dando un aiuto ai propri compagni nel corso delle sfide imposte loro da Geirrøðr.

Confrontando lo Skáldskaparmál con il Þorsteins þáttr si deduce che l'incontro di Þórr con Gríðr, o con un personaggio affine, fosse un fondamentale ingranaggio nel meccanismo del racconto originale. La soluzione più ragionevole è che Snorri abbia combinato tra loro dei racconti simili. Come detto, il tema della consegna della cintura della forza [megingjarðar]e dei guanti di ferro [járngreipr] faceva probabilmente parte di un mito separato, nel quale si narrava come Þórr fosse venuto in possesso del suo tradizionale equipaggiamento. A questo motivo è però venuto ad associarsi quello della consegna a Þórr, da parte di una soccorrevole donna soprannaturale, di uno strumento necessario a sconfiggere Geirrøðr. Questo strumento è il krókstaf nel Þorsteins þáttr e la verga Gríðarvǫlr nel testo di Snorri.

VI - LE FIGLIE DI GEIRRØÐR

Le figlie di Geirrøðr, le gýgr Gjálp e Greip, celano più di quanto non traspaia dal semplice racconto di Snorri. Forzando le fonti è però possibile portare alla luce qualche dettaglio interessante sulla natura di questa sgradevole coppia di gigantesse. I due nomi, allitterati tra loro, vanno necessariamente in coppia: Gjálp, «gemito» (cfr. gjálpa, «guaire»), e Greip, forse «[colei che] afferra» (cfr. greipa, «agguantare»; greip è lo spazio tra il pollice e le altre dita) (Cleasby ~ Vigfússon 1874), appaiono citate insieme in una coppia di semiversi del Hyndluljóð, dove sono due delle nove madri ancestrali di Óttar heimski, il «semplice», protetto della dea Freyja:

Hann Gjalp of bar,
hann Greip of bar,
bar hann Eistla
ok Eyrgjafa,
hann bar Ulfrún
ok Angeyja,
Imdr ok Atla
ok Járnsaxa.

Gjálp lo generò.
Greip lo generò,
lo generò Eistla
ed Eyrgjafa,
lo generò Úlfrún
e Angeyja,
Imðr e Atla
e Járnsaxa.
Ljóða Edda > Hyndluljóð [8]

Poco si può dire sugli altri nomi, che sembrano appartenere a delle gigantesse: sicuramente è una gigantessa Járnsaxa, amante di Þórr e madre di Magni.

Snorri fa intervenire le figlie di Geirrøðr in due occasioni:

Þórr e le figlie di Geirrøðr (✍ 1885)
Lorenz Frølich (1820-1908), illustrazione (Oehlenschläger 1885).

(1) Nella prima, compare la sola Gjálp, la quale ingrossa la corrente del fiume Vimur per rendere difficoltoso il guado di Þórr: il dio le scaglia contro una pietra, e «non mancò il bersaglio». Questa scena è assai curiosa: come ricorda Gianna Chiesa Isnardi, nelle saghe leggendarie erano ricordati esseri chiamati brunnmigi, i quali insozzavano le sorgenti orinandovi dentro (Isnardi 1991). D'altra parte, la scena di Gjálp a cavalcioni del fiume Vimur ricorda irresistibilmente un episodio della leggenda irlandese, dove la Mórrígan si fa trovare dal Dagda Mór con i piedi sulle due sponde del fiume Uinnius. Il mito ibernico si muove però in un contesto completamente diverso, visto che il Dagda sedurrà la Mórrígan ottenendo il suo favore nel corso della battaglia contro i Fomóire. Sostenere un'omologia tra il mito germanico e quello celtico può essere piuttosto arduo, a meno di non ipotizzare un complesso scambio di valenze tra Gríðr e Gjálp. Come la Mórrígan, sedotta dal Dagda, sarà al fianco delle Túatha Dé Danann nello scontro contro i Fomóire, altrettanto Gríðr si mostra soccorrevole nei confronti di Þórr, fornendogli la necessaria attrezzatura per ottenere la vittoria. Un confronto più serrato tra i due miti, però, si rivela irrimediabilmente fragile.

