STUDI

 

ALLA CONFLUENZA DEI FIUMI
 
 
 
Dal Medio Oriente all'antico Mediterraneo, dall'Īrān alla Cina, affiora insistente il mito di un eroe – Gilgameš, Hērakls, Eskandar, Yì – che, a dispetto del destino umano e dei disegni divini, cerca di rientrare in quel giardino meraviglioso da dove l'uomo era stato bandito alle origini del tempo.

NB. Questo studio è da considerarsi provvisorio: alcune delle sue affermazioni e conclusioni
 sono attualmente in fase di revisione e potrebbero essere a breve corrette o falsificate.
 Commenti, suggerimenti, critiche e correzioni sono benvenuti.

 

  1. Tracce di un cosmo remoto
  2. A oriente, in ‘Ēḏẹn
  3. Indietro tra i Sumeri: la terra felice di Dilmun
  4. L'epopea dimenticata: il ritorno del re di Uruk
  5. Gilgameš, colui che vide le cose profonde
  6. A est dell'alba, a ovest del tramonto
  7. Dentro l'oceano delle storie: i viaggi di Balūqīya
  8. In Arabia: al-Ḫiḍr, la guida dei profeti
  9. Da oriente a occidente: i viaggi del Bicorne
  10. Aléxandros, mito universale
  11. Verso le città di smeraldo: i viaggi di al-Iskandar
  12. Demonio, sovrano, filosofo, profeta: i volti persiani di Eskandar
  13. L'Īrān cosmologico: l'oikouménē
  14. L'Īrān cosmologico: il kósmos
  15. Uno specchio mesopotamico: l'Imago mundi Babylonica
  16. In Grecia: colui che di gran lunga fu il più forte degli uomini
  17. Hēraklês: radiografia di un hēmítheos
  18. La strada per le Hesperídes
  19. Gilgameš ed Hēraklês: due eroi a confronto
  20. Gilgameš ed Hēraklês: l'ideologia dell'immortalità
  21. In Scandinavia: i viaggi di Þórr
  22. In Scandinavia: il regno di Guthmundus
  23. Mappe di viaggio: le montagne che sostengono il cielo
  24. Mappe di viaggio: le uscite dal mondo
  25. I segnali stradali: leoni e tori, aquile e serpenti
  26. Mappe di viaggio: la confluenza dei fiumi
  27. Mappe di viaggio: isole oltre lo spazio
  28. Uno sguardo attraverso una coppa di cicuta
  29. Una prospettiva astronomica
  30. In Cina alla ricerca dell'immortalità
  31. Yì, Hēraklês e Gilgameš: ipotesi di una continuità eurasiatica
  32. Nel mondo celtico: tra Ynys Afallon e il Tír na-nÓg
  33. In Irlanda: il tragico destino dei figli di Tuirenn
  34. Tagli, ritagli e frattaglie
  35. Conclusione
  36. L'oceano espugnato
    Bibliografia
    Fonti
Eroe che doma un leone. Gilgameš? ( VIII sec. a.C.)
Bassorilievo in pietra alabastrina da Dūr-Šarrukīn (tall Hursābād, Irāq)
Altezza m. 4,45. Musée du Louvre, Paris.

TRACCE DI UN COSMO REMOTO

Dal Medio Oriente all'antico Mediterraneo affiora insistente il mito di un eroe che, a dispetto dei disegni divini, cerca di ritornare in quel giardino meraviglioso da dove l'uomo era stato scacciato alle origini del tempo. Una disperata ricerca che lo condurrà in un viaggio zodiacale verso la misteriosa «confluenza dei fiumi»: in quelle isole oltremondane dove ancora regna l'età aurea, dove sgorga la fonte dell'immortalità e fiorisce l'albero della vita.

Nel tracciare questo percorso, che vede in Gilgameš il suo più noto archetipo, seguiremo per un certo tratto alcune strade ben calcate dai mitologi. Alcuni temi conducono, com'è noto, alle leggende alessandrine e al mondo islāmico; altri temi spiccano ben chiari nel mito greco, incastonati nel ciclo di Hērakls. Ma lo scenario rivela un disegno assai complesso e coerente, in cui tutti gli elementi si stagliano su una precisa ideologia, cosmologica e insieme metafisica. Partendo da frammenti apparentemente slegati, cercheremo di portare alla luce lo schema di un mito antichissimo, i cui elementi sono sparpagliati dalla Mesopotamia alla Grecia, dall'Arabia all'Īrān, dalla Cina all'Irlanda.

Ed è un mito altamente suggestivo, in cui si riconoscono forti connotazioni astronomiche, e ben più validi studiosi, prima di noi, hanno tentato molte ingegnose interpretazioni. Simboli ricorrenti tornano continuamente ad affacciarsi negli esiti pervenuti fino a noi; tori, leoni, aquile e serpenti indicano la presenza di qualche antico schema cosmologico, ma sfuggono a ogni tentativo di fissarli in un kósmos univoco. Le letture possibili sono molte, ma c'è anche il rischio di farsi prendere dalla vertigine della comparazione e di eccedere i limiti del buon senso. In questo studio procederemo con cautela, cercando di spingerci fin dove possibile. Suggeriremo alcune ipotesi di lavoro ma inevitabilmente, a un certo punto, dovremo fermarci, tirare un respiro e contemplare il disegno ormai irrimediabilmente sfocato e confuso di qualche antichissimo universo.

Il giardino delle delizie ( 1503-1504)
Hieronymus Bosch (1450-1516). Particolare.
2.2 m x 3.9 m. Museo Nacional Del Prado, Madrid.

A ORIENTE, IN ʿĒḎẸN

Wayyiṭṭaʿ Yǝhwāh lōhîm gan-bǝʿĒḏẹn miqqẹḏẹm...

E Yǝhwāh lōhîm piantò un giardino in ʿĒḏẹn, a oriente...

Bǝrēʾšîṯ [2: ]

Varchiamo, con l'ottavo versetto del secondo capitolo del Genesi, la soglia di uno dei temi più antichi e suggestivi della mitologia universale: quello del paradiso terrestre. Per sottolineare subito che quest'espressione, «paradiso terrestre», non rende affatto il senso della parola ʿĒḏẹn, bensì la distorce, restituendone un'immagine estranea al testo biblico. Il termine ʿēḏẹn (עֵדֶן) in ebraico significava «piacere» o «delizia», sostantivo che in altri luoghi della Bibbia viene tradotto come hēdonḗ o voluptas. Pare che questa parola, ʿēḏẹn, si sia originata dall'accadico edinu, «steppa». Difficile dire quando e come sia avvenuto lo slittamento di significato. L'idea generativa del giardino di ʿĒḏẹn sembra essere quella di una verde oasi nell'arido deserto orientale.

La traduzione di gan, «giardino», quale parádeisos si trova nella Bibbia greca dei Settanta (Kaì ephýteusen kýrios ho theòs parádeison en Edem katà anatolà...), dove viene adattata una parola di origine persiana, pairadaǝza, il cui significato originale era quello di un parco reale adibito al divertimento e alla caccia. Questa parola, passando in occidente, darà pārdǝs in ebraico e parádeisos in greco. L'aggettivo «terrestre» verrà invece apposto a distinguere, nelle tarde teologie, il giardino paradisiaco, sito in un luogo segreto della terra, dal «vero» paradiso, il regno spirituale che è nei cieli, destinato ad accogliere le anime dei giusti dopo la loro morte.

Alla sua prima apparizione nel Bǝrēʾšîṯ, la parola ʿēḏẹn ha un valore prettamente topografico, in quanto il testo distingue chiaramente tra il giardino, gan, e la regione in cui è collocato, ʿēḏẹn. Come nota l'ebraista Giulio Busi, «la precisione di questo inizio è solo apparente, giacché i particolari che si susseguono nel racconto rendono la geografia simbolica di ʿĒḏẹn uno dei tempi più sfuggenti dell'intera scrittura», e fa notare come la parola ʿēḏẹn venga introdotta in tutta naturalezza, senza alcuna anticipazione, come se i lettori sapessero perfettamente di cosa si stesse parlando (Busi 1999). Il ché non ci autorizza a trarre la conclusione che si possa localizzare la terra di ʿĒḏẹn su un atlante geografico: la nozione stessa di uno spazio felice, dove l'umanità, all'inizio del tempo, aveva condotto un'esistenza libera dal dolore e dalla morte, non è che un felice tópos mitico e letterario. Non appartiene alla storia, ma al passato assoluto del mito.

A rendere più ambigua la narrazione biblica, le nozioni del giardino e della regione che lo accoglie si confondono nella parte centrale dell'episodio, dove il gan-bǝʿĒḏẹn (il «giardino in ʿĒḏẹn»), ormai divenuto a tutti gli effetti il gan ʿĒḏẹn (il «giardino di ʿĒḏẹn») (Bǝrēʾšîṯ [2: ), funge da incantevole scenario alla fase più intensa della vicenda. Se poi intendiamo ʿēḏẹn, non come nome proprio, ma come sostantivo, nel suo significato di «piacere», ecco che la formula gan ʿēḏẹn ci conduce diritti all'hortus voluptatis dei testi medievali, dove il concetto di spazio recintato si accorda all'abbandono edonistico dei sensi: è il «giardino delle delizie» magnificato da Hieronymus Bosch in uno dei suoi capolavori pittorici.

Subito dopo averci informati che il giardino è stato piantato nella terra di ʿĒḏẹn, il Bǝrēʾšîṯ aggiunge il dettaglio essenziale del punto cardinale: «a oriente». Ma c'è anche qui un'ambiguità. La nozione di est direzionale si trova ancora una volta nella traduzione greca dei Settanta, che rende con katà anatolas, «in oriente», l'originale espressione ebraica miqqẹḏẹm, la quale ha però anche un significato temporale: «anticamente». L'esegesi midrāšica interpreta questa parola proprio in senso cronologico, finendo con lo stabilire la preesistenza del gan ʿĒḏẹn rispetto a ogni altra creazione.

Ma completiamo la nostra citazione:

Wayyiṭṭaʿ Yǝhwāh lōhîm gan-bǝʿĒḏẹn miqqẹḏẹm wayyaśẹm šām ẹṯ-hāʾāḏām ăšẹr yāṣār.E Yǝhwāh lōhîm piantò un giardino in ʿĒḏẹn, a oriente, e vi pose l'uomo che aveva creato.

Bǝrēʾšîṯ [2: ]

Questa seconda parte del verso finalizza la prima, chiudendola idealmente. La principale se non l'unica ragione per cui Yǝhwāh lōhîm aveva piantato questo giardino, nella terra di ʿĒḏẹn (in principio o a oriente), era perché l'uomo potesse vivere e dimorarvi per sempre. Il gan ʿĒḏẹn si configura quale simbolo della perfezione del creato, perfezione a cui l'uomo è chiamato a partecipare.

Wayyiqqaḥ Yǝhwāh lōhîm eṯ-hāʾāḏām; wayyanniḥēhû ḇǝan-ʿĒḏẹn lǝʿāḇǝḏāh walǝšāmǝrāh.E Yǝhwāh lōhîm prese dunque l'uomo e lo pose nel giardino di ʿĒḏẹn affinché lo coltivasse e lo custodisse.

Bǝrēʾšîṯ [2: ]

E possiamo anche prestare una fugace attenzione all'errore di sintassi presente in questa frase: i due femminili lǝʿāḇǝḏāh walǝšāmǝrāh, «la coltivasse e la custodisse», sfuggiti all'attenzione dei redattori, non possono riferirsi al maschile gan, «giardino». Oggetto del lavoro e della tutela dell'uomo doveva essere piuttosto il femminile ăḏāmāh, «terra». Il testo della Bǝrēʾšîṯ mostra ripetute tracce di interventi letterari, segni di una nuova teologia che ha ridisegnato il preesistente substrato mitico. Ciò che ci interessa, tuttavia, è l'idea sottesa a questo passaggio, ed è un'idea sfolgorante, forse del tutto nuova nel panorama medio-orientale: l'uomo è stato destinato all'incorruttibilità e alla perfezione. Il gan ʿĒḏẹn è il luogo privilegiato dove l'umano partecipa del divino.

Ma come ben sappiamo, noi che abbiamo seguito le disavventure di Ḥawwāh e gli inganni di Pandṓra Ⓐ▼, questa comunione si è spezzata e la vita dell'uomo è oggi segnata dal dolore e della morte. Il mondo, lungi dall'essere un giardino, è un deserto di pietre e di spine. Nella perfezione primordiale è già insita la caduta ed essa si affaccia nel mito biblico col contrasto di due simboli arborei.

Wa-yyaṣmaḥ Yǝhwāh lōhîm min-hāʾăḏāmāh, kāl-ʿēṣ nẹḥmāḏ lǝmarʾeh wǝṭôḇ lǝmaʾăḵāl wǝʿēṣ haḥayyîm bǝṯôḵ haggān wǝʿēṣ haddaʿaṯ ṭôḇ wārāʿ.E Yǝhwāh lōhîm fece spuntare dal suolo ogni sorta di alberi piacevoli all'aspetto e buoni da mangiare e l'albero della vita in mezzo al giardino e l'albero della conoscenza del bene e del male.

Bǝrēʾšîṯ [2: ]

Vi sono dunque, nel giardino meraviglioso, due alberi fatali. Lo ʿēṣ haḥayyîm, l'«albero della vita», e lo ʿēṣ haddaʿaṯ ṭôḇ wārāʿ, l'«albero della conoscenza del bene e del male». Questo è l'unico verso in cui i due alberi vengano citati insieme, giacché, nel seguito dell'episodio, sarà il solo albero della conoscenza ad occupare tutta la scena, mentre l'albero della vita sarà nominato di nuovo soltanto nella chiusa.

Non vi è simmetria tra i due alberi: nell'economia del testo hanno un'importanza diversa e nemmeno presentano una specularità di valenze. Inoltre, gli esegeti si sono a lungo domandati quale fosse l'effettivo significato della «conoscenza» [daʿaṯ] rappresentata dal secondo albero. In alcuni passi, la Bibbia tratta della conoscenza del bene e del male come nozione generica che differenzia l'età matura dall'infanzia («I vostri figli che non distinguono oggi il bene dal male» (Dǝḇārîm [1: ])) o come difficile acquisizione della tarda vecchiaia («Ne ho compiuti ottanta oggi: so forse ancora distinguere tra il bene e il male?» (Šǝmûʾēl Bēyṯ [19: ])). Alcuni autori, forse un po' superficialmente, hanno suggerito che la coppia coordinata «bene» [ṭôḇ] e «male» [rāʿ], associata al concetto di «conoscenza» [daʿaṯ], non fosse che un'aggiunta retorica per definire l'idea di una sapienza generale. Comunque sia, lo ʿēṣ haddaʿaṯ ṭôḇ wārāʿ, l'«albero della conoscenza del bene e del male», fa la sua comparsa avvolto da una luce minacciosa.

Wayṣaw Yǝhwāh lōhîm ʿal-hāʾāḏām lēʾmōr; mikkōl ʿēṣ-haggān āḵōl tōʾḵēl.Poi Yǝhwāh lōhîm diede all'uomo quest'ordine: Tu puoi mangiare di ogni albero del giardino.
Ûmēʿēṣ, haddaʿaṯ ṭôḇ wā-rāʿ, lōʾ ṯōʾḵal mimmennû; kî, bǝyôm ăḵālǝḵā mimmennû môṯ tāmūṯ.Ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non ne mangerai, perché il giorno in cui ne mangiassi, di certo moriresti.

Bǝrēʾšîṯ [2: -]

I simboli sono in grado di sorreggere un gran numero di interpretazioni e non si sbaglia asserendo che il giardino di ʿĒḏẹn è il luogo che precede il tempo e la storia. L'uomo ha pieno accesso all'albero della vita ma, per qualche ragione, quello della conoscenza del bene e del male gli è precluso. “Perché il giorno in cui ne mangiassi, di certo moriresti”. Con questo ammonimento l'asimmetria tra i due alberi viene di fatto annullata. La «vita» offerta dal primo albero non viene opposta dialetticamente alla «conoscenza» che caratterizza il secondo albero, bensì, tramite la conoscenza stessa, alla morte che è figlia del tempo. Il coraggioso lettore che ci ha seguito fin qui sa bene di cosa stiamo parlando.

Nei testi rabbinici di epoca tardo-antica, preoccupati di districarsi tra questi due alberi tanto sbilanciati e asimmetrici, si affacciò l'idea di un diretto antagonismo tra l'«albero della vita» e l'«albero della conoscenza», nella quale il secondo assumeva i tratti di un vero e proprio «albero della morte». Quest'idea viene esplicitata nel Tannāʾ dǝḇēy liyyāhû rabbah (l'«Insegnamento della scuola di liyyāhû», ✍ IX sec.), dove la locuzione ʿēṣ mawet, «albero della morte», veniva messa esplicitamente in relazione con «la pianta che il Santo, sia egli benedetto, aveva proibito al primo uomo, ma di cui questi si nutrì, procurando la morte a sé e alla sua discendenza futura, sino alla fine di tutte le generazioni» (Tannāʾ dǝḇēy liyyāhû rabbah [V]).

Ogni ordine porta in sé l'impronta della propria trasgressione. Il seguito del racconto è stato da noi abbondantemente citato quando abbiamo parlato della creazione della donna. Ma non sarà male riportarlo ancora una volta:

Wǝ hannāḥāš hāyāh ʿārûm mikkōl ḥayyaṯ haśśaḏẹh, ăšẹr ʿāśāh Yǝhwāh lōhîm wayyōʾmẹr ẹl-hāʾiššāh a kî-ʾāmar lōhîm, lōʾ ṯōʾḵǝlû mikkōl ʿēṣ haggān.Ora il serpente era astuto più di tutte le fiere della steppa che Yǝhwāh lōhîm aveva fatto, e disse alla donna: “È dunque vero che lōhîm vi ha detto: “Non dovete mangiare di tutti gli alberi del giardino?”
Wattōʾmẹr hāʾišsāh, ẹl hannāḥāš: mippǝrî ʿēṣ-haggān nōʾḵēl.Rispose la donna al serpente: “Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare.
Wûmippǝrî hāʿēṣ ăšẹr bǝṯôkǝ-haggān āmar lōhîm lōʾ ṯōʾḵǝlû mimmẹnnû wǝlōʾ ṯiggǝʿû bô: pẹn-tǝmuṯun.“Ma del frutto dell'albero che sta in mezzo al giardino, lōhîm ha detto: ‘Non lo dovete mangiare e non lo dovete toccare, per paura che ne moriate’.”
Wayyōʾmẹr hannāḥāš, ẹl-hāʾiššāh: lōʾ-moṯ, tǝmuṯûn. Ma il serpente disse alla donna: “No, voi non morirete.
Kî yōḏēʿ lōhîm, kî bǝyôm ăḵālkẹm mimmẹnnû wǝniqǝḥû ʿênêḵẹm; wihyîṯẹm, kēʾlōhîm yōḏǝʿê, ṭoḇ wārāʿ.“Anzi, lōhîm sa che il giorno in cui voi ne mangerete, si apriranno allora i vostri occhi e diventerete come lōhîm: conoscitori del bene e del male”.
Wattērẹʾ hāʾišsāh kî ṭoḇ hāʿēṣ lǝmaʾăḵāl wǝḵî ṯaʾăwāh-hûʾ lāʿênayim, wǝnẹḥmāḏ hāʿēṣ lǝhaśkîl wattiqqaḥ mippiryô, wattōʾḵal wattittēn gam-lǝʾîšāh ʿimmāh, wayyōʾḵal. Allora la donna vide che l'albero era buono a mangiarsi, e che esso era seducente per gli occhi e che era, quell'albero, desiderabile per avere la conoscenza; perciò prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche a suo marito, che era con lei, ed egli ne mangiò.
Wattippāqaḥnāh, ʿênê sǝnêhẹm wayyēḏǝʿû kî ʿêrummim hēm...Allora si aprirono gli occhi di ambedue e conobbero che essi erano nudi...

Bǝrēʾšîṯ [3: -]

Tentazione di Āḏām e Ḥawwāh ( 1424-1425)
Masolino da Panicale (1383-1447)
Cappella Brancacci, chiesa di Santa Maria del Carmine, Firenze.

Dobbiamo ora staccarci dall'uomo e dalla donna per esaminare il terzo protagonista di questo dramma primordiale e chiederci perché proprio il nāḥāš, il serpente, interpreti, tra tutti gli animali, il ruolo del responsabile della perdita dell'immortalità. Il racconto biblico, che balza nelle pagine del Bǝrēʾšîṯ già costruito con perfetta coscienza dei simboli mitici, ha evidentemente ereditato la figura del serpente da un'epoca ancora più remota. I redattori che fissarono il testo nella forma attuale, attorno al V secolo a.C., non vollero rinunciare a questo mitema antichissimo e di cui ancora percepivano un barlume del senso originale. I secoli successivi vollero identificare il nāḥāš con Sama˒ēl che, prima di diventare il demonio, era l'angelo della morte e della distruzione. È una logica evoluzione nell'interpretazione della figura del serpente. Ma più risaliamo il tempo più diviene evidente che il nāḥāš non era né un angelo né un dèmone, ma una sorta di guardiano dell'albero della vita. E quale altro animale poteva essere più indicato del nāḥāš? Il serpente è la sola creatura che abbia facoltà di uscire dalla propria pelle e tornare giovane.

Il Bǝrēʾšîṯ concentra tutta la sua attenzione sullo ʿēṣ haddaʿaṯ ṭôḇ wārāʿ, l'«albero della conoscenza del bene e del male», lasciando lo ʿēṣ haḥayyîm, l'«albero della vita», in secondo piano. Quest'inelegante compresenza di due alberi al centro del gan ʿĒḏẹn, peraltro pure asimmetrici nel loro gioco di attributi e di valenze, ha sempre turbato non poco gli esegeti, tanto che la successiva speculazione rabbinica si preoccuperà non poco di interpretarli nell'ordine di una simbologia più equilibrata. ①▼

È tuttavia possibile che anche i due alberi siano il risultato di un maldestro lavoro di elaborazione del testo da parte dei suoi redattori. Quasi tutta l'esegesi moderna si trova d'accordo sull'ipotesi che, nella fonte di Bǝrēʾšîṯ [2-3], vi fosse stato un solo albero. Ma quale dei due? L'opinione maggioritaria è quella avanzata dal teologo Karl Budde (1850-1935), secondo il quale l'unico albero presente nella fonte era il ʿēṣ haddaʿaṯ ṭôḇ wārāʿ, l'«albero della conoscenza del bene e del male», mentre il ʿēṣ haḥayyîm, l'«albero della vita», sarebbe stato aggiunto in un intervento redazionale.

Conclusione giustificata dal fatto che il racconto del Bǝrēʾšîṯ parla quasi unicamente dell'albero della conoscenza, mentre l'albero della vita è citato solo all'inizio e alla fine della vicenda (Bǝrēʾšîṯ [2:  | 3: ]). Quest'ultimo sarebbe dunque un semplice elemento decorativo, un leit-motiv della letteratura medio-orientale finito per incastrarsi chissà come nel testo biblico (Budde 1883). Con maggior sottigliezza, Claus Westermann (1909-2000) ha fatto però notare che in origine l'unico albero non dovesse avere alcuna specificazione: il suo nome e ruolo sarebbero stati ricavati solo in fase di redazione, a partire da una frase pronunciata dal serpente: “diventerete come lōhîm, conoscitori del bene e del male” [wihyîṯẹm, kēʾlōhîm yōḏǝʿê, ṭoḇ wārāʿ] (Westermann 1966).

L'errore, come suggerisce Aldo Magris, è leggere il Bǝrēʾšîṯ presumendo che l'ideologia del testo coincida in tutto o in parte con quella già presente nelle sue fonti: come se i suoi redattori si fossero limitati ad aggiustare dei dettagli secondari lasciando inalterato il senso profondo della narrazione (Magris 2003). L'intentio auctorum assegna il ruolo decisivo al ʿēṣ haddaʿaṯ ṭôḇ wārāʿ, l'«albero della conoscenza del bene e del male», e incentra la trasgressione di Āḏām su un atto di orgoglio intellettuale. Ma era questa l'ideologia della fonte originale? Il fatto che svariate leggende su alberi, piante e frutti in grado di elargire la vita e l'immortalità siano ben noti alla mitologia universale, e alcuni di essi siano attestati nelle tradizioni medio-orientali, indica che il motivo del ʿēṣ haḥayyîm sia più antico di quello del ʿēṣ haddaʿaṯ ṭôḇ wārāʿ, il quale, al contrario, sembra essere un'innovazione introdotta dai redattori del Bǝrēʾšîṯ. Ci conforta sapere che l'albero della vita è attestato in diversi passi scritturali (es. Yǝḥẹzqēʾel [42: ]), mentre non si parla mai dell'albero della conoscenza in contesti estranei al Bǝrēʾšîṯ. È anche paradossale che la stessa tradizione giudaica identifichi Ḥọḵmāh, la «sapienza», con l'albero della vita e non con quello della conoscenza (Mišlê [3: ]).

Dunque, se la nostra idea è corretta, e se l'antemito del gan ʿĒḏẹn contemplava, quale unico albero, l'albero della vita, possiamo allora chiederci quale forma aveva avuto il racconto prima che gli ignoti redattori del Bǝrēʾšîṯ lo adattassero alla nuova teologia. E qual era stato il ruolo originale del nāḥāš? È impossibile stabilirlo con certezza, ma niente ci impedisce di imbastire alcune ipotesi. L'unica possibile traccia potrebbe provenirci dal mito di Adapa...

Conosciamo questo importante mito mesopotamico da una serie di tavolette redatte sia in accadico che in sumerico. Il dio-cielo An/Anu offre al pescatore Adapa il pane e l'acqua della vita, ma il consiglio fraudolento di Enki/Ea – il dio della sapienza, creatore dell'uomo – farà sì che Adapa rinunci al grande dono e non venga ammesso al consesso degli immortali:

 Gli si placò il cuore, ed [Anu] disse:
“Perché Ea a un'umanità imperfetta
i misteri del cielo e della terra ha rivelato?
Un cuore gagliardo ha posto in lui;
egli ha dunque fatto ciò!
Noi cosa potremo fare per lui?
Cibo di vita prendete per lui, che ne mangi!
Cibo di vita presero per lui, ma egli non ne mangiò;
acqua di vita presero per lui, ma egli non ne bevve. [...]
Anu lo guardò e gli sorrise:
“Orsù, Adapa! Perché non hai mangiato e non hai bevuto?
Proprio non vuoi vivere! Non possono gli esseri umani essere immortali?”
Ea, il mio signore, ha detto: “Non mangiare, non bere!”.
Prendetelo, [riconducetelo] alla sua terra!” [...]
Anu dell'operato di Ea rise altamente:
“Chi altri tra tutti gli dèi del cielo e della terra, avrebbe potuto agire così?
Chi avrebbe osato considerare il proprio comando superiore a quello di Anu?

Adapa [B - | ... | D -]

L'intera struttura rivela un nuovo esito dello schema che già avevamo analizzato nel capitolo precedente: altro non è che una ulteriore versione del motivo dell'inganno che priva l'uomo dell'immortalità. Ma, nell'ipotesi vi fosse stato un mito analogo a questo alla base del racconto del Bǝrēʾšîṯ, possiamo chiederci: chi tra i due personaggi, Yǝhwāh lōhîm e il nāḥāš, intendeva offrire all'uomo l'immortalità? E chi dei due lo ha ingannato? La risposta non è affatto scontata. Anzi, le numerose ambiguità di cui è infarcito il testo biblico – dovute agli interventi con cui il redattore ha cercato di adattare un mito precedente alla nuova ideologia – contribuiscono ad alimentare i nostri sospetti.

Leggendo attentamente le parole di Yǝhwāh e del nāḥāš, non c'è dubbio, infatti, che sia quest'ultimo a dire la verità. Yǝhwāh aveva ammonito Āḏām e la donna (che poi verrà chiamata Ḥawwāh) di non mangiare il frutto del ʿēṣ haddaʿaṯ ṭôḇ wārāʿ, avvertendoli che, se avessero trasgredito, sarebbero morti. Ma il nāḥāš smentisce la dichiarazione divina: “No. Voi non morirete”, e aggiunge: “Anzi, lōhîm sa che il giorno in cui voi ne mangerete, si apriranno allora i vostri occhi e diventerete come lōhîm: conoscitori del bene e del male” (Bǝrēʾšîṯ [3: -]). Ed è esattamente quel che accade. Il serpente non ha affatto mentito. E lo stesso Yǝhwāh lōhîm lo ammette senza reticenze:

Wayyō˒mẹr Yǝhwāh lōhîm, hēn hā˒āḏām hāyāh kǝ˒aḥaḏ mimmẹnnû, lāḏa˓aṯ ṭôḇ wārā˓; wǝ˓attāh pẹn-yišlaḥ yāḏô, wǝlāqaḥ gam mē˓ēṣ haḥayyîm, wǝ˒āḵal wāḥay lǝ˓ōlām.Yǝhwāh lōhîm disse: Ecco l'uomo è diventato come uno di noi nella conoscenza del bene e del male. Ora dunque, che egli non stenda la mano e non colga anche dell'albero della vita e ne mangi e viva in eterno...
Bǝrēʾšîṯ [3: ]

Da questa frase traspare che: (a) Yǝhwāh lōhîm aveva tenuto nascosta ad Āḏām la virtù del ʿēṣ haddaʿaṯ ṭôḇ wārāʿ e gli aveva vietato di mangiare i frutti dell'albero allo scopo di negargli la capacità di distinguere il bene dal male (e stante tali premesse, diventa arduo comprendere come l'uomo e la donna possano avere responsabilità di una colpa commessa prima di aver acquisito la «conoscenza del bene e del male»); (b) Yǝhwāh non aveva tuttavia mentito su un dettaglio: Āḏām e Ḥawwāh, avendo mangiato il fatidico frutto, dovranno morire. Ma non a causa di qualche proprietà mortale del frutto stesso: come il nāḥāš aveva assicurato, Āḏām e Ḥawwāh lo hanno mangiato e non sono morti. Ma è lo stesso Yǝhwāh, ora, a non poter permettere l'esistenza di un'umanità immortale e per di più dotata della capacità di formulare giudizi etici. O l'una o l'altra cosa: non entrambe. Dunque Yǝhwāh non aveva semplicemente messo in guardia Āḏām e Ḥawwāh, li aveva praticamente ricattati.

Questo pasticcio, incomprensibile alla luce di una disamina razionale, ha tuttavia le radici ben piantate nelle concezioni mitologiche mesopotamiche e medio-orientali, concezioni da cui il popolo di Israele, appena affrancatosi dalla cattività babilonese, cerca di sbarazzarsi per sviluppare una teologia originale. Era necessario che gli antichi miti cananei, che nel V secolo a.C. dovevano essere ancora ben radicati nella memoria popolare, venissero riletti secondo nuove chiavi di lettura. Il redattore dovette intervenire sulle fonti in modo piuttosto cauto, in modo che gli antichi miti di substrato rimanessero riconoscibili, sebbene alterandoli ideologicamente. Non sappiamo se la nostra ipotesi sia corretta, e se la fonte di Bǝrēʾšîṯ [2-3] contemplasse – come diverse altre tradizioni medio-orientali – il mito di un dio geloso che ha ingannato gli uomini privandoli dell'immortalità: quel che è certo è che il redattore cercò, con alterazioni minime, di costruire un testo «canonico» dove l'uomo fosse responsabile della propria caduta, grazie all'ingenuità della donna e alla malizia del nāḥāš, e di presentare una nuova teologia nazionale dove Yǝhwāh apparisse giusto e infallibile. ②▼

Le simbologie sono, più che complesse, inestricabilmente stratificate. Quale metafora teologica, il giardino di ʿĒḏẹn è luogo di perfezione e di immortalità, simbolo della primordiale immutabilità che precede la nascita del tempo, e dunque, territorio interiore dove l'uomo è una sola cosa con il suo principio creatore. La rottura psicologica tra umano e divino, che il mito interpreta come accadimento fatale avvenuto alle origini della storia, viene fatta risalire al nostro comune progenitore Āḏām, il cui peccato è stato ereditato dall'intero genere umano. Attraverso la conoscenza del bene e del male l'uomo è uscito dall'eternità ed è entrato nel tempo, e il tempo è mutamento e dolore e morte. La maledizione che Yǝhwāh getta sull'uomo è insita nella stessa natura del mondo temporale:

...ʾărûrāh hāʾăḏāmāh, baʿăḇûrẹḵā bǝʿiṣṣāḇôn tōʾḵǝlẹnnāh kōl yǝmê ḥayyêkā....maledetto sia il suolo per causa tua. Con fatica ne trarrai il nutrimento tutti i giorni della tua vita.
Wǝqôṣ wǝḏardar taṣmîaḥ lāḵ; wǝʾāḵaltā ẹṯʿēśẹḇ haśśāḏẹ.“Ti germoglierà spine e cardi e tu mangerai le graminacee della campagna.
Bǝzēʿaṯ appêḵā tōʾḵal lẹḥẹm, ʿaḏ šûḇǝḵā ẹl-hāʾăḏāmāh kî mimmẹnnāh luqqāḥtā: kî-ʿāār ʾattāh, wǝʾẹl-ʿāār tāšûḇ.“Con il sudore del tuo volto mangerai pane, finché tornerai nel suolo, perché da esso sei stato tratto: infatti sei polvere e in polvere devi ritornare”.
Bǝrēʾšîṯ [3: -]

Si direbbe – una volta che la storia e la tradizione hanno reso «canonica» la visione post-esilica dei redattori del Bǝrēʾšîṯ – che il tempo stesso sia una conseguenza della capacità di discernere il bene dal male. L'esistenza nel mondo temporale sembra quasi concepita come una conseguenza all'avvenuta presa di coscienza dell'uomo. L'uomo è il solo essere del regno animale consapevole della propria morte, e il mito stesso, impalcatura psicologica del nostro cosmo interiore, è nato come risposta a questa consapevolezza. È dalla conoscenza del bene e del male che deriva la coscienza del tempo, del peccato e della morte.

Alla fine di questo dramma primordiale, Yǝhwāh si premunisce affinché l'albero della vita rimanga per sempre precluso al genere umano. A oriente di ʿĒḏẹn (ma perché a oriente?) vengono posti dei custodi, i kǝrûḇîm, illuminati dal bagliore altrettanto enigmatico della «spada guizzante», affinché nessuno possa mai più raggiungere l'«albero della vita».

Wayārẹš ẹṯ-hā˒āḏām; wayyaškēn miqqẹḏẹm lǝan-˓ēḏẹn ẹṯ-hakkǝruḇîm, wǝ˒ēṯ lahaṭ haḥẹrẹḇ hammiṯhappẹḵẹṯ, lišmōr ẹṯ-dẹrẹḵ ˓ēṣ haḥayyîm.[Yǝhwāh] cacciò dunque l'uomo e pose a oriente del giardino di ʿĒḏẹn i kǝrûḇîm e la fiamma della spada guizzante per custodire l'accesso all'albero della vita.
Bǝrēʾšîṯ [3: ]

Ecco. L'uomo è stato cacciato da ʿĒḏẹn. La rottura è avvenuta. L'umanità è ormai irrimediabilmente tagliata fuori dal giardino di immortalità. Ora abita nel mondo temporale e strappa il nutrimento alle asperità del suolo, guidata dal suo giudizio e dal suo libero arbitrio. Ma il tempo ha le sue regole, le sue necessità, le sue formule specifiche, e la morte è una delle sue leggi più severe.

Paradossale il caso di rabbî Áron Chorin (1766-1844), pioniere dell'emancipazione giudaica, che in un suo pamphlet del 1798 – incentrato sul problema se lo storione fosse un alimento kāšēr –, trasse spunto dal Bǝrēʾšîṯ Rabbāh e conferì all'albero della vita delle dimensioni a dir poco immense, tali che un uomo avrebbe impiegato cinquecento anni per coprire una distanza pari al diametro del suo tronco, mentre non meno sterminato era il territorio ombreggiato dalla sua chioma, e aggiunse che l'albero della conoscenza del bene e del male lo circondava a guisa di una siepe, sicché solo colui che riusciva ad aprirsi un varco attraverso le fronde dell'albero della conoscenza avrebbe potuto raggiungere l'albero della vita (Imrê nô˓am). In questo modo, ponendo i due alberi l'uno al centro dell'altro, il solerte rabbino risolveva il problema posto dal fatto che fossero entrambi situati al «centro» (bǝṯôk) del giardino.
 