(2) Nella seconda ricorrenza,Snorri fa comparire Gjálp e Greip in coppia. Sollevano di colpo la sedia dove si è seduto Þórr, nel tentativo di fracassargli la testa contro il soffitto; ma il dio, facendo pressione in senso contrario, schiaccia le due gýgr sotto la sedia, spezzando loro la schiena (Skáldskaparmál [26]). Eilífr Goðrúnarson, che conosce soltanto questo secondo episodio, non dice il nome delle due gigantesse morte sotto la sedia di Þórr:

Ok hám loga himni,
hall- fylvingum vallar
tráðusk þær, við tróði
-tungls brá- salar þrungu;
húfstjóri braut hváru
hreggs váfreiðar tveggja
hlátr-elliða hellis
hundfornan kjǫl sprundi.

Spinsero l’alto cielo della fiamma
verso le travi della sala
e vennero schiacciate
…della luna delle ciglia, contro il suolo roccioso.
Il timoniere del carro volante della tempesta
spezzò l’antica chiglia
della nave delle risate
di entrambe le femmine della caverna.

Eilífr Goðrúnarson: Þórsdrápa [14]

I due nomi appaiono però nella seconda strofa del poema eddico citato da Snorri (presente solo nel ms. U).

Einu sinni
neytta ek alls megins
jǫtna gǫrðum í
þá er Gjálp ok Gneip
dǿtr Geirraðar
vildu hefja mik til himins.

Usai una volta
la mia forza tutta
nel recinto degli jǫtnar,
quando Gjálp e Greip
figlie di Geirrøðr
tentarono di portarmi fino al cielo.

Snorri Sturluson: Skáldskaparmál [26 {72²}]

Nel capitolo dedicato alle Þórskenningarkenningar per Þórr»), Snorri cita una strofa di Úlfr Uggason dove Þórr viene definito tunn Vimrar vaðs, «gigante del guado del Vimur», con esplicito riferimento – asserisce il mitografo – al racconto del viaggio di Þórr verso Geirrøðargarðar (Skáldskaparmál [11]). Per meglio spiegare nel dettaglio l'argomento, Snorri cita altre strofe dove si elencano dei giganti sconfitti da Þórr. La prima, attribuita allo scaldo Vetrliði Sumarliðason, così si rivolge allo stesso Þórr:

Leggi brauzt þú Leiknar,
lamðir Þrívalda,
steyptir Starkeði,
stóttu of Gjálp dauða.

Hai rotto le ossa a Leiknar,
hai pestato Þrívaldi,
hai abbattuto Starkaðr,
hai sovrastato il cadavere di Gjálp.

Vetrliði Sumarliðason apud Snorri Sturluson: Skáldskaparmál [11]

Non conosciamo il mito di Leiknar; riguardo a Þrívaldi, è pervenuta una kenning dello scaldo Bragi dove Þórr è definito «colui che ha mozzato le nove teste di Þrívaldi» [sundrkljúfr níu haufða Þrívalda] (Skáldskaparmál [11]); all'uccisione del gigante Starkaðr Áludrengr accenna la versione lunga della Hervarar saga [1]. In quanto a Gjálp, è curioso che Vetrliði la citi da sola, senza la compagnia della sorella. Difficile dire se l'immagine abbia qualche riferimento alla scena della sedia, dove Gjálp e Greip giacciono al suolo con la schiena rotta, o si riferisca a un'ulteriore variante del mito. A questo punto bisogna notare che nel testo di Saxo Grammaticus sono tre le donne con la spina dorsale fratturata:

Praeterea feminas tres corporeis oneratas strumis ac veluti dorsi firmitate defectas iunctos occupasse discubitus. [,,,] feminas vero vi fulminum tactas infracti corporis damno eiusdem numinis attentati poenas pependisse firmabat. Lì vicino vedono anche tre donne, con il corpo ricoperto di scrofole, che sembravano senza forza nella spina dorsale. [...][Thorkillus] disse che le donne erano state colpite dai potenti fulmini di Thor e avevano pagato con il corpo spezzato la colpa di avere provocato la divinità.
Saxo Grammaticus: Gesta Danorum [viii, xiv, 15]

Sebbene nella versione saxoniana Þórr abbia ucciso le gýgr fulminandole, e non schiacciandole sotto la sedia, non c'è dubbio che ci si riferisca allo stesso mito: non solo il contesto è identico ma ritorna puntuale il motivo della schiena spezzata. Il fatto che le donne siano qui tre dipende forse da un computo differente delle vittorie di Þórr contro le figlie di Geirrøðr, contando forse come personaggi separati la gigantessa a cavalcioni sul fiume e le due donne schiacciate sotto la sedia.

Effettivamente, il testo di Snorri è abbastanza laconico riguardo al destino della gigantessa del fiume Vimur:

Þá sér Þórr uppi í gljúfrum nǫkkurum at Gjálp, dóttir Geirrøðar, stóð þar tveim megin árinnar ok gerði hon árvǫxtinn. Þá tók Þórr upp ór ánni stein mikinn ok kastaði at henni ok mælti svá: “At ósi skal á stemma”. Eigi misti hann þar er hann kastaði til. In seguito Þórr vide che Gjálp, figlia di Geirrøðr, stava sull'alto di un burrone, poggiando a gambe divaricate su entrambe le rive del fiume ed era lei la causa della piena. Þórr prese allora una grossa pietra dal fiume e glielo lanciò contro, dicendo: “Un fiume va arginato alla sorgente”. Non mancò di colpire il bersaglio.
Snorri Sturluson: Skáldskaparmál [11]

Nel suo modo abrupto, il testo asserisce esplicitamente che Þórr abbia colpito Gjálp con una violenta sassata. Nonostante ciò, la gigantessa ricompare, apparentemente illesa, nella scena della sedia. Si obietterà che le due scene non sono inconciliabili: si presume che Gjálp sia sopravvissuta al colpo, magari con un livido o un bel bernoccolo. Se contraddizione vi è, essa è soltanto formale: è strano che il colpo scagliato da Þórr, in un contesto così significativo, non abbia sortito alcun effetto, tanto più che da esso è sorto un detto proverbiale: at ósi skal á stemma («un fiume va arginato alla sorgente»). Inoltre la stretta associazione tra le due sorelle rende piuttosto curiosa la singola apparizione di Gjálp, così come la duplicazione di costei in due episodi distinti e fondamentali, dove viene sconfitta da Þórr, peraltro in due modi tanto peculiari. L'impressione è che Snorri abbia attribuito a Gjálp una scena precedentemente incentrata su un altro personaggio.

Þórr prende la mira (✍ 1885)
Lorenz Frølich (1820-1908), illustrazione (Oehlenschläger 1885).
VII - «IL SORBO È LA SALVEZZA DI ÞÓRR»

Un motivo interessante, nell'episodio del guado del fiume Vimur, è legato a un altro detto proverbiale [orðtak]. Snorri lo sbriga in poche parole:
Ok í því bili bar hann at landi ok fekk tekit reynirunn nǫkkvorn ok steig svá ór ánni. Því er þat orðtak haft at reynir er bjǫrg Þórs. E quando giunse all'altra riva, [Þórr] afferrò un ramo di sorbo e uscì dal fiume. Da qui ebbe origine il detto: «il sorbo è la salvezza di Þórr».
Snorri Sturluson: Skáldskaparmál [11]

Il detto reynir er bjorg Þórs non compare nella Þórsdrápa. Come ha osservato Hermann Schneider, Snorri lo aggiunse alla sua versione del racconto desumendolo probabilmente da una tradizione popolare (Schneider 1936). Il dettaglio sembra però essere stato piuttosto significativo, sebbene Snorri ce lo consegni in maniera quasi defunzionalizzata. Gli studiosi hanno avanzato molte ipotesi nel tentativo di dargli una lettura ai fini di un'interpretazione mitologica. Secondo Jan de Vries, il salvataggio di Þórr aggrappato al sorbo troverebbe immediati riscontri in analoghi episodi del mito ellenico: Akhilleús si salva dai vortici dello Skámandros aggrappandosi a un olmo e Odysseús, trascinato dal gorgo di Khárybdis, si aggrappa a un fico selvatico [erineós] (De Vries 1957).

Il norreno reynir (svedese rönn, danese rönne) si riferisce a tutti gli alberi e gli arbusti del genere Sorbus, famiglia delle Rosaceae. Si trattava forse, in origine, una pianta sacra a Þórr? Presentava relazioni mitologiche o cultuali con il dio-tuono? La Isnardi ricorda che il sorbo selvatico era ritenuto una pianta dotata di particolari virtù magiche, quali la capacità di allontanare gli spiriti malvagi o di aumentare la fecondità, e il carattere apotropaico potrebbe facilmente spiegare la sua affinità con Þórr (Isnardi 1991). Nella Sturlunga saga si narra che il capo norvego-islandese Geirmundr heljarskinn («pelle d'inferno») vedeva gli alberi di sorbo selvatico risplendere di una luce soprannaturale: per tale ragione picchiò un servo che aveva pungolato il bestiame con un ramo di sorbo e buttò il latte prodotto nel corso della giornata (Sturlunga saga [II, i, 6]). Un pezzo di ramo di sorbo selvatico è stato rinvenuto in un recipiente di bronzo insieme ad altri resti di oggetti magici in una tomba danese dell'età del bronzo, a Maglehøj, presso Frederikssund, nel Sjælland. (Isnardi 1991)