I tentativi di riparare alle goffaggini del testo biblico avanzati nel corso dei secoli dagli esegeti delle Scritture, sia ebrei che cristiani, potrebbero riempire un'intera biblioteca. I tentativi di trovare una giustificazione alle contraddizioni del comportamento di Dio sono legioni. Si narrava ad esempio che il frutto del ʿēṣ haddaʿaṯ ṭôḇ wārāʿ avrebbe effettivamente fatto morire Āḏām e Ḥawwāh prima della fine del giorno, ma Yǝhwāh stabilì che il giorno in questione fosse un «giorno divino» della durata di mille anni, ed è sicuramente questa la ragione per cui nessuno dei patriarchi antidiluviani raggiunse mai il millennio d'età (969 anni sono il record biblico di longevità, toccata a Mǝṯûšelaḥ). Si raccontava anche che lōhîm impedì all'uomo di mangiare allo ʿēṣ haḥayyîm perché, in tal caso, divenendo allo stesso tempo peccatore e immortale, sarebbe stato indistinguibile dai dèmoni.
INDIETRO TRA I SUMERI: LA TERRA FELICE DI DILMUN

La concezione di un'antica terra prospera e felice, di cui il biblico ʿĒḏẹn è il modello da cui abbiamo intrapreso il nostro cammino, trova riscontro nei poemi sumerici. Il nome di questa regione favolosa è Dilmun, e pare che all'origine dei tempi vi avesse dimorato il dio della saggezza, Enki/Ea. Esso compare, all'inizio del Secondo millennio avanti Cristo, in un testo oggi conosciuto come Enki e Ninḫursa (ma il cui titolo originale era forse Iri kugkuggam, «Pura è la città»). Qui si descrive Dilmun, il luogo dove, all'origine del tempo, Enki risiedeva insieme alla consorte Ninsikila:

iri kug-kug-ga-àm e-ne ba-àm-me-en-zé-en kur dilmun kug-ga-àm
ki-en-gi kug-ga e-ne ba-àm-me-en-zé-en kur dilmun kug-ga-àm
kur dilmun kug-ga-àm kur dilmun sikil-àm
kur dilmun sikil-àm kur dilmun dadag-ga-àm
dili-ni-ne dilmun-a ù-bí-in-nú
ki den-ki dam-a-ni-da ba-an-da-nú-a-ba
ki-bi sikil-àm ki-bi dadag-ga-àm
dili-ni-ne dilmun-a ù-bí-in-nú
ki en-ki nin-sikil-la ba-an-da-nú-a-ba
ki-bi sikil-àm ki-bi dadag-ga-àm
dilmun-a uga gù gù nu-mu-ni-bé
dar-e gù dar-re nu-mu-ni-ib-bé
ur-gu-la sa iš nu-ub-ra-ra
ur-bar-ra-ke₄ sila₄ nu-ub-kar-re
ur-gi₇ máš gam-gam nu-ub-zu
šáḫ še gu₇-gu₇-e nu-ub-zu
nu-mu-un-sú munu₄ ùr-ra bárag-ga-ba
mušen-e an-na munu₄-bi na-an-gu₇-e
tu-e sa nu-mu-un-da-ru-e
igi-gig-e igi-gig-me-en nu-mu-ni-bé
sa-gig-e sa-gig-me-en nu-mu-ni-bé
um-ma-bi um-ma-me-en nu-mu-ni-bé
ab-ba-bi ab-ba-me-en nu-mu-ni-bé
ki-sikil a nu-tu₅-a-ni iri-a nu-mu-ni-ib-sig₁₀-ge
lú íd-da bal-e i₆-dè nu-mu-ni-bé
niir-e zag-ga-na nu-um-niin
nar-e e-lu-lam nu-mu-ni-bé
zag iri-ka i-lu nu-mu-ni-bé...

Pura è la città [...]: ma Dilmun è puro anch'esso!
Puro è il
Kiengi [...]: ma Dilmun è puro anch'esso!
Dilmun è puro! Dilmun è santo!
Dilmun è santo! Dilmun è luminoso!
È quando egli vi si fu stabilito con la sua unica [?]
quando Enki vi si fu stabilito con la sua sposa,
che questo paese divenne puro e luminoso!
Quando si fu stabilito a
Dilmun con la sua unica [?]
questo paese, quando
Enki vi si fu stabilito con Ninsikila,
questo paese divenne puro e luminoso!
A Dilmun, prima, non gracchiava il corvo,
il francolino non gridava “dar! dar!”,
il leone non uccideva,
il lupo non sbranava gli agnelli,
il cane selvaggio non razziava i capretti,
il cinghiale non divorava i raccolti,
gli uccelli non beccavano il malto
che le vedove spargevano sul tetto.
Non esisteva la colomba dalla testa china.
L'ammalato agli occhi non diceva: “Sono ammalato agli occhi!”,
colui che aveva mal di capo non diceva: “Ho mal di capo!”,
la vecchia non diceva: “Sono vecchia!”,
il vecchio non diceva: “Sono vecchio!”,
la fanciulla non si bagnava nell'acqua chiara,
il traghettatore non diceva: “Forza, issa!”,
l'araldo non andava in giro,
l'aedo non cantava: “Elulam!”
All'entrata della città non si udivano pianti...

Iri kugkuggam [-]

Che il paese di Dilmun sia una prefigurazione del biblico ʿĒḏẹn lo si evince dal fatto che sono assenti malattie e vecchiaia, gli animali selvatici non predano i domestici, e tutto quanto si troverebbe sospeso in uno stato «paradisiaco», come ha sottolineato Samuel N. Kramer (Kramer 1945). Ma il testo lascia in sospeso un mucchio di interrogativi: perché insistere sulla non-presenza del male se poi non si dice come esso si sia introdotto nel paese? Come valutare quegli elementi che nulla hanno a che vedere con il male o l'infelicità, come il canto degli uccelli, il bagno della fanciulla o il canto dell'aedo? Sembra piuttosto, avverte Jean Bottéro, che questo brano sia una descrizione dello stato di originario non-essere (Bottéro ~ Kramer 1989).

Sulla localizzazione del paese di Dilmun vi sono molte più notizie di quante non ve ne siano riguardo al biblico ʿĒḏẹn. Nel racconto sumerico del diluvio si dice che Ziudsura (sumerogrammi zi.ud.sù.rá, ma ziu₄sud₄rà nella lista regale), lugal di Šuruppak, dopo aver condotto la sua arca attraverso le acque diluviali, sia stato poi ricompensato dagli dèi e condotto nel paese di Dilmun per condurvi una vita beata e immortale:

zi-ud-sù-rá lugal-àm
igi an en-líl-lá-šè kìri ki su-ub ba-gùb
an en-líl zi-ud-sù-rá mí-e-⌜èš⌝? [... dug₄ ...]
tìl diir-gin₇ mu-un-na-šúm-mu
zi da-rí diir-gin₇ mu-un-<na>-ab-èd-dè
ud-ba zi-ud-sù-rá lugal-àm
mu ní-gilim-ma numun nam-lú-ùlu ùri-ak
kur-bal kur dilmun-na ki utu éd-šè mu-un-tìl-eš...
Frattanto Ziudsura il lugal,
essendosi prostrato davanti ad An ed Enlíl,
questi si affezionarono a lui.
Inoltre gli concessero una vita simile a quella degli dèi:-
Un soffio di vita immortale, come quello degli dèi.
Ecco come Ziudsura, il lugal,
che aveva salvato gli animali e il genere umano,
fu insediato in una regione al di là del mare, a Dilmun, dove si leva Utu...

«Poema di Ziudsura» [V: -]

Utu era il dio-sole sumerico: dunque il paese di Dilmun, «dove si leva Utu», il luogo dove Ziudsura era stato condotto dagli dèi per godere della vita eterna, si trovava anch'esso a oriente. È significativo che nel testo sumerico la notazione direzionale non sia soltanto geografica ma venga associata al dio-sole: ma è anche ovvio che l'«oriente» e l'«occidente» siano legati, per definizione, al sorgere e al tramontare del sole.

Però il toponimo Dilmun, al contrario di ʿĒḏẹn, non compare soltanto nei testi mitologici, ma anche nei documenti storici e commerciali. In una tavoletta antico-babilonese si legge che re Šarru-kīnu di Akkad (Sargon I il grande, ♔ ±2334-±2279 a.C.) faceva attraccare ai suoi porti navi provenienti da Magan, Meluḫḫa e Tilmun (AFO [20 37: -]). Altre due tavolette, una neo-assira e una tardo-babilonese, preservano parte di un testo, informalmente intitolato «La geografia di Sargon», dove si elencano tutte le terre anticamente governate dal mitico fondatore della dinastia di Akkad. Il testo, in cui l'esagerazione epica prevale sull'informazione storica, ci informa che Šarru-kīnu regnava su un lungo elenco di territori, tra cui compaiono:

a-na-kù kap-ta-ra
     KUR.KUR(=mātātu) BAL.RI(=eberti) [tâm]ti AN.TA(=elīti)
tilmun má-gan-na
     KUR.KUR (=mātātu) BAL.RI(=eberti) [tâm]ti KI.TA(=šaplīti)
ù KUR.KUR (=mātātu) ultu ṣīt UTU.⌜
È⌝.[A](=ša[mši]) adi ereb...
...Anaku e Kaptara,
     le terre oltre il mare superiore,
Tilmun e Maganna,
     le terre oltre il mare inferiore,
e le terre dall'alba al tramonto, la totalità di tutte le terre...

VAT 8006 [-]

Localizzazione ipotetica di località citate nei testi commerciali antico-babilonesi.

L'affermazione di re Šarru-kīnu, di aver assoggettato l'intera estensione della terra «dall'alba al tramonto», non va certo presa sul serio. Tuttavia il primo re di Akkad controllava certamente un'ampia mezzaluna di territorio dal «mare superiore» [tâmtu elītu] al «mare inferiore» [tâmtu šaplītu], cioè dal Mediterraneo al golfo Persico. I toponimi Anaku e Kaptara, Tilmun e Maganna, si riferiscono a regioni situate sicuramente oltre la sfera politica del regno di Akkad.

Anaku non è stata identificata con certezza: si tratta forse di qualche località dell'Anatolia. Kaptara è però Creta. Maganna si trova quasi certamente sulla costa del ʿUmān, sebbene alcuni studiosi abbiano proposto l'Īrān. Per Meluḫḫa sono state avanzate varie proposte ma la maggior parte degli archeologi ritiene la si possa identificare con il porto di Khaṃbāta, nella valle dell'Indo, o ancora più a est, con quello di Lothala, nel Gujārat.

In quanto a Tilmun, un'iscrizione assira, questa volta risalente a Šarru-kīnu II di Aššur (♔ 722-705 a.C.), ci dà una precisa localizzazione geografica:

ú-pi-ri šàr tilmun ša malak 30 bēri i-na qabal tam-tim šá ṣi-it
šamši ki-ma nu-ú-ni nar-ba-ṣu šit-ku-nu-ma
Upiri, re di Tilmun, il cui territorio si trova a 30 bērû di distanza
nel mare del sole nascente.

Iscrizione di Šarru-kīnu II a Ḫursābād [65:-66:]

La maggior parte degli studiosi è concorde nel ritenere che Dilmun vada da identificarsi con il territorio sulla costa orientale della penisola araba e/o con le odierne isole del Baḥrayn, nel golfo Persico. Queste ultime distano circa 450 km dall'attuale accesso al mare ʿirāqeno, mentre la distanza fornita nell'iscrizione è un po' inferiore: un bēru (sumerico DA-NA) misurava infatti 10˙800 metri. Inoltre, poiché al-Baḥrayn si trova a sud, e non ad est, della terra di Sumer, altri studiosi hanno guardato piuttosto verso l'India. Secondo Kramer la terra felice di Dilmun andrebbe identificata con la regione di Haṛappā, nella valle dell'Indo.

Sigilli di Dilmun (2000-1800 a.C.)

Sigilli circolari, in steatite dal sito di Sār, al-Baḥrayn. [Museo] Matḥaf al-Baḥrayn al-waṭanī. Al-Manāma, al-Baḥrayn.

Il ritrovamento di sigilli provenienti da Haṛappā in siti mesopotamici e arabi, unito a quello dei bellissimi sigilli circolari tipici del Baḥrayn, ma rinvenuti tanto a Lothala, nel Gujārat, quanto sull'isola di Faylakā, dinanzi al Kuwayt, testimoniano l'esistenza, nella prima metà del Terzo millennio avanti Cristo, di rotte commerciali che collegavano il golfo Persico alla costa indo-pakistāna. In epoca presargonica, al-Baḥrayn era un vivace porto di transito e di smistamento di merci che fungeva da raccordo tra la valle dell'Indo e la Mesopotamia. I Sumeri importavano rame da Tilmun, diorite da Maganna, pietre semipreziose (cornaline e lapislazzuli) dall'Elam o dall'Īrān, avorio e ebano da Meluḫḫa. In quanto alle esportazioni, consistevano probabilmente in ceramiche, granaglie, filati di lana, datteri, forse olio. I Sumeri non possedevano una vocazione marinara: i loro miti parlano sovente di avventurose spedizioni verso le montagne, mai di viaggi per mare. Le loro imbarcazioni fluviali potevano discendere i fiumi lungo la corrente e, al limite, svolgere qualche servizio di piccolo cabotaggio presso la foce dell'Eufrate, ma è improbabile che potessero affrontare il mare aperto e arrivare fino al Baḥrayn. Erano le navi straniere a risalire l'Eufrate e i canali navigabili per commerciare con le città sumere. Alcune di queste, come Ur, possedevano dei porti ben attrezzati ed erano centri di traffici piuttosto importanti. Questo potrebbe spiegare perché i Sumeri non avessero un'idea precisa di dove si trovassero località come Tilmun e Meluḫḫa.

Il culmine di quest'epoca di floridi commerci può essere collocata, più o meno, al tempo di Gudea, ensi di Lagaš (♔ 2144-2124), il quale faceva arrivare legname da Tilmun e da Meluḫḫa, diorite da Maganna, oro grezzo e corniola da Meluḫḫa, e via dicendo. Ma dopo la III dinastia di Ur, al chiudersi del Terzo millennio avanti Cristo, una serie di eventi influenzò negativamente gli scambi commerciali della Mesopotamia con gli altri paesi. All'affermarsi della potenza antico-babilonese, che sposterà l'asse politico-economico verso nord, corrisponde il progressivo arretramento delle foci del Tigri e dell'Eufrate che, a causa dei depositi alluvionali, renderà sempre più difficile il traffico fluviale. Parallelamente il crollo della civiltà della valle dell'Indo, in parte dovuto alle invasioni ariane, dal XVIII secolo a.C., e l'occupazione del Baḥrayn da parte dei Cassiti, mezzo millennio più tardi, chiuderanno definitivamente questo felice periodo. Bisognerà attendere l'epoca ellenistica per vedere rifiorire il commercio sul golfo Persico.

Questa, in sintesi, la situazione storica, così com'è stata definita dagli archeologi, e rimandiamo il lettore interessato alla materia a opere ben più approfondite. Noi torniamo piuttosto alle nostre tavolette impresse a pittogrammi e cuneiformi, le più dirette testimoni del pensiero e dei sogni dell'antico popolo di Sumer, nonché delle trionfali dichiarazioni dei loro diretti successori, i re antico-babilonesi. I documenti sembrano muoversi su due distinti livelli: concezioni mitiche e percezioni geografiche vengono a confondersi tra loro. Dilmun è un ben preciso territorio da cui arrivano navi e merci, identificabile con il Baḥrayn, ma è contemporaneamente il favoloso giardino di immortalità posto in un oriente cosmologico, in un luogo sacro al sole nascente, e dove gli dèi hanno condotto il mitico Ziudsura dopo averlo reso immortale.

Come si spiega questa dicotomia? Gli studiosi hanno avanzato in proposito opinioni piuttosto divergenti. Il fatto che i Sumeri non avessero un'idea precisa della localizzazione di certe regioni lontane, di cui avevano notizia dai mercanti stranieri, non spiega perché avessero posto il loro ʿēḏẹn proprio a Dilmun, nel Baḥrayn. L'identificazione del territorio geografico con il tópos mitico deve avere ragioni diverse. Una possibilità da prendere in seria considerazione è che abbiano assorbito il mito di Dilmun da una cultura di substrato.

Sebbene sulle origini dei Sumeri vi siano poche certezze, gli archeologi tendono a pensare che essi siano arrivati dal territorio dei monti Zāgros, come ci mostrano i reperti archeologici, e che si siano poi integrati con le culture presenti nel sud della Mesopotamia, in particolare quella di Uruk e quella di al-ʿUbayd. Sembra che la navigazione fosse ben conosciuta nel periodo ʿUbayd 3 (4500-4000 a.C.), a cui risalgono manufatti diffusi sulle coste arabe, oltre a relitti di imbarcazioni rinvenute in Kuwayt (Carter 2006). La cultura ʿubaydiana potrebbe essere stata il tramite attraverso il quale i Sumeri – popolo dalle tradizioni montane – si siano messi a favoleggiare di terre incantate poste sui lontani mari orientali.

Ma anche se dessimo valore a certe ipotesi, permane intatta la difficoltà di integrare il Dilmun dei testi mitologici e il Tilmun dei documenti commerciali. Spiegare il mito tramite la «deformazione» di antiche memorie storiche, sia pure assorbite da una cultura di substrato, non rende un buon favore alla nostra analisi dei processi di mitopoiesi.

La riscoperta di Dilmun, nei primi decenni del XX secolo, ebbe l'effetto di dare un novello impulso alle ricerche di una localizzazione geografica del gan ʿĒḏẹn, dopo che gli orientalisti avevano ormai esaurito tutte le valli, i siti, le oasi, da Palmýra alla Mesopotamia, dove fosse possibile individuare il mitico giardino. A partire dal lavoro di William Foxwell Albright, che trovava l'origine del mitema edenico in Dilmun (Albright 1922), qualsiasi lavoro di localizzazione di ʿĒḏẹn ha dovuto necessariamente contemplare il golfo Persico, la costa araba e il Baḥrayn, se non addirittura la valle dell'Indo. In alcuni dei lavori più recenti, gli specialisti hanno tenuto conto che nel 6000 a.C. il livello del golfo Persico era notevolmente più basso di quello attuale e quindi hanno avanzato l'ipotesi che il gan ʿĒḏẹn potesse trovarsi vicino all'attuale costa ʿirāqena, in un'area oggi sommersa dal mare (Hamblin 1987). La letteratura, in proposito, è immensa, ed è arduo poter aggiungere qualcosa di nuovo.

E qui bisogna sbarazzarci di un pregiudizio, o forse soltanto di un metodo fuorviante. Molti studiosi ritengono che basti localizzare un sito mitologico sull'atlante per darne una spiegazione definitiva. Ma a ben guardare, l'inconciliabilità tra la geografia reale e mitologica è un elemento costante in tutte le tradizioni del mondo. Si pensi al paese degli Hyperbóreoi, ad Ynys Afaỻon, al Hawaiki polinesiano. Nonostante le pie illusioni dei cartografi, la maggior parte di questi luoghi non sono il ricordo deformato di una geografia reale, ma si sono sviluppati da elaborazioni narrative di antiche concezioni cosmologiche. La localizzazione di questi mitòtopi con un luogo reale è sempre un processo a posteriori. E qualora un luogo mitico sia il ricordo deformato di qualche patria lontana, il luogo in questione è ormai talmente simbolizzato da rendere non solo arduo il riconoscimento, ma ridicolo il problema della sua corrispondenza con il luogo di ispirazione.

Queste note basteranno per dichiarare i nostri intenti e, insieme, di sbarazzarci di tanti ottimistici tentativi di localizzare il giardino di ʿĒḏẹn sugli atlanti geografici. Nel nostro viaggio troveremo un gran numero di monti, fiumi e mari che appartengono contemporaneamente al piano geografico e quello mitologico. Ma ciò di cui parleremo, ciò che metteremo in correlazione, sono semplicemente le necessità del mito, il convergere di antichissime cosmologie di cui il mitema del giardino di immortalità è un elemento imprescindibile e necessario.

L'EPOPEA DIMENTICATA: IL RITORNO DEL RE DI URUK

Per secoli, la Bibbia aveva costituito l'unica inappellabile testimonianza della cultura, della religione e della mitologia dell'antico Oriente. Le cose cambiarono, e piuttosto bruscamente, il 3 dicembre 1872 quando, nel corso di un'affollata conferenza, nella prestigiosa sede della Biblical Archaeological Society a Londra, l'orientalista dilettante George Smith (1840–1876) rivelò al mondo che un antico racconto del diluvio universale era tornato alla luce tra le perdute rovine della Mesopotamia. O per essere più precisi, tra le migliaia di frammenti di tavolette «caldee» (come allora si diceva) che da almeno vent'anni giacevano nel più totale disordine nei magazzini del British Museum.

Queti frammenti erano il risultato di svariate campagne di scavo che si erano accanite attorno ai tilāl di Qūyunǧiq e Nabī Yūnus, nel luogo dove più di due millenni prima sorgeva l'orgogliosa Ninive (accadico Ninwe, ebraico Nînwēh, greco Nineuḗ), antica capitale d'Assiria. Il territorio – siamo nel ʿIrāq settentrionale, non lontano dall'odierna al-Mawṣil – apparteneva all'impero ottomano e gli archeologi, perlopiù inglesi e francesi, agivano in aperta competizione tra loro, destreggiandosi con tutte le armi fornite dalla diplomazia e della burocrazia nel tentativo di occupare i siti migliori e, allo stesso tempo, cercando di ostacolare il lavoro dei rivali.

Gli scavi di sir Austin Henry Layard a Ninive
Frontespizio di A popular account of discoveries at Nineveh (Layard 1851).

Primo a scavare sul luogo era stato, nel 1846, l'italo-francese Paul-Émile Botta (1802-1870), il quale, non trovando nulla di significativo, aveva spostato le ricerche a tall Ḫursābād, a una ventina di chilometri da tall Qūyunǧiq, dove aveva rinvenuto i magnifici resti di Dūr Šarru-kīnu, la fortezza di re Šarru-kīnu II. Le sensazionali scoperte di Botta avevano convinto gli inglesi a intervenire: l'allora console di Baġdād, sir Henry Rawlinson (1810-1895), lui stesso valente orientalista, riuscì a farsi finanziare una serie di campagne di scavo, che affidò a sir Austin Henry Layard (1817-1894), faccendiere, diplomatico, giornalista e orientalista, il quale ripagò in breve gli investimenti, riportando alla luce gli splendidi palazzi assiri a tall Nimrūd e i resti di Kalḫu.

Tra il 1849 e il 1951, Layard tornò tuttavia a scavare sul tall Qūyunǧiq e rinvenne, sul lato nord della collina, settantun ambienti che mostravano chiare tracce di devastazioni e incendi. Aveva scoperto il palazzo del re assiro Sîn-aḫḫī-erība (Sennacherib, ♔ 705-681 a.C.), saccheggiato dai Medi e dai Babilonesi nel 612. Tra molti preziosi reperti – ortostati di marmo, portali, tori alati... –, Layard trovò una gran quantità di tavolette incise a cuneiformi. Ma a questo punto i francesi fecero valere i loro diritti di precedenza – Botta era stato in situ cinque anni prima – e bloccarono il lavoro degli inglesi. Tra le polemiche, Rawlinson s'incontrò con il console francese di al-Mawṣil, Victor Place, lui stesso archeologo dilettante, e i due stabilirono di dividersi i luoghi di scavo.

Tornato Layard a Londra, il suo posto fu preso nel 1852 dall'«assiro» (arabo-cristiano) Hurmuzd Rassām (1826-1910), una singolare figura di archeologo-avventuriero dalla dubbia deontologia professionale. Contrariato dal fatto che ai francesi fosse toccato il lato settentrionale del tall Qūyunǧiq, da lui considerato assai promettente, Rassām approfittò dell'assenza dei francesi, i quali pare si fossero temporaneamente spostati a tall Ḫursābād, per scavare di nascosto nel loro campo durante la notte, e portò alla luce una gran quantità di preziosi reperti e tavolette. Aveva scoperto il palazzo di Aššur-bāni-apli (Assurbanipal, ♔ 668-631 a.C.). Questa invasione di campo suscitò indignazione tra i francesi: Place diede subito ordine di riaprire i cantieri a tall Qūyunǧiq e, soprattutto, di non lasciar trapelare nulla su quanto avessero trovato. Ben presto la loro pazienza e tenacia venne ripagata.

Tuttavia il capo-operaio degli archeologi francesi, un arabo di origine albanese, era stato corrotto da Rassām affinché lo informasse di quanto i rivali andavano scoprendo. Rassām seppe così che Place era penetrato in una serie di stanze colme di inestimabili reperti, di cui la quinta appariva piena di tavolette bruciate e spezzate. Poiché la scoperta era stata fatta di giovedì, e il giorno dopo gli operai musulmani osservavano il riposo settimanale, Rassām riunì nottetempo una cinquantina di operai e, alla luce delle candele, fece scavare un tunnel dal suo settore a quello francese e fece man bassa di tutto. Possiamo immaginarci la costernazione di Place allorché, il sabato mattina, trovò vuote tutte le stanze, compresa la preziosa biblioteca! Rassām negò di essere l'artefice del saccheggio. Due mesi dopo le preziose tavolette di Aššur-bāni-apli si trovavano in un magazzino del British Museum. (Pettinato 1992 | D'Agostino 1997)

Ci vollero anni perché gli studiosi riuscissero a catalogare tutti i frammenti, giunti a destinazione in stato di totale disordine. Ed è qui che, alla disonestà e ai sbrigativi saccheggi di Rassām fa da contraltare il lavoro metodico e paziente di George Smith. Questo giovanotto, un orientalista dilettante ma entusiasta, era stato assunto nel British Museum proprio perché desse una mano a catalogare delle migliaia di frammenti giunti dalla Mesopotamia. Per capire l'enormità del lavoro, basti pensare che a oggi la banca dati del British Museum contempla oltre trentamila frammenti provenienti dalla Biblioteca di Ninive e ancora non è stato compilato un catalogo completo e definitivo del materiale.

Nel sistemare i reperti di tall Qūyunǧiq, lo sguardo di Smith era caduto su un testo dove si parlava di una nave arenata contro una montagna e dell'invio di una colomba che, non riuscendo a trovare un posto dove fermarsi, era tornata indietro. Subito Smith aveva cercato altri frammenti appartenenti alla stessa serie e, quando ebbe messo insieme un documento leggibile, si accorse di avere tra le mani un lungo e complesso poema di epoca assira (VII sec. a.C.) incentrato su un sovrano della città sumerica di Uruk (la biblica Ẹrẹḵ), il cui nome, inizialmente letto come IZ.DU.BAR, sarebbe stato in seguito restituito nella forma di Gilgameš.

Tavola XI della «serie di Gilgameš»
British Museum, Londra (Regno Unito)

La serie completa constava di dodici tavolette, ma era l'undicesima destinata a sollevare un certo clamore presso filologi e biblisti. Il mito del diluvio, che tornava alla luce dopo venticinque secoli, era il primo – eccezion fatta per la leggenda ellenica di Deukalíōn – che provenisse da un contesto extra-biblico. La conferenza con cui George Smith annunciò la sua scoperta, il 3 dicembre 1872, fu anche l'inizio di un'annosa querelle nota con la formula Babel und Bibel: la documentazione assiro-babilonese riportava nomi di re, città, popolazioni e divinità noti fino ad allora soltanto attraverso il testo biblico e, soprattutto, riportava miti analoghi, ma decisamente più antichi, di quelli presenti nel Bǝrēʾšîṯ, e piuttosto differenti. Se da un lato tutto questo materiale permetteva di contestualizzare la scrittura ebraica nell'ambito del più vasto retroterra culturale e letterario dell'antico Oriente, dall'altro, le toglieva quel primato di unicità che aveva conservato per secoli e ne ridimensionava drasticamente l'autorità.

Negli anni successivi venne alla luce molto altro materiale su Gilgameš, da siti sparsi dalla Mesopotamia all'Anatolia. E ci si rese ben presto conto che Gilgameš era stato una sorta di eroe «nazionale» di tutto l'antico Oriente. Dopo un oblio millenario, la più antica epopea dell'umanità tornava a far parte della letteratura universale.

Lo Ša naqba īmuru, «Colui che vide nel profondo», è il titolo dell'epopea classica neo-assira in dodici tavole, anche nota ai bibliotecari assiri come iškar GIŠ-gim-maš, la «serie di Gilgameš». Attualmente si conoscono 184 frammenti di questa versione (dove con «frammento» si intende un reperto a cui è stato assegnato un numero di inventario in un museo). Accostando i frammenti contigui, il totale si riduce a 116. Questi 116, a loro volta, sono testimoni di almeno settantatré diversi manoscritti, la maggior parte dei quali è individuata solo da due/tre pezzi: pochi manoscritti constano di quattro o più frammenti. Almeno trentaquattro manoscritti sono neo-assiri (VII sec. a.C.) e i migliori testimoni sono quelli rinvenuti a tall Qūyunǧiq: non c'è tavola della «serie di Gilgameš» che non fosse conservata nella biblioteca di Aššur-bāni-apli in almeno un esemplare e alcune erano presenti in copie multiple. Sono arrivati a noi sedici distinti colophon. Gli altri manoscritti neo-assiri vengono da Aššur, da Kalḫu/Nimrūd e Ḫuzirina/Sultantepe Höyüğü, in Anatolia. Una trentina di manoscritti sono invece tardo-babilonesi (VI-V sec. a.C.), di cui sette provenienti da Uruk/Warkāʾ e due da Babilonia. I rimanenti frammenti tardo-babilonesi, custoditi nel British Museum, sono il risultato degli scavi affrettati e disordinati di Hurmuzd Rassām: Sippar è la loro dichiarata provenienza, ma si ritiene che alcuni provengano da Babilonia e da Barsip. (George 2003)

Alla redazione «classica» si affiancano poi altri manoscritti neo-assiri che testimoniano delle interessanti varianti. Due di essi sono talmente vicini allo Ša naqba īmuru da essere usati come fonti per integrare le lacunae dell'epopea classica, ma altri ancora attestano delle fasi alternative del testo. Un manoscritto da Kalḫu/Nimrūd riporta l'incontro di Gilgameš con Šiduri e Ūtanapištî, ma con un un testo differente inserito al posto della storia del diluvio. Infine, due piccoli frammenti rinvenuti a tall Qūyunǧiq non sono integrabili nello Ša naqba īmuru, segno che nella biblioteca di Ninive era conservata più di una versione dell'epopea.

Già George Smith si era domandato se non esistessero documenti più antichi che fossero serviti da base per la stesura della redazione ninivita dell'epopea di Gilgameš. E infatti furono scoperti poemi medio-babilonesi (±1500-1000 a.C.) e antico-babilonesi (±1950-1500 a.C.) che confermarono quanto lo studioso aveva intuito: lo Ša naqba īmuru era la forma definitiva di un vasto ciclo epico che la Mesopotamia andava elaborando da cinquecento o addirittura mille anni.

Conosciamo oggi una dozzina tra tavolette e frammenti antico-babilonesi incentrati su Gilgameš, risalenti alla prima metà del Secondo millennio avanti Cristo. Sebbene di diverso contenuto e qualità, riportano degli episodi riconducibili all'epopea classica. Il colophon della cosiddetta tavoletta di Pennsylvania ci informa che il titolo e incipit di questa antica versione dell'epopea era Šūtur eli šarrī, «Egli sovrasta ogni re!» (verso che corrisponde a Ša naqba īmuru [I: ]). Gli studiosi ritengono che si trattasse di un'opera unitaria, suddivisa in varie tavole: quale fosse la sua ampiezza non è noto, ma era probabilmente più breve dell'epopea ninivita. Questo un elenco dei testimoni:

  • AB P e Y. I testi antico-babilonesi più importanti sono la tavoletta di Pennsylvania e quella di Yale, acquistate dalle rispettive università a New York, da un medesimo venditore, nel 1914. Sembra provenissero da Uruk/Warkā˒ ed è possibile che siano state redatte da una stessa mano. Le sezioni dell'epopea di Gilgameš riportate dalle due tavolette corrispondono rispettivamente a Ša naqba īmuru [I-II] e [II-III].
  • AB Ph. Il frammento UM 29-13-570, cosiddetto di Philadelphia, proveniente da Nippur, è un breve testimone (venti righe in tutto) della stessa redazione delle tavolette di Pennsylvania e di Yale.
  • AB Ch. La tavoletta A22007, detta di Chicago, in quanto custodita nel locale Oriental Institute Museum, ma anche di Bauer, dal nome del suo primo editore, o di Nērebtum o di Iščālī, è stata appunto rinvenuta nel sito di Nērebtum, odierna Iščālī/Šaǧālī, nel 1935. Sebbene sia andato perduto da un quarto a un terzo del testo, e quanto rimane non sia ben conservato, essa riporta un'interessante variante della vicenda della lotta di Gilgameš con Ḫumbaba (cfr. Ša naqba īmuru [V]).
  • AB B-L. Letterariamente molto bella è la tavoletta di Berlino/Londra (VA+BM), proveniente, si ritiene, da Sippar. Venne spezzata da un commerciante arabo di Baġdād nel 1902, che riuscì così a venderla due volte. Comprati separatamente, i due frammenti sono conservati rispettivamente al Pergamonmuseum e al British Museum. La tavoletta narra, con interessanti varianti, dell'incontro di Gilgameš con Šiduri e Sursunabu (cfr. Ša naqba īmuru [X]). La precisione della redazione fa pensare a un esemplare destinato a una biblioteca.
  • AB Sch₁ e Sch₂. Le due tavolette «norvegesi», di provenienza sconosciuta e oggi conservate nella Schøyen Collection, a Oslo, sono assai diverse tra loro come qualità redazionale. Di quella redatta con maggiore cura è sopravvissuto solo un breve frammento, mentre l'altra, piuttosto disordinata, ci è pervenuta praticamente integra. La prima porta alcuni versi sovrapponibili alla tavoletta di Yale; la seconda riprende, con interessanti varianti, alcuni dettagli della spedizione di Gilgameš nel Qišti Erēn (cfr. Ša naqba īmuru [IV]).
  • AB N, ₁₋₂, Baġ. Alcuni frammenti di tavolette conservati nel Matḥaf al-ʿIrāqi, a Baġdād: la tavoletta di Nippur (AB N), rinvenuta nel 1951-1952, le due frammentarie tavolette di Šaduppūm (AB ₁₋₂), rinvenute nel tall Ḥarmal nel 1947, e i cosiddetti frammenti di Baġdād (AB Baġ), raggruppati sotto la comune collazione IM 21180, di provenienza ignota. Tutti questi frammenti hanno per argomento la spedizione di Gilgameš nel Qišti Erēn (cfr. Ša naqba īmuru [IV-V]).

Altri diciotto tra tavolette e frammenti, risalenti alla seconda metà del Secondo millennio avanti Cristo, rivelano invece la diffusione del ciclo di Gilgameš in epoca medio-babilonese, fornendoci uno sguardo sui lunghi secoli che separano lo Šūtur eli šarrī dallo Ša naqba īmuru. Questi manoscritti, di diversa epoca e provenienza, testimoniano un periodo in cui la trasmissione dall'epopea era caratterizzata da considerevoli divergenze rispetto alle redazioni antico-babilonesi. La scarsa consistenza di documentazione non ci consente di trarre conclusioni definitive circa il suo rapporto con l'epopea ninivita: nonostante i paralleli riscontrati, tuttavia, i frammenti rivelano una tradizione ancora non canonica. Alcuni vengono da siti lontani dalla Mesopotamia e testimoniano versioni straniere dell'epopea accadica.

  • MB U. La tavoletta di Ur, dal supposto luogo di provenienza, descrive i sogni di Enkidu e parte della sua agonia. Il testo si distacca in molti punti da quello dello Ša naqba īmuru. È più antico di circa mezzo millennio della versione ninivita,
  • MB Böğ₁₋₃. Diversi frammenti del poema di Gilgameš vengono da Ḫattuša/Böğazköy, capitale del regno degli Ḫittiti, in Anatolia. Otto di questi brevi frammenti (MB Böğ₁), rinvenuti in quella che sembra la biblioteca di un tempio e datati al 1400 a.C., sembrano provenire da una serie di tavolette correlate e trattano della civilizzazione di Enkidu e del viaggio al Qišti Erēn. Un ampio frammento (MB Böğ₂), rinvenuto all'inizio del XX secolo, tratta dei sogni di Gilgameš e dell'ira di Ištâr . Un terzo ritrovamento è quasi illegibile (MB Böğ₃).
  • MB E₁₋₂. Due frammenti trovati nel 1974 a tall Maskana, l'antica città di Emar, in Siria. Il secondo di essi, piuttosto ampio, riporta la scena in cui Gilgameš rinfaccia a Ištâr la triste sorte dei suoi amanti e la richiesta della dea ad Anu di scatenare il toro Gudanna.
  • MB M. Un frammento scoperto nel 1954 a Meîddô, in Palestina, che riporta una scena dell'agonia di Enkidu.
  • MB N₁₋₄. Alcune tavolette provenienti da Nippur, i quali utilizzano estratti di poemi gilgamešaici come esercizi scolastici. I testi, ridotti a pochissime righe, sono spesso inintellegibili. Uno rappresenta la creazione di Enkidu.

I babilonesi attribuivano la paternità del poema a un certo Sîn-lēqi-unninni (il nome significa «O Sîn, accetta la mia preghiera»). In un «catalogo librario» di epoca neo-assira si legge: «Serie di Gilgameš: dalla bocca di Sîn-lēqi-unninni» [ÉŠ.GÀR(=iškar) GIŠ-gim-maš: šá pi-i 30(=sîn)-le-qi-un-nin-ni]. Poiché questo nome compare nelle liste reali come apkallu dello stesso Gilgameš, si è pensato che Sîn-lēqi-unninni potrebbe essere stato una leggendaria figura di cantore, un po' come Hṓmēros, a cui veniva tradizionalmente attribuita la prima redazione del poema. C'è però anche la possibilità che Sîn-lēqi-unninni sia un personaggio perfettamente reale e sia intervenuto sul testo dello Šūtur eli šarrī in una fase precedente alle redazioni medio-babilonesi, sebbene sia impossibile precisare quando e come. La redazione della tavoletta di Ur (MB U), secondo la prudente ipotesi avanzata da alcuni studiosi, sembra sia quella che meglio potrebbe rappresentare l'ipotetico testo attribuito a Sîn-lēqi-unninni. Ma costui potrebbe anche essere stato l'autore della redazione definitiva dello Ša naqba īmuru all'inizio del Primo millennio, da cui poi sarebbe derivata la versione ninivita.

Sebbene George Smith non potesse saperlo, la scoperta delle tavolette antico- e medio-babilonesi era solo il primo passo nella scoperta delle origini del mito di Gilgameš. All'epoca, i Sumeri non erano ancora noti come entità etnica e politica e ci volle del tempo, e un bel po' di polemiche, prima che gli orientalisti accettassero l'esistenza di un popolo, insediato nella Mezzaluna Fertile prima dell'arrivo dei Semiti, di cui non era rimasta memoria nemmeno nella Bibbia. Man mano che venivano alla luce tavolette sempre più antiche, gli eleganti cuneiformi si devolvevano in rozzi pittogrammi, e man mano che la remota lingua sumerica veniva identificata, analizzata e decifrata, cominciarono ad affiorare racconti su un certo Bilgames, lugal di Uruk. Nell'identificazione e decifrazione di questi testi ha avuto un ruolo da protagonista il sumerologo Samuel Noah Kramer (1897-1990), il quale ha dedicato tutta la vita a cercare frammenti di tavolette sumere nei musei di tutto il mondo, per poi ricomporli pazientemente nelle corrette sequenze. È soprattutto grazie a Kramer se conosciamo oggi sei testi sumerici su Bilgames, alcuni dei quali del tutto sconosciuti all'epica classica:

  1. Lukigia Agga (LÚ.KI.GI.A AG.GÀ, «I messaggeri di Agga»), conosciuto informalmente come Bilgames e Agga: poema completamente sconosciuto dall'epopea classica.
  2. Ud rea ud sudra rea (UD RE.A UD SÙD.RÁ RE.A, «In quei giorni, in quei giorni remoti»), conosciuto informalmente come Bilgames, Enkidu e gli inferi; poema appartenente al ciclo di Inanna, di cui una parte è citata a mo' di appendice nella XII tavoletta dell'epopea classica.
  3. En-e kur lu tillaše (EN.E KUR LÚ TI.LA.ŠÈ, «Il signore nella terra del vivente»), conosciuto informalmente come Bilgames e Huwawa A, a cui si riferisce un episodio dell'epopea classica.
  4. Ia lulu uluḫḫa sudsud (I.A LU.LU Ù.LUḪ.ḪA SUD.SUD, «Vieni ora, portatore dello scettro»), altra versione del poema precedente; conosciuto con il titolo informale di Bilgames e Huwawa B.
  5. Šul meka šul meka (ŠUL MÈ.KA ŠUL MÈ.[KA], «Eroe in battaglia»), conosciuto informalmente come Bilgames e il toro del cielo, episodio presente nell'epopea classica.
  6. Ursa [amgale] banu (UR.SA [AM.GAL.E] BA.NÚ, «Giace l'eroe [il grande toro]»), conosciuto dagli specialisti come La morte di Bilgames, di cui non c'è alcun riferimento nell'epopea classica.

Bisogna infine citare, per completare il quadro, il rinvenimento di tavolette in lingue diverse dall'accadico, a ricordarci come il ciclo di Gilgameš fosse popolare e ben conosciuto anche fuori dalla Mesopotamia. Conosciamo frammenti ḫittiti () di diversa datazione, derivati probabilmente dalle redazioni antico-babilonesi. Vi sono poi frammenti di poemi ḫurriti riallacciabili a vari episodi dello Ša naqba îmuru, alcuni dei quali sembrano avere Ḫumbaba, e non Gilgameš, come eroe protagonista. Esiste un frammento di una versione elamita (El) che riguarda l'episodio dell'incontro tra Gilgameš e Šiduri, svolto in maniera molto diversa da come compare nell'epopea classica. (Pettinato 1992 | George 2003)

Ma ora che abbiamo fatto il punto della situazione – e il lettore ci scuserà se ci siamo fatti prendere la mano dal nostro gusto per le divagazioni, ma si ammetterà che l'argomento è davvero affascinante – dedichiamoci al nostro protagonista. Gilgameš, lugal di Uruk.

GILGAMEŠ, COLUI CHE VIDE LE PROFONDITÀ

Gilgameš, il re
Tudor Humphries, illustrazione (Shepherd 1994)

A chi affidarci per la nostra ricerca del giardino della vita? A chi, se non a colui che vide le profondità, che calpestò i sentieri del mondo e ci riportò un mito dei tempi del diluvio? All'antichissimo re di Uruk, che non fu soltanto il primo eroe epico della storia dell'umanità, ma anche il primo eroe tragico, il cui sconcerto di fronte al mistero della morte, giunto a noi da tempi tanto remoti, ancora ci appartiene.

Il suo nome, riportato provvisoriamente come IZ.DU.BAR da George Smith, è stato a lungo una vexata quaestio presso gli orientalisti. Nei documenti accadici compariva come GIŠ-gím-maš (spesso abbreviato sulle tavolette in un semplice GIŠ) e venne dapprima proposta la lettura Gišṭubar. La lettura con cui oggi il personaggio è universalmente conosciuto venne stabilita dall'assiriologo Theophilus Goldridge Pinches solo nel 1890, allorché fu reso disponibile un commentario tardo-babilonese che riportava l'equazione GIŠ-gím-maš = gil-ga-⌜meš⌝. Ci si accorse, peraltro, che di questo nome si conosceva già la versione in greco Gílgamos, personaggio sul quale l'ellenista Claudius Aelianus (±175-±235) narrava una leggenda che non ha alcun riferimento diretto con il materiale accadico (Perì zṓıōn idiótētos [12, ]). Era stato dunque Gilgameš il nome con cui il nostro eroe era conosciuto intorno al VII-V secolo a.C. Ma nelle epoche precedenti? Nelle tavolette sumeriche il nome dell'eroe compare in un gran numero di lezioni diverse. Nella più antica attestazione, in una lista divina di Šuruppak (tall Fārā) della metà del Terzo millennio avanti Cristo, il nome compare nella lezione GIŠ:BIL:PAP.ga.mes. La maggior parte delle lezioni sumeriche sono costruite su una radice della forma Pabilga, assai comune negli antroponimi, da cui si deduce una lettura Pagilbames. Un'altra lezione, diffusa a partire dal XXIV secolo a.C., si avvicina a quella accadica: è GIŠ.BÍL.gi₁₁.mes (o GIŠ.BÍL.gím.mes). Poiché a volte GIŠ.BÍL è una combinazione tra un logogramma e un complemento fonetico, cioè GIŠ, è probabile che vada pronunciato /bil/ o /pil/. Da quest'epoca, inoltre, pabilga- sembra contrarsi in bilga-, da cui la lettura proposta dai sumerologi: Bilgames. (George 2003)

E ora che sappiamo come si chiama il nostro eroe, entriamo nel vivo delle sue vicende. L'epopea classica, la stessa di cui George Smith aveva presentato le prime traduzioni alla sua conferenza, nel 1872, ci servirà da mappa per seguire il viaggio di Gilgameš alla ricerca della pianta della vita. Ci limiteremo tuttavia a dare una scorsa veloce ma appassionata all'intero poema, riservandoci di approfondire poi quei dettagli che ci torneranno preziosi per il nostro studio. Il titolo dell'epopea classica, Ša naqba îmuru, «colui che vide le profondità», deriva, com'era uso, dal suggestivo incipit

[šá naq-ba i-mu-ru i]š-di ma-a-ti
[×××-ti i-du]-⌜ú ka⌝-la-mu ḫa-as-s[u]
[GIŠ-gím-maš šá n]aq-⌜ba⌝-i-mu-ru iš-di ma-⌜a⌝-[ti]
[×××-t]i i-du-ú ka-la-mu ḫa-a[s-su]
[××]×-ma mit-ḫa-riš pa-×[×]
[nap-ḫ]ar né-me-qí ša ka-la-a-mi⌜i⌝-[ḫu-uz]
[ni]-ṣir-ta i-mur-ma ka-tim-ti ip-⌜tu⌝
[u]b-la ṭè-e-ma šá la-am a-bu-b[i]
[u]r-ḫa ru-uq-ta il-li-kam-ma a-ni-iḫ u šup-šu-uḫ
[šá-k]in i-na ⁴NA.RÚ.A(=narê) ka-lu ma-na-aḫ-ti

[Colui che vide le profondità, il] fondamento del paese,
[di colui che sapeva] ogni cosa, rendendosi esperto di tutto;
[Gilgameš che] vide le profondità, il fondamento del paese,
[di colui che] sapeva [ogni cosa], rendendosi esperto di tutto.
[...] egualmente [...]
egli [imparò] la sapienza in tutte le cose;
vide i segreti e scoprì le cose nascoste
e riportò un messaggio dai tempi prima del diluvio.
Egli percorse vie lontane, finché, stanco e abbattuto, [si fermò]
e fece incidere tutte le sue fatiche su una stele di pietra.

Ša naqba īmuru [I: -]

Gilgameš, figlio di Lugalbanda, è il quinto re di Uruk dei tempi postdiluviani. Ma questo lo apprendiamo dalle liste reali. La tavola I del poema ninivita lo introduce con la formula: ša naqba īmuru, «colui che vide le profondità». Dunque un uomo esperito e sapiente, gran viaggiatore e inesausto scopritore dei misteri del mondo. Nessuno, più di lui, ha il diritto di dire: “Io sono il lugal!”. Possente eroe destinato alla gloria, Gilgameš è per due terzi dio e per un terzo uomo.

All'inizio del poema, Gilgameš è un giovane e vigoroso sovrano, dotato di un'energia incontenibile, tanto che gli abitanti di Uruk devono subire le sue continue intemperanze. Gilgameš suona il tamburo giorno e notte, chiamando continuamente la cittadinanza a raccolta per il lavoro e per la guerra, e costringendo tutti a dure e prolungate corvée. Il suo impeto sessuale è tale che non lascia in pace nessuna fanciulla della città. Gli urukiti, angustiati da questo lugal troppo esigente, innalzano al cielo un lamento. (Ša naqba īmuru [I: -])

Gli dèi decidono di intervenire. Aruru crea dall'argilla un uomo, simile a Gilgameš come un suo riflesso, in modo che si opponga a lui (Ša naqba īmuru [I: -] | MB [N₂: - -]). La dea modella un grumo di creta e nella steppa dà vita al silvestre Enkidu:

ina (=ṣeri) en-ki-dù ib-ta-ni qu-ra-du
i-lit-ti qul-ti ki-ṣir nin-urta
[š]u-ʾ-ur šar-ta ka-lu zu-um-ri-šú
up-pu-uš pe-re-tu (=kīma) sin-niš-ti
⌜i⌝-ti-iq pe-er-ti-šu uḫ-tan-na-ba ki-ma nissaba

Essa creò un uomo primordiale, Enkidu, il guerriero,
seme del silenzio, potenza di Ninurta.
Tutto il suo corpo era coperto di peli,
la chioma intrecciata come quella di una donna,
i riccioli crescevano lussureggianti come grano.

Ša naqba īmuru [I: -]

Enkidu, questo enfant sauvage, mai passato attraverso il filtro della cultura e del vivere civile, conduce un'esistenza errabonda tra gli animali, correndo con le gazzelle per le steppe e le montagne, brucando l'erba insieme al bestiame e abbeverandosi alle pozze. Più simile a una bestia che a un uomo, Enkidu aiuta gli animali a sfuggire ai cacciatori, a cui distrugge le trappole e riempie le buche. Un cacciatore lo scorge nel folto e, colto da indicibile terrore, comunica a Gilgameš dello strano uomo selvaggio che si aggira nella campagna. Il re ordina al cacciatore di scegliere una prostituta sacra e di condurla dall'uomo selvaggio, in modo che attraverso la conoscenza della donna egli abbandoni il proprio stato ferino e venga iniziato alla civiltà umana. Il brano, dolcemente esplicito, che descrive l'atto amoroso tra Šamḫat e il selvaggio Enkidu segna il trapasso tra l'esistenza istintiva delle bestie e la coscienza propria degli uomini. (Ša naqba īmuru [I: -]). Dopo aver giaciuto con la donna, Enkidu, la cui virilità era evidentemente dovuta alla sua natura selvaggia, si accorge di aver perduto le sue doti ferine e che ora gli animali rifiutano la sua compagnia.

ur-tam-mi šam-ḫat di-da-šá
úr-šá ip-te-e-ma ku-zu-ub-šá il-qé
ul iš-ḫu-ut il-ti-qé na-pis-su
lu-bu-ši-šá ú-ma-ṣi-ma UGU(=eli)-šá iṣ-lal
i-pu-us-su-ma lul-la-a ši-pir sin-niš-te
da-du-šú iḫ-bu-bu (=eli) EDIN(=ṣeri)-šá
6 ur-ri ù 7 GI₆(=mušāti) en-ki-dù te-bi-ma šam-ḫat ir-ḫi
ul-tu iš-bu-ú la-la-šá
pa-ni-šú iš-ta-kan ina (=ṣer) bu-li-šú
i-mu-ra-šu-ma en-ki-dù i-rap-pu-da MAŠ.DÀ(=ṣabātu)
bu-ul EDIN(=ṣeri) it-te-si ina ZU(=zumri)-šú
⌜ul-taḫ-ḫi⌝ en-ki-dù ul-lu-la pa-gar-šu
it-ta-ziz-⌜za⌝ bir-ka-a-šú šá il-li-ka bu-ul-šú
um-ta-aṭ-ṭu en-k[i-dù u]l ki-i šá pa-ni la-sa-an-šú
ù šu-ú i-ši ṭ[é-ma r]a-pa-áš ḫa-si-sa

Šamḫat lasciò cadere i suoi abiti
denudò la sua vulva e lo catturò col suo fascino.
Non lo respinse, lo abbracciò stretto,
aprì le sue vesti ed egli giacque su di lei.
Ella donò a lui, l'uomo, l'arte della donna,
egli la carezzò con amore e la abbracciò.
Per sei giorni e sette notti Enkidu, eretto, possedette Šamḫat.
Dopo essersi saziato delle sue delizie
volse lo sguardo verso le bestie:
le gazzelle guardarono Enkidu e fuggirono,
gli animali della steppa si tennero lontani da lui.
Enkidu era diverso, ora che il suo corpo era stato purificato:
le sue gambe, che tenevano il passo delle bestie, erano rigide;
Enkidu non aveva più forza, non poteva più correre come prima;
egli però aveva la ragione; il suo sapere era divenuto vasto.

Ša naqba īmuru [I: -]

Šamḫat consiglia a Enkidu di abbandonare la sua esistenza selvaggia e di seguirla. Nel frattempo, Gilgameš ha alcuni sogni che sua madre Ninsun, sacerdotessa del dio-sole Šamaš, interpreta annunciandogli il prossimo arrivo di un uomo destinato a diventare suo intimo amico e compagno (Ša naqba īmuru [I: -]). Qui si conclude la prima tavola.

La recensione della tavola II è assai mal conservata e mutila in più sezioni, al punto che oltre tre quarti del testo sono di fatto perduti. Parte del racconto può venire integrato, con qualche cautela, dalla redazione antico-babilonese, lo Šūtur eli šarrī. La tavoletta di Pennsylvania (AB P) racconta il tirocinio di Enkidu presso alcuni pastori, i quali gli insegnano a mangiare il pane e bere il vino. In seguito Šamḫat convince il suo selvaggio amico a scendere nel consorzio umano e lo conduce nella città di Uruk. Qui giunto, Enkidu incontra Gilgameš presso le mura della città. Se si è ben interpretato il testo, Gilgameš si sta recando a una festa di nozze per quello che sembra essere un diritto di ius primae noctis. Enkidu gli sbarra la strada e i due uomini si battono tra loro. L'esito del combattimento sembra arridere ad Enkidu, che con la sua forza costringe Gilgameš a piegare un ginocchio. Enkidu riconosce tuttavia l'eccellenza di Gilgameš e i due stringono una profonda amicizia (AB Šūtur eli šarrī [P: -]). Qui s'interrompe la tavoletta di Pennsylvania. Ritornando alla parte finale della seconda tavola ninivita, integrata con la tavoletta di Yale (AB Y), Gilgameš presenta Enkidu a Ninsun, con l'apparente proposito che la madre adotti il giovane selvaggio. Entrambi i testi si fanno lacunosi e, quando tornano a essere intellegibili, Enkidu sta piangendo sconsolato, forse per un rifiuto da parte di Ninsun. Per consolare l'amico, Gilgameš gli propone di partire insieme a lui per una pericolosa avventura. (Ša naqba īmuru [II: -] | AB Šūtur eli šarrī [Y: -])

L'esatta formulazione della proposta di Gilgameš è andata perduta tanto nella redazione ninivita tanto nella tavoletta di Yale, ma la risposta atterrita di Enkidu è fin troppo palese. Gilgameš vuole andare a prendere il legname in un luogo, il cui nome, nei testi accadici, è riportato in sumerogrammi:  . La lettura accadica di questo toponimo è Qišti Erēn, la «foresta dei cedri», e colui che la custodisce ha un nome minaccioso: Ḫumbaba. E lui Enkidu, l'uomo selvaggio, che conosce già la foresta e il suo terrificante guardiano, cerca di dissuadere Gilgameš dal tentare un'impresa tanto temeraria. (Ša naqba īmuru [II: -] | AB Šūtur eli šarrī [Y: -]). Anche i giovani e gli anziani di Uruk intervengono con parere negativo, e spiegano al re quanto sia pericoloso il viaggio, soprattutto a causa di Ḫumbaba:

áš-šu šul-lu-mu EREN(=erēni)
ana pul-ḫa-a-ti ša ÙG(=nišī) ⌜i⌝-šim-šu en-líl
[...] ḫum-ba-ba rig-ma-šu a-bu-bu
pi-i-šu ⌜GÌRA(=girru)⌝-um-ma na-pis-su mu-tú
“Per proteggere la foresta,
per incutere timore agli uomini, lo ha destinato Enlil.
[...] Ḫumbaba, il cui grido è il diluvio,
il cui soffio è fuoco, il cui respiro è morte...”

Ša naqba īmuru [II: a-a | -]

Questo episodio è probabilmente uno dei più antichi del ciclo di Gilgameš. È infatti trattato da due racconti sumerici, di diversa ampiezza, intitolati rispettivamente En-e kur lu tillaše, «Il signore nella terra del vivente», e Ia lulu uluḫḫa sudsud, «Vieni ora, portatore dello scettro», conosciuti con i titoli informali di Bilgames e Ḫuwawa A e Bilgames e Ḫuwawa B. La descrizione che Enkidu fa di Ḫuwawa nella versione sumerica, di duemila anni più antica di quella assira, è altrettanto inquietante:

lugal-u₁₀ za-e lú-ba igi nu-mu-ni-in-du₈-a šag₄
     nu-mu-ni-dab₅-bé-en
e₂₆-e lu₂-ba igi mu-ni-du₈-a šag₄ mu-ni-dab₅-bé-en
ur-sa ka-ga₁₄-ni ka ušumgal-la-kam
igi-ni igi piri-á-kam
IŠ.GABA-a-ni a-i₆ du₇-du₇-dam
sa-ki-ni iš-gi bí-gu₇-a lú
lugal-u₁₀ za-e kur-šè
     u₅-a e₂₆-e iriki-šè ga-u₅
ma-zu-úr ì-tìl-zu ga-na-ab-dug₄ zú-zú ḫé-li₉-li₉
eer-ra ba-úš-zu ga-na-ab-dug₄ [ér-zu][ér gig].

“O mio lugal, poiché tu non hai visto quell'uomo,
     non hai paura di lui;
ma io, che ho visto quell'uomo, sono pieno di terrore.
I denti dell'uomo sono denti di drago;
gli occhi dell'uomo sono occhi di leone;
il torace dell'uomo è un diluvio travolgente.
Alla sua fronte che divora il canneto, nessuno sfugge.
O mio lugal, naviga pure verso la montagna [kur],
     io navigherò verso la città.
A tua madre io racconterò che tu vivi, così essa gioirà.
Poi io le racconterò che tu sei morto,
     così ella piangerà [per te][amaramente].”

En-e kur lu tillaše [-]

I millenni non possono mutare i meccanismi dell'epica. Nonostante i pareri contrari, Gilgameš non si lascia distogliere dal progetto. Egli è deciso a compiere un'impresa tanto ardita che nessuna l'ha mai neppure concepita prima d'allora. Vuole lasciare il proprio nome alle generazioni future affinché sappiano chi erano Gilgameš ed Enkidu. Le parole del lugal riescono a vincere le resistenze dell'amico. L'umanità ha i giorni contati per volere degli dèi e tutto ciò che l'uomo compie nella vita è insignificante come una brezza: di fronte alla morte, dichiara a Enkidu, meglio una fama che duri in eterno (AB Šūtur eli šarrī [Y: -])

Nella tavola III della redazione ninivita, Gilgameš ottiene l'appoggio degli anziani e la benedizione del dio-sole Šamaš, quindi si congeda dalla madre Ninsun. Con i preparativi per la spedizione si chiudono sia la tavola III che la tavoletta di Yale. (Ša naqba īmuru [III] | AB Šūtur eli šarrī [Y: -]). L'intera tavola IV è occupata dal viaggio di Gilgameš e Enkidu verso il Qišti Erēn, la «foresta dei cedri», che la redazione ninivita colloca nel Labananu, il Libano [III: ]. I due eroi sono armati con scuri, asce bipenni e pesanti spade: ma compiono il percorso in tre giorni. Ciò nonostante, il viaggio è scandito da cinque soste, in ciascuna delle quali Gilgameš ed Enkidu, dopo essersi rifocillati, si coricano per dormire. Ogni volta Gilgameš viene destato di soprassalto da un sogno angoscioso che Enkidu interpreta però in maniera favorevole (Ša naqba īmuru [IV: -]). Il quinto sogno è perduto nell'epopea classica ma viene restituito nella versione antico-babilonese tramandata dalla tavoletta di Šaduppûm/Ḥarmal (AB [Ḥ₁]). Il racconto dei sogni occupa quasi tutta la tavola IV. Quando i due eroi giungono in vista della «foresta dei cedri», Gilgameš ne è improvvisamente atterrito. La vista di quegli alberi altissimi, di quel groviglio buio e inestricabile, gli comunica un improvviso presagio di sconfitta e di morte. È il dio Šamaš, suo protettore, a rincuorarlo dal cielo: “Affrettati, prima che Ḫumbaba si rifugi nel bosco!”. I due scattano verso il limitare della foresta. Ma la loro corsa mette in allarme il guardiano: Ḫumbaba fugge a sua volta, emettendo un grido terrificante. È Enkidu a esserne atterrito. Gilgameš lo sferza con durezza: “Dimentica la morte, persegui la vita!” (Ša naqba īmuru [IV: -]). Con le parole di Gilgameš si conclude la quarta tavola.

L'avventura nel Qišti Erēn e la lotta contro Ḫumbaba è uno dei momenti clou dell'epopea. Occupa tutta la tavola V della redazione ninivita, ma è anche presente in diversi frammenti antico-babilonesi: il mito è trattato infatti nella tavoletta di Chicago (AB [Ch]), nella seconda tavoletta di Schøyen (AB [Sch₂]) e in quella di Nippur (AB [N]). Anche i testi sumerici ci forniscono preziose notizie sulla natura della «foresta dei cedri» e del suo guardiano, Ḫuwawa, ma non affrettiamoci a voler scoprire tutto subito, e procediamo con cautela, come Gilgameš ed Enkidu una volta entrati nel Qišti Erēn.

E mentre i cedri svettano tutto intorno, eccoci alla tavola V. Penetrati nella foresta, Gilgameš ed Enkidu vengono presi da un senso di inquietudine: dinanzi a loro si erge la montagna che è santuario degli dèi e trono delle dee (Ša naqba īmuru [V: -]). Tra lo smarrimento degli eroi, una lacuna interrompe di colpo la quinta tavola e, per poter conoscere il seguito, bisogna affidarci a una tavoletta tardo-babilonese da Uruk/Warkāʾ. Ḫumbaba rivolge furibonde invettive ai due eroi. Il suo tono è violento ma anche ironico: minaccia di spiccare la testa al lugal e lasciare il cadavere del suo amico ai serpenti e agli avvoltoi. Il terrore mozza il respiro a Gilgameš e tocca a Enkidu riscuoterlo ancora una volta. Gilgameš reagisce, si muove contro Ḫumbaba. La lotta tra i due avversari è apocalittica: le nuvole diventano nere, la morte cade come nebbia, la montagna si spacca in due, separando il Libano da Sirara. Ma quando la battaglia è al suo apice, il dio-sole Šamaš scaglia i suoi venti contro il terrificante guardiano. Ḫumbaba è accecato, abbattuto. Crolla al suolo e supplica di essere risparmiato. Enkidu mette in guardia Gilgameš dal muoversi a compassione. Presentendo la sua fine, Ḫumbaba maledice i due eroi: che essi non giungano a vedere la vecchiaia. Sono le sue ultime parole. Enkidu lo uccide. (Ša naqba īmuru [V (ms. dd): -] | AB [Ch]). Superata la lacuna, la tavola V si conclude con Gilgameš che torna ad Uruk portando i tronchi abbattuti nel Qišti Erēn e recando alta la testa mozzata di Ḫumbaba. (Ša naqba īmuru [V (ms. dd): -])

La tavola VI si è mantenuta quasi integralmente e le poche interruzioni della versione ninivita possono essere colmate da un ulteriore manoscritto proveniente da Aššur. Lavatosi dalla sporcizia del viaggio, indossati vesti e ornamenti regali, Gilgameš fa la sua apparizione in tutta la sua magnificenza. Ištâr, la dea poliade di Uruk, signora dell'amore e della guerra, che insieme al padre Anu abita nell'Eanna, il tempio al centro della città, volge lo sguardo sulla bellezza di Gilgameš (Ša naqba īmuru [VI: ]). Colta da improvvisa passione per il lugal, Ištâr fa la sua comparsa sulla cima della ziqqurat e, incapace di frenare i propri appetiti, si dichiara apertamente, proponendo a Gilgameš di diventare suo sposo, promettendogli in cambio gloria, magnificenza e ricchezza. Ma il lugal le risponde sferzante, ricordandole la triste sorte toccata a tutti i suoi amanti, sopraffatti dalla voluttà della dea e poi abbandonati al loro destino (Ša naqba īmuru [VI: -] | MB [Emar₂]).

Curiosamente i testi sumerici davano una versione assai diversa di questa vicenda. Qui è Bilgames a rivolgersi a Inanna, offrendole ricchi doni. Le lacunae del testo non permettono di capire esattamente quale fosse la richiesta del lugal. È possibile che Bilgames avesse preteso più poteri e competenze di quante gli spettassero? Sembra di sì, a giudicare dal secco rifiuto della dea:

am-u₁₀ lú-u₁₀ ME.EN.NE.EN šu nu-ri-bar-re
en gilgaméš am-u₁₀ lá-u₁₀ NE
       šu nu-ri-bar-re
é-an-na-ka di kud-dè šu nu-ri-bar-re
i₆-par₄ kug-á ka-aš bar-re šu nu-ri-bar-re
é-an-na an-né ki á di kud-dè šu nu-ri-bar-re
gilgaméš za-e ù-NE ḫé-me-en za-e gud ḫé-e

“Il mio bestiame, di qualunque specie esso sia, non ti concedo;
en Bilgames, il mio bestiame, di qualunque specie esso sia,
       non ti concedo;
di giudicare nell'Eanna non ti concedo;
di dare ordini nel mio santo ipar non ti concedo;
di giudicare nell'Eanna che An ama non ti concedo;
o Bilgames che tu sia... che tu sia...”

Šul meka šul meka [B, -]

Questo rifiuto pare abbia scatenato una reazione da parte di Bilgames/Gilgameš, la cui arroganza ci appare qui assai più coerente con l'hýbris del personaggio, sempre propenso a superare i limiti imposti dall'ordine delle cose, che non il suo sprezzante rifiuto alle profferte d'amore della dea.

Ma quali siano le ragioni dell'offesa mossa a Inanna/Ištâr, in entrambe le versione la reazione della dea è la medesima: si reca da An/Anu per chiedergli di liberare il Gudanna (sum. GUD.AN.NA o GU₄.AN.NA), il «toro del cielo», per distruggere i due eroi. An/Anu tentenna: scatenare il Gudanna vuole dire condannare la terra di Uruk a sette anni di siccità e carestia. Ma Inanna/Ištâr insiste: se non sarà accontentata, ella lancerà un grido tale da avviluppare il cielo e la terra (versione sumerica), oppure (versione neoassira) abbatterà le porte degli inferi e capovolgerà l'ordine naturale della vita e della morte. (Šul meka šul meka [B, -] | Ša naqba īmuru [VI: -])

[a-bi G]U₄.AN.NA bi-nam-ma
GIŠ-⌜gím-maš⌝ lu-nir-r[u i]na šub-ti-šú
šum-m[a] a-la-al[a t]a-da-n[a]
a-maḫ-[ḫaṣ da]n-ni-〈na〉 a-⌜di⌝
KI.TUŠ(=šubti)-šú
a-šak-[ka]n ⌜sa⌝-p[a-nam] ⌜a⌝-na šap-la-t[i]
ú-šel-lam-ma ÚŠ(=mītūti) ik-ka-lu ba[l-ṭ]u-ú-ti
UGU(=eli) bal-ṭu-ti ú-šam-[a-d]u ÚŠ(=mītūti)

“Padre mio, dammi per favore, il Gudanna ;
voglio uccidere Gilgameš nella sua casa.
Se tu non mi darai il Gudanna,
allora io abbatterò le porte degli inferi,
volgerò [...] dalle regioni inferiori al suolo,
farò resuscitare i morti in modo che divorino i vivi;
allora i morti saranno più numerosi dei vivi!”

Ša naqba īmuru [VI: -]

Il Gudanna, il toro del cielo, attraversa l'Eufrate e irrompe furibondo nella città di Uruk. Sotto i suoi zoccoli si squarcia la terra e centinaia di persone precipitano nelle crepe. Gilgameš ed Enkidu muovono contro il toro. Dopo uno strenuo combattimento, Enkidu afferra l'animale per le corna e la coda, e Gilgameš lo uccide conficcandogli la spada nella nuca. Il pericolo è scongiurato. Poi, mentre gli eroi festeggiano, Ištâr compare sulle mura di Uruk, piangendo l'uccisione del Gudanna. Ma il tracotante Enkidu le tira contro la coscia mozzata del toro. (Ša naqba īmuru [VI: -] | Šul meka šul meka [-]). Quella notte, dopo aver festeggiato, gli eroi dormono. Ma d'un tratto Enkidu si desta e, subito, si rivolge a Gilgameš: “Amico mio, perché i grandi dèi sono in assemblea?”. Con questa domanda, si conclude la tavola VI e inizia la VII. (Ša naqba īmuru [VI: ] = [VII: ])

Il sogno di Enkidu, conservato nella versione ḫittita dell'epopea, ci mostra gli dèi riuniti a consulto per decidere come punire i due sacrileghi eroi, colpevoli di aver ucciso Ḫumbaba e il Gudanna, oltre che di aver gravemente offeso la dea Ištâr (Ḫ [III: -]). La decisione è che Enkidu dovrà morire. L'eroe viene colpito da una malattia contro cui i più valenti medici ed esorcisti di Uruk sono impotenti. La settima tavola dell'epopea ninivita, la più drammatica di tutte, narra dei vaneggiamenti di Enkidu, della preoccupazione di Gilgameš, dell'acuirsi della malattia, e si sofferma con lucida pietà sul lento venir meno di Enkidu. Dopo dodici giorni di agonia, Enkidu muore, lasciando Gilgameš prostrato da un dolore incredulo e sgomento. (Ša naqba īmuru [VII: -] | MB [Ur | M | Böğ₁])

Pur arrivando a noi da un'epoca tanto remota, il grido di dolore di Gilgameš è straziante oggi come lo era al tempo degli assiri:

[ši-ma-in-n]i GURUŠ(=eṭlūtu) ši-ma-[in-ni ia-a-ši]
ši-ma-in-ni ši-bu-ut URU(=āli) rap-ši UNUG(=uruk)
    š[i-ma-i]n-⌜ni ia-a-ši⌝
a-na-ku a-na en-⌜ki⌝-d[ù ib-ri]-ia a-bak-ki
GIM(=kīma) lal-la-ri-ti [ú-n]am-ba ṣar-piš
ḫa-aṣ-ṣi-in a-ḫi-i[a tuk-l]a-tu i-di-ia
nam-ṣar šip-pi-ia [a-ri-t]u šá pa-ni-ia
lu-bar i-sin-na-ti-ia n[i-bi-iḫ] la-le-e-a
[š]á-a-ru lem-nu it-ba-am-ma i-[te-ek-ma]n-ni ia-a-ši
[ib-ri ku-d]a-ni ⌜ṭa-rid ak-kan-nu šá KURi(=šadî)⌝
    nim-ru šá EDIN
e[n-ki-dù i]b-ri ku-dan-ni [K]IMIN

šá nin-n[ém]-du-ma ni-lu-ú [KURi(=šadâ)]
ni-iṣ-b[a-t]u-ma a-la-a [ni-na-ru]
[nu-šal-pi-t]u ḫum-ba-ba šá ina TIR(=qišti) [EREN(=erēni) áš-bu]
e-nin-na mi-nu-ú šit-tu šá iṣ-ba-tu-[ka ka-a-ši]
ta-ʾ-ad-ram-ma ul ta-še[m-man-ni ia-a-ši]

“Ascoltatemi, o giovani, ascoltatemi!
Ascoltatemi, o anziani di Uruk,
     ascoltatemi!
Io piangerò per Enkidu, l'amico mio,
emetterò amari lamenti come una prefica.
L'ascia del mio fianco, in cui confidava il mio braccio,
la spada della mia cintura, lo scudo del mio petto,
i miei ornamenti festivi, la mia cintura regale,
un vento malvagio è venuto a me e li ha portati via.
Amico mio, mulo imbizzarrito, asino delle montagne,
     leopardo della steppa,
Enkidu, amico mio, mulo imbizzarrito, asino delle montagne,
     leopardo della steppa,
noi, dopo esserci incontrati, abbiamo scalato assieme il kur,
abbiamo catturato Gudanna e lo abbiamo ucciso,
abbiamo abbattuto Ḫumbaba, l'eroe del Qišti [Erēn],
e ora qual è il sonno che si è impadronito di te?
Sei diventato immoto, e non mi ascolti!”