Martti Haavio ha indirizzato la propria attenzione a un passo con cui Mikael Agricola, primo vescovo della Riforma in Finlandia, presenta la coppia del dio-cielo finnico e della sua sposa presso le popolazioni della Carelia:

Quin Rauni Ukon Naini haͤrsky,
ialosti Wkoi Pohiasti paͤrsky.

Se si accendeva Rauni, moglie di Ukko,
Ukko sprigionava pioggia dal nord.

Mikael Agricola: Hämälaisten ja Karjalaisten jumalat [35-36]

Rauni, sposa di Ukko, il vecchio del cielo nel pántheon finnico, è conosciuta quasi unicamente attraverso la lista di Agricola: Ganander la equipara analogicamente a Rhéa o Iuno (Ganander 1789). Oltretutto il distico non è neppure tanto chiaro e la coppia di termini haͤrsky e paͤrsky ha causato non pochi problemi di interpretazione. Alcuni studiosi presumono che Agricola accenni a un’accesa discussione tra Rauni e Ukko; altri interpretano il testo in senso sessuale: quando Rauni si eccita, arriva la pioggia. È stato Eemil N. Setälä a suggerire che il nome di Rauni sarebbe derivato dal norreno reynir, «sorbo», pianta di cui la dea sarebbe stata la personificazione (Haavio 1965; cfr. Giansanti ~ Di Luzio 2014). Si ricorda che anche presso i sámi il dio-tuono Dierbmes o Horagalles (< svedese Thor karle) aveva una sposa a nome Rávdná.

Il parallelo finnico non ci aiuta molto. Al contrario, è la possibile etimologia del nome di Rauni/Rávdná da reynir che, attraverso il parallelo con il mito scandinavo, offre qualche appiglio all'interpretazione della dea careliana o lappone, nella quale si è voluto vedere – a seconda del capriccio dello studioso – una forma finnicizzata di Sif, Rán o Skáði. Si ritiene peraltro che il nome Rauni/Rávdná sia la forma finnica dell'antroponimo femminile norreno Ragnhildr.

VIII - IL CADAVERE DI GEIRRØÐR, I VIAGGI DI ESKANDAR E IL REGNO IPERBOREO DI ÁTLAS

Il «ciclo di Geirrøðr» non lascia particolari appigli per un rigoroso lavoro di comparazione. Vero: traspaiono molti mitemi ben evidenti, che i folkloristi hanno puntualmente indicato. Il nostro scopo, tuttavia, non è tanto individuare i singoli motivi, quanto cercare di mettere a fuoco la classe di miti omologhi in cui inquadrare questo gruppo di racconti, dandogli una collocazione ben precisa nell'ambito della mitologia universale. Compito non facile, tanto più che il «ciclo di Geirrøðr» è arrivato a noi in diverse versioni e varianti, le quali testimoniano livelli di rielaborazione piuttosto invasivi. Bisognerà attingere da tutti i testimoni a nostra disposizione.

Come abbiamo cercato di dimostrare altrove, alcuni dei miti di Þórr possono essere inquadrati nello schema delle avventure del dio-tuono indoeuropeo: in particolare abbiamo riconosciuto alcune interessanti omologie con alcuni dei miti del ciclo ellenico di Hērakls. Nella cosmologia sottesa dal «ciclo di Geirrøðr», tuttavia, si riconoscono elementi di un isomitema diffuso anche fuori dal dominio indoeuropeo: il mito della ricerca della vita eterna. I medesimi elementi si presentano puntualmente nell'epopea di Gilgameš, nel ciclo ellenico di Hērakls, nella leggenda araba di Bulūqiyā, nei racconti arabo-persiani su al-Iskandar/Eskandar, nel mito cinese dell'arciere . Tutti questi eroi intraprendono viaggi verso terre o isole lontanissime, nel tentativo di arrivare al giardino meraviglioso dove sgorga l'acqua della giovinezza o spuntano i frutti dell'immortalità. Tutti questi miti si basano su una cosmologia comune dove l'oceano cosmico separa la terra abitata dagli uomini da altri «continenti» extramondani, irraggiungibili, dove il tempo è immobile all'età aurea. Abbiamo trattato altrove questo affascinantissimo tema in uno studio apposito, a cui rimandiamo per maggiori approfondimenti. Ⓐ

L'antichissima cosmografia sottesa in questa classe di miti presenta una serie di elementi ricorrenti:

  1. oltre l'oceano esterno si trovano «continenti» extramondani, irraggiungibili dai comuni mortali;
  2. per arrivarvi bisogna attraversare una terra di tenebre, priva di luce e di stelle;
  3. bisogna oltrepassare un corso d'acqua infernale, non di rado mortale.

Le terre d'immortalità, nei miti suddetti, sono a volte localizzate nel lontano occidente, ma si presenta anche, regolarmente, l'idea di un pericoloso viaggio verso l'estremo nord. È in questa direzione che vediamo muoversi Eskandar nella versione persiana della leggenda (ad esempio, nello Šarāfnāmè di Neāmī). Il mito greco colloca di solito il Kpos Hesperídōn, il favoloso giardino dei frutti dell'immortalità, custodito dalle figlie di Átlas, nell'estremo occidente: ma è ben nota la variante in cui Hērakls trovò il kpos nella terra degli Hyperboreoí, dove parimenti era localizzato un monte Átlas:

[I frutti delle Hesperídes] non si trovavano, come alcuni hanno detto, in Libýē, ma sull'Átlas tra gli Hyperbóreoi, ed erano i doni che G aveva fatto a Zeús quando aveva sposato Hḗra.
Apollódōros: Bibliothḗkē [II: 5, 11]

L'estremo nord è il luogo dove il cielo rotea attorno all'asse cosmico, il quale è rappresentato infatti come un'immensa montagna che sorregge il cielo e intorno alla quale roteano il sole, la luna e tutto il firmamento: la sua ombra crea un'immensa regione di eterna oscurità. Così nei vari esiti del mito. Dopo aver ricevuto dagli uomini-scorpione il permesso di attraversare le porte del monte Māšu, Gilgameš arranca un'intera giornata nella totale oscurità. Quando Eskandar si avvicina alla montagna polare, l'oscurità diviene assoluta. Quando Hērakls giunge nella terra degli Hyperboreoí, nell'estremo settentrione del mondo, incontra il titano Átlas che regge il cielo sulle spalle, fungendo egli stesso da perno per la rotazione del firmamento. E Átlas, lo sappiamo, è destinato a trasformarsi in una montagna:

Quantus erat, mons factus Atlas; nam barba comaeque
in silvals abeunt, iuga sunt umerique manusque,
quod caput ante fuit, summo est in monte cacumen,
ossa lepis fiunt: tum partes auctus in omnes
crevis in inmsum (sic, di, statuistis) et omne
cum tot sideribus caelum requievit in illo.
Grande quant'era, Átlas diventò un monte. La barba e i capelli
passarono infatti in selve, le spalle e le mani sono balze,
quello che prima era il capo è il più alto cocuzzolo della montagna,
le ossa divennero sasso. Poi, gonfiandosi dappertutto,
crebbe smisuratamente in altezza (così decideste, o dèi), e tutto
il cielo con le sue tante stelle poggiò su di lui.
Publius Ovidius Naso: Metamorphoseon [IV: -]

Ma il viaggio dei nostri inesausti esploratori dei confini del mondo riserva ancora molte sorprese. Uscito dalle viscere del Māšu, Gilgameš, imbarcatosi sul vascello del dio-sole Šamaš, affronta l'oceano esterno, nel quale scorrono le mê mūti, le «acque della morte». Anche Hērakls attraverso il fiume Ōkeanós sulla navicella del dio-sole Hḗlios: e noi sappiamo che in quelle acque la fatale corrente di Stýx si mescolava a quella di Ōkeanós. Anche in alcune versioni del mito di Eskandar compare il baḥr-i-mard, il «mare della morte».