Ša naqba īmuru [VIII: -]

La scena del compianto di Enkidu è talmente bella che meriterebbe di essere riportata integralmente. Essa occupa tutta l'ottava tavola. (Ša naqba īmuru [VII: -]). È solo quando sono ormai conclusi i funerali, all'inizio della tavola IX, che ci accorgiamo che nel cuore del re di Uruk è avvenuto il lampo del riconoscimento. La fine di Enkidu lo ha messo di fronte alla consapevolezza che la morte è il comune destino di tutti gli uomini. Gilgameš è ormai conscio della futilità della vita, sa che gli artigli della morte possono ghermirlo in qualsiasi istante e comprende d'un tratto i suoi limiti in quanto essere umano. Egli è dio per due terzi, ma non è sufficiente. Fissando il corpo dell'amico chiede a sé stesso: “Non sarò forse, quando io morirò, come Enkidu?” E la risposta a questa domanda non può che riempirlo di paura e di amarezza.

La gloria, il rango, il trono. Tutto passa in secondo piano di fronte alla brutale e sconvolgente certezza del destino che lo attende. Persino l'essersi conquistato una fama immortale, a cui tanto aveva ambito al tempo della spedizione nel Qišti Erēn, è ora diventata ben poca cosa. Gilgameš, il lugal, sa che non potrà più godere delle effimere gioie della vita se non troverà un rimedio alla profonda ingiustizia della morte.

“Io trascurerò il mio aspetto dopo la tua morte”, promette Gilgameš al corpo immoto e rigido di Enkidu, “e con indosso una pelle di leone vagherò nella steppa” (Ša naqba īmuru [VIII: -]). E, abbandonata la sua città, il dolce ovile di Uruk, s'incammina nel deserto. È un viaggio disperato, ma non disorganizzato. Gilgameš ha una meta precisa. Vuole trovare il solo uomo a cui gli dèi abbiano concesso la vita, il solo che possa rivelargli il modo per sconfiggere la morte. Il suo nome, nell'epopea ninivita, è Ūtnapištî: è l'uomo che, a bordo della sua arca, aveva affrontato le acque straripanti del diluvio, salvando il seme e la discendenza del genere umano. Noi lo abbiamo incontrato nell'epica sumerica, sotto il nome di Ziudsura; gli dèi lo avevano reso immortale e condotto «in una regione al di là del mare, a Dilmun, dove si leva Utu» [kur-bal kur dilmun-na ki utu éd-šè mu-un-tìl-eš] Poema di Ziudsura» [V: ]). Ed è appunto in questo paradiso d'immortalità che Gilgameš sta cercando di arrivare. Il poema rivela d'un tratto inaspettate stratificazioni meta-letterarie: Ūtnapištî è infatti, per lo stesso Gilgameš, un nome ai limiti della memoria umana, un vero e proprio mito nel mito, tanto da essere chiamato rēqu, il «remoto». E il luogo dove egli risiede, lontano nello spazio, è indicato dall'epopea ninivita con una formula assai suggestiva: ana pî-nārāti, «alla confluenza dei fiumi».

GIŠ-gím-maš a-na en-ki-dù ib-ri-šu
ṣar-piš i-bak-ki-ma i-rap-pu-ud EDIN(=ṣēra)
a-na-ku a-mat-ma ul ki-i en-ki-dù ma-a
ni-is-sa-a-tum i-te-ru-ub ina kar-ši-ia
mu-ta ap-làḫ-ma a-rap-pu-ud EDIN(=ṣēra)
a-na le-et UD-ZI(=napišti) DUMU(=mār) ubara-tu-tu
ur-ḫa ṣab-ta-ku-ma ḫa-an-ṭiš al-lak

Gilgameš per Enkidu, il suo amico,
piange amaramente, vagando per la steppa:
“Io morirò e non sarò allora come Enkidu?
Amarezza si impadronì del mio animo,
la paura della morte mi sopraffece e ora io vado per la steppa;
verso Ūtnapištî, il figlio di Ubāra-tutu,
sono sulla strada e viaggio rapidamente...”

Ša naqba īmuru [IX: -]

Il cammino di Gilgameš è affidato quasi unicamente all'epopea ninivita, a parte alcuni episodi attestati nel testo ḫittita. Mentre dorme, il lugal viene attaccato da un branco di leoni. Difficile dire se si tratta di un sogno: le lacunae del testo impediscono una piena comprensione dell'episodio. Gilgameš li affronta alla luce della luna e li disperde. È una scena onirica, suggestiva, che certo doveva avere in origine un'importanza molto maggiore nell'economia del mito originale, almeno a giudicare dalle molte immagini a noi pervenute che raffigurano l'eroe alle prese con le belve.

a-na né-re-bé-e-ti šá KURi(=šadî) ⌜ak⌝-ta-šad mu-ši-tam
UR.MAḪ(=nēšī) a-mur-ma ap-ta-làḫ a-na-ku
áš-ši re-ši-⌜ia⌝ a-na 30(=sîn) a-kar-rab
a-na ⌜⌝[× (×) na]-⌜mir⌝ -ti DIIR(=ilī) DUku(=illikū) su-pu-u-a
⌜⌝[30(=sîn) u ×]× šul-li-ma-in-ni ia-a-ti
[GIŠ-gím-maš i]t be-⌜ig⌝-gél-tu-ma šu-ut-tum
[× × × ×] ⌜mut⌝-[tíš] ⌜⌝30(=sîn) iḫ-te-du ba-la-ṭu
⌜iš-ši⌝ ḫa-a[ṣ-ṣi-in-na] a-na i-di-šu
iš-lu-up [nam-ṣar] šib-bi-šu
ki-ma šil-t[a-ḫi a-na b]i-ri-šú-nu im-qut
im-ḫa-aṣ la-[ab-biḫ i]-duk ú-par-ri-ir

“Di notte ho raggiunto passi montani:
ho visto leoni e ho avuto paura.
Ho alzato allora la testa, rivolgendo la mia preghiera a Sîn.
[...] Al più luminoso (?) degli dèi è rivolta la mia preghiera:
O [Sîn e...] fammi uscire sano e salvo!”
Di notte [Gilgameš] dormì (?) ma fu svegliato da un sogno.
[I leoni (?)] gioivano della vita alla luce della luna.
Allora egli prese l'asta nella sua mano,
estrasse [la spada] dalla guaina,
si buttò su di essi come una freccia,
li colpì, li uccise e li disperse.

Ša naqba īmuru [IX: -]

Dopo un lungo viaggio, Gilgameš giunge infine allo šadû Māšu, la grande montagna le cui basi poggiano sull'abisso e le cui cime si ergono verso il cielo. Ogni mattino la illumina nel suo sorgere il dio-sole Šamaš. Il monte è fornito di una porta [bābu], a cui stanno di guardia due aqrab-amēlû, o «uomini-scorpione». Conosciamo già questi sgradevoli esseri, chiamati in sumerico girtab-lullu (GIR-TAB-LÚ₁₈-U-LU): li abbiamo intravisti tra le schiere di Tiāmat nell'Enūma Elîš. Quando Gilgameš li incontra, essi irradiano un fulgore divino [melāmmu] e nel loro sguardo c'è la morte. Di guardia alle porte del Māšu essi contemplano il sole nel suo sorgere e nel suo tramontare. Ma non traspare malvagità da loro. I due aqrab-amēlû, un maschio e una femmina, scorgono Gilgameš giungere dal deserto, lacero e affamato, e constatano con stupore che il corpo dell'uomo è carne degli dèi, ma un terzo è umano. Non appena Gilgameš vede i due esseri, ne è terrificato. Si copre gli occhi e chiede loro di permettergli di proseguire alla ricerca di Ūtnapištî. (Ša naqba īmuru [IX: -])

La risposta dell'aqrab-amēlu è resa problematica dalle lacunae nella tavoletta:

ul ib-ši GIŠ-gím-maš G[IM(=kīma)...]
ša ša-di-i ma-am-ma du-×[...]
a-na 12 DANNA(=bēr) lib-ba-š[u...]
ša-pat ek-le-tùm-ma ul i[b-ba-áš-ši nu-ru]
a-na a-ṣe-e ⌜UTUši(=šamši) i⌝-[...]
a-na e-reb U[TUši(=šamši)...]

“O Gilgameš, non c'è stato [...] che [...].
nessuno della montagna [...]
per dodici bēru le sue viscere.
densa è l'oscurità, non vi è [luce]
verso il sorgere del sole [...]
rivolto al s[ole...]

Ša naqba īmuru [IX: -]

Una lunga lacuna ci impedisce di cogliere altri dettagli di questa straordinaria «uscita dal mondo» compiuta da Gilgameš attraverso la «porta» dello šadû Māšu. Il seguito della tavola narra il cammino dell'eroe lungo il ḫarran šamši, il «sentiero del sole». Nessuna luce trova il nostro eroe nelle «viscere» [libbû] del Māšu: il nostro eroe avanza in una tenebra assoluta, con incrollabile determinazione, per dodici bērû. Quest'unità di misura, come già abbiamo detto, corrispondeva più o meno a dieci chilometri; ma un bēru era anche una misura del tempo, per l'esattezza una delle dodici «ore» in cui i babilonesi dividevano la durata del giorno. Ma i dodici bērû che troviamo qui vanno intesi in senso spaziale o temporale? Gli studiosi li interpretano di solito in questa seconda accezione. Dodici bērû fanno quindi ventiquattro delle nostre ore. Un giorno intero avanzando a tentoni attraverso la totale oscurità. Gilgameš non vede nulla davanti a sé, nulla dietro di sé. Poi, al nono bēru egli avverte il primo refolo del vento del nord sul viso, e solo all'undicesimo bēru comincia a intravedere in lontananza il primo bagliore del giorno. (Ša naqba īmuru [IX: -])

Quando infine egli emerge dalle viscere della montagna, quale stupenda visione dinanzi ai suoi occhi!

×[... n]a-mir-tú šak-na-at
a-×[× ×]× ×-ḫi iṣ-ṣi ⌜šá DIIR(=ilī)⌝ ina a-ma-ri i-ši-ir
⁴GUG(=sāmtu) na-šá-at i-ni-ib-šá
is-ḫu-un-na-tum ul-lu-la-at a-na da-ga-la ḫi-pat
⁴ZA.GÌN(=uqnû) na-ši ḫa-as-ḫal-ta
in-ba na-ši-ma a-na a-ma-ri ṣa-a-a-aḫ
[...]
GIM(=kīma) DÌḪ(=balti) u K[IŠI(=ašāgi) ib-šu-ú ⁴]
    AN.ZA.GUL.ME

ḫa-ru-bu ⌜il⌝-p[u-ut ⁴A]D(=aba)-aš-⌜mu⌝
⁴ŠUBA(=šubû) ⁴K[A.GI.NA(=adānu) × (×)]×-an-⌜rat⌝

[Dopo il dodicesimo bēru, ecco] risplende la luce!
Sbalordito avanza nel vedere gli alberi degli dèi:
la corniola porta i suoi frutti,
la vite vi è appesa con i grappoli, bella da ammirare.
Il lapislazzuli porta foglie,
e anch'esso porta frutti piacevoli da guardare.
[...]
Come fosse arbusti e cespugli, fiorisce
    l'AN.ZA.GUL.ME.
Il carrubbo egli prende in mano, ed ecco è calcedonio,
grappoli di gemme, ematite...

Ša naqba īmuru [IX: - ... -]

La scena è sospesa in un'atmosfera incantata, fiabesca, e lo sbalordimento di Gilgameš è perfettamente percepibile. Persino la traduzione si fa incerta, quasi in punta di penna, perché gli studiosi non sono sicuri di aver identificato le varietà di gemme e pietre preziose di cui sono fatti i frutti che pendono dagli alberi. Siamo certi però di essere sulla pista giusta: un eco del giardino di ʿĒḏẹn si riverbera sicuramente in questo frutteto meraviglioso, posto all'uscita dello šadû Māšu, in cui crescono gli «alberi degli dèi» [iṣû ilī] [IX: ].

Nell'epopea classica, Gilgameš si limita a superare questo frutteto e e qui si conclude la nona tavola. Ma qualcosa di più sorprendente viene invece narrato nella cosiddetta tavoletta di Berlino/Londra. In questa versione antico-babilonese, il frutteto non compare; al suo posto, il dio Šamaš parla con il lugal di Uruk che, lacero e affaticato, avanza verso il mare. Vi sono delle lacunae, ma si capisce che Gilgameš sta raccontando a Šamaš la sua storia e le ragioni che l'hanno spinto nel suo viaggio ai confini del mondo, e la risposta di Šamaš è diretta e tagliente:

GIŠ e-eš ta-da al
ba-la-ṭám ša ta-sa-aḫ-ḫu-ru la tu-ut-ta

Gilgameš, dove stai andando?
la vita che cerchi, non la troverai.”

AB [B/L: i, '-']

All'inizio della tavola X, Gilgameš già udiva le onde battere la spiaggia. Poco dopo egli arriva a una locanda che si erge proprio sulla riva del mare. La taverniera, Šiduri, non appena vede arrivare quest'uomo emaciato, vestito di pelli, s'impaurisce e chiude la porta. Gilgameš la blocca col piede e le racconta la sua storia. Le narra della fine di Enkidu, del suo terrore di essere ghermito dalla morte e di come sia giunto in quel luogo remoto alla ricerca della vita (Ša naqba īmuru [X: -]). Nella versione classica, Šiduri non dà risposta ed è ancora una volta la versione antico-babilonese, attestata nella tavoletta di Berlino/Londra, a riportarci le parole toccanti della donna, qui chiamata semplicemente sābītu, la «taverniera»:

GIŠ e-eš ta-da al
ba-la-ṭám ša ta-sa-aḫ-ḫu-ru la tu-ut-ta
i-nu-ma DIIR(=ilū) ib-nu a-wi-lu-tam
mu-tam iš-ku-nu a-na a-wi-lu-tim
ba-la-ṭám in-a qá-ti-šu-nu iṣ-ṣa-ab-tu
at-ta GIŠ lu ma-li ka-ra-aš-ka
ur-ri ù mu-šī ḫi-ta-ad-dú at-ta
u₄-mi-ša-am šu-ku-un ḫi-du-tam
ur-ri ù mu-šī su-ur ù me-li-il
lu ub-bu-bu ṣú-KU(=ba)-tu-ka
qá-qá-ad-ka lu me-si me-e lu ra-am-ka-ta
ṣú-ub-bi ṣe-eḫ-ra-am ṣa-bi-tu qá-ti-ka
mar-ḫī-tum li-iḫ-ta-⌈⌜ad-da-am⌝⌉ in-a su-ni-⌈ka⌉
an-na-ma ši-i[m-ti a-wi-lu-tim]

Gilgameš, dove stai andando?
La vita che cerchi, non la troverai.
Quando gli dèi crearono l'umanità,
essi assegnarono la morte per l'umanità,
tennero la vita nelle loro mani.
Così, Gilgameš, riempi il tuo stomaco,
giorno e notte datti alla gioia,
fa' festa ogni giorno.
Giorno e notte canta e danza,
che i tuoi vestiti siano puliti,
che la tua testa sia lavata: làvati con acqua,
gioisci del bimbo che tiene la tua mano,
possa tua moglie godere al tuo petto.
Questo è des[tino di ogni uomo (?)].”

AB [B/L: iii, -]

Non è stata mai spiegata completamente, la splendida figura di Šiduri, l'ostessa che siede sulla riva del mare ai confini del mondo. Ma non dobbiamo prendere alla leggera le sue parole. L'immagine dell'enofora era ancora usata secoli dopo dai ṣūfī islāmici come metafora della rivelazione mistica. Il suo messaggio, nel quale udiamo riecheggiare Qōhẹlẹṯ [9: -], è un invito all'accettazione dell'umanità, nei suoi dolori come nelle sue gioie. Non si può fare a meno di pensare che nel fatalista mondo mesopotamico non esistesse alcun modo per superare lo iato tra l'umanità, creata per servire gli dèi, e gli dèi, gelosi della loro beatitudine e immortalità. Ma Gilgameš non è affatto persuaso dalle parole della sābītu. È abbattuto dal dolore della morte di Enkidu, terrorizzato all'idea che anch'egli è destinato a diventare argilla.

Nell'epopea ninivita non v'è traccia della morale esistenzialista di Šiduri. Il dialogo tra i due si incentra sugli aspetti narrativi della vicenda, sulle sovrumane difficoltà del viaggio che Gilgameš ha intrapreso. Egli domanda alla taverniera quale sia la via per arrivare a Ūtnapištî, e la risposta di Šiduri è:

ul ib-ši GIŠ-gím-maš né-bé-ru ma-ti-ma
u ma-am-ma šá ul-tu u₄-um ṣa-at {KUR} la ib-bi-ru tam-ta
e-bir tam-ti UTU(=šamaš) qu-ra-du-um-mu
ba-lu UTU(=šamaš) e-bir tam-tim man-⌜nu⌝⌉
pa-áš-qat né-ber-tum šup-šu-qat ú-ru-uḫ-šá
ù bi-ra-a A(=mê) mu-ti
      šá pa-na-as-sa par-ku
a-ḫum-ma GIŠ-gím-maš te-te-bir tam-ta
a-na A(=mê) mu-ú-ti ki-i tak-tal-du te-ep-pu-uš mi-na

“O Gilgameš, non c'è mai stato un traghetto
e nessuno dai tempi antichi ha mai attraversato il mare [tâmtu];
l'unico che attraversa il mare è l'eroe Šamaš:
al di fuori di Šamaš chi può mai attraversare il mare?
La traversata è difficile, la via piena di insidie;
e in mezzo vi sono le acque della morte [mê mūti]
      che impediscono il passaggio.
Come puoi tu, quindi, Gilgameš, attraversare il mare?
E una volta che hai raggiunto le acque della morte, cosa farai?”

Ša naqba īmuru [X: -]

Lo Ša naqba īmuru non fornisce spiegazioni su questo «mare» [tâmtu]. Si tratta probabilmente del Marratu, il fiume «amaro» che circonda il mondo, secondo il termine attestato nella Imago mundi Babylonica. Ma questo «mare», spiega Šiduri, nessuno può attraversarlo, perché in esso scorrono le mê mūti, le «acque della morte». Šiduri è chiara: solo il dio-sole Šamaš può navigare su di esso.

In realtà, aggiunge Šiduri, c'è anche un'altra persona che può attraversare le mê mūti. È Uršanabi, il nocchiero di Ūtnapištî. Solo lui potrà condurre il lugal di Uruk da Ūtnapištî. Gilgameš si mette dunque alla ricerca di Uršanabi (Sursunabu nella versione antico-babilonese). Ma a questo punto succede qualcosa di non molto chiaro, che le pessime condizioni delle tavolette non aiutano a stabilire. Non appena Gilgameš arriva al campo di Uršanabi, eccolo furibondo a distruggere delle enigmatiche «cose di pietra». Uršanabi arriva di corsa, attirato dal rumore, cerca di bloccare Gilgameš e i due si azzuffano. (Ša naqba īmuru [-] | AB [B/L: iv, -]). Uršanabi/Sursunabu blocca Gilgameš al suolo e gli chiede chi sia. Il lugal di Uruk narra ancora una volta tutta la sua vicenda e spiega le ragioni che lo spingono a voler arrivare da Ūtnapištî.

GIŠ šu-mi a-na-ku
ša al-li-kam iš-tu uruk⁽⁼!⁾ é-an-ni
ša ás ḫu-ra-am ša-di-i
ur-ḫa-am re-qé-e-tam wa-ṣa-ú UTUši(=šamši)
i-na-an-na su-ur-su-na-bu a-ta-mar pa-ni-ka
ku-ul-li-ma-an-ni ú-ta-na-iš-tim re-qá-am

Gilgameš è il mio nome,
sono colui che è venuto dall'Eanna di Uruk,
colui che ha vagato per le montagne
compiendo un lungo viaggio verso il sorgere del sole.
Ora che ho visto la tua faccia, Sursunabu,
mostrami Ūtanaʾištîm il distante [rēqu].”

AB [B/L: iv, -]

Risponde il battelliere:

šut-ut ab-nim-ma GIŠ mu-še-bi-ru-ú-ia
aš-šum la a-⌜la⌝-op-pa-tu me-e mu-tim
i-na uz-zi-ka tu-úḫ-te-ep-pí-šu-nu-ti.

“Le cose di pietra, o Gilgameš, erano le mie guide,
in modo che io non toccassi le acque della morte.
Tu, nella tua furia, le hai frantumate...”

AB [B/L: iv, -]

A questo punto il lettore non si stupisca se anche lo studioso tradisce la sua perplessità. Cosa sono esattamente queste «cose di pietra» [sût abnê]? Come possono proteggere il battello di Uršanabi attraverso le «acque della morte» [mê mūti]? E perché Gilgameš le ha distrutte? Gli specialisti sono sempre rimasti imbarazzati di fronte a questi problematici oggetti, di cui non è stata ancora proposta un'interpretazione convincente. Si dice che senza di essi non si può navigare sulle mê mūti, anche se poi il viaggio è fattibilissimo. Alcuni hanno parlato di ancore, altri di pietre di zavorra, altri ancora di immagini magiche. La versione ḫittita dell'epopea parla di «idoli di pietra», ma anche questo non ci aiuta molto. Non sappiamo e non sapremo mai, forse, cosa fossero le sût abnê.

Per attraversare le acque della morte, avendo distrutto le «cose di pietra», Gilgameš deve procurare trecento pali, lunghi cinque cubiti ciascuno. L'eroe si mette subito al lavoro. Taglia gli alberi, li scorteccia, leviga il legno, finché non ha procurato la quantità richiesta di pali (Ša naqba īmuru [-] | AB [B/L: iv, ]). Con questi preparativi s'interrompe la versione antico-babilonese. D'ora in poi il nostro unico testimone sarà l'epopea ninivita.

Uršanabi vara la sua barca e i due eroi iniziano la navigazione. Il percorso di un mese e mezzo viene compiuto in soli tre giorni: poi l'imbarcazione arriva alle mê mūti. Allora Uršanabi avverte Gilgameš:

um-MEŠ TE GIŠ-gím-maš [l]i-⌜qé⌝-[1-en pa-ri-su]
A(=mê) mu-ti qat-ka a-a il-ta-pit tu-⌜šam⌝-[× (×) ×]
2-a šal-šá u re-ba-a GIŠ-gím-maš li-qé pa-r[i-su]
¿a-an-šá 6-šá u 7-a GIŠ-gím-maš li-qé pa-ri-[su]
8-a 9-a u 10-a GIŠ-gím-maš li-qé pa-ri-s[u]
11-a 12-a GIŠ-gím-maš li-qé pa-ri-s[u]
ina 2.GÌ! GIŠ-gím-maš ug-dam-me-ra pa-r[i-si]
u šu-ú ip-ṭur MURUB₄(=qabal)-šú [× (×)]
GIŠ-gím-maš iḫ-ta-ma-aṣ TÚ[G(=ṣubāt)-su]
ina kap-pi-šú ka-ra-a ú-šaq-[qí]

“Sta' indietro Gilgameš! Prendi [un primo palo],
che le mê mūti non sfiorino la tua mano [...];
un secondo, un terzo e un quarto palo prendi o Gilgameš;
un quinto, un sesto e un settimo palo prendi o Gilgameš;
un ottavo, un nono e un decimo palo prendi o Gilgameš;
un undicesimo, un dodicesimo palo prendi o Gilgameš”.
Preso il centoventesimo, Gilgameš aveva esaurito tutti i pali.
Allora egli [Uršanabi] slacciò la cintura,
quindi Gilgameš si spogliò dei suoi vestiti,
e li stese come le braccia[come fosse] l'albero della nave.
Ša naqba īmuru [X: -]

Facendo egli stesso da albero e usando il suo vestito come vela, Gilgameš riesce a far arrivare la barca nel Pû-nārāti, alla «bocca dei fiumi», dove si trova la terra di Ūtnapištî, il «remoto» [rēqu]. Fino a ora, Ūtnapištî è stato presentato dallo Ša naqba īmuru come un personaggio arcaico, lontano, leggendario per lo stesso Gilgameš. Ma ora il mito viene sfatato. Ūtnapištî è un vecchio saggio che vive oziando nella sua isola ai confini del mondo. È sorpreso, e non troppo entusiasta, nel ricevere la visita inaspettata di Gilgameš. E quando il lugal di Uruk gli spiega di essere giunto fino a lui alla ricerca della vita, Ūtnapištî è costretto a dissuaderlo. La sua risposta è amara e terribile:

[× × t]a-ad-da-li-ip mi-na-a ta-⌜al-qu⌝
[ina d]a-la-pi tu-un-na-ḫ[a ra-man-ka]
⌜SA(=širʾānī)⌝-ka ni-is-sa-t[a] tu-mál-⌜la⌝
ru-qu-tu tu-qar-r[a-ab] U₄(=ūmī)-ka
a-me-lu-tum šá GIM(=kīma) GI(=qanê)
     a-pi ḫa-ṣi-pi {×} šùm-šú
eṭ-la dam-qa KI.SIKILta(=ardata) da-me-eq-tum :
ur-[ru-ḫiš...]-šú-nu-ma i-šal-lal mu-ti
⌜ul ma⌝-am-ma mu-ú-tu im-⌜mar⌝ :
ul ma-am-m[a ša mu-ti i]m-⌜mar⌝ pa-ni-šú
⌜ul ma-am-ma⌝ ša mu-ti rig-⌜ma-šú⌝ [i-šem-me]
ag-gu ⌜mu-tum⌝ ḫa-ṣi-pi LÚ(=amēlu)-ut-tim
⌜im-ma⌝-ti-ma ni-ip-pu-šá É(=bīta) :
im-ma-ti-ma ni-qan-⌜na-nu⌝ qin-nu
⌜im⌝-ma-ti-ma ŠEŠ(=aḫḫū) i-zu-uz-[zu]
⌜im⌝-ma-ti-ma ze-ru-tum i-ba-áš-ši ina [KUR(=māti)]
im-ma-ti-ma ÍD(=nāru) iš-šá-a ILLU(=mīla) ub-lu
ku-li-li 〈iq〉-qé-lep-pa-a ina ÍD(=nāri)
pa-nu-šá i-na-aṭ-ṭa-lu pa-an UTUši(=šamši)
ul-tu ul-la-nu-um-ma ul i-ba-áš-ši mim-ma
šal-lu ù mi-tum ki-i KA(=pî) a-ḫa-meš-ma
šá mu-ti ul iṣ-ṣi-ru ṣa-lam-šú
LÚ.U₁₈.LUú(=lullû) LÚ(=amēlu) e-dil : ul-tu ik-ru-bu-[××]
a-nun-na-ki DIIR(=ilū) GAL(=rabûtu) paḫ-ru
ma-am-me-tum ba-na-at šim-ti
     KI(=itti)-šú-nu ši-ma-tú i-ši[m-ma]
iš-tak-nu mu-ta u ba-la-ṭ[a]
šá mu-ti ul ud-du-ú U₄(=ūmī)-šú
     [šá-niš ul-te-du-ú]

“Perché ti agiti privandoti del sonno? Che cosa hai ottenuto?
Ti sei indebolito con tutti i tuoi affanni,
hai solo riempito il tuo cuore di angoscia,
avvicinando la fine della tua vita.
La progenie dell'uomo viene recisa
     come canne in un canneto.
Sia il giovane uomo che la graziosa giovane fanciulla,
tutti loro sono presto preda della morte.
Eppure nessuno vede la morte,
nessuno vede il volte della [morte],
nessuno [ode] la voce della morte:
la morte malefica è colei che recide l'umanità.
A volte possiamo costruire una casa,
a volte possiamo fondare una famiglia,
a volte i fratelli sono uno contro l'altro,
a volte vi sono scontri nel paese,
e i fiumi possono ingrossarsi e portare inondazioni.
Noi siamo come libellule che sorvolano il fiume:
il nostro sguardo si rivolge al sole
e un attimo non c'è più nulla!
Il dormiente e il morto come si somigliano!
Nessuno può disegnare la sagoma della morte.
Il morto non saluta più l'uomo sulla terra.
Gli anunnaki, i grandi dèi, sedettero a consiglio;
Mammitum, che forgia i destini,
     decretò con essi:
stabilirono la morte e la vita;
e non contarono i giorni della morte
     [a differenza di quelli della vita].”

Ša naqba īmuru [X: -]

Ūtnapištî racconta a Gilgameš la sua storia, ed è la storia del diluvio che aveva impressionato George Smith, mentre ordinava le migliaia di frammenti di tavolette accatastati nei magazzini del British Museum. Il racconto di Ūtnapištî occupa una buona metà dell'undicesima tavola (Ša naqba īmuru [XI: -]), ed è un racconto di cui ci siamo occupati in altra sede. Un tempo, gli dèi, guidati da Enlil, avevano deciso di mandare il diluvio e sterminare l'umanità. Il saggio Ea aveva però avvertito Ūtnapištî, lugal di Šuruppak, dell'incombente catastrofe. Ūtnapištî aveva costruito una grande imbarcazione, di forma cubica, su cui si era imbarcato con la sua famiglia e con tutti gli animali che aveva potuto caricare, ed era sfuggito alla furia del diluvio. Alla fine del cataclisma, la strana nave era approdata sul monte Nimuš. Subito Ūtnapištî aveva imbandito un sacrificio agli dèi, i quali erano accorsi sentendo il profumo delle offerte che saliva al cielo. Dapprima Enlil si era infuriato, accorgendosi che qualcuno era sopravvissuto alla catastrofe, ma Ea l'aveva rimproverato per l'eccessiva crudezza della punizione. Riportato a più miti consigli, Enlil si era rivolto ad Ūtnapištî con queste parole:

i-na pa-na UD-ZI(=napišti) a-me-lu-tùm-ma
e-nin-na-ma UD-ZI(=napišti) u MUNUS(=sinništa)-šú lu-u e-mu-ú
     ki-ma DIIR(=ilī) na-ši-ma
lu-ú a-šib-ma UD-ZI(=napišti) ina ru-ú-qí ina pi-i ÍD(nārāti)

“Prima, Ūtnapištî, era un uomo,
ora Ūtnapištî e sua moglie
     sono simili agli dèi.
Risieda lontano Ūtnapištî, nel Pû-nārāti.”

 Ša naqba īmuru [XI: -]

Dunque, la vita eterna che Ūtnapištî e sua moglie avevano ricevuto, era stata un dono degli dèi, un dono irripetibile. “E ora, chi potrà riunire per te l'assemblea divina?” [] è la domanda che Ūtnapištî rivolge a Gilgameš, una domanda a cui non c'è risposta. Inutili le insistenze di Gilgameš: vinto dalla stanchezza, l'eroe cade in un sonno profondo. Ūtnapištî fa disporre ogni giorno un pane appena sfornato vicino al corpo addormentato dell'eroe, e quando Gilgameš si sveglia, convinto di essersi appisolato solo per poche ore, Ūtnapištî può dimostrargli che ha dormito sette giorni di fila. E se il potente lugal di Uruk si lascia vincere così facilmente dal sonno, gli chiede, come potrà resistere alla morte? (Ša naqba īmuru [XI: -])

A Gilgameš non resta che tornare indietro. “Cosa dovrei fare, Ūtnapištî? Dove dovrei andare? La morte dimora nella mia camera da letto” [-]. Ma prima che l'eroe parta, dietro consiglio della moglie, Ūtnapištî lo convoca un'ultima volta e gli riferisce di un arbusto chiamato šammu nikitti, la «pianta dell'irrequietezza», che cresce sul fondo dell'Apsū. Ha radici simili a quelle di un rovo, ma le spine sono come quelle della rosa canina. La pianta ha la straordinaria virtù di far tornare giovani i vecchi e, se Gilgameš riuscirà a coglierla, potrà riottenere la perduta gioventù...

GIŠ-gím-maš an-ni-tú ina še-me-šú :
ip-ti r[a-a-ṭa...]
ú-rak-ki-is NA₄(=abnī) kab-tu-t[a a/ina šēpī-šú]
il-du-du-šu-⌜ma⌝ ana ABZ[U(=apsî) ...]
šu-ú il-⌜qé⌝ šam-ma-ma is-s[u-ḫa ...]
ú-bat-ti-iq NA₄(=abnī) kab-tu-t[a ina šēpī-šú]
⌜tam⌝-tum is-su-kaš-šú a-⌜na kib-ri⌝-šú
⌜⌝[GIŠ]-gí[m]-maš a-na šá-šu-ma
     MUra(=izakkara) a-na ur-šánabi ma!-la-ḫu
ur-šánabi šam-mu an-nu-ú šam-mu ni-kit-ti
šá LÚ(=amēlu) ina lìb-bi-šú i-kaš-šá-du nap-BI(=šat!)-su
⌜lu-bil-šu⌝ ana lìb-bi UNUG(=uruk) su-pu-ri
lu-šá-kil ši-ba-am-ma šam-ma lul-tuk
⌜šum-šu⌝ ši-i-bu iṣ-ṣa-ḫir LÚ(=amēlu)
a-na-ku lu-kul-ma lu-tur ana šá ṣu-uḫ-ri-ia-a-ma

Appena Gilgameš udì ciò,
egli aprì un [... foro canale passaggio],
pesanti pietre [si legò ai piedi],
e s'immerse nell'Apsū [...];
egli, egli prese la pianta e la strappò [via...],
slegò quindi le pesanti pietre [dai suoi piedi],
e così il mare lo fece risalire fino alla riva.
Gilgameš parlò a lui,
     a Uršanabi il battelliere:
Uršanabi, questa è la «pianta dell'irrequietezza» [šammu nikitti];
grazie ad essa l'uomo può riottenere la sua vitalità,
io la porterò a Uruk, l'ovile,
la darò da mangiare ai vecchi e così proverò la pianta.
Il suo nome sarà: vecchio-torna-giovane.
Anch'io mangerò la pianta e così ritornerò giovane”.

Ša naqba īmuru [XI: -]

Animato da questo proposito, Gilgameš riprende, insieme ad Uršanabi, la via del ritorno verso Uruk. Essi si fermano per la notte presso una sorgente dalle acque fresche. Gilgameš si tuffa e si lava in quelle acque. Nel frattempo, un serpente, strisciando, avverte la fragranza della pianta. Si avvicina e la divora. E subito l'animale perde la pelle e torna giovane. Quando Gilgameš si avvede di quel che è accaduto, si siede e piange amaramente. Le lacrime scorrono sulle sue guance. In tal modo egli dovrà rinunciare al suo sogno di immortalità. Tornato a Uruk, Gilgameš mostra ad Uršanabi l'altezza e la robustezza delle mura, che egli stesso aveva fatto innalzare. E così termina l'epopea classica.

A mo' di epilogo, o forse di morale, possiamo citare l'antico poema sumerico sulla morte dell'eroe, dove il dio Enlil compare in sonno a Gilgameš, sussurrandogli:

kur gal en-líl-le a-a diir-re-e-ne-ke₄
en gilgaméš ma-mú-da […] × DU bal-da-bi
[...]
ní-gig ak nam-lú-u₁₈-lu-ke₄ ne-en de6-a ma-ra-dug₄
ní gi-dur kud-da-zu ne-en de₆-a ma-ra-dug₄
ud ku₁₀-ku₁₀ nam-lú-u₁₈-lu-kam sá mi-ri-ib-dug₄
ki dili nam-lú-u₁₈-lu-kam sá mi-ri-ib-dug₄
a-i₆ gaba nu-ru-gú sá mi-ri-ib-dug₄
⌜mè⌝ ka-re nu-me-a sá mi-ri-ib-dug₄
šen-šen nu-sá-a sá mi-ri-ib-dug₄
iš-iš-lá šu kar-kar-re nu-me-a sá mi-ri-ib-dug₄
⌜iri₁₁⌝-gal šag₄ zú kešé-zu nam-ba-du-un

La grande montagna Enlil ti ha destinato alla regalità,
o Gilgameš, non alla vita eterna.
[...]
Dovresti sapere qual è il destino comune a ogni uomo.
Dovresti sapere cosa significa il taglio del tuo cordone ombelicale.
Il giorno più buio di ogni uomo ti attende.
Il luogo solitario di ogni uomo ti attende.
Le onde inarrestabili del diluvio ti attendono.
La battaglia che non si può vincere ti attende.
La lotta ineguale ti attende.
Lo scontro da cui non si fugge ti attende.
Ma tu non scendere negli inferi con il cuore serrato nell'angoscia...

Ursa [amgale] banu [E: - ... -]

Gilgameš fu un grande sovrano e regnò in tutto per centoventi anni. Poi morì, come doveva essere.

[× × (×)] ur-⌜sa⌝ [ba-nú ḫur nu-mu-e-da-an-zi-zi]
[…] × [… ba-nú ḫur nu-mu-e-da-an-zi-zi]
⌜á-úr⌝ sag₉-[sag₉ (…) ba-nú ḫur nu-mu-e-da-an-zi-zi]
× [… ba-nú ḫur nu-mu-e-da-an-zi-zi]
ní-érim [… ba-nú ḫur nu-mu-e-da-an-zi-zi]
nitaḫ […] ba-[nú ḫur nu-mu-e-da-an-zi-zi]
⌜éšpu⌝ lirum ⌜šu du₇⌝-a ba-⌜nú⌝ [ḫur nu-mu-e-da-an-zi-zi]
⌜lú⌝ UM × DA ⌜ál⌝-e ba-⌜nú⌝ [ḫur nu-mu-e-da-an-zi-zi]
en kul-aba₄ki-ke₄ ba-⌜nú⌝ [ḫur nu-mu-e-da-an-zi-zi]
igi kug-⌜zu dug₄⌝-dug₄-ga ba-nú ḫur [nu-mu-e-da-an-zi-zi]
lib₄-lib₄ ma-⌜da⌝-e ba-nú ḫur nu-[mu-e-da-an-zi-zi]
ḫur-sa èd-dè-dè ba-nú ḫur nu-⌜mu⌝-[e-da-an-zi-zi]
iš-nú nam-tar-ra-ka ba-nú ḫur nu-mu-[e]-da-an-zi-[zi]
ki-nú ù-⌜u₈⌝-a-⌜u₈⌝ ba-nú ḫur nu-mu-e-da-an-zi-zi

[...] L'eroe [...] giace, non si alza;
[...] giace, non si alza;
Colui che aveva un corpo perfetto [...] giace, non si alza;
[colui che ha distrutto] il male [giace, non si alza];
il giovane che [...], giace, non si alza;
[colui che era] perfetto [...] di forza, giace, non si alza;
colui che [...] di forza, giace, non si alza;
colui che [...], giace, non si alza;
il signore di Kulaba, giace, non si alza;
colui che parlava saggiamente, giace, non si alza;
colui che ha saccheggiato (?) molti paesi, giace, non si alza;
colui che ha scalato le montagne, giace, non si alza;
nel letto di morte egli giace, non si alza;
nel letto dei singhiozzi egli giace, non si alza...

Ursa [amgale] banu [A: -]

A EST DELL'ALBA, A OVEST DEL TRAMONTO

Se non avessimo posseduto la versione classica in dodici tavole del Ša naqba īmuru, trovata nella biblioteca di Aššur-bāni-apli a Ninive, sarebbe stato difficile dare un senso compiuto agli sparsi poemetti sumerici sull'eroe Bilgames. Da questo punto di vista gli orientalisti sono stati fortunati: non solo hanno a disposizione l'ultima e definitiva versione del poema mesopotamico, ma anche buona parte delle antiche fonti che sono venute a convergere nella narrazione ninivita. Possono dunque tentare di tracciare la storia del poema in fieri, durante i secoli della sua formazione. E questo è molto di più di quanto i classicisti non possano osare con i poemi omerici, di cui possiedono solo la versione finale.

Ci si può chiedere in quale modo gli scribi dell'epopea neo-assira, o più probabilmente i loro diretti antecessori, abbiano messo insieme le fonti che avevano sottomano. Basti pensare che la dodicesima e ultima tavola dell'epopea – che abbiamo saltato nel nostro resoconto – non è direttamente correlata al resto della narrazione. È una sorta di appendice dove si narra una versione alternativa della morte di Enkidu, tratta dal poema sumerico Ud rea ud sura rea, non coerente con la vicenda narrata nelle undici tavole precedenti. Invece, le tavolette antico- e medio-babilonesi contengono già quasi tutti gli elementi delle prime sette tavole dello Ša naqba īmuru. La parte relativa al viaggio di Gilgameš alla ricerca della vita è però molto rara nelle versioni pre-ninivite. È limitata ai pochi episodi attestati nella tavoletta di Berlino/Londra: il dialogo con Šamaš, l'incontro con Šiduri/sābītu, e quello con Uršanabi/Sursunabu, dove l'eroe afferma di voler incontrare Ūtnapištî (AB [B/L]). Possiamo avere una certa fiducia che la vicenda fosse già stata composta, in una forma assai simile a quella che conosciamo, nella prima metà del Secondo millennio avanti Cristo. Anche la versione ḫittita, che dipende da quella antico-babilonese, è una preziosa indicazione in tal senso.

Diverso il caso dei poemi sumerici, risalenti al Terzo millennio avanti Cristo, i quali sembrano presentarsi come episodi slegati tra loro. Sebbene alcuni di essi presentino un riscontro nel ciclo accadico, il mito del viaggio di Gilgameš alla ricerca della vita è assente nei testi sumerici a noi noti. Ciò potrebbe significare, semplicemente, che la versione sumerica del mito non è pervenuta fino a noi. Oppure, questa parte del ciclo potrebbe essere stata del tutto sconosciuta ai Sumeri per venire elaborata solo nelle versioni semitiche dell'epopea di Gilgameš. Questo secondo scenario apre delle interessanti prospettive, ma non sappiamo quanto sia realistico. Per analizzare efficacemente la cosmologia sottesa ai viaggi di Gilgameš è necessario partire dalla versione neo-assira del ciclo, la più tarda e meglio conservata: lo Ša naqba īmuru.


Primo mitotopo. Lo šadû Māšu

Ora, c'è parecchia di incertezza sull'itinerario percorso da Gilgameš. Si presume che il lugal di Uruk si sia diretto verso oriente, in direzione del sorgere del sole, ma anche questo dato non viene mai esplicitato in alcuna versione conosciuta del poema ninivita, bensì inferito dal fatto che il noè sumerico Ziudsura venne traslato «in una regione al di là del mare, a Dilmun, dove si leva Utu» [kur-bal kur dilmun-na ki utu éd-šè mu-un-tìl-eš] Poema di Ziudsura» [V: ]). Ma prima di trarre conclusioni dal confronto tra testi tanto differenti – procedimento legittimo ma da effettuare sempre con somma cautela – dobbiamo limitarci all'ermeneutica dello Ša naqba īmuru. Una prima difficoltà la incontriamo quando l'eroe si trova di fronte allo šadû Māšu. È un passo piuttosto importante per la nostra comprensione della cosmografia mesopotamica:

šá ša-di-i še-mu-šú ma-š[u-(um)-ma]
ana ša-ad ma-a-ši i-na ka-š[á-di-šu]
šá u₄-mi-šam-ma i-na-aṣ-ṣa-ru a-ṣ[e-e UTU(=šamši)
      u e-reb UTU(=šamši)]
e-lu-šu-nu šu-pu-uk AN(=šamê) i[n-du]
šap-liš a-ra-le-e i-rat-su-nu ⌜kaš-da-át⌝
gír-tab-lú-u₁₈-lu i-na-aṣ-ṣa-ru KÁ(=bāb)šu
ša ra-áš-bat pu-ul-ḫat-su-nu-ma im-rat-su-nu mu-tú
gal-tu mi-lam-mu-šu-nu sa-ḫi-ip ḫur-sa-a-ni
ana a-ṣe-〈e〉 UTU(=šamši) u e-reb UTU(=šamši)
      i-na-aṣ-ṣa-ru UTU(=šamši)-ma

Il nome della montagna è Māšu.
Appena giunse allo šadû Māšu
che giornalmente guarda il s[sorgere del sole
      e il tramontare del sole]
– sulle loro cime grava la volta celeste,
l'Arallû tocca il loro petto –
gli aqrab-amēlû stanno a guardia della sua porta,
grande terrore incutono, c'è la morte nel loro sguardo,
il loro melāmmu riempie le montagne,
essi stanno a guardia del sole, al tramonto del sole
      e al sorgere del sole.

Ša naqba īmuru [IX: -]

Il sostantivo māšu vuol dire «gemello». Ma come dobbiamo intendere l'oronimo? Lo šadû Māšu è caratterizzato da due picchi gemelli che si rizzano fino al cielo, oppure è un elemento di una coppia di montagne gemelle? Il problema non è di facile soluzione: bābšu, «la sua porta», al verso [IX: ], è caratterizzato dal pronome possessivo singolare -šu; mentre ēlūšunū e iratšunū, «le loro cime» e «il loro petto», ai versi [IX: -], portano il pronome possessivo plurale -šunū. L'assiriologo Andrew R. George, curatore di quella che al momento è l'edizione critica definitiva dello Ša naqba īmuru, suggerisce la possibilità che il singolare si riferisca al monte che Gilgameš ha davanti, che è quella posta dinanzi al sorgere del sole, e che il plurale comprenda idealmente anche la montagna gemella situata all'altra estremità della terra, dinanzi al tramonto (George 2003). Altri studiosi, tuttavia, ritenendo che la montagna sia solo una, sostengono che i versi [IX: -] si riferiscano agli aqrab-amēlû, gli «uomini-scorpione», per quanto sia curiosa l'immagine di questi terrificanti esseri con la testa che tocca il cielo (ēlū è «alto, superiore») e l'Arallû che arriva al loro petto (Pettinato 1992). Altri ancora ritengono che il plurale si riferisca invece al numero dei picchi dello šadû Māšu.

Il verso mutilo [IX: ] è di solito emendato in šá umišama inaṣaru a[ṣê šamši u ereb šamši], «che giornalmente guarda il sorgere del sole e il tramontare del sole», anche per analogia con il verso [IX: ], dov'è scritto che gli aqrab-amēlû «stanno a guardia del sole, al tramonto del sole e al sorgere del sole». Sembra però strano che il sole sorga e tramonti passando per la medesima porta. Il professor George, notando che sulla tavola, in corrispondenza del verso [IX: ], non sembra esserci abbastanza spazio per un verso tanto lungo, ma forse anche per scrupolo di realismo, propone una lectio brevis della frase incriminata: šá umišama inaṣaru a[ṣê šamši], «che giornalmente guarda il sorgere del sole». Questa lezione rispecchia l'ipotesi che il monte Māšu sia la montagna dell'alba e che la rispettiva montagna del tramonto si trovi all'opposta estremità della terra (George 2003). Il sole uscirebbe dunque al mattino dalla porta del massiccio orientale e, dopo aver attraversato il cielo, tramonterebbe attraverso un'analoga porta sul massiccio occidentale. Sembra una soluzione ragionevole. Però perdiamo l'analogia con il verso [IX: ] ed è permesso chiederci come possano gli aqrab-amēlû continuare stare a guardia del sole tanto nel suo sorgere e tanto nel suo tramontare.

Sebbene lo šadû Māšu sia attestato solo nello Ša naqba īmuru, altre fonti ci riferiscono i possibili nomi delle montagne dell'alba e del tramonto. Un prezioso glossario accadico ci presenta una lista di oronimi tra i quali sembra di riconoscere diversi rilievi mitici o cosmologici. Il sumerogramma KUR, che introduce ogni termine, viene appunto letto in accadico šadû, «montagna»:

SumerogrammiLettura foneticaSignificato Normalizzazione

KUR
[KUR s]a-a-bu
KUR ḪUR.SAG
KUR lil-mum
KUR bud-ug-ḫud-ug
KUR ḫa-ma-nu
KUR ḫa--bur
KUR ḫa--šur
KUR si-ra-ra
KUR la-ab-na-nu
KUR a-da-lú-ur

šá-du-ú
šá-ad en-líl
šu-bat be-let-DIIR(=ilī)
šá-ad IŠKUR(=adad)
né-reb UTU(=šamši) 〈ana〉 a-a
šá-ad e-re-ni
MIN MIN
MIN MIN
MIN MIN
MIN šur-i-ni
MIN MIN

montagna
montagna di Enlil
montagna di Bēlit-Ilī
montagna di Adad
ingresso di Šamaš ad Aya
montagna dei cedri
Idem idem
Idem idem [monte degli ḫašurru]
Idem idem
Idem [monte] dei cipressi
Idem idem
šadû
šad Enlil
šad Bēlit-Ilī
šad Adad
šadû Budugḫudug
šadû Erēn
šadû Habur
šadû Hašur
šadû Sirara
šadû Šurini
šadû Adalur
SB [Hh XXII]

Alla quinta riga troviamo citato un KUR bud-ug-ḫud-ug [šadû Budugḫudug], definito «l'ingresso di Šamaš ad Aya». Aya è il nome della sposa di Šamaš, tra le cui accoglienti braccia il dio-sole torna evidentemente a giacere ogni sera, una volta conclusa la lunga giornata di lavoro. All'ottava riga compare invece uno šadû Ḫašur, «il monte degli ḫašurrû» (una specie di cipresso o cedro), sul quale non vengono fornite ulteriori spiegazioni. Tuttavia, in un inno sumerico a Ninurta, il sole è detto sorgere appunto dallo šadû Ḫašur [utu ḫa.šu.úr.[t]a è.a] (TCL [XV: 7, ]), e in una preghiera bilingue a Šamaš si legge:

utu an.šá kú.ga.ta e.ti.a.zu.dè
kur ḫa.šur.ra.ta b[a]la.dè.zu.dè

O Šamaš, tu esci dalla pura sala del cielo
oltrepassando lo šadû Ḫašur...

UTU(=šamaš) ul-tu AN(=šamê) KÙ(=ellūti) ina a-ṣe-ka
šá-du-u ḫa-š[u]r ina na-bal-kut-ti-ka
O Šamaš, tu esci dai puri cieli
oltrepassando lo šadû Ḫašur...

BA X/1 [K 3052+5982: -]

Non è dunque così azzardato avanzare l'ipotesi di due montagne, situate ai due opposti limiti della terra, il monte dell'alba e quello del tramonto, rispettivamente lo šadû Ḫašur a oriente e lo šadû Budugḫudug a occidente. In tal caso, šadû māšu, «monte gemello», potrebbe essere un epiteto attribuibile tanto all'uno quanto all'altro rilievo. Ciò non ci dice ancora, tuttavia, quale delle due montagne sia quella a cui giunge Gilgameš nel poema.

Un secondo problema sorge allorché Gilgameš varca la «porta» [bābu] del Māšu e avanza nelle tenebre. Il testo definisce il percorso attraverso la montagna con il termine libbašū, «le sue viscere» [IX: ] (libbu può significare «cuore, ventre, viscere, animo, interno») e di solito lo si interpreta come un cunicolo, una caverna o una gola strettissima. Lo Ša naqba īmuru chiama questo passaggio con la formula KASKAL UTU, in accadico ḫarran šamši, il «sentiero del sole» [IX: ]. Si tratta dunque della strada che il sole percorre prima di sorgere al mattino?

Utu/Šamaš (  2300-2200 a.C.)
Impronta su argilla lasciata da sigillo cilindrico antico-babilonese.
British Museum [ME, 89110], Londra (Regno Unito).
 
Utu/Šamaš ed Enki/Ea ( 2300-2200 a.C.)
Impronta su argilla lasciata da sigillo cilindrico antico-babilonese.
British Museum [ME, 89115], Londra (Regno Unito).

Questa interpretazione sembra avvalorata da alcuni sigilli cilindrici di età antico-babilonese, custoditi al British Museum [ME: 89110, 89531, 89548], dove il sorgere del sole è rappresentato dalla figura antropomorfa di Utu/Šamaš, ben riconoscibile dai raggi irradiati dai suoi omeri, che emerge maestosamente dalla concavità tra due monti, una gamba protesa come a scalare una delle cime. Queste rappresentano forse i picchi gemelli dello šadû Māšu (qui raffigurati affiancati) e l'avvallamento la «porta» che si apre tra di essi. In uno di questi sigilli [ME: 89110], la «porta» è affiancata o rappresentata da due colonne, sulla cui cima stanno assisi due piccoli leoni, rivolti nella stessa direzione del dio-sole.

In un altro sigillo [ME: 89115], è Enki/Ea, il dio della sapienza, signore dell'Apsū, riconoscibile dai flutti che sgorgano dalle sue spalle, che sembra scalare una delle due montagne. Qui Utu/Šamaš sta evidentemente tramontando: lo vediamo infatti scomparire nell'avvallamento tra le due cime, come se stesse accedendo a un passaggio ipoctonio. Inanna/Ištâr è la figura alata in piedi su una delle due vette, forse a rappresentare il pianeta Venere che tramonta subito dopo il Sole. A sinistra, una figura maschile tiene un arco (il dio Nusku?); a destra Isimud/Usimu, il sukkal di Enki/Ea, è rappresentato con due volti. Nell'immagine compaiono anche diversi animali: un leone è dietro la figura armata d'arco, un maestoso uccello sta appollaiato sulla mano di Enki/Ea, e un piccolo toro è sotto i suoi piedi. L'iscrizione ci informa che che il sigillo venne fatto per un certo Adda.

ḏew ẚḫet
Rappresentazione dei geroglifici ḏw, «montagna», e зḫt, «orizzonte»

Le immagini su questi sigilli potrebbero avvalorare alcune delle diverse interpretazioni da noi avanzate. La «porta» da dove esce il sole all'alba (e/o da dove rientra al tramonto) sembra costituita da due monti «gemelli», oppure da un monte con due cime «gemelle». Ma più che un tema mitologico, la forma concava della montagna sembra un motivo iconografico, legato all'idea della «porta» del sole. Un analogo motivo è attestato in questo senso anche in ambiti lontani dalla Mesopotamia. Nella scrittura geroglifica egizia la parola ḏew (ḏw), «monte», è rappresentato da un rilievo concavo, il quale rappresenta forse un wādī, con la possibile idea di un rivolo d'acqua dolce che ne scaturisce; invece la parola ẚḫet (ꜣḫt), «orizzonte», è rappresentata dal sole che cala nella concavità del monte (Betrò 1995). Ma parleremo più tardi del modello egizio e del misterioso dio ker che presiede alle porte del sole.

Possiamo chiederci: quale porta ha attraversato Gilgameš? La porta del monte dell'alba, a oriente, o quella del monte del tramonto, a occidente? Nonostante i testi divulgativi sostengano di solito che lo šadû Māšu si trovi a est, la risposta non è affatto scontata. Alcuni studiosi hanno addirittura avanzato l'ipotesi che Gilgameš abbia varcato la porta del monte del tramonto, a occidente, e che quindi abbia percorso il cammino notturno e sotterraneo del sole, diretto a est. Il fatto che Gilgameš impieghi esattamente dodici bērû, cioè ventiquattro ore, a completare il suo tragitto lungo il ḫarran šamši, avvalora l'interpretazione di un viaggio «solare». Ma se egli percorre soltanto la metà notturna del corso giornaliero del sole, dovremmo aspettarci che il tragitto duri sei bērû, cioè dodici ore. Si può ribattere che Gilgameš non è Šamaš e che percorrere l'intero diametro della terra in ventiquattro ore è, in ogni caso, un'impresa di tutto rispetto.

Ma se il tragitto dura ventiquattro ore, perché Gilgameš non viene raggiunto dal sole che arriva alle sue spalle? Wayne Horowitz ha notato che nel testo ninivita viene ossessivamente ripetuto, allo scandire di ogni bēru, che a Gilgameš «non è concesso di vedere nulla dietro di sé» [ul i-nam-di-in-šú-ma a-na pa-la-sa EGIR(=arkat)-su] (Ša naqba īmuru [IX: , , , , , , , , ]), quasi tema che qualcosa o qualcuno possa coglierlo all'improvviso alle spalle, e si chiede se l'eroe non si aspetti di essere raggiunto da Šamaš (Horowitz 1998). Le lacunae e le difficoltà di interpretazione non permettono purtroppo di comprendere appieno il senso della vicenda.

Più economico intendere questa natural burella percorsa da Gilgameš come un passaggio attraverso le viscere non di tutta la terra, ma del solo šadû Māšu. Ma rimane insoluto un problema: perché Gilgameš non incontra Šamaš, al suo sorgere, o al suo tramontare, mentre gli viene incontro attraverso la montagna? Forse i dodici bērû non vanno intesi come misura temporale (ventiquattro ore), ma spaziale (circa centotrenta chilometri). In tal caso, perdiamo una parte del sottotesto «solare» del percorso di Gilgameš, ma si spiega perché l'eroe non incontri il sole sul suo cammino. Egli precede l'ingresso del sole dall'uno o dall'altro lato della montagna ed è possibile che il suo dialogo con Šamaš, presente nella tavoletta di Berlino/Londra (AB [B/L: i, '-']), avvenga dopo che il sole è tramontato o prima che esso sorga. Se confrontata con la sequenza dello Ša naqba īmuru, questa breve scena sembra suggerire che il dialogo tra Gilgameš e Šamaš si svolga proprio all'uscita della montagna. ①▼

Inoltre, se lo šadû Māšu si trova a est (o a ovest) perché, nel momento in cui Gilgameš è al nono bēru del suo percorso lungo il ḫarran šamši, sente soffiare sul viso il «vento del nord» (accadico iltānu, in sumerogrammi SI.SÁ) [IX: ]? Altro problema insoluto. Per ora non insistiamo oltre: queste note altro non esprimono che la nostra ignoranza sullo šadû Māšu in particolare e sulla cosmologia mesopotamica in generale. In seguito proporremo una nostra soluzione.


Secondo mitotopo. Il Qišti Erēn

Anche il Qišti Erēn, la «foresta dei cedri», dove Gilgameš ed Enkidu si recano per procurarsi il legname, sembra essere un ulteriore esito del medesimo mitema della montagna cosmica, un fossile proveniente da un passato ancora più antico. All'inizio della quarta tavola dell'epopea ninivita, nel loro viaggio verso il Qišti Erēn, Gilgameš ed Enkidu arrivano inizialmente in vista dello šadû Labnānu (mss. lab-na-nu o lib-na-nu) (Ša naqba īmuru [IV: ]). Questo oronimo è pure attestato nell'elenco delle montagne cosmologiche (SB [Hh XXII: ]) dov'è glossato come šadû Šurini, la «montagna dei cipressi». Che gli studiosi abbiano identificato šadû Labnānu con l'attuale ǧabal Lubnān (il monte Libano) non deve però indurci a considerare chiusa la questione, e neppure dobbiamo prestare troppa attenzione a quanti hanno tentato di localizzare la foresta dei cedri sulle montagne dell'Elam. Certo, è probabile che in epoca babilonese il senso del mito originale fosse andato perduto e che il viaggio dei due eroi nel Qišti Erēn si fosse fuso con il racconto di qualche antica spedizione verso i contrafforti del Libano o del Tauro per procurarsi del prezioso legname. Ma i mitologi, torniamo testardi a ribadirlo, dovrebbero riuscire a liberarsi dell'abitudine di cercare sulla cartina dei luoghi che appartengono alla geografia mitica, o del malvezzo di considerare l'interpretazione del mito esaurita una volta localizzata una vicenda su una carta topografica e avanzata una rassicurante spiegazione naturalistica. Si rischia di ignorare dei segnali inquietanti ②▼ e di non comprendere le chiavi di lettura più profonde.

Una volta entrati nella foresta, Gilgameš ed Enkidu ammirano, davanti a loro, un'imponente montagna ricoperta dai possenti cedri medio-orientali:

⌜e⌝-ma-ru KUR(=šadû) EREN(erēn)
     mu-šab DIIR(ilī) pa-rak ir-ni-ni
[ina p]a-an KUR(=šadû)-im-ma
     EREN(erēni) na-ši ḫi-ṣib-šú
[ṭ]a-a-bu ṣil-la-šú ma-li ri-šà-a-ti

Essi guardavano la montagna dei cedri [šadû Erēn],
     dimora degli dèi, santuario delle dee;
sul volto della montagna
     i cedri si levavano maestosi e lussureggianti
gradevole la loro ombra, deliziosa per chi entrava.

Ša naqba īmuru [V: -]

Al lettore non sarà sfuggito che lo šadû Erēn, la «montagna dei cedri», è uno dei rilievi citati nell'elenco dei rilievi cosmologici (SB [Hh XXII, ]), dove glossa il KUR ḫa-ma-nu, di solito identificato dagli studiosi con il monte Amanós in Anatolia (od. Nur Dağları). Ma lo šadû Erēn ammirato da Gilgameš ed Enkidu è una montagna affatto diversa. Lo Ša naqba īmuru lo definisce «dimora degli dèi, santuario delle dee» [mušab ilī parak irnini] [V: ] ③▼. La formula è molto antica. Nella tavoletta di Baġdād, ad esempio, leggiamo che Gilgameš...

⌜di-× (×) × ir-ta⌝-ḫi-iṣ qi-iš-tam 〈ša〉⌜EREN(erēnim)⌝
 mu-ša-bi-i-li e-nu-na-ki pu-zu-⌜ra⌝-mi-ip-te

...avanzò pesantemente nel Qišti Erēn,
scoprì la dimora segreta degli Anunnakī.

AB [Baġ: -]

Che nei testi antico-babilonesi lo šadû Erēn sia definito mūšabī ilī Anunnakī (AB [Baġ: ]) o mūšab Anunnakī (AB [Ch: 38ʹ]), la «dimora segreta degli (dèi) Anunnakī», è un altro prezioso ammonimento. A dispetto di tutti gli atlanti aperti dagli studiosi sulle loro ingombre scrivanie, non siamo ancora usciti di un passo dal contesto mitico. L'effettiva presenza di una montagna su una carta geografica non ne nega i simultanei significati mitologici, e i monti Ḥẹrmôn e Ólympos ce lo ricordano con molta chiarezza. Nelle due versioni sumeriche dell'episodio, l'En-e kur lu tillaše e lo Ia lulu uluḫḫa sudsud, la destinazione di Bilgames ed Enkidu è definita semplicemente KUR, la «montagna», e si direbbe quasi sia la «montagna» per antonomasia.

KUR
Il sumerogramma per «montagna»

Il significato del sumerogramma KUR – spiega Kramer – si è poi esteso a indicare una «landa straniera», ovvero le regioni montuose confinanti con la Mesopotamia, le cui popolazioni erano una costante minaccia per il popolo di Sumer. In seguito, kur ha finito per indicare «regione» in generale, tanto che la stessa Sumer era a volte definita kur-gal, la «grande regione». Però kur rappresentava anche un sinonimo del sumerico ki-gal, la «grande terra», un termine per indicare l'Arali, l'oltretomba sumerico, e in questa accezione il termine compare tanto nell'Ud rea ud sura rea (il racconto sumerico che è argomento della tavola XII dello Ša naqba īmuru), tanto nell'An gal-ta ki gal-šè («Dal grande cielo alla grande terra», titolo informale La discesa di Inanna agli inferi). Avanzando lungo questa linea di interpretazione, Kramer definisce KUR un concetto cosmico: lo spazio tra la superficie della terra e le acque primordiali dell'AB.ZU (Kramer 1961).

L'ipotesi di Kramer, per quanto sia oggi in parte ridimensionata, ci mette comunque sulla strada giusta: il KUR, la «montagna» raggiunta da Bilgames ed Enkidu nel poema sumerico, ha un valore soprattutto mitico, se non addirittura cosmologico. Nell'incipit di uno dei testi sumerici, il toponimo è ampliato dall'espressione KUR LÚ TÌL.LA.ŠÈ (En-e kur lu tillaše []), in genere tradotto come «montagna del vivente» oppure «montagna dove l'uomo vive» (Pettinato 1992). Ed ecco che si delinea ancora una volta il motivo del giardino dove sorge l'albero della vita. Samuel N. Kramer ha affermato che la «montagna dove l'uomo vive» sia tutt'uno con la terra di Dilmun.

en-e kur lú tìl-la-šè eštúg-ga-ni na-an-gub
en bilgames-e kur lú tìl-la-šè eštúg-ga-ni na-an-gub
arad-da-ni en-ki-du₁₀-ra gù mu-un-na-dé-e
en-ki-du₁₀ murgu uruš-e tìl-la
      sa tìl-le-bi-šè la-ba-ra-an-è-a
kur-ra ga-an-kur₉ mu-u₁₀ ga-àm-ar
ki mu gub-bu-ba-àm mu-u₁₀ ga-bì-ib-gub
ki mu nu-gub-bu-ba-àm mu diir-re-e-ne ga-bì-ib-gub

Il signore rivolse la sua mente verso il kur dove l'uomo vive,
il signore Bilgames rivolse la mente verso il kur dove l'uomo vive.
Al suo servo Enkidu così parlò:
“O Enkidu, poiché nessun uomo finora l'ha avuta vinta
      sull'eccelso mattone della vita
io voglio andare verso il kur, voglio porre colà il mio nome;
nel luogo dove ci sono già stele, voglio porre il mio nome;
nel luogo dove non ci sono stele, voglio porre il nome degli dèi.”

En-e kur lu tillaše [-]

Che cos'è il «mattone della vita» sul quale nessun uomo l'avrebbe mai avuta vinta? Un ragionamento che tenga conto dell'ideologia sottesa nelle versioni accadiche del ciclo di Gilgameš porta a considerare questa frase nel contesto dell'idea dell'inevitabilità della morte. Giovanni Pettinato suggerisce un'analogia con il concetto delle ṭupšīmāti, le «tavolette del destino», su cui la volontà degli dèi, una volta incisa, diviene legge cosmica, compresa la sorte di ogni uomo: quindi, di nuovo, l'idea dell'impossibilità di contrastare l'inappellabile sentenza di morte a cui gli dèi hanno condannato il genere umano (Pettinato 1992). In questi testi, Bilgames intende beffare la morte eternando il proprio nome. Non è tanto l'immortalità che sta cercando, quanto una fama immortale. Lo stesso motivo è presente anche nella versione ninivita, dove possiamo leggerlo come una prima fase della sua ansia di perennità: sarà solo dopo la morte di Enkidu che egli passerà dalla ricerca della fama eterna a quella della vita eterna.


Terzo mitotopo. Il Pû-nārāti

Sembra fuor di dubbio che il Pû-nārāti, dove gli dèi hanno traslato l'immortale Ūtanapištî, sia una versione posteriore dell'antico Dilmun, a sua volta residenza del noè sumerico Ziudsura, di cui si narra un analogo destino di immortalità. Se gli studiosi tendono pacificamente a identificare Dilmun col Baḥrayn, ignorando gli inquietanti segnali dei poemi sumerici che insistono a porre questo paese là «dove sorge Utu»... con il Pû-nārāti non c'è proprio nulla da fare: è un luogo che appare subito proiettato oltre i confini del mondo.

Inutile dire che le attinenze tra il ciclo di Gilgameš e il mito biblico non sono passate inosservate. E non ci riferiamo all'ovvio mito del diluvio, che tanto aveva impressionato George Smith e i suoi contemporanei, ma anche e soprattutto alla relazione tra la pianta dell'immortalità e il serpente che priva l'uomo del dono della vita, legame che sussiste tanto nell'episodio del Bǝrēʾšîṯ quanto nel finale dello Ša naqba īmuru. Le analogie tra il mito ebraico e quello mesopotamico sono molto forti e si può senz'altro parlare di motivi letterari comuni a entrambe le narrazioni, sebbene interpretate in senso affatto diverso. Gli apologeti, sempre preoccupati di ristabilire – naturalmente con argomentazioni «scientifiche» – il primato letterario e morale della Bibbia rispetto ai racconti mesopotamici, non hanno mai cessato di puntualizzare le ovvie differenze tra i due miti.

Vero: nell'ermeneutica del Bǝrēʾšîṯ, Yǝhwāh aveva inizialmente destinato Āḏām e Ḥawwāh alla vita eterna, la caduta dell'uomo è il risultato della disobbedienza e del peccato, e il racconto della cacciata da ʿĒḏẹn spiega, teleologicamente, la natura caduca e mortale dell'uomo. Nel mito mesopotamico, invece, l'inevitabilità della morte è dovuta all'arbitrio degli dèi, che hanno tenuto per loro la vita condannando l'umanità al declino e alla morte. In questo contesto, la «disobbedienza» di Gilgameš consiste nella sua ribellione a questo comune destino e al desiderio di ottenere per sé la vita eterna.

Tale distinzione è importante dal punto di vista etico. I popoli della Mesopotamia avevano una visione piuttosto mesta e sconsolata del loro rapporto con gli dèi, diversamente dalla paternalistica teologia ebraica. Il Bǝrēʾšîṯ e lo Ša naqba īmuru si muovono in due contesti differenti. Il mito biblico è antropogonico: vuole dare una spiegazione eziologica dell'attuale condizione umana; il mito di Gilgameš è eroico: non è la storia di tutto il genere umano, ma la vicenda di un solo uomo che si ribella all'ingiusto decreto degli dèi.

Sebbene entrambi i racconti utilizzino una simbologia comune (la pianta, il serpente, l'immortalità...), i loro scopi e la loro ideologia sono profondamente diverse. Il sospetto è che lo Ša naqba īmuru implichi, quale necessaria premessa, proprio il Bǝrēʾšîṯ. La nostra può anche sembrare una provocazione, ma è nostro metodo cercare di illuminare i miti con il confronto tra le diverse tradizioni. Detto forse in maniera poco rigorosa ma indubbiamente efficace, Gilgameš sta tentando di ritornare nel giardino da cui Āḏām e Ḥawwāh erano stati cacciati.
 

Facciamo il punto

Riassumendo, troviamo, incastonati nelle varie versioni del ciclo di Gilgameš, ben tre mitotopi paralleli o, in un certo grado, sovrapponibili:

  1. Il  (la «montagna»), ovvero il   .. (la «montagna dove l'uomo vive»), che nella semantica dei due poemi sumerici sembra indicare un monte, un paese straniero, un bosco di immortalità; nelle versioni accadiche questo luogo è chiamato Qišti Erēn, la «foresta dei cedri», e vi sorge lo šadû Erēn, la «montagna dei cedri», residenza e santuario degli dèi. È possibile che il KUR, in qualche fase anteriore del mito, si confondesse con quello che in seguito è divenuto lo šadû Māšu.
  2. Il frutteto degli «alberi degli dèi» [iṣû ilī], posto all'estremità del «sentiero del sole», appena oltre lo šadû Māšu; per quanto i testi non lo definiscano come un giardino d'immortalità, è il mitema esteriormente più simile al ʿĒḏẹn biblico.
  3. Il Pû-nārāti, la «confluenza dei fiumi», dove gli dèi hanno traslato Ūtanapištî affinché vi goda dell'immortalità, e dunque un luogo omologo al Dilmun sumerico. I testi non ne danno alcuna descrizione, né mai lo rendono come un luogo paradisiaco (forse per interferenza con il precedente frutteto). È nei pressi del Pû-nārāti che Gilgameš si tuffa nel profondo dell'Apsū per cogliere la šammu nikitti, la «pianta dell'irrequietezza».

Ammettendo un certo grado di analogia tra questi mitotopi, possiamo chiederci: che rapporto hanno tra loro? in che modo si sono influenzati l'uno con l'altro nelle varie fasi di elaborazione dell'epopea unitaria? Queste domande sollevano interrogativi interessanti sulla coerenza dello Ša naqba īmuru. Con quale criterio furono collazionati i testi destinati a essere integrati nel poema neo-assiro? Quali libertà si presero Sîn-lēqi-unninni o i suoi antigrafi? Dobbiamo considerare significativo il fatto che i testi sumerici citino l'episodio della spedizione sulla «montagna dove l'uomo vive» ma non facciano alcun riferimento al viaggio di Bilgames/Gilgameš alla «confluenza dei fiumi»?

Ma prima di cercare altre omologie significative e strutturanti, dobbiamo eliminare i molti echi i cui rimbombi rischiano di distrarci lungo il nostro cammino. Un dromedario ci condurrà a sud, distraendoci temporaneamente dai nostri rovelli, in un viaggio forse non utilissimo ma certamente necessario, nelle sabbie roventi del Rubʿ al-Ḫālī.

②▲ Sarebbe interessante saperne di più su Ḫumbaba, il guardiano che Enlil aveva posto a sentinella del Qišti Erēn. Sappiamo che gli Ḫurriti conoscevano, accanto all'epopea di Gilgameš di presumibile provenienza mesopotamica, un'epopea incentrata su Ḫumbaba che costava di quattro o più tavole, segno che presso altri popoli il personaggio di Ḫumbaba era qualcosa più di un mostro da abbattere o uccidere. Che nei poemi mesopotamici il nome di Ḫumbaba sia generalmente indicato col determinativo «» che segnala i nomi di divinità, è confermato dal fatto che il suo nome compare nella forma Ḫumban nelle liste divine degli Elamiti. In epoca sumerica, gli Elamiti erano stanziati sulle montagne dell'Īrān, a oriente della Mesopotamia, e, come ritengono molti linguisti, facevano parte di una fascia di popoli di lingua elamo-dravidica, insieme con le popolazioni pre-vediche del Pakistān e dell'India, tra cui probabilmente le civiltà di Mohenjodaṛo e Haṛappā. I discendenti di questo gruppo linguistico sono gli attuali popoli di lingua dravidica che vivono nel sud dell'India e nella parte nord-orientale dello Śrī Lāṃka, molti dei quali vantano civiltà e letterature di invidiabile antichità. Sono stati fatti tentativi di associare Ḫumbaba/Ḫumban a divinità indiane (ad esempio Hanumat, il dio-scimmia compagno di Rāma nel Rāmayāṇa), ma senza significativi risultati.
 
①▲ Alcuni fantasiosi interpreti si sono proiettati un film dove il dio-sole, in quest'alba che precede l'alba, indugia a passeggiare nel suo bel frutteto, sembra, allo scopo di suggerire una correlazione con la scena biblica dove Āḏām e la donna odono la voce di «Yǝhwāh lōhîm che passeggiava nel giardino nella fresca brezza del mattino» (Bǝrēʾšîṯ [3: ]). Ma non vi è nulla, nella parte di testo antico-babilonese a noi pervenuta, che possa giustificare l'associazione con il passo della Bǝrēʾšîṯ: nella tavoletta di Berlino/Londra, Gilgameš ode solo la voce di Šamaš e non vi è alcun riferimento agli iṣû ilī.
 
③▲ La maggior parte dei traduttori rende questo verso «la dimora degli dèi, il santuario di Irnina», quest'ultimo un epiteto di Ištâr. Accettiamo qui l'osservazione di Andrew R. George, secondo il quale il termine irnini sia in realtà usato per indicare in generale tutte le dee. (George 2003)

 

DENTRO L'OCEANO DELLE STORIE: I VIAGGI DI BALŪQĪYA

Con il crollo del mondo antico, la sapienza della Mesopotamia andò perduta. Le gloriose città che sorgevano sul Tigri e sull'Eufrate caddero in rovina. Le antiche lingue smisero di essere parlate, la scrittura cuneiforme venne dimenticata, le biblioteche sepolte dalla sabbia. Di una civiltà che per più di due millenni era stata faro di civiltà in tutto l'Oriente, non rimase che una vaga leggenda di vizio e corruzione. E di Gilgameš, il re che aveva visto le profondità, fu perduto ogni ricordo. Tutto svanito.

Šāhrazād narra le sue storie a Šāhriyār ( 1957)
Gustav Tenggren, illustrazione (Soifer ~ Shapiro 1957)

Per qualche ragione, però, il mito dell'antichissimo sovrano che aveva viaggiato ai confini del mondo alla ricerca della vita, mutò veste e apparenza, e sopravvisse. Per secoli, quando il nome di Gilgameš era ormai dimenticato, frammenti della sua leggenda si tramandavano nella memoria tenace dei popoli del deserto. Quando Richard Francis Burton (1821-1890) intraprese la traduzione inglese delle Alf layla wa layla, le «Mille e una notte», non poteva sapere che una tra le tante fiabe che l'affascinante Šāhrazād incastonava notte dopo notte, barattandole con la sua stessa vita, risuonava un eco della storia ormai dimenticata dell'antico lugal di Uruk.

La professoressa Stephanie Dalley ha ravvisato in questa fiaba di Bulūqiyā molti temi ed elementi derivati dall'antica epopea di Gilgameš (Dalley 1991). È una storia che conosciamo da tre fonti. Il Kitāb Bulūqiyā wa Ǧahān Šāh wa Ǧāmāsp wa-malikat al-ḥayyāt Yamlīḫā («Libro di Bulūqiyā, Ǧahān Šāh, Ǧāmāsp e di Yamlīḫā, la regina dei serpenti») è contenuto nel ms. Selden superius 55, custodito nella Bodleian Library a Oxford. Vi è poi la versione tramandata dalle Alf layla wa layla, dove le fiabe di Bulūqiyā e Ǧahān Šāh sono incastonate nel racconto Ḥāsib Karīm ad-Dīn wa-malikat al-ḥayyāt, «Ḥāsib Karīm ad-Dīn e la regina dei serpenti» (Burton 1885). C'è infine la versione riportata nel ʿArāʾis al-maǧālis fī qiṣaṣ al-anbiyāʾ, «Le spose in assemblea: storie dei profeti» dell'esegeta Abū Isḥaq Aḥmad ibn Muḥammad ibn Ibrāhīm aṯ-Ṯaʿlabī († 1035). Costui, che frequentava i circoli ṣūfī di Baġdād, cita come fonte del suo racconto Abū Bakr Muḥammad ibn ʿAbdallāh al-Ǧawzaqī († 988), un sapiente di Nīšāpūr, probabile indicazione che nel X secolo la fiaba di Bulūqiyā fosse ben nota nei circoli ascetici dell'Īrān nord-orientale. (Dalley 1994)

La storia dei viaggi e delle avventure di Bulūqiyā, una fiaba incastonata in altre fiabe, more arabico, è narrata in prima persona da Yamlīḫā, la regina dei serpenti, ad Ḥāsib Karīm ad-Dīn...


La storia di Bulūqiyā

Bulūqiyā è il figlio del re di una tribù israelita insediata ad al-Qāhira, in Egitto. Allorché succede al padre, rinviene un documento, custodito in uno scrigno di ferro, dove si predice il futuro avvento del rasūl Muḥammad (pace e benedizioni su di lui). Ottenuto il permesso della madre di partire per la Siria al fine di scoprire altre notizie al riguardo, Bulūqiyā giunge in un luogo infestato da serpenti: la loro regina ha nome Yamlīḫā. I rettili sono concordi nel predire l'arrivo di Muḥammad e Yamlīḫā prega Bulūqiyā di salutare il Profeta per lei se mai fosse vissuto abbastanza per incontrarlo. Giunto a Ūršalīm (Gerusalemme), Bulūqiyā comincia a studiare le sacre scritture di ebrei e cristiani. Qui il sapiente ʿAffān, affascinato dal racconto dell'incontro di Bulūqiyā con Yamlīḫā, gli propone di raggiungere l'isola dove è sepolto malik Sulaymān. Se riusciranno a impadronirsi del suo prodigioso anello, su cui è inciso il centesimo nome di Allāh, potranno attraversare il mare delle tenebre per andare a bere la māʾ al-ḥayāt, l'«acqua della vita». Allora potranno vivere abbastanza a lungo per assistere all'arrivo di Muḥammad.

Per raggiungere l'isola è però necessario ungersi i piedi con il succo di una pianta speciale che li avrebbe resi in grado di camminare sulla superficie del mare. Ma per trovare la pianta bisogna prima catturare la malikat al-ḥayyāt, la «regina dei serpenti». Una volta giunti nel deserto, ʿAffān traccia allora un cerchio per terra e, dopo aver eseguito un certo rituale, i due penetrano nel regno sotterraneo di Yamlīḫā e qui prepararono una trappola con latte e vino drogati. Catturata la malikat al-ḥayyāt, la mettono in una gabbia e la trasportano verso una vicina montagna, sulle cui pendici, in una sorta di meraviglioso verziere, crescono molte rarissime specie botaniche. Alla presenza di Yamlīḫā, ogni pianta comincia a parlare, svelando le proprie virtù. Trovata l'erba che stanno cercando, Bulūqiyā e ʿAffān ne spremono le foglie riempiendo una fiala con il suo succo. Poi riportano indietro Yamlīḫā, senza nasconderle le loro intenzioni. “Se una volta sulla montagna aveste colto direttamente l'erba della vita vi sareste evitati tutta questa fatica” obietta Yamlīḫā, una volta liberata. “Ma non raggiungerete mai il vostro scopo. Allāh ha decretato che a nessuno sarà permesso avere poteri maggiori di Sulaymān fino al giorno del giudizio.” E detto questo, la malikat al-ḥayyāt torna nel suo regno sotterraneo.

Yamlīhā, la regina dei serpenti ( 1957)
Gustav Tenggren, illustrazione (Soifer ~ Shapiro 1957)

Nonostante gli auspici sfavorevoli, Bulūqiyā e ʿAffān si ungono le piante dei piedi con il succo della magica erba e si mettono in cammino sulle onde. Attraversati sette mari, scorgono da lontano una montagna di smeraldo. Qui, in una caverna coperta da una cupola scintillante, trovano, assiso su un trono, il cadavere di un uomo, abbigliato con abiti regali. Sono le spoglie mortali di re Sulaymān, e al dito brilla ancora il suo portentoso anello. Bulūqiyā, ben ricordando l'avviso di Yamlīḫā, invita l'amico alla prudenza. ʿAffān respinge sprezzante le sue obiezioni, ma quando si avvicina al corpo del malik per impadronirsi dell'anello, dalla terra scivola fuori un enorme serpente. Subito il rettile erutta una vampata di fuoco e lo incenerisce. Avvolto anch'egli dalle fiamme, Bulūqiyā pronuncia il nome di Allāh: subito compare il malʾak Ǧibrāʾīl e lo porta in salvo. Conosciute le intenzioni del giovane, l'angelo deve deluderlo: “Va' per la tua strada, Bulūqiyā. Il tempo di Muḥammad non è ancora venuto. E tu non avrai mai l'anello di Sulaymān né mai attingerai alla sorgente dell'acqua della vita”.

Rimasto ormai solo, Bulūqiyā si versa sui piedi altre gocce del magico succo e prosegue il suo cammino sulla superficie del mare, giungendo in luoghi lontanissimi dall'esperienza umana. Tocca isole paradisiache, gremite di animali parlanti, dove gli alberi ardono come fuoco, o sono carichi di frutti a forma di testa umana. Poi, per due mesi, Bulūqiyā avanza sulle onde del mare senza mai incontrare alcun lembo di terra; finché, affamato e stremato, avvista da lontano un'isola boscosa. Raggiuntala, il giovane si dirige verso un frutteto. Ma quando cerca di spiccare una mela da un albero, un gigante compare accanto a lui. “Questi frutti sono proibiti ai figli di Ādam. Lui ha tradito la fiducia di Allāh e ne ha mangiati.”

Il gigante afferma di chiamarsi Šarahya e gli rivela di essere al servizio di Saḫr, re dei ǧinn. Offre qualcosa da mangiare a Bulūqiyā, ascolta la sua storia e poi lo invia dal proprio signore. Dopo dieci giorni di cammino per deserti e montagne, davanti al giovane si profila lo spaventoso spettacolo di una battaglia tra due eserciti di ǧinn. Al suo arrivo, tuttavia, lo scontro si ferma: anche i ǧinn non hanno mai visto un essere umano. Bulūqiyā viene ben accolto da re Saḫr ed è stupito nell'apprendere che al signore dei ǧinn è ben noto il nome di Muḥammad. Egli è infatti un credente, devoto ad Allāh, e combatte i ǧinn infedeli. Il sovrano fornisce a Bulūqiyā molte informazioni sulla struttura dell'universo, sul monte al-Qāf e sul Baḥr al-muḥīṭ, l'oceano onniavvolgente. Gli narra come Allāh abbia creato il mondo e abbia preparato i sette livelli del Ǧahannam per gli infedeli. In quanto a lui: non invecchierà e non morirà mai, in quanto ha bevuto la māʾ al-ḥayāt, l'«acqua della vita», la cui sorgente è custodita dal sapiente al-Ḫiḍr. Quando Saḫr ha terminato le sue spiegazioni, Bulūqiyā non ha nemmeno il tempo di fare qualche domanda. Un battito di ciglia e, come se nulla fosse accaduto, si ritrova magicamente nella sua casa, ad al-Qāhira. Questa è la versione narrata da aṯ-Ṯaʿlabī nel ʿArāʾis al-maǧālis fī qiṣaṣ al-anbiyāʾ.

Invece, nella versione incastonata nelle Alf layla wa layla tradotte da Richard Burton (The Book of the Thousand Nights and a Night [V: nights 487-499 e 531-533]), Bulūqiyā non torna subito in Egitto, ma, lasciato Saḫr, prosegue il viaggio a cavallo per terre deserte e disabitate, diretto ai confini del mondo. Un galoppo di settanta mesi viene compiuto in due giorni. Poi, sulla cima di un monte, Bulūqiyā intravede la sagoma del malʾak Mīḫāʾīl, le cui ali coprono tutta la terra da oriente a occidente: egli ha il compito di alternare il giorno e la notte fino alla fine del mondo. Più tardi, ai piedi di un albero maestoso, Bulūqiyā vede inginocchiati quattro angeli: il primo ha forme umane, il secondo di leone, il terzo di uccello, il quarto di toro. Proseguendo il cammino, Bulūqiyā giunge infine in vista di una montagna gigantesca, sulla cui cima si trova un unico malʾak, un angelo che muove le mani come tirando e allentando le redini di invisibili destrieri. Interrogato dal giovane, l'angelo risponde che il monte su cui sta in piedi è il ǧabal al-Qāf e che da quel luogo remoto tiene saldamente le redini di tutti i paesi della terra. Ogni volta che Allāh desidera causare un terremoto o una siccità, ordina all'angelo di attuare il suo comando ed egli ubbidisce tirando le sue redini invisibili.

La lettera qāf

Nella cosmologia musulmana medievale, elaborata nei circoli teosofici arabo-persiani, al-Qāf è il nome dell'immensa montagna che circonda e racchiude tutto il mondo, sfiorando il cielo con la sua cima. Il suo nome si rifà alla lettera qāf dell'alfabeto arabo, che viene tracciata con un guizzo circolare. Sulla parete del ǧabal al-Qāf, Bulūqiyā vede un'immensa porta guardata da due esseri giganteschi, l'uno simile a un leone, l'altro a un toro. Il giovane si presenta loro dicendo: “Sono un figlio di Ādam. Ho lasciato il mio paese e ho viaggiato in lungo e in largo per amore del rasūl Muḥammad, ma ho smarrito la strada. Di grazia, ditemi chi siete e che cosa c'è oltre questa porta”.

Rispondono i due malāʾika: “Questa è la porta della confluenza dei due mari, e noi ne siamo i guardiani. Ma cosa ci sia al di là di essa non sappiamo”. Dopo una lunga contrattazione, Bulūqiyā ottiene il permesso di passare e, varcando l'immensa soglia aperta sui fianchi della montagna di smeraldo, giunge sulle rive di un mare sconfinato. Bulūqiyā comprende di essere giunto al Baḥr al-muḥīṭ, l'oceano onniavvolgente che si trova sotto il trono di Allāh e alimenta tutte le acque del mondo. Alcuni malāʾika ne dividono le acque e le mandano in ogni parte del mondo: quelle salate nei mari e quelle dolci nei laghi e nei fiumi.

Dopo essersi unto un'ultima volta i piedi con il succo miracoloso, Bulūqiyā si incammina sulle acque del Baḥr al-muḥīṭ. Giunge infine a un'isola paradisiaca, coperta da una ricca vegetazione, dove uccelli fatti di perle e smeraldi cantano le lodi di Allāh. Qui egli incontra al-Ḫiḍr, il guardiano della yanbūʿ al-ḥayāt, la «sorgente della vita». Dopo avergli reso omaggio, gli narra le sue avventure ed espone la ragione per cui si è spinto così lontano dalla sua casa e dal suo paese. Al-Ḫiḍr prende atto della richiesta del giovane, ma non può accontentarlo. L'acqua della vita non è destinata a lui. Lo invita a tornare indietro e Bulūqiyā, affranto, gli chiede quanto tempo avrebbe richiesto il suo viaggio di ritorno in Egitto. “Novantacinque anni” è la risposta di al-Ḫiḍr. “Prega Allāh, tuttavia, affinché mi permetta di riportarti a casa.” Bulūqiyā implora Allāh di esaudire il suo desiderio. Dopo un po' al-Ḫiḍr gli dice di chiudere gli occhi e di prenderlo per mano. E quando Bulūqiyā riapre gli occhi, si ritrova con sgomento e sorpresa proprio davanti alla sua casa, in Egitto. Si gira per ringraziare al-Ḫiḍr, ma il sapiente immortale è scomparso. (Burton 1885)

Così Bulūqiyā non ottenne l'immortalità, ma ebbe la pace dell'animo.

IN ARABIA: AL-ḪIḌR, LA GUIDA DEI PROFETI

Al-Ḫiḍr ( xviii sec.?)
Miniatura indiana d'epoca muġal
Il curioso mezzo di trasporto ittico di al-Ḫiḍr richiama la mitologia indiana, dove ogni divinità dispone di un particolare animale come vāhana («veicolo»). Il pesce di al-Ḫiḍr è stato messo in correlazione con il Makara – sorta di bizzarro mostro marino, ibrido tra un pesce e un elefante, a volte simile a un coccodrillo – che è il tradizionale vāhana di Varuṇa. La corrispondenza del Makara con il segno del Capricorno permette agevolmente di ricondurlo al Suḫurmaššu, il capro-pesce che, nella mitologia mesopotamica, era il «veicolo» di Enki/Ea.

Come le Alf layla wa layla sono storie che s'intrecciano le une alle altre, così dovremmo fare noi seguendo il filo che ci viene pórto dal giovane e audace Bulūqiyā e che, dal misterioso al-Ḫiḍr, ci conduce dentro l'oceano delle leggende. A dispetto dell'esiguità della tradizione canonica, l'enigmatica figura di al-Ḫiḍr è molto popolare in tutto il mondo islāmico e pare che ancora oggi i mistici abbiano con lui un rapporto assai speciale.

Immortale, si diceva che al-Ḫiḍr vivesse in un'isola lontana nel mare (aṭ-Ṭabarī: Taʾrīḫ ar-rusul wa al-mulūk [1: 442]) o sopra un tappeto verde nella terra marina (al-Buḫārī: Tafsīr [XVIII: 3]). Pare avesse il potere di rendersi invisibile. Secondo gli ḥadīṯ, fu visto al funerale di Muḥammad, dove fece le condoglianze agli affranti compagni del rasūl. Pare che alcune sette minori della Šīʿah duodecimana identifichino in al-Ḫiḍr l'imām occulto (Corbin 1979).

Personaggio affascinante come pochi altri, al-Ḫiḍr, il «verde», ha ispirato nel corso dei secoli una letteratura vastissima, che spesso attinge alle sottigliezze del misticismo islāmico, alle sue derive teosofiche ed esoteriche. Seguire i mille rivoli di questa tradizione è compito superiore alle nostre forze. Ci limiteremo a ripetere qui i fatti elementari, quelli utili al nostro scopo di mitografi.

Il mito di al-Ḫiḍr ha il suo baricentro in una storia allegorica del Qur˒ān che tratta della ricerca della verità da parte del rasūl Mūsá [il biblico Mōšẹh] e del suo incontro con un personaggio dalla soprannaturale veggenza, che il testo non chiama per nome. Allāh, la cui voce rimbomba in tutte le pagine del libro sacro dell'Islām, lo definisce semplicemente «uno dei nostri servi» [ʿabdā min ʿibādinā]. I commentatori ritengono tuttavia, in parte sulla base della tradizione degli ḥadīṯ, che il misterioso personaggio col quale Mūsá s'incontri non sia altri che l'eterno al-Ḫiḍr.

In questo brano, che la Sūra al-kahf (la «sūra della caverna») introduce quasi ex abrupto, Mūsá sembra ben deciso a raggiungere un luogo a lui remoto, ma ben noto al lettore dell'epopea di Gilgameš...

Wa iḏ qāla Mūsá lifatāhu lā abraḥu ḥattá abluġa maǧmaʿa al-baḥrayni aw amḍiya ḥuqubā.E quando Mūsá disse al suo garzone: “Non avrò pace finché non avrò raggiunto la confluenza dei due mari, dovessi anche camminare per anni!”.
Falammā balaġā maǧmaʿa baynihimā nasiyā ḥūtahumā fa āttaḫaḏa sabīlahu fī al-baḥri sarabā.Quando poi giunsero alla confluenza dimenticarono il pesce che avevano portato con sé, e questo prese la sua via, libero, nel mare.
Falammā ǧāwazā qāla lifatāhu ātinā ġadāʾanā laqad laqīnā min safarinā hāḏā naṣabā.Quando poi furono andati oltre, [Mūsá] disse al suo garzone: “Tira fuori il nostro cibo mattutino, ché ci siamo affaticati in questo nostro viaggio”.
Qāla araʾayta iḏ awaynā ilá aṣ-ṣaḫrati faʾinnī nasītu al-ḥūta wa mā ansānīhu illā aš-šayṭānu an aḏkurahu wa āttaḫaḏa sabīlahu fī al-baḥri ʿaǧabā.Rispose [il garzone]: “Vedi un po'! Quando ci siamo rifugiati vicino alla roccia, ho dimenticato il pesce (solo Šayṭān mi ha fatto scordare di dirtelo) e meravigliosamente il pesce ha ripreso la via del mare”.
Qāla ḏālika mā kunnā nabġi fārtaddā ʿalá āṯārihimā qaṣaṣā.Disse [Mūsá]: “Questo è quello che cercavamo”. Poi entrambi ritornarono sui loro passi.
Fawaǧadā ʿabdā min ʿibādinā ātaynāhu raḥmatan min ʿindinā wa ʿallamnāhu min ladunnā ʿilmā.Incontrarono uno dei nostri servi, al quale avevamo concesso misericordia da parte nostra e al quale avevamo insegnato la nostra segreta sapienza...
Al-Qur˒ān [XVIII: -]

Più che raccontare, al-Qur˒ān si limita a evocare una vicenda che doveva essere ben conosciuta ai suoi ascoltatori. Nella sua potenza e bellezza, il libro sacro dell'Islām accenna a un'infinità di antiche storie, ma senza entrare nei particolari. Al-Qur˒ān non ha intenti divulgativi: fa esempi morali. È un testo di allusioni lampeggianti, che se da un lato aumentano la suggestione, dall'altro annientano la chiarezza. Il testo qur˒ānico risulta frustrante per gli amanti del mito, i quali devono andare a cercare i dettagli delle vicende abbozzate nei testi degli esegeti e commentatori posteriori.

Il brano che abbiamo appena citato risulterebbe del tutto incomprensibile se non conoscessimo l'intera tradizione, riportata in questo caso nella compilazione degli ḥadīṯ di Abū ʿAbdallāh Muḥammad al-Buḫārī (810-870), il quale ci illustra i retroscena della vicenda:

 Mūsá stava tenendo un sermone alla sua gente quando uno degli astanti gli chiese chi fosse l'uomo più sapiente. Mūsá rispose che era lui. Allāh (gloria a lui l'altissimo) lo rimproverò per la sua presunzione e per non essersi ricordato che tutta la sapienza appartiene solo a lui, e gli disse: “Invero alla confluenza dei due mari c'è uno dei miei servi che è più sapiente di te”.
“Signore”, esclamò Mūsá, “come potrò incontrarlo?”
“Prendi un pesce e mettilo in un cesto” rispose Allāh. “Nel luogo in cui perderai il pesce troverai quell'uomo”.
Mūsá prese un pesce, lo mise in un cesto e partì con il suo giovane servo...
Abū ʿAbdallāh Muḥammad al-Buḫārī: Ṣaḥīḥ al-Buḫārī

Questa misteriosa maǧmaʿa al-baḥrayni, «confluenza dei due mari», che il rasūl Mūsá decide di raggiungere, insieme al suo garzone Yušāʾ ①▼, ha dato seri grattacapi agli esegeti qur˒ānici, i quali nel corso dei secoli hanno avanzato molte diverse interpretazioni, senza mai arrivare a un consenso sulla locazione della vicenda. In arabo, baḥr è una parola ambigua: significa sì, «mare», ma anche «fiume» (è il nome arabo del Nilo). Allegoricamente, si è voluta intendere l'espressione come l'incontro dei due «mari di saggezza», Mūsá e al-Ḫiḍr, o come il confronto tra la conoscenza relativa dell'uomo e quella assoluta che appartiene ad Allāh. Ma dando al testo una lettura prettamente geografica, tanto Abdallāh ibn ʿUmār al-Bayḍawī († 1286) che Abū Ǧaʿfar Muḥammad ibn Ǧarīr aṭ-Ṭabarī (838-923) hanno interpretato la «confluenza dei due mari» come il luogo in cui l'Oceano Persiano si unisce al Mar Romano, cioè l'istmo di as-Suways. Altri, inclusi Abū al-Qāsim Maḥmūd ibn ʿUmār az-Zamaḫšarī (1074/1075-1143/1144) e, con suggerimento alternativo, sempre aṭ-Ṭabarī, hanno indicato invece Ǧabal Ṭāriq, lo stretto di Gibilterra, luogo dove si incontrano il mar Mediterraneo e l'Atlantico. In quanto alla ṣaḫara Mūsá, «la roccia di Musá» presso la quale il rasūl e Yušāʾ sostano per desinare, viene da collocato dai geografi musulmani tra il Mediterraneo e il Caspio.

La topografia che gli esegeti islāmici stanno cercando di localizzare sulle mappe del mondo conosciuto non attiene alla geografia, ma al mito. Sebbene al-Qur˒ān non lo chiarisca e, anzi, accresca l'ambiguità, il maǧmaʿa al-baḥrayni è ancora una volta il Baḥr al-muḥīṭ, l'oceano onniavvolgente della cosmologia araba. Non rifiutiamo l'allegoria, perché la natura dei simboli è quella di suggerire infiniti significati, ma avendo seguito il viaggio di Gilgameš alla ricerca della vita, sappiamo benissimo che la «confluenza dei fiumi» (Pû-nārāti) era il luogo remoto dove risiedeva Ūtnapištî, unico mortale che avesse conquistato l'immortalità.

Di al-Ḫiḍr si diceva che avesse bevuto la māʾ al-ḥayāt, l'«acqua della vita». Era appunto alla medesima sorgente a cui intendeva attingere il giovane Bulūqiyā, dopo aver varcato terre e mari remotissimi. I simboli, che s'intrecciano e si confondono, continuano a condurci verso l'esterno. La maǧmaʿa al-baḥrayni, «confluenza dei due mari», oltre la quale Bulūqiyā incontra al-Ḫiḍr, si trovava al di fuori del cingulus mundi rappresentato dal ǧabal al-Qāf. Un analogo viaggio avevano evidentemente intrapreso Mūsá e Yušāʾ, i quali arrivano al maǧmaʿa al-baḥrayni per poi andare «oltre», come leggiamo in al-Qur˒ān [XVIII: ]. Ma «oltre» dove? Il pesce che fugge dal paniere è un simbolo ben noto nella tradizione levantina, ma anche classica. “Quando ci siamo rifugiati vicino alla roccia, ho dimenticato il pesce” spiega Yušāʾ. La roccia è la roccia donde sgorga l'acqua della vita. Immerso in quel liquido vivificante, il pesce resuscita e è torna a tuffarsi nel mare.

Ma avevamo appunto lasciato Mūsá e Yušāʾ senza pranzo sulla riva dell'oceano onniavvolgente. È qui che, come Allāh aveva loro annunciato, incontrano il nostro strano personaggio circonfuso della sapienza divina:

Fawaǧadā ʿabdā min ʿibādinā ātaynāhu raḥmatan min ʿindinā wa ʿallamnāhu min ladunnā ʿilmā.[Mūsá e Yušāʾ] incontrarono uno dei nostri servi, al quale avevamo concesso misericordia da parte nostra e al quale avevamo insegnato la nostra segreta sapienza...
Al-Qur˒ān [XVIII: ]

La sapienza di questo ʿabd («servo») di Allāh, di cui al-Qur˒ān non fa il nome, viene esplicitato dal seguito della vicenda, in cui egli chiede a Mūsá di portare pazienza qualunque cosa gli veda fare. E la pazienza di Mūsá è certamente messa a dura prova, ché la sua guida si comporta in maniera irrazionale, apparentemente folle. Dapprima fora la chiglia di una nave che aveva dato loro un passaggio; dopo ammazza un ragazzo senza motivo apparente; infine, giunti in una città i cui abitanti negano loro la più elementare ospitalità, raddrizza un muro che stava per crollare, senza domandare alcuna ricompensa. A questo punto Mūsá, disperato, chiede alla sua guida le ragioni di azioni tanto insensate. Il ʿabd Allāh, rimproverando Mūsá per la sua mancanza di fiducia, gli spiega che ha affondato la nave perché non se ne impadronisse un malvagio re corsaro, che ha ucciso il giovane perché non conducesse i suoi genitori sulla strada della miscredenza e dell'iniquità, e che ha riparato il muro affinché gli sgarbati abitanti della città non trovassero il tesoro che vi era sepolto sotto. ②▼ Era evidente che in tutte le sue azioni, apparentemente incomprensibili, la misteriosa guida aveva agito in base a una conoscenza superiore.

Questa strana guida del rasūl Mūsá, di solito identificata con al-Ḫiḍr, ha messo in difficoltà gli esegeti qur˒ānici, i quali si sono più volte domandati come vada interpretata la sua figura. Più che di un nabī («profeta») o rasūl («inviato»), sembra trattarsi di un semplice wali, di un «amico» di Allāh. Ma se al-Ḫiḍr non ha un ruolo profetico, c'è qualcosa che lo pone in una dimensione superiore: è infatti un iniziatore, una guida dei profeti. In tal senso non è distante dal biblico Malkîṣẹḏẹq, l'enigmatico «iniziatore» di Aḇrāhām in Bǝrēʾšîṯ [14]. Al-Ḫiḍr simboleggia una conoscenza inaccessibile agli uomini: la storia del suo incontro con Mūsá traccia il profilo di un personaggio dotato di una visione soprannaturale, ispirata evidentemente da Allāh, delle cose future e segrete. Tale vicenda ha un suo parallelo in una leggenda ebraica, riportata da Nîssîm bẹn Yaʿaqoḇ (990-1062) nel suo commentario talmûḏico, dove rabbî Yĕhôšuʿ bẹn Lēwî (III sec.) compie un viaggio analogo in compagnia del naḇîʾ liyyāhû, altro personaggio in fama di immortalità. Anche qui, le azioni apparentemente insensate compiute da liyyāhû sono dettate da ragioni segrete che sfuggono alla comprensione di rabbî Yĕhôšuʿ (Bêṯ ha-Midrāš [V: 133-135]).

Questa, l'immagine qur˒ānica di al-Ḫiḍr. Ma rimane ancora da indagare la parte della sua leggenda che ci porta diritti all'argomento del nostro lavoro: la ricerca della vita. Aṭ-Ṭabarī, nel suo Taʾrīḫ ar-rusul wa al-mulūk («Storia degli inviati e dei re»), ci rivela un altro addentellato di questa tradizione. Scopriamo così alla base della favola di Bulūqiyā, alla base della storia di Mūsá e di al-Ḫiḍr, un'ulteriore leggenda.

 Narrano che al-Ḫiḍr abbia partecipato alla spedizione del «bicorne», quando fece il giro della terra per restare vivo fino al giorno della resurrezione. Al-Ḫiḍr trovò l'acqua della vita, ma il «bicorne» non la trovò e morì.
Abū Ǧaʿfar Muḥammad aṭ-Ṭabarī : Taʾrīḫ ar-rusul wa al-mulūk

Non è certo un caso se, nel tessere i mille fili delle nostre storie, l'immortale al-Ḫiḍr ci abbia condotto, tutt'a un tratto, al cospetto di uno dei più suggestivi personaggi della tradizione islāmica, Ḏū ʾl-Qarnayn, il «bicorne». E sarà ora necessario fare un lungo respiro, prima di tuffarci in questa nuova corrente, e capire come l'epopea di Gilgameš si sia fusa con le leggende alessandrine per produrre uno dei più vasti, ricchi e universali cicli epici della tarda antichità e del Medioevo.

①▲ Il «garzone» di Mūsá è Yušāʾ ibn Nūn, cioè il biblico Yĕhôšuʿ bẹn Nûn, successore di Mōšẹh e conquistatore della Palestina. Il nome del padre di questo personaggio, ebraico Nûn, arabo Nūn, vuol dire «pesce» nelle lingue semitiche. Questo nome, nella cosmologia araba, è anche quello della balena che nuota nell'oceano cosmico e che sorregge la terra sul suo dorso; al riguardo si è parlato di una paraetimologia con il Nûn egizio, l'oceano increato che circonda l'universo.
 
②▲ Per qualche ragione, i geografi musulmani concordano nel collocare questi avvenimenti sul mar Caspio. Scrive il gerosolimitano Šams ad-Dīn Abū ʿAbdallāh Muḥammad al-Muqaddasī (945-?), «la gente dice che la ṣaḫara Mūsá [la roccia di Musá] sia in Širwān, che il mare sia il Caspio, il villaggio sia Baǧarwān e l'uccisione del giovane sia avvenuta presso il villaggio di Ḫazarān» (Aḥsan al-taqāsīm fī maʿrifat al-aqālīm [46]). Sia Abū al-Qāsim ʿUbaydallāh ibn Ḫurdāḏbih (820-912) che Ibn al-Faqīh al-Hamaḏānī (❀ X sec.) asseriscono che «la ṣaḫara è la roccia di Širwān, il mare è il mare di Ǧīlān, la città è Baġrawān» (Kitāb al Masālik w’al Mamālik [123] | Muḫtaṣar Kitāb al-Buldān [287]); l'enciclopedico Yāqūt ibn ʿAbdullah ar-Rūmī al-Hamawī (1179-1229) descrive Širwān come il luogo «in cui si trova la ṣaḫara Mūsá, che la pace sia su di lui, che è vicino alla yanbūʿ al-ḥayāt, la «sorgente della vita» (Kitāb muʿǧam al-buldān [I: 160]).
DA ORIENTE A OCCIDENTE: I VIAGGI DEL BICORNE

Sulaymān e Bilqīs, regina di Sabāʾ (✍ I-III sec.)
Miniatura persiana

Al-ǧāhiliyya, «la sregolatezza», è il termine con cui gli Arabi definiscono l'epoca che precedette l'avvento di Muḥammad e l'irresistibile ascesa dell'Islām. Posta tra l'impero bizantino e quello sāsānide, e difesa dai suoi sconfinati deserti, la penisola araba era stata, per secoli, luogo di transizione delle linee carovaniere. Molto tempo dopo la caduta di Tilmun/Dilmun, una nuova stagione di commerci aveva reso particolarmente fiorenti i regni collocati nell'odierno Yaman – Ḥaḍramawt, Sabāʾ, Qataban, Maʿīn, Awsān –, i cui corruschi splendori avevano creato il mito dell'Arabia felix. Ottimi navigatori, conoscitori dei cicli monsonici, i popoli sudarabici importavano dall'India legno di sandalo, ebano, spezie, seta, pietre semipreziose; dall'Africa avorio, schiavi, cinnamomo, essenze profumate; dal Vicino Oriente stoffe, armi, vino e frumento. Ma era la coltivazione dell'incenso, di cui mantenevano un geloso segreto, a costituire il fiore all'occhiello della loro economia. Grandi architetti, i Sabei innalzarono templi, palazzi a più piani e un complesso sistema di dighe. Quella di Maʾrib, costruita intorno all'875 a.C., e destinata a irrigare i campi e i giardini della capitale, fu amorevolmente mantenuta in efficienza da tutti i mukarrib che si succedettero sul trono di Sabāʾ per quasi quindici secoli. Il suo crollo, nel 575 d.C., segnò la fine dell'Arabia felix.

Se gli Arabi meridionali avevano potuto costruire fiorenti regni e città, gli Arabi del nord, eternamente alla ricerca di acqua e di pascoli, conducevano un'esistenza troppo stentata perché avessero potuto darsi degli ordinamenti sociali tanto sofisticati. Divisi in qabāʾil, in tribù in continua faida le une con le altre, non disdegnavano, a volte di assaltare le carovane dei mercanti. Alcune qabāʾil si erano stabilite nelle città carovaniere e nelle oasi, controllando i traffici che dai porti del Mar Rosso o del golfo Persico conducevano le merci in Siria o in Armenia. Tutti gli altri, gli orgogliosi nomadi del deserto, i beduini, continuavano a condurre la vita errabonda dei pastori. I loro riti e culti non erano molto diversi da quelli degli antichi regni vicini, quelli dei Moabiti, degli Edomiti, dei Nabatei. Nel gran numero di divinità, soprattutto astrali e femminili, gli studiosi scorgono similarità con gli dèi della Mesopotamia o di Kǝnaʿan. Difficile pensare che mitemi risalenti all'epoca Babilonesi e degli Assiri non continuassero ad aleggiare in ʿIrāq e in Siria, come pietre preziose in attesa di trovare nuovi castoni.

Hubal era il dio tribale della qabīla dei banū Qurayš, adorato nel santuario della Kaʿba, alla Makka, il quale ospitava trecentosessanta idoli di divinità tribali ed era, già nella ǧāhiliyya, meta di pellegrinaggi. Nel Ḥiǧāz erano popolari tre divinità femminili, al-Lāt, al-ʿUzzá e Manāt, ricordate in Qur˒ān [LIII: -], il cui culto era associato a quello di un dio privo di santuario e, forse, senza una rappresentazione visibile: Allāh. Così mentre la storia ci sospinge verso il VII secolo, sembrano prevalere forme di enoteismo: ogni singola qabīla aveva una sua divinità tribale, pur non negando l'esistenza di tutti gli altri dèi. Ma la tradizione parla anche degli ḥunafāʾ, coloro che, pur nella ǧāhiliyya, si mantenevano fedeli alla ḥanīfiyya: il culto dell'unico dio secondo la dottrina del comune progenitore Ibrāhīm.

In questa situazione, il monoteismo era una brace che covava sotto la cenere, pronta a divenire fuoco e a tramutarsi in incendio, pure rinfocolata dalle grandi religioni ufficiali degli imperi circostanti. Dall'Īrān filtravano lo zoroastrismo e il cristianesimo nestoriano, dall'Etiopia la dottrina monofisita, mentre nel nord Arabia e in Siria era diffuso il cristianesimo ebionita. Comunità ebraiche, sia ortodosse che eretiche, erano stanziate tanto alla Makka tanto alla Madīna.

Sospeso in questa confluenza di spazio e tempo, il popolo arabo avevano funto per secoli da collettore di un'infinità di tradizioni, finché, con l'avvento del Profeta e la turbinosa spinta verso un monoteismo assoluto e definitivo, molti di questi miti erano divenuti, d'un tratto, storia sacra. Nel suo stile rapido e frastornante, al-Qur˒ān accenna a tradizioni ereditate dai popoli medio-orientali e sudarabici, come il ciclo di Bilqīs, regina di Sabāʾ, o la leggenda della tribù perduta degli ʿĀd, del loro orgoglioso malik Šaddād e della sua città-giardino, Iram ḏāt al-ʿimād, su cui ritorneremo tra poco. Vi compare una gran quantità di tradizioni parallele a quelle bibliche, in varianti stranamente deformate, spesso tratte dalle tradizioni apocrife, lontane dalle versioni «canoniche» note a ebrei e cristiani. Anche alcuni tratti del folklore beduino – come la credenza nei ǧinn, negli ʿafārīt e negli spiriti del deserto –, troppo radicati per poter essere eliminati, finirono per diventare parte integrante del credo islāmico. Al-Qur˒ān è uno specchio fin troppo fedele della cultura eclettica, aperta, altamente suggestionabile, di un mercante qurayš del VII secolo. La fierezza e il rigore del popolo arabo, che alla fine ne accolse il messaggio, avrebbe trasformato questo coacervo di tradizioni eterogenee, intricate, spesso poco critiche, in un monumento teologico destinato ad avere un impatto decisivo sulla storia umana.

Queste note possono dare il barlume di un'idea di quali e quante tradizioni si siano inestricabilmente intrecciate tra i fasti di Bisanzio, la Siria, i contrafforti dell'Armenia e i roventi deserti dell'Arabia per portare alla formazione del ciclo del misterioso e affascinante «bicorne». Non stupisce sottolineare che il cuore della vicenda di Ḏū ʾl-Qarnayn sia ancora una volta un passo suggestivo quanto oscuro del Qur˒ān. La sua vicenda, sospinta anch'essa dagli āyāt della Sūra al-kahf, inizia proprio dove si era conclusa la storia di Mūsá e al-Ḫiḍr. È una leggenda importante e vale la pena riportarla per intero:

Innā makkannā lahu fī al-arḍi wa ātaynāhu min kulli šayʾin sababā.In verità demmo [a Ḏū ʾl-Qarnayn] ampi mezzi sulla terra e modo di riuscire in ogni impresa.
Faʾatbaʿa sababā. Ḥattá iḏā balaġa maġriba aš-šamsi waǧadahā taġrubu fī ʿaynin ḥamiʾatin wa waǧada ʿindahā qawmā qulnā yā Ḏā al-Qarnayni immā an tuʿaḏiba wa immā an tattaḫiḏa fīhim ḥusnā.Seguì una via. E quando giunse all'[estremo] occidente, vide il sole che tramontava in una sorgente ribollente, e nei pressi c'era un popolo. Dicemmo: “O Ḏū ʾl-Qarnayn, puoi punirli oppure esercitare benevolenza nei loro confronti”.
Qāla ammā man ẓalama fasawfa nuʿaḏibuhu ṯumma yuraddu ilá rabbihi fayuʿaḏibuhu ʿaḏābā nukrā.Disse: “Puniremo chi avrà agito ingiustamente e poi sarà ricondotto al suo Signore che gli infliggerà un terribile castigo.
Wa ammā man āmana wa ʿamila ṣāliḥā falahu ǧazāʾan al-ḥusná wa sanaqūlu lahu min amrinā yusrā.“E chi crede e compie il bene avrà la migliore delle ricompense e gli daremo ordini facili”.
Ṯumma atbaʿa sababā. Ḥattá iḏā balaġa maṭliʿa aš-šamsi waǧadahā taṭluʿu ʿalá qawmin lam naǧʿal lahum min dūnihā sitrā.Seguì poi una via. E quando giunse dove sorge il sole, trovò che sorgeva su di un popolo cui non avevamo fornito alcunché per ripararsene.
Kaḏālika wa qad aḥaṭnā bimā ladayhi ḫubrā.Così avvenne e Noi conoscevamo tutto quello che era presso di lui.
Ṯumma atbaʿa sababā. Ḥattá iḏā balaġa bayna as-saddayni waǧada min dūnihimā qawmā lā yakādūna yafqahūna qawlā.Seguì poi una via. E quando giunse alle due barriere, trovò tra di loro un popolo che quasi non comprendeva alcun linguaggio.
Qālū yā Ḏā al-Qarnayni inna Yaʾǧūǧa wa Maʾǧūǧa mufsidūna fī al-arḍi fahal naǧʿalu laka ḫarǧā ʿalá an taǧʿala baynanā wa baynahum saddāDissero: “O Ḏū ʾl-Qarnayn, invero Yaʾǧūǧ e Maʾǧūǧ portano grande disordine sulla terra! Ti pagheremo un tributo se erigerai una barriera tra noi e loro!”
Qāla mā makkananī fīhi rabbī ḫayrun faʾaʿīnūnī biqūwatin aǧʿal baynakum wa baynahum radmā.Disse: “Ciò che il mio signore mi ha concesso è assai migliore. Voi aiutatemi con energia e porrò una diga tra voi e loro.
Ātūnī zubara al-ḥadīdi ḥattá iḏā sāwá bayna aṣ-ṣadafayni qāla anfuḫū ḥattá iḏā ǧaʿalahu nārā qāla ātūnī ufriġ ʿalayhi qiṭrā.“Portatemi masse di ferro”. Quando poi ne ebbe colmato il valico disse: “Soffiate!” Quando fu incandescente disse: “Portatemi rame, affinché io lo versi sopra”.
Famā asṭāʿū an yaẓharūhu wa mā astaṭāʿū lahu naqbā.Così [Yaʾǧūǧ e Maʾǧūǧ] non poterono scalarlo e neppure aprirvi un varco.
Al-Qur˒ān [XVIII: -]

Annunciatore del monoteismo ibrāhīmico, Ḏū ʾl-Qarnayn viene presentato come uno dei tanti nabiyyūn, o «profeti» inviati da Allāh ai popoli del mondo. Ḏū ʾl-Qarnayn, in particolare, è presentato come un ammonitore che annuncia lo yawm ad-dīn, il «giorno della fede», cioè il giorno del giudizio. La sua missione ai confini della terra implica che nessun popolo – neppure prima di Muḥammad – era stato lasciato da Allāh privo di un messaggio di salvezza. I popoli di Yaʾǧūǧ wa Maʾǧūǧ sono considerati, nei tafāsīr (commentari qur˒ānici), un segno della fine dei tempi, allorché «sarà aperta via libera a Yaʾǧūǧ wa Maʾǧūǧ ed essi si precipiteranno giù da ogni altura» (al-Qur˒ān [XXI: ]).

Chi sono costoro? La Bibbia cita Māô nella «tavola delle nazioni»: è un nipote di Yāẹṯ (Bǝrēʾšîṯ [10: ]), antenato di una stirpe che la tarda antichità identificherà appunto con i popoli delle steppe (Sciti, Sarmati e Alani), come attesta già Isidorus Hispaliensis (Etymologiae [IX: ii, 26-31]). Sempre nella Bibbia, però, un passo escatologico accenna a un certo Gô, sovrano di una indeterminata terra settentrionale di Māô, di cui si profetizza il suo attacco contro Israele, alla fine dei tempi (Yǝḥẹzqêl [38-39]). A questa profezia corrisponde, nel Nuovo Testamento, il passo giovanneo dov'è lo stesso Śāṭān che, sciolto dai ceppi, uscirà per sedurre le nazioni e adunare a battaglia Gô e Māô: allora un fuoco scenderà dal cielo e li divorerà tutti (Apokálypsis [20: -]).

Nel suo affannoso tumulto di temi e vicende, il nostro passo qur˒ānico [XVIII: -] mostra due motivi apparentemente separati, a cui ne aggiungiamo un terzo:

  1. Ḏū ʾl-Qarnayn viaggia ai confini della terra, dal «corno» occidentale a quello orientale. Ammira il sole sprofondare nelle acque ribollenti dell'oceano o levarsi talmente caldo da bruciare i popoli sottostanti.
  2. Ḏū ʾl-Qarnayn costruisce una «barriera» [sadd] nel varco tra due montagne, di cui al-Qur˒ān non fornisce una localizzazione precisa, per tenere lontani Yaʾǧūǧ wa Maʾǧūǧ.
  3. Ḏū ʾl-Qarnayn compie i suoi viaggi per ottenere l'immortalità. Tuttavia non è lui, ma al-Ḫiḍr, a trovare la māʾ al-ḥayāt, l'«acqua della vita». Questo lo apprendiamo, tra gli altri, da aṭ-Ṭabarī:
Narrano che al-Ḫiḍr abbia partecipato alla spedizione del «bicorne», quando fece il giro della terra per restare vivo fino al giorno della resurrezione. Al-Ḫiḍr trovò l'acqua della vita, ma il «bicorne» non la trovò e morì.
Abū Ǧaʿfar aṭ-Ṭabarī: Taʾrīḫ ar-rusul wa al-mulūk
Ḏū ʾl-Qarnayn innalza la barriera (✍ XVI sec.)
Miniatura su pergamena.
Chester Beatty Library, Dublin (Irlanda)
I ǧinn costruiscono la barriera di ferro contro Yaǧūǧ wa Maǧūǧ, in questa pregevole miniatura proveniente da un manoscritto persiano del XVI sec.

Riconosciamo d'istinto alcuni elementi del mito di Gilgameš, sebbene ricomposti in maniera slegata. Al-Qur˒ān non collega esplicitamente il mito della spedizione di Ḏū ʾl-Qarnayn ai confini del mondo al tema della ricerca della vita, sebbene lo schema riposi su una vasta letteratura. Come la spedizione di Gilgameš, anche quella di Ḏū ʾl-Qarnayn non avrà successo, in quanto non sarà il «bicorne» a bere l'acqua della vita, ma al-Ḫiḍr. Anche il tema della barriera elevata contro Yaʾǧūǧ wa Maʾǧūǧ trova un'eco nell'epopea di Gilgameš, sebbene rielaborato in modo irriconoscibile: è il motivo della porta dello šadû Māšu, a cui stanno a guardia gli aqrab-amēlu. Questo tema, nel racconto di Ḏū ʾl-Qarnayn, è interpretato in maniera quasi opposta. L'eroe non deve più contrattare il passaggio attraverso la porta con i guardiani della montagna. Al contrario: l'eroe islāmico ha il compito di chiudere il passaggio tra i monti per impedire alla minaccia escatologica di irrompere sulla terra.

Cercare l'origine di questo inestricabile groviglio di leggende può essere un'avventura vertiginosa. Chi era Ḏū ʾl-Qarnayn? Un ḥanīf, un monoteista preislāmico, conferma lo storiografo e agiografo Muḥammad ibn Isḥāq ibn Yasār ibn Ḫiyār († 761/767), nella sua raccolta di sīrat («viaggi» o «vite» dei messaggeri e profeti). E riporta alcuni versi che lui stesso attribuisce a uno dei re di Ḥimyar, l'ultimo regno sudarabico: tubbaʿ Abū Kariba Asʿad (♔ 390-420), solitamente citato per essere stato il primo di una serie di re sudarabici convertiti al giudaismo. In questa lirica si afferma, tra l'altro, che Ḏū ʾl-Qarnayn sia stato istruito da un «saggio erudito», nel quale si può probabilmente intravedere lo stesso al-Ḫiḍr (Guillaume 1955):

 Che sia d'esempio a questi uomini affinché comprendano.
Ḏū ʾl-Qarnayn prima di me fu un muslim:
i re vassalli affollavano la sua corte,
governava l'oriente e l'occidente, eppure cercò
la vera conoscenza da un saggio erudito.
Vide dove il sole affonda sotto gli occhi
in una pozza di fango e di fetida melma.
Prima di lui li governava Bilqīs, sorella di mio padre,
fino al giorno in cui l'upupa arrivò a lei.

Abū Karib Asʿad apud Muḥammad ibn Isḥāq: Sīrat rasūl Allāh

Ma ecco che l'affascinante Bilqīs, regina di Sabāʾ, rischia di distrarci dal nostro proposito. Tratteniamo l'immaginazione, pur rimanendo con i piedi ben calcati nelle sabbie roventi dello Yaman. Troviamo infatti Ḏū ʾl-Qarnayn citato in una composizione del poeta Hassān ibn Ṯābit († 674), che fu amico dello stesso Muḥammad; ma ancor prima, è attestato da Maymūn ibn Qays al-Aʿšá (570-625), una delle principali voci poetiche della ǧāhiliyya.

Ḏū ʾl-Qarnayn sembra infatti trarre le sue origini da un ciclo regale sudarabico, conosciuto in Arabia soprattutto grazie agli scritti un antiquario yamanita, Wahb ibn Munabbih († 728-729 o 732-733). Sebbene l'opera di quest'ultimo sia andata perduta, viene spesso citato dagli autori successivi. Ci sono particolarmente utili, in questo caso, due testi arabi: il Kitāb at-tīǧān li-maʿrifa mulūk az-zamān fī aḫbār Qaḥṭān (il «Libro delle corone per la conoscenza dei re al tempo delle cronache sul Qaḥṭān») di Abū Muḥammad ʿAbd al Mālik ibn Hišām († 828 o 833), celebre biografo del Profeta, e lo Aḫbār al-Yaman wa-ašʿāruhā wa ansābuhā («Notizie dello Yaman, della sua poesia e delle sue genealogie») attribuito a un non meglio noto antiquario ʿAbīd ibn Šariya al-Ǧurhūmī (VII-VIII sec.). In questi testi si fa riferimento a un antico re di Ḥimyar, chiamato tubbaʿ al-Aqran ①▼, ma soprannominato Ḏū ʾl-Qarnayn, del quale si ricordano le imprese guerresche, i viaggi ai confini del mondo, la ricerca della māʾ al-ḥayāt, l'«acqua della vita», la costruzione del sadd contro Yaʾǧūǧ wa Maʾǧūǧ, e la sua morte a centocinquantatré anni, dopo un tempestoso regno di viaggi e di conquiste (Di Branco 2011 | Bohas ~ Saguer ~ Sinno 2012).


Storia di tubbaʿ Ṣaʿb ibn Ḏī Marāṯid

Il racconto di Wahb ibn Munabbih e Mālik ibn Hišām viene ripreso e ampliato in un testo posteriore, anonimo, tradito da un codice conservato nella British Library di Londra (ms.  ) e conosciuto con il titolo informale di Aṣ-Ṣaʿb Ḏu ʾl-Qarnayn. Ed eccone il riassunto. Tubbaʿ Ṣaʿb ibn Ḏī Marāṯid al Ḥimyarī, contemporaneo del nabī Ibrāhīm, è un tirannico oppressore dello Yaman atterrito da una serie di sogni inquietanti. In uno primo sogno, si trova sulla cima di un monte, dove vede i re della terra umiliarsi di fronte ad Allāh, mentre gli arroganti vengono scagliati nel fuoco del ǧahannam; in un secondo sogno, vola in cielo e conficca la spada nella costellazione delle Pleiadi, poi agguanta il sole con la mano destra e la luna con la sinistra, e scende di nuovo sulla terra trascinandosi dietro l'intero firmamento; in un terzo sogno, affamato, divora una dopo l'altra tutte le regioni e le montagne della terra, quindi prosciuga il mare a sorsi; in un quarto sogno, tutti gli uomini si uniscono ai ǧinn, agli animali e ai venti per soggiogarlo. Poiché nessuno dei suoi sapienti è in grado di spiegare tali visioni, tubbaʿ Ṣaʿb si reca ad al-Quds (Gerusalemme) per interrogare «Mūsá al-Ḫiḍr» (si noti la fusione dei due nomi). Costui lo chiama per la prima volta Ḏū ʾl-Qarnayn e gli rivela la sua missione profetica: dovrà soggiogare la terra e portare la parola di Allāh fino ai popoli più lontani.

Secondo Ibn Hišām, tutta la terra può essere percorsa in cinquecento anni: trecento sono necessari per attraversare i mari, cento per varcare i deserti, e cento per percorrere il mondo abitato. Di quest'ultimo quinto, l'ottanta per cento appartiene a Yaʾǧūǧ wa Maʾǧūǧ, il diciannove per cento ai negri del Sūdān e solo l'un per cento agli uomini civili. La missione profetica di aṣ-Ṣaʿb/Ḏū ʾl-Qarnayn inizia appunto con la conquista del Sūdān. Il re yamanita non va per il sottile: preferisce sterminare i non credenti piuttosto che soggiogarli e riscuotere il ḏimmī. La sua trionfale marcia di conquista gronda di sangue. E le nazioni che crollano dinanzi alla sua avanzata, una dopo l'altra, sono elencate secondo il loro posto nella discendenza di Ḥām, Šām e Yāfiṯ, figli di Nūḥ. È in pratica l'intera umanità a venire soggiogata da Ḏū ʾl-Qarnayn. A ovest, egli sottomette la terra di Mārīʿ ibn Kanʿān ibn Ḥām ibn Nūḥ, poi al-Andalus, popolata dalle genti di Yāfiṯ ibn Nūḥ; cadono sotto il suo dominio le nazioni di al-Baskunis, al-Qurt, al-Afranǧ, al-Ǧalāliq, al-Barbar, al-Zaǧd (una lista inarrestabile, in cui si riconoscono baschi, franchi, galiziani, berberi, etc.). La sua spedizione lo conduce in al-Armaniya, dove respinge le genti di ʿAlǧān ibn Yāfiṯ ibn Nūḥ. Dopo aver conquistato la Siria e gli altopiani di al-Hāmada, arriva in India, dove incontra il popolo dei Turǧamanīn, anch'essi discendenti di ʿAlǧān ibn Yāfiṯ ibn Nūḥ. Giunto a Samarqand, affronta al-Kurd (i curdi) e li massacra, lasciando in vita i pochi che si convertono al monoteismo. Arriva infine presso il popolo di aṣ-Ṣīn (i cinesi), detti discendenti della tribù di Ḥām ibn Nūḥ, e anche qui stermina tutti i miscredenti.

In questo fragoroso, cruento percorso, non manca il gusto dell'esplorazione, l'orgoglio di testare i limiti dello spazio, il confronto con il meraviglioso e il soprannaturale. Tubbaʿ aṣ-Ṣaʿb si spinge ai confini occidentali del mondo, oltre una regione di oscurità impenetrabile, detta semplicemente aẓ-Ẓulumat, le «tenebre», dove, su una montagna così bianca che solo a fissarla si rimane accecati, sta appollaiata un'aquila misteriosa e solitaria; non lontano il sole tramonta in un gorgo di fango. Ma si reca anche ai confini orientali della terra, i cui abitanti, con occhi stretti e facce scimmiesche, lasciano le loro caverne soltanto la notte e vi rientrano prima dell'alba per sfuggire all'ardore del sole. Sul ǧabal aṣ-Ṣaḫra, aṣ-Ṣaʿb giunge in un palazzo innalzato da ʿĀbar ibn Šālaǧ ibn Arfḥašid ibn Šām ibn Nūḥ al tempo della torre di Bābil e della confusione delle lingue: questo ʿĀbar aveva copiato il manoscritto di Nūḥ contenente l'alfabeto arabo e, di conseguenza, era stato il primo uomo a parlare in arabo; quale unico interlocutore, suo figlio, il nabī Hūd.

Poi aṣ-Ṣaʿb salpa sull'oceano meridionale e, dopo aver attraversato di nuovo aẓ-Ẓulumat, giunge a una terra coperta da un deserto di ghiaccio, il cui riverbero ha un'intensità sconosciuta al genere umano. Aṣ-Ṣaʿb si lascia indietro le truppe e cammina fino a quando non arriva a un palazzo candido, con due malāʾika sulla porta. Uno di loro tiene un corno in mano e guarda verso il cielo, come aspettando il momento di soffiarlo: ma lo suonerà solo nello yawm ad-dīn, il giorno del giudizio. Il malāk rimprovera aṣ-Ṣaʿb per la sua ambizione e lo invita a tornare indietro. Più tardi, guidato da al-Ḫiḍr, aṣ-Ṣaʿb nuovamente attraversa le tenebre fino a una roccia dalla quale sgorga la māʾ al-ḥayāt, l'«acqua della vita». A Ṣaʿb verrà proibito di bere: e inoltre una voce misteriosa gli predice la prossima morte in un luogo chiamato Ḥinū Qarāqar.

Dopo aver costruito la barriera contro Yaʾǧūǧ wa Maʾǧūǧ, tubbaʿ aṣ-Ṣaʿb intraprende la via del ritorno. Giunto in ʿIrāq, scopre che il luogo in cui si è accampato si chiama proprio Ḥinū Qarāqar. Comprende che la sua ora è arrivata e anche al-Ḫiḍr ne è consapevole: Ḏū ʾl-Qarnayn, la tua speranza per il futuro si è ormai esaurita: il tempo della morte è ormai giunto. Ora non rimane che quello che hai già fatto”. Riferisce ibn Hišām, sull'autorità di Wahb, che aṣ-Ṣaʿb si ammalò in Ḥinū Qarāqar e dopo otto giorni morì. Dopo la sua morte, al-Ḫiḍr – che aveva bevuto la māʾ al-ḥayāt – scomparve e nessuno lo vide più, tranne, come sappiamo, molti secoli dopo, Mūsá ibn ʿAmrān. (Saccone 1997 | Zuwiyya 2012).

Questa stranissima leggenda diventerà l'argomento dei prossimi capitoli. I suoi sviluppi nella letteratura islāmica sono altrettanto affascinanti, e li esploreremo con attenzione, anche perché ci riveleranno dei frammenti e degli sprazzi di una cosmologia antichissima. Tuttavia, prima di marciare nel mondo arabo e, soprattutto, persiano, dovremo immergerci in una nuova corrente dell'oceano delle leggende, le cui acque arrivano da molto lontano...

①▲ Tubbaʿ è un titolo usato dagli autori arabi (comparabile con il Caesar per gli imperatori romani, il prʿꜣ dei faraoni egizi e il Kisrā dei sovrani sāsānidi) con cui designare i re della dinastia ḥimyari, che fra il II sec. a.C. e il VI sec. d.C. giunse a controllare tutta l'area sud-occidentale della penisola araba.
ALÉXANDROS, MITO UNIVERSALE

Mégas Aléxandros ( 100 a.C.)
Mosaico romano (particolare), dalla Casa dei Fauni a Pompei.
Dimensioni originali: 272 cm × 513 cm.
Museo Archeologico Nazionale di Napoli (Italia).
Immagine [Mosaico completo]

Per quanto vi siano dei dissensi, buona parte dell'esegesi qur˒ānica identifica il misterioso Ḏū ʾl-Qarnayn con Mégas Aléxandros (356-323 a.C.), il conquistatore dell'Asia, innalzandolo alla statura di un profeta dell'unico dio. Il sogno del condottiero macedone di fare del mondo un unico impero, in cui l'ellenismo fungesse da traît-d'union tra la sapienza occidentale e quella orientale, viene a identificarsi con il tema utopico, caro al mondo musulmano, del dār al-Islām, di una terra unita nella fede in Allāh. Non è facile seguire tutti i rivoli delle leggende su Aléxandros, da cui il mondo arabo-persiano trasse la figura di questo «bicorne» islāmico, che viaggiò ai confini del mondo alla ricerca della sapienza e dell'immortalità.

La figura di Mégas Aléxandros ha, di per sé, un enorme fascino mitopoietico. Le vicende delle sue spedizioni e delle sue vittorie, della fondazione delle sue città e della sua prematura morte, anche senza abbellimenti fantastici, sembrano appartenere più alla leggenda che alla storia. Sorta di naturale attrattore di miti, il grande macedone ha raccolto su di sé, nel corso del tempo, una quantità di mitemi che da secoli andavano alla deriva nell'oceano delle storie. Tanto in Occidente quanto in Oriente, dalla tarda antichità alla fine del Medioevo, si aveva una concezione di Aléxandros che poco doveva alla realtà storiografica: il condottiero macedone veniva classificato nello stesso spazio epico di Héktōr, Arthur e Carolus Magnus, o nello stesso ciclo della rivelazione profetica di Ibrāhīm, Mūsá e Muḥammad.


La tradizione greca e occidentale

Alla base della leggenda alessandrina vi è il romanzo greco Bíos Alexándrou toû Makedónos dello pseudo Kallisthénēs, la cui recensio α fu redatta probabilmente ad Alexándreia alla fine del III secolo. Qui, Alexánder è figlio del faraone Nektanebṓ (Neḫetnebef II, ♔ 360-342 a.C.) e di Olympiás, moglie di Phílippos di Macedonia. Il faraone, presentandosi alla regina in aspetto di un profeta, le annuncia le sue nozze sacre con Ámmōn, il dio dalle corna d'ariete, il quale si sarebbe unito a lei anche sotto gli aspetti di Hērakls e Diónysos (le due divinità che preludono e incarnano la tensione alessandrina di arrivare ai confini del mondo). Ma naturalmente è Nektanebṓ, dopo aver fatto bere un filtro a Olympiás, a infilarsi nel letto della regina e a metterla incinta. (Bíos Alexándrou toû Makedónos α, β, γ [I: 1-8])

Il Bíos Alexándrou fu costantemente riscritto e ampliato, man mano che nuove tradizioni vi venivano incorporate, ed ebbe grande fortuna in epoca bizantina, allorché venne adattato in greco medievale e nel primo greco moderno, e messo sia in prosa che in versi (Stoneman 2007). Se nella recensio α l'episodio dell'acqua della vita non compare affatto, lo troviamo nelle recensiones più tarde, in forme via via più elaborate. Nella recensio β (IV-V sec.), Aléxandros vuole giungere dove la terra finisce: dopo una marcia attraverso la caligine giunge sulla riva del mare. Salpa allora al comando di una piccola flotta e arriva in isole sconosciute. Aléxandros ode delle voci chiamare in lingua greca, ma non vede nessuno. Fa scendere dei marinai, i quali vengono divorati da crostacei giganti. Rimessosi in mare, giunge a una «terra dei beati» [makáron khṓra]. Il luogo è avvolto dalle tenebre, ed Aléxandros vi si inoltra insieme ai suoi uomini... (Bíos Alexándrou toû Makedónos β [II: 38-39]). E qui segue, in forma breve, l'episodio che prelude al famoso racconto qur˒ānico di Mūsá e al-Ḫiḍr:

 E così percorremmo per quindici skhoînoi una via buia e vedemmo un luogo in cui c'era una sorgente limpidissima: in essa l'acqua brillava come il lampo. Mi venne fame e desiderai farmi dare del cibo: e, chiamato il cuoco, gli dissi: “Preparaci da mangiare”. Quello, preso del pesce sotto sale, andò all'acqua limpida della fonte per lavare la vivanda. Appena immersa nell'acqua, questa si animò e sfuggì dalle mani del cuoco. Tutti quei luoghi erano ricchi di acqua. Il cuoco non riferì a nessuno l'accaduto.

Pseudo Kallisthénēs: Bíos Alexándrou toû Makedónos β [II: 39, -]

Nelle recensiones γ e λ dello pseudo Kallisthénēs (non precedenti al VI secolo), la vicenda si amplifica. Il pesce sfugge ancora una volta dalla mano del cuoco, qui chiamato Andréas, il quale non riferisce nulla ad Aléxandros, «ma prese un po' di quell'acqua e la conservò in un vaso d'argento» (γ [II: 39, ]). Poi Aléxandros riprende il cammino e, come era accaduto nella recensio β, giunge in un luogo dove il cielo è privo di sole, luna e stelle; due uccelli dagli occhi umani si avvicinano al macedone e gli dicono, in greco: “Perché, Alessandro, calpesti una terra che è solo della divinità? Torna indietro, misero: non puoi calpestare le isole dei beati [makáron nḗsoi]. Torna indietro, uomo, calca la terra che a te è concessa, e non ti procurare pene” (β-γ [II: 40, ]). Aléxandros obbedisce e, quando lui e i suoi uomini tornano alla luce del sole, si accorgono che le pietre raccolte nella terra dell'oscurità sono in realtà pezzi d'oro e gemme. A questo punto Andréas riferisce ad Aléxandros la faccenda del pesce, tacendo però di aver bevuto egli stesso alla sorgente: il macedone comprende che, a causa del silenzio del cuoco, ha perduto la possibilità di divenire immortale e, infuriato, lo fa frustare. Qui si innesta il tema del racconto aṭ-ṭabariano su Ḏū ʾl-Qarnayn, ma lo fa in maniera ancora più romanzesca:

 Quel cuoco malvagio, accostatosi alla figlia che Aléxandros aveva avuto dalla concubina Oúnēs, e che si chiamava Kal, la sedusse promettendo di darle da bere l'acqua della fonte dell'immortalità: cosa che fece. Aléxandros, quando lo seppe, invidiò la loro immortalità, e, chiamata la figlia, le disse: “Prendi le tue vesti ed esci di qui: ricevuta l'immortalità, sei diventata un demone. Sarai chiamata Neraḯs, poiché dall'acqua hai avuto l'eternità, e abiterai qui”. Ella, piangendo e lamentandosi, si allontanò da lui e se ne andò in luoghi deserti con i demoni. Per ordine di Aléxandros, il cuoco fu gettato in mare con una pietra legata al collo. Dopo che vi fu gettato, divenne un demone e abitò lì, quel tratto di mare, che da lui fu detto Andreatikós. Questa è la storia del cuoco e della figlia di Aléxandros.

Pseudo Kallisthénēs: Bíos Alexándrou toû Makedónos γ [II: 41, -]

Riconosciamo in questa versione della vicenda un'interferenza con il mito classico del dio marino Glaûkos. Un giorno, dopo aver trascinato le sue reti su una spiaggia, il pescatore Glaûkos si accinge a contare i pesci che ha catturato e li dispone in fila su un prato poco lontano. Ma quelli d'un tratto riprendono vita e, avanzando sulla terra come fossero in acqua, tornano in mare l'uno dopo l'altro. Glaûkos si rende conto che causa di quel fenomeno è stata l'erba sulla quale ha posato i pesci. Ne mangia un ciuffo e, d'un tratto, avverte in petto una passione impetuosa per il mare: si tuffa in acqua e diviene un dio marino. (Ovidius: Metamorphoseon [XIII: -]). I motivi, però, si intrecciano e si combinano in maniera molto complessa: il destino di Andréas è certamente parallelo a quello di Glaûkos, ma spiega anche, alla lontana, alcuni dettagli dell'iconografia di al-Ḫiḍr, che attraversa il mare sul dorso di un pesce. Se il tema dei pesci che pigliano vita e ritornano in mare presentano un immediato confronto con il racconto del Bíos Alexándrou e del Qurʾān, è curioso notare che nel racconto di Ovidius il medium dell'immortalità non è l'acqua di una sorgente soprannaturale, ma un'erba dalle particolari proprietà, così come nel racconto di Gilgameš. (Szalc 2012)

Dalla recensio α deriva la Res gestae Alexandri Macedoni, traduzione latina di Iulius Valerius Alexander Polemius (IV sec.), che fu di capitale importanza per la diffusione della leggenda alessandrina in Europa. Da essa deriva anche la traduzione armena, la Patmowt‘iwn Ałek‘sandri Makedonac‘woy, eseguita forse nel V secolo e da alcuni attribuita a Movsēs Korenac‘i (Stoneman 2007 | Vacca 2013).

In Europa, a partire dal XII secolo, Aléxandros è il protagonista di un vero proprio ciclo di gesta. È forse da una perduta recensio , alcuni frammenti della quale sono conservati in un codice vaticano, che deriva una nuova riduzione latina, la Nativitas et victoria Alexandri Magni (o Historia de preliis Alexandri Magni), effettuata questa volta da un certo Leo, archipresbyter di Napoli, negli anni tra il 951 e il 969. È soprattutto a partire da questa versione, che avrà straordinaria diffusione, che fioriscono adattamenti, poemi e romanzi in tutte le principali lingue europee: in italiano, antico francese, medio inglese, scoto, medio alto tedesco, slavo, ungherese, irlandese e norreno (Stoneman 2007). È una letteratura vasta e complessa quanto la matière de bretagne ed è impresa superiore alle nostre forze – e ai nostri scopi – seguirne i rivoli. Analogamente a quanto era accaduto in Oriente, anche l'Europa vede in Aléxandros uno strumento divino, un re dotato di insaziabile curiositas, un perfetto e cortese cavaliere, ora esaltato per la sua magnanimità, ora condannato per la sua hýbris. Tra le opere più ampie del ciclo, il Roman d'Alexandre in medio francese (✍ 1180-1190) di Alexandre de Bernay (o de Paris), riporta i principali episodi legati ai viaggi oltremondani del macedone, tra cui appunto quello alla sorgente della vita. Ma il racconto è ormai solo un superficiale divertissment: tutti i vecchi al seguito di Alexandre si bagnano per tornare giovani e cominciano subito ad amoreggiare con bellissime fanciulle. Più che la sapienza mitica prevale il senso del meraviglioso.

Di grande interesse, ai nostri fini, è però il vasto sviluppo che il mito alessandrino ebbe nella letteratura orientale, tanto in arabo quanto in persiano. Sebbene gli elementi presenti nelle versioni orientali mostrino chiare affinità con alcune delle versioni più tarde dello pseudo Kallisthénēs, il passaggio del mito alessandrino nella letteratura araba non sarebbe avvenuto direttamente attraverso il greco ma rivela un complesso dialogo con le comunità sudarabiche, ebree e cristiane del Medio Oriente, in particolare con i gruppi aramaico-siriaci.


La tradizione siriaca

La Tašʿitā d-ʾAleksandrōs bar Fīlīpōs malḵā d-māqdūniyē, «Storia di Aleksandrōs figlio di Fīlīpōs, re di Macedonia», è una traduzione siriaca dello pseudo Kallisthénēs, tradita in cinque tardi manoscritti, tutti in grafia nestoriana (il più antico, conservato al British Museum, è stato ricopiato solo nel 1708-1709). Essa concorda in modo significativo con la recensio α, sebbene in alcuni punti segua piuttosto la versione latina di Iulius Valerius. Il Tašʿitā d-ʾAleksandrōs non è però una pura e semplice traduzione di α, sia per il diverso ordine in cui sono trattati certi argomenti, sia soprattutto per la presenza di alcuni episodi che non sono testimoniati da nessuna delle versioni greche a noi note. L'insieme di tali discordanze rispetto allo pseudo Kallisthénēs ha fatto supporre al primo editore del Tašʿitā d-ʾAleksandrōs, l'inglese Sir Ernest Alfred Wallis Budge (1857-1934), che il testo siriaco fosse la traduzione, effettuata da un cristiano nestoriano tra il VII e il IX secolo, di una versione araba dell'originale greco (Budge 1889).

Un anno dopo l'edizione di Budge, l'orientalista tedesco Theodor Nöldeke (1836-1930), analizzando le trascrizioni di nomi e termini del Tašʿitā d-ʾAleksandrōs, non solo dimostrò l'infondatezza della teoria di Budge, ma avanzò l'ipotesi di un intermediario medio-persiano di epoca tardo-sāsānide (VII-VIII sec.), viste le numerose ambiguità fono-ortografiche presenti nel sistema grafico del pehlevico. Secondo Nöldeke, inoltre, la traduzione medio-persiana sarebbe stata effettuata sulla perduta redazione dello pseudo Kallisthénēs (Nöldeke 1890). A lungo l'ipotesi di Nöldeke ha goduto di notevoli consensi da parte della maggior parte degli orientalisti. Solo di recente è stata oggetto di critiche. Richard Frye (1920-2014) ha notato come difficilmente negli ambienti sāsānidi, in cui Aléxandros era considerato un malvagio distruttore della regalità iranica e un avversario della religione zoroastriana, qualcuno avesse potuto prendersi la briga di tradurre un testo come lo pseudo Kallisthénēs, dove il condottiero macedone era presentato in una luce positiva (Frye 1985 | Franco 1999). In seguito, Claudia Ciancaglini ha dimostrato l'infondatezza degli argomenti di Nöldeke: le grafie dei nomi trovavano plausibile spiegazione nel procedimento di dettatura degli scriptoria, eliminando così il problema dovuto alla presenza di un ciclo alessandrino nell'Īrān preislāmico. L'autrice ha abbassato la data di compilazione del Tašʿitā d-ʾAleksandrōs, nella forma in cui ci è pervenuta, al VII secolo. Rimane tuttavia la possibilità, come nota la stessa Ciancaglini, di una traduzione medio-persiana effettuata nell'ambito della chiesa nestoriana (Ciancaglini 1998).

Possiamo così stabilire uno stemma codicum delle varie redazioni e traduzioni dello pseudo Kallisthénēs. Lo schema che segue è tratto, con qualche variazione, da Richard Stoneman (Stoneman 2007):

Il Tašʿitā d-ʾAleksandrōs è dunque derivato da una tradizione autonoma, forse piuttosto antica, all'interno del ramo α dello pseudo Kallisthénēs (la fantomatica recensio ?): non conosce l'episodio della sorgente della vita, del cuoco e del pesce, né quello della muraglia. Ma questi ultimi temi, ignoti alla recensio α, erano ben conosciuti presso le comunità siriache, come testimonia un altro testo, il Neṣḥānā d-leh d-ʾAleksandrōs, «Le gloriose imprese di Aleksandrōs». Sebbene esistano dei seri dissensi riguardo alla sua datazione, si ritiene che il Neṣḥānā sia stato scritto intorno al 629, come testo propagandistico per celebrare la vittoria dell'imperatore Phlábios Hērákleios (♔ 610-641) sui Sāsānidi e per supportare la politica espansionistica dell'impero bizantino. Il Neṣḥānā si articola in tre episodi principali. Nel primo, Aleksandrōs intraprende un viaggio ai confini della terra. Giunge inizialmente al «mare fetido» [yamā saryā] che tenta inutilmente di attraversare, senza successo. Quindi raggiunge il luogo dove il sole tramonta, passando, con le sue truppe, attraverso la «finestra del cielo»: da qui, seguendo il tenebroso percorso notturno del sole, Aleksandrōs giunge nel luogo dove il sole sorge. Nella seconda parte, Aleksandrōs arriva tra i monti del Caucaso e segue l'episodio della costruzione della barriera contro Aǧūǧ wa Maǧūǧ, identificati con gli Unni. Nella terza parte del testo, Aleksandrōs si scontra con Tūbarlaq, re dei Persiani, e lo sconfigge. Dopo aver stipulato un patto di pace, il macedone arriva a Gerusalemme, dove stabilisce il suo trono e gli viene applicato l'epiteto di «bicorne».

Se la terza parte del Neṣḥānā va considerata una creazione originale del suo autore, che retro-proietta nel passato la vittoria di Hērákleios sui Sāsānidi, gli elementi della prima e seconda parte appartengono alla tradizione. L'orientalista Tommaso Tesei nota, giustamente, le relazioni della prima parte del Neṣḥānā con gli itinerari cosmologici presenti nell'epopea di Gilgameš, dove lo yamā saryā, il «mare fetido», può essere messo in correlazione con le mê mūti, le «acque della morte», e il viaggio lungo il percorso notturno del sole ricorda quello lungo il ḫarran šamši, il «sentiero del sole», del lugal sumerico. Ciò proverebbe la presenza di reminiscenze del mito di Gilgameš nel mondo aramaico-siriaco, recuperate con sostituzione dell'eroe mesopotamico con la figura di Aleksandrōs (Tesei 2013). In quanto alla seconda parte del Neṣḥānā, la leggenda della barriera eretta da Aléxandros nel Caucaso può essere fatta risalire a un passo dello storico ebreo-romano Titus Flavius Iosephus (37-100), il quale riferisce, quasi en passant, che gli Alani, maturato il progetto di saccheggiare la Media, avevano intavolato trattative con il re dell'Hyrcania, il quale controllava «la via d'accesso che re Aléxandros aveva sbarrato con delle porte di ferro» (Bellum Iudaicum [VII: 7, ]) ①▼.

È nel Neṣḥānā che il tema della barriera alessandrina viene associato per la prima volta alla profezia biblica sull'irruzione escatologica di Gô e Māô (Yǝḥẹzqêl [38-39]). Il testo, peraltro, attribuisce allo stesso Aleksandrōs una profezia sulla futura rottura della barriera, alla fine dei tempi, a cui seguiranno due invasioni da parte degli «Unni». La profezia fornisce le date delle invasioni con notevole precisione: gli anni Graecorum 826 e 940 che, convertiti dal calendario seleucide, dànno rispettivamente il 614-615 e il 628-629. Queste date sembrano riferirsi alle invasioni dei Sábiroi (614-615) e dei Hazary (intorno al 627): due popoli turchici, provenienti dall'Asia centrale, che potevano ben ricadere nella vaga definizione di «Unni». Si tratta di un vaticinium ex eventu: la retro-profezia messa in bocca ad Aleksandrōs aveva lo scopo di collegare le due recenti invasioni, di cui i fruitori del testo avevano memoria, al prossimo stabilimento – questo sì, escatologico – di una cosmocrazia dell'impero bizantino su tutta la terra. Tale ideologia va inscritta nel tormentato rapporto che i cristiani di Siria avevano con le autorità persiane: le ricorrenti, cruente persecuzioni religiose da parte dei Sāsānidi erano motivate dal sospetto di connivenza – molto spesso fondato – dei cristiani col nemico bizantino. (Di Branco 2011)

Il Neṣḥānā d-leh d-ʾAleksandrōs godette di una rapida diffusione subito dopo la sua composizione e ispirò un certo numero di opere escatologiche, tra cui la Apokálypsis dello pseudo Methódios, i poemi apocalittici dello pseudo Aphrêm Sûryāyâ e il Mēmrā dʿal Aleksandrōs bar Pilipūs dello pseudo Yaʿqûḇ Sǝrûāyâ. Se il lettore si sentirà un po' confuso da questa sequela di «pseudo» autori, ne ha ben donde: stretti tra zoroastriani e musulmani, le comunità cristiane di Siria cercavano di dare veridicità ai loro testi apocalittici attribuendoli ai teologi e ai dottori della chiesa dei secoli precedenti, utilizzando il tema alessandrino in chiave politico-religiosa. Tali testi possono essere interpretati come una sorta di risposta cristiana al diffondersi dei cicli sudarabici incentrati sulla misteriosa figura di Ḏū ʾl-Qarnayn (Di Branco 2011).

Nella Apokálypsis falsamente attribuita a Methódios di Ólympos († 311), l'imperatore che stabilirà la cosmocrazia su tutta la terra, alla fine dei tempi, e che innalzerà la santa croce sul Gagûltâ/Golgothás, è rappresentato come un secondo Aleksandrōs, appartenente alla casata del macedone. Invece, nel poema falsamente attribuito a Aphrêm Sûryāyâ (Ephraím Sŷros, 306-373), ma redatto in realtà tra il 640 e il 680, la profezia di Aleksandrōs sull'avvento di Aǧūǧ wa Maǧūǧ annuncia la distruzione del nascente impero arabo, dopo la quale verrà ristabilito il dominio glorioso di Bisanzio, cui farà seguito però la venuta dell'Anticristo (Di Branco 2011).

Particolarmente interessante, ai nostri fini, il Mēmrā dʿal Aleksandrōs bar Pilipūs, il «Sermone su Aleksandrōs figlio di Pilipūs». Falsamente attribuito al poeta-teologo Yaʿqûḇ Sǝrûāyâ (Iacopo di Serug, 451-521), anche questo testo è stato probabilmente elaborato nel VII secolo: è infatti una riscrittura metrica del Neṣḥānā, del quale riprende l'episodio caratteristico della battaglia tra Aleksandrōs e Tūbarlaq, ma da cui elimina la propaganda a favore dell'imperatore Hērákleios, la cui politica di unificazione ecclesiastica – tesa a diffondere nell'impero la dottrina monotelita – era malvista nei circoli monofisiti. Ogni azione terrena assume nel Mēmrā una luce effimera: Aleksandrōs sa bene che anche il suo impero cadrà e che l'umanità raggiungerà il proprio compimento solo nel regno dei cieli (Di Branco 2011). Ma è nel Mēmrā che ricompare l'episodio della sorgente della vita e della resurrezione del pesce, in forma simile a quella presente nella recensio β dello pseudo Kallisthénēs (Bergson 1975). Infatti, dopo uno spaventoso viaggio attraverso la terra delle tenebre, Aleksandrōs si ferma presso una sorgente e ordina al suo cuoco di preparargli da mangiare...

 E quando il cuoco venne all'acqua, si chinò per inumidire
quel pesce essiccato; e quello non venne alla vita nelle sue mani, come è stato detto,
ma quando finalmente [il cuoco] venne alla sorgente dalla quale sgorgava l'acqua della vita
e si accostava per lavare il pesce in quell'acqua, quello ritornò alla vita e scappò via.

Pseudo Yaʿqûḇ Sǝrûāyâ: Mēmrā dʿal Aleksandrōs bar Pilipūs [48]

Il cuoco balza nella sorgente, nel tentativo di riacchiappare la cena del grande conquistatore, e diviene immortale. Non trovando l'acqua della vita, Aleksandrōs non può sfuggire alla propria mortalità e in seguito erige la barriera contro i «figli di Maǧūǧ» (Mēmrā dʿal Aleksandrōs [184]).

I temi sviluppati dai testi siriaci hanno una rapida eco in Occidente. A rendere popolarissimo in Europa il mito di Gô e Māô, oltre che facilmente manipolabile a fini propagandistici, sarà la Apokálypsis dello pseudo Methódios, tradotta in greco, latino e slavo a partire dagli inizi dell'VIII secolo. Qui Aléxandros è figlio di Phílippos II Makedṓn e di una principessa etiope. Nel corso delle sue spedizioni a Oriente, incontra i discendenti di Yāẹṯ, esseri dai costumi osceni e dall'orribile sembiante: Gô e Māo e altre ventuno animalesche tribù. Dopo aver ricacciato a nord queste popolazioni mostruose e impure, Aléxandros provvede a isolarle oltre i confini dello spazio. Chiede ad Allāhā di ricongiungere due montagne e, tra di esse, innalza due porte di bronzo e le salda con una speciale sostanza, l'asincitum, che non può essere distrutta né dal ferro né dal fuoco né dalla stregoneria. Ma il pericolo da essi rappresentato è solo rimandato: alla fine del mondo si adempierà la profezia di Yǝḥẹzqêl, e Gô e Māo spezzeranno la barriera per invadere Israele (Dronke 1997). L'immediato riflesso in Europa dello pseudo Methódios è la Chronographia latina attribuita a Æthicus Ister (VII-VIII secolo), dove la barriera costruita da Aléxandros ha un significato escatologico e gli «Alani» di Flavius Iosephus hanno ormai lasciato il posto all'apocalittica irruzione di Gô e Māô. Queste rielaborazioni cristiane di un racconto alessandrino in chiave apocalittica sono davvero affascinanti: Aléxandros si assume il compito di un alter Christus che espelle e controlla la minaccia d'incrinamento della storia, e nel contempo adempie al ruolo di Antichristus, dal momento che nella chiusura dei confini dello spazio ne inserisce il presupposto della propria distruzione, la sottile ma minacciosa frattura attraverso la quale si manifesterà l'esaurimento della storia (Dronke 1997).

Con il Mēmrā dʿal Aleksandrōs tutt'e tre le tessere del nostro mosaico sono finalmente disponibili: il motivo del viaggio ai confini del mondo, quello della sorgente della vita e quello della barriera alessandrina. I tre elementi presenti in nuce in al-Qur˒ān [XVIII: -]. Che rapporto c'è, dunque, tra il Mēmrā e i testi arabi?


L'influenza sudarabica

Secondo Tesei, tanto il Mēmrā tanto al-Qur˒ān [XVIII: -] dipenderebbero dal Neṣḥānā d-leh d-ʾAleksandrōs (Tesei 2013). Ma questa è solo una piccola parte della complessa evoluzione e trasmissione della leggenda dell'acqua della vita. Ma prima di arrivare al «bicorne» qur˒ānico, e ai solerti tafāsīr che si impadroniranno della sua figura identificandola infine con quella di Mégas Aléxandros, bisognerà cercare di dipanare il complesso gomitolo di motivi e mitemi che si sono avvicendati e stratificati tra la penisola araba, la Siria e il ʿIrāq, tra il I secolo a.C. e il VII d.C.

Ḏū ʾl-Qarnayn non è una semplice trasposizione musulmana della figura di Mégas Aléxandros: è un personaggio semimitico su cui sono progressivamente confluiti elementi legati alla leggenda del Macedone, in un processo iniziato prima dell'avvento dell'Islām e che ha poi trovato il suo culmine nei secoli subito dopo la hiǧra. Come abbiamo premesso, il primo nucleo della figura del «bicorne» ②▼ va localizzata nel ciclo regale sudarabico, in una figura di re/condottiero poi identificata con tubbaʾ Ṣaʿb ibn Ḏī Marāṯid. Delle origini sudarabiche di Ḏū ʾl-Qarnayn erano consci molti importanti autori arabi, i quali rifiutavano la sua identificazione con Aléxandros, affermandone invece l'origine yāmānita. Uno di questi è il matematico e astronomo Abū ar-Rayḥān Muḥammad ibn Ahmad al-Bīrūnī (973-1048), il quale, nel suo studio comparativo dei calendari di differenti culture e civiltà, dedica un capitolo intero al problema dell'identità di Ḏū ʾl-Qarnayn:

 Alcuni dicono che Ḏū ʾl-Qarnayn era aṣ-Ṣaʿb [ibn Ḏī Marāṯid] ibn al-Ḥammāl al-Ḥimyarī, mentre altri lo identificano con Abū Karib Šāmir ibn ʿAbīr ibn Afrīquš al-Ḥimyarī [forse il re ḥimyarī Abīkarib Asʿad, ♔ IV-V sec.], e credono che fosse così chiamato a causa di due riccioli che gli pendevano sulle spalle e che egli raggiunse le regioni orientali e quelle occidentali della terra, che attraversò il nord e il sud, che sottomise i paesi e soggiogò completamente i popoli; e di lui si è vantato uno dei principi dello Yaman […], dicendo: “Attraversò le contrade d'oriente e d'occidente, sempre cercando il potere regale proveniente da un signore generoso e liberale. Poi egli vide il luogo in cui il sole tramonta, quando tramonta in una pozza paludosa e nel fango puzzolente. Prima di lui v'era Bilqīs, mia zia […]”. Di tutte queste identificazioni, quella vera mi sembra questa, perché i principi i cui nomi iniziano per Ḏū ricorrono solo nella storia dello Yaman e in nessun altro luogo. Inoltre, le tradizioni riguardanti questo principe yamanita, Ḏū ʾl-Qarnayn, sono molto simili a ciò che dice di lui al-Qur˒ān.
Al-Bīrūnī: Kitāb al-ātār al-bāqiya ʿan al-qurūn al-ḫāliya

Anche il geografo curdo Abū ʾl-Fidāʾ Ismāʿīl ibn ʿAlī ibn Maḥmud ad-Dimašqī al-Ḥamawī al-Malik ʾl-Mūaʾyyad ʿImād ad-Dīn (1273-1331), ci invita a non procedere a frettolose identificazioni. Citando il maġrebino Ibn Saʿīd al-Maġrībī al-Andalūsī († 1286), che a sua volta cita l'esegeta qur˒ānico Ibn ʿAbbās († 686-687), Abū ʾl-Fidāʾ mostra chiaramente di essere a conoscenza del «grande equivoco» relativo a Ḏū ʾl-Qarnayn (Di Branco 2011):

  Alcuni aggiungono che [al-Iskandar], dopo aver viaggiato da oriente a occidente, abbia circondato con un muro i popoli chiamati Yaʾǧūǧ wa Maʾǧūǧ. Ma se vuoi la verità, ciò non è stato fatto da questo Iskandar, bensì da Ḏū ʾl-Qarnayn, del quale Allāh fece menzione nel Qur˒ān. Costui fu un re molto antico, dell'epoca di Ibrāhīm [...]. Dunque coloro i quali hanno ritenuto che il costruttore di quel sadd fosse al-Iskandar ar-rūmī, hanno sbagliato. Ed è ugualmente errato chiamare quest'ultimo Ḏū ʾl-Qarnayn: Ḏū è infatti parola meramente araba e tale soprannome è utilizzato dai re dello Yaman, che sono arabi per nascita [...]. Ibn Saʿīd al-Maġrībī riferisce che Ibn ʿAbbās [...], interrogato su quel Ḏū ʾl-Qarnayn che Allāh menzionò nel libro sacro, abbia risposto: “era un ḥimyarī”.
Abū ʾl-Fidāʾ: Al-muḫtaṣar fī aḫbār al-bašar

Il grande Abū al-Ḥasan ʿAlī ibn al-Ḥusayn ibn ʿAlī al-Masʿūdī (896-956), l'Hēródotos della storiografia araba, nel suo Murūǧ aḏ-ḏahab wa maʿādin al-ǧawhar («I prati d'oro e le miniere di gemme»), scrive:

  Non c'è accordo sull'identità [di al-Iskandar] con Ḏū ʾl-Qarnayn: gli uni l'affermano; gli altri la contestano. Ḏū ʾl-Qarnayn ha sollevato molte discussioni. Gli uni ritengono che questo epiteto gli sia stato donato a causa delle sue spedizioni agli estremi confini della terra e che era il malʾak preposto alla custodia del ǧabal Qāf a soprannominare così al-Iskandar. Secondo altri questo titolo gli venne da altri malāʾika: quest'ultima opinione è attribuita a ʿUmar ibn al-Ḫaṭṭāb, mentre la prima appartiene a Ibn ʿAbbās. Secondo un'altra interpretazione, che si deve ad ʿAlī ibn Abī Tālib, il soprannome di Iskandar deriverebbe da due riccioli di capelli d'oro. Ci sono in proposito molte altre teorie. Noi ci limiteremo, per il momento, a parlare della divergenza di opinioni emesse dagli uomini di studio e di religione dei popoli che dispongono di libri rivelati.
Al-Masʿūdī: Murūǧ aḏ-ḏahab wa maʿādin al-ǧawhar [II]

L'identificazione tra il re yamanita aṣ-Ṣaʿb ibn Ḏī Marāṯid e il condottiero macedone al-Iskandar creava inoltre degli anacronismi difficili da giustificare, resi ancora più ardui dal fatto che il rasūl Mūsá era sicuramente vissuto molto prima di Iskandar, rendendo quindi contraddittorio il suo incontro con al-Ḫiḍr in al-Qur˒ān [XVIII: ]. Molti storici musulmani, tra cui aṭ-Ṭabarī, risolvono ipotizzando l'esistenza di due personaggi chiamati Ḏū ʾl-Qarnayn: appunto il re yamanita e il condottiero macedone, e solo al primo dei due andrebbe attribuito l'episodio dell'acqua della vita (Taʾrīḫ ar-rusul wa al-mulūk). Anche l'anonimo autore del Ṣaʿb Ḏū ʾl- qarnayn effettua una distinzione analoga.

Sembra tuttavia che già nel ciclo regale sudarabo comparissero – del tutto decontestualizzati – elementi provenienti dalle vicende di Mégas Aléxandros. Le immagini mitizzate di alcuni dei principali mukarrib dello Yaman preislāmico, quali Karibʾīl Watār e Abīkarib Asʿad – che le iscrizioni sudarabiche presentano come sovrani valorosi e instancabili fondatori di città – si sarebbero fuse già in epoca antica con i racconti sul conquistatore macedone, formando un primo nucleo del ciclo di Ṣaʿb ibn Ḏī Marāṯid (Bohas ~ Saguer ~ Sinno 2012). Saranno proprio le élites ḥimyarī, insediate in Egitto dopo la conquista araba, a realizzare la fusione finale della saga yamanita con le storie di Aléxandros, dando alla südarabische Sage la forma in cui essa sarebbe pervenuta ai tafāsīr musulmani (Vadet 1969). Ma nel ciclo sudarabico concorrevano anche alcuni importanti elementi di substrato, alcuni dei quali provenivano dall'antico mito di Gilgameš.

Se il Tašʿitā d-ʾAleksandrōs deriva da un ramo α dello pseudo Kallisthénēs, il Neṣḥānā d-leh d-ʾAleksandrōs e, soprattutto, il Mēmrā dʿal Aleksandrōs attestano il racconto dell'acqua della vita e della resurrezione del pesce che non sono contenute dalla recensio α, ma solo nelle recensiones β e γ. Se il tema del pesce che ritorna in vita, presente in Ovidius, fa pensare a uno strato molto antico, il tema dell'acqua della vita deve essersi diffuso da est a ovest in epoca più recente. Alla base si riconoscono le tradizioni indoiraniche sulla haoma (medio persiano hōm), originariamente una pianta da cui si estraeva un succo rituale, in seguito divenuto il nome di un mitico elixir vitae: tale trasformazione è parallela a quella che porterà la šammu nikitti, la «pianta dell'irrequietezza» raccolta da Gilgameš sul fondo dell'Apsū, a trasformarsi nella māʾ al-ḥayāt, l'«acqua della vita» di Ḏū ʾl-Qarnayn. Il fatto di trovare questo motivo attestato tanto nella recensio β dello pseudo Kallisthénēs (IV-V sec.) quanto nelle tradizioni sudarabiche su Ṣaʿb ibn Ḏī Marāṯid, fa pensare che, già intorno al 300 d.C., questo complesso di leggende doveva essersi integrato nelle varie versioni del mito alessandrino presenti dallo Yaman al Mediterraneo.

Sia nel periodo preislāmico, sia in quello successivo alla rivelazione muḥammadica, i poeti yamaniti frequentavano tanto le corti arabo-cristiane dei Ġassāsīna di al-Ǧabiya, a sud di Dimašq, tanto quelle dei Laḫmiyyūn di al-Ḥīra, nell'odierno ʿIrāq. Quest'ultimo era senza dubbio il più importante centro urbano dell'epoca preislāmica e svolse un fondamentale ruolo di contatto tra gli intellettuali di lingua araba e di lingua aramaica. Gli stessi Laḫmiyyūn, peraltro, provenivano dallo Yaman, e uno dei loro mukarrib, al-Munḏir al-Akbar III ibn Māʾ al-Samāʾ, era stato identificato a sua volta con Ḏū ʾl-Qarnayn. Sembra dunque plausibile che l'epopea sudarabica di Ḏū ʾl-Qarnayn sia entrata nel milieu cristiano-siriaco proprio ad al-Ḥīra, dove aveva avuto tutte le opportunità di incrociarsi con le tradizioni greche. Questo complesso ciclo di leggende, portate alla Makka e alla Madīna dai poeti yamaniti e dai mercanti arabi, era pronto, dopo la predicazione di Muḥammad, a passare al Qur˒ān.


L'influenza giudaica

Ma tra le possibili fonti che hanno contribuito alla definizione conclusiva della leggenda vi erano probabilmente anche le tradizioni giudaiche, le quali pure svilupparono una letteratura alessandrina di tutto rispetto, che ha il suo culmine nel Sēẹr tôlǝḏōṯ Alẹksandrôs ha-maqdônî («Libro delle imprese di Alẹksandrôs il macedone»), un romance elaborato dal matematico franco-ebreo Immanuel ben Jacob Bonfils (1300-1377) (Kazis 1962). Interessanti elementi alessandrini sono però già presenti nella letteratura talmûḏica e midrāšica, dove si accenna al viaggio di Alẹksandrôs attraverso la terra delle tenebre e al suo arrivo alle porte del gan ʿĒḏẹn. Queste leggende hanno il loro archetipo in un breve episodio del Talmûḏ Bāḇlî (Wheeler 1998), che inizia con un dialogo tra il macedone e un gruppo di saggi anziani del sud:

 Ed [Alẹksandrôs] disse loro: “Voglio andare in terra d'Africa”. Risposero: “Non è possibile arrivare, perché lungo la strada si ergono le montagne delle tenebre”. Ed egli disse loro: “Questo non mi impedirà di andare. Perciò sono qui a chiedere il vostro consiglio. Ditemi cosa devo fare”. “Prendi asini libici, che possono viaggiare nel buio, e porta rotoli di corda e fissali ai lati [della strada]. Così potranno guidarti al tuo ritorno e raggiungere la tua destinazione.” Così egli fece e partì.
Talmûḏ Bāḇlî [tamīd 32a]

Dopo aver attraversato la terra delle tenebre e quella delle amazzoni, l'Alẹksandrôs talmûḏico arriva a una sorgente:

  Mentre era in viaggio si sedette vicino l'acqua e cominciò a mangiare. Aveva con sé alcuni pesci essiccati, e mentre li lavava essi emanarono un dolcissimo profumo. [Alẹksandrôs] disse: “Ciò prova che quest'acqua viene dal gan ʿĒḏẹn”. Alcuni dicono che egli raccolse un po' d'acqua e si lavò il viso. Altri dicono che [Alẹksandrôs] proseguì il cammino finché arrivò al cancello del gan ʿĒḏẹn. Gridò: “Aprite le porte!” Risposero: “Questa è la porta di Ăḏonāy, per essa passano i giusti” (Tǝhillîm [118: ]). A ciò, [Alẹksandrôs] replicò: “Io sono un grande signore e re, e ho una certa statura. Concedetemi qualcosa!” Gli diedero un bulbo oculare. [Alẹksandrôs] lo pesò, ma tutto il suo oro e argento non poté eguagliarne il peso. Egli disse ai rabbānîm: “Cosa significa?” Risposero: “Che quest'occhio appartenne a un uomo insaziabile”.
Talmûḏ Bāḇlî [tamīd 32b]

Nonostante sia stato riabilitato da Brannon Wheeler (Wheeler 1998), questo passo talmûḏico era stato precedentemente respinto come fonte per la tradizione siriaca dallo stesso Nöldeke, e anche da Israel Friedländer, i quali ne avevano sottolineato i punti di divergenza con il Mēmrā dʿal Aleksandrōs bar Pilipūs, così come la presenza di elementi pagani e l'assenza del motivo dell'acqua della vita, negando in definitiva una sostanziale interazione tra il Talmûḏ e il testo siriaco, nonostante il soggetto comune (Nöldeke 1890 | Friedländer 1913). Tuttavia, il testo talmûḏico esplicita il tema del regressus ad paradisum, che è il motivo centrale e portante delle leggende che stiamo analizzando in questa pagina, sebbene vi si accenni solo implicitamente nel racconto di Gilgameš e nelle rielaborazioni islāmiche. Possiamo chiederci se il Talmûḏ abbia ereditato una versione della leggenda priva di inutili orpelli, dove l'eroe – identificato con Alẹksandrôs – tentava un vero e proprio ritorno al gan ʿĒḏẹn, o se i suoi autori l'abbiano rielaborata evidenziandone i significati nascosti. Non lo sappiamo: e anche il tema del pesce reca qui una rielaborazione interessante: l'animale immerso nell'acqua non ritorna direttamente in vita, ma evidenzia con il proprio profumo la natura stessa dell'acqua, che proviene dal giardino d'immortalità.

Il passaggio talmûḏico sembra attingere a una letteratura ancora anteriore e testimonia, se mai ce ne sia bisogno, che il ruolo attribuito ad Aléxander/Alẹksandrôs non era certo un'innovazione nel tema che stiamo indagando.

①▲ I passaggi transitabili attraverso il Caucaso, oggetto di fortificazioni fin da tempi remoti, erano essenzialmente due: la Porta Caucasica e le Portae Caspiae, che i geografi antichi confondevano sovente l'una con le altre, come testimonia Gaius Plinius Secundus (Naturalis Historia [VI: 12,  | 15, ]). La Porta Caucasica corrisponde alla gola di Darialis, che corre per una decina di chilometri alla base del monte azbek, presso l'odierno confine tra Georgia e Russia: il suo nome georgiano, Darialis seoba, deriva dal persiano Dar-e Alān, «porta degli Alani», suggerendo che possa trattarsi della via d'accesso indicata da Flavius Iosephus. Ma poiché l'Hyrcania era situata presso il Caspio meridionale, è probabile che Flavius intendesse invece le Portae Caspiae, ovvero il passo di Fīrūzkūh, alle propaggini orientali dell'Elburz, nell'Īrān nord-orientale. Si tratta di una gola angusta, lunga circa dodici chilometri, che termina presso la fortezza sāsānide di Derbend (od. Derbent, Dāġestān russo, a circa sessanta chilometri a sud-est dell'attuale Tehrān)‎. Ma quali che siano le identificazioni geografiche del passo murato da Aléxandros (o Ḏū ʾl-Qarnayn), le lasciamo a quanti ritengono che i miti si esauriscano una volta messe a nudo le loro radici storiche.
 
②▲ Sull'epiteto Ḏū ʾl-Qarnayn, «quello dalle due corna», gli esegeti musulmani si sono accaniti tentando le interpretazioni più differenti. Poiché in arabo qarn significa, oltre «corno», anche «cima» o «sommità», oppure «secolo», ma anche può indicare il primo spicchio del sole che spunta dietro l'orizzonte, gli esegeti si sono sbizzarriti a spiegare l'epiteto Ḏū ʾl-Qarnayn con locuzioni del tipo «signore dell'oriente e dell'occidente», o «signore del giorno e della notte» o «signore di due secoli», e via dicendo. Verranno date anche spiegazioni mistiche del tipo «signore del mondo visibile e di quello invisibile» o simili. (Saccone 1997). Ma le corna sono legate alla rappresentazione biblica di Aléxandros che, nella seconda visione di Dāniyyêl, è descritto, senza essere nominato, come un grande «capro» che «percorreva tutta la terra senza toccare il suolo; tra gli occhi aveva un grosso corno» (Dāniyyêl [8: ]) e combatte contro un «montone» con due corna simboleggiante, forse, il regno dei Medi e quello dei Persiani.
VERSO LE CITTÀ DI SMERALDO: IL MITO ARABO DI AL-ISKANDAR

La fortezza sāsānide di Darbend

Persiano Darbend, russo Darbent, avaro Derbend, azərbaycano Dǝrbǝnd, lezgo K‘verar, lak Čurul. Repubblica del Dāġestān, Federazione Russa. Gli arabi chiamarono la cittadella Bāb al-abwab, «porta delle porte», vagheggiando di aver trovato la mitica sadd al-Iskandar, la barriera eretta da Ḏū l-Qarnayn.

Una manciata di anni dopo la morte di Muḥammad, al tempo del ḫalīfah ʿUmar ibn al-Ḫaṭṭāb (579-644), i soldati arabi, nel corso delle loro inarrestabili conquiste, entrarono in Armenia. Giunti alle Portae Caspiae, fu grande il loro sgomento quando si trovarono di fronte alle imponenti mura della fortezza sāsānide di Derbend, la «porta serrata» che controllava l'unica via di accesso alle province occidentali dell'impero persiano. Bāb al-abwab, «porta delle porte», fu il suggestivo nome che gli arabi diedero alla cittadella, vagheggiando di aver trovato il sadd al-Iskandar, la mitica barriera eretta da Ḏū ʾl-Qarnayn.

Da questo punto in poi non ci sono più scuse: il mosaico mostra una figura vivida, significativa, di rara potenza, che viene a collegare in una struttura coerente motivi che da secoli andavano alla deriva nei rivoli delle tradizioni della Siria, dell'Arabia, dello Yaman, della Mesopotamia, dell'Īrān. L'elaborazione del mito islāmico-alessandrino comincia solo ora a rivelare in controluce