Tutti questi elementi sono ben presenti negli esiti del ciclo dei viaggi di Þórr/Þorsteinn/Thorkillus. Saxo Grammaticus è molto chiaro nella sua descrizione del viaggio verso l'Extramondanum clima:

Ambitorem namque terrarum Oceanum navigandum, solem postponendum ac sidera, sub Chao peregrinandum ac demum in loca lucis expertia iugibusque tenebris obnoxia transeundum expertorum assertione constabat. Secondo quanto affermavano gli esperti di quella rotta, si doveva attraversare l'oceano che circonda la terra, lasciandosi alle spalle sole e stelle, viaggiare nel regno del caos e infine passare in luoghi esclusi dalla luce e immersi nell'oscurità perenne.
Saxo Grammaticus: Gesta Danorum [viii, xiv, 1]

È un passo che potremmo trovare, parola per parola, nei racconti dei viaggi di Eskandar ai confini del mondo. Analogamente, il fiume Vimur guadato da Þórr, o ancor meglio, il fiume Hemra del Þorsteins þáttr bæjarmagns, talmente gelido che il semplice contatto provoca immediata cancrena, non ha nulla da invidiare alle mê mūti (le «acque della morte») dell'epopea di Gilgameš. L'immagine del fiume è ben presente anche in Saxo, dove ha un carattere liminare assai più spiccato: «Durante il tragitto, [gli uomini di Thorkillus] scorgono un fiume scavalcato da un ponte fatto d'oro. Gli uomini volevano attraversarlo, ma Gurthmundus li invitò a desistere dal loro proposito, dicendo che il letto di quel fiume era il limite che la natura aveva creato per separare il mondo degli uomini da quello non umano e che non era concesso ai mortali di spingere i passi al di là» [Procedentibus amnis aureo ponte permeabilis cernitur. Cuius transeundi cupidos a proposito revocavit, docens eo alveo humana a monstruosis secrevisse naturam nec mortalibus ultra fas esse vestigiis] (Gesta Danorum [viii, xiv, 7]).

Come la misteriosa pû-nārāti («confluenza dei fiumi») dell'epopea di Gilgameš, il Kpos Hesperídōn del mito ellenico, l'isola di al-Ḫiḍr nelle fiaba araba di Bulūqiyā o le meravigliose terre extraoceaniche dei viaggi di al-Iskandar/Eskandar, anche la regione iperboreale del mito nordico era considerata una favolosa terra d'immortalità. Nella redazione lunga della Hervarar saga ok Heiðreks leggiamo quanto segue:

Svá er sagt, at í fyrndinni var kallat Jötunheimar norðr í Finnmörk, [...]. Guðmundr hét konúngr í Jötunheimum; hann var blótmaðr mikill; bær hans hét á Grund, en héraðit á Glasisvöllum; hann var vitr ok ríkr; hann ok menn hans lifðu marga mannsaldra, ok því trúa menn, at í hans ríki sé Ódáinsakr, en hverr, er þar kemr, hverfr af sótt ok elli, ok má eigi deyja. Eptir dauða Guðmundar blótuðu menn hann, ok kölluðu hann goð sitt. Si tramanda che anticamente la regione a nord del Finnland fosse chiamata Jǫtunheimr [...]. Nello Jǫtunheimr viveva allora un re di nome Guðmundr, un pagano dalle ferme convinzioni. Risiedeva in una città chiamata Grund, mentre la regione aveva nome Glæsisvellir. Era un re forte e saggio. Insieme ai suoi sudditi, vivevano numerosi stranieri, poiché i pagani credevano che nel suo regno si trovasse il [campo di] Ódáinsakr e che, chiunque riuscisse a giungervi, scampasse alla malattia e alla vecchiaia, e non morisse. Dopo la morte di Guðmundr, i suoi celebrarono un sacrificio e lo proclamarono loro dio.
 Hervarar saga ok Heiðreks [1]

Glæsisvellir, la «pianura splendente», reminiscente della Glesaria di Plinius, e Ódáinsakr, il «campo degli immortali» (da ó-, prefisso negativo, e dáinn, «morto»), sono due nomi di questa nordica terra d'immortalità. Guðmundr è quindi il signore del felice oltremondo, il guardiano dei passaggi che conducono al di là dello spazio. Le figlie di Goðmundr rassomigliano forse alle Hesperídes del mito ellenico, o alle donne dei fatati síde oltremarini delle leggende irlandesi. Nelle leggende nordiche, tuttavia, il mito appare defunzionalizzato. Nella versione di Saxo, l'incontro dei danesi con Guthmundus viene svolto nei termini di una tentazione da superare: Thorkillus e i suoi uomini devono resistere all'allettamento del cibo imbandito e alle grazie delle bellissime fanciulle che si offrono loro, se vogliono conservare la memoria e la propria integrità.

Ma che dire di Geirrøðr? C'è modo di integrarlo in questo isomitema, oppure si tratta di un elemento esterno al complesso di miti di cui ci stiamo occupando? Il mito del suo incontro/scontro con Þórr, centrale nella vicenda, sembra indicare in realtà che lo jǫtunn rappresenti un elemento significativo in questa classe di miti, sebbene non sia facile capire come collocarlo all'interno del nostro schema. Forse, tuttavia, non è il mito della lotta tra il dio-tuono e Geirrøðr a essere illustrativo in tal senso, ma quello dove Thorkillus e i suoi compagni trovano il cadavere di Geruthus seduto sul suo trono.

Ebbene: un'analoga scena è presente, mutatis mutandis, in alcuni degli esiti del mito alla ricerca dell'immortalità. Nel versione di Ferdowsī del racconto di Eskandar, tornato dai confini del mondo, il grande condottiero, sale in cima a una montagna e ha la visione di un uomo morto ancora assiso sul suo trono: è re Sulaymān. Tale scena, che compare nel racconto persiano come un frammento erratico privo di una funzione comprensibile, è pure presente nella leggenda araba di Bulūqiyā: l'eroe, nel corso del suo viaggio verso la lontana terra dell'immortalità, arriva in una caverna dove trova il cadavere di Sulaymān seduto su un trono. Il suo compagno ʿAffān cerca di rubare il portentoso anello dal dito del re ma tosto compare un serpente e lo incenerisce, mentre Bulūqiyā si salva per il rotto della cuffia. Il racconto di Saxo Grammaticus sembra strettamente correlato alla leggenda araba: subito dopo aver ammirato il cadavere di Geruthus, ancora assiso sul suo seggio, gli uomini di Thorkillus cominciano a razziarne i tesori, ma il bracciale rubato da uno di essi si trasforma in un serpente e lo uccide. Che il puntuale ripetersi di questo episodio in due miti tanto distanti tra loro (l'uno arabo-persiano, l'altro scandinavo) non possa essere considerata casuale, lo dimostra il fatto che lo troviamo regolarmente incastonato nel comune schema del mito di un viaggio ai confini del mondo, verso una meravigliosa terra d'immortalità.

Nel mito ellenico questa nicchia funzionale sembra essere occupata dall'episodio dell'incontro di Hērakls con Átlas, narrato da Apollódōros (Bibliothḗkē [II: 5, 11]), dove il drákōn hespérios assale Hērakls nel momento in cui questi cerca di rubare i frutti del Kpos Hesperídōn. E quando Hērakls abbandona la terra degli Hyperboreoí, portando con sé i preziosi frutti, Átlas rimane imprigionato nella sua posizione assiale, condannato per l'eternità a reggere il cielo, pietrificato – metaforicamente o di fatto – come l'omonima montagna. Analogamente, quando Þórr parte da Geirrøðargarðar, lascia alle sue spalle il cadavere di Geirrøðr, il quale – nella versione di Saxo – rimarrà in quel luogo a eterna memoria della sua impresa. Ma se la condanna di Átlas e/o la sua trasformazione nel monte Átlas ha una funzione cosmologica, l'analogo motivo, nel mito nordico, appare ridotto alla sua forma esteriore. È probabile che il rimodellarsi di nuove concezioni cosmologiche, dovute forse alle idee che filtravano dal mondo classico-cristiano, avessero ridisegnato la forma del mondo, così come la conoscevano nel x secolo i navigatori vichinghi. Ma è ancora più probabile che tale mutamento di prospettiva cosmologica risalga a tempi ancora più antichi, forse all'epoca stessa dell'etnogenesi germanica. Come il cadavere di Sulaymān, assiso in trono in cima alla sua montagna, nelle leggenda araba e persiana, anche il corpo di Geirrøðr riaffiora, nel mito nordico, come un elemento ormai privo di significato, ultimo esito di un mito antichissimo ormai irrimediabilmente scisso dalla sua funzione originaria.

Ⓐ Studi: [Alla confluenza dei fiumi]

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BIBLIOGRAFIA
Intersezione: Aree - Holger Danske
Sezione: Miti - Asteríōn
Area: Germanica - Brynhilldr
Ricerche e testi di Dario Giansanti, Luca Taglianetti e Oliviero Canetti.
Creazione pagina: 01.02.2017
Ultima modifica: 15.08.2022
 
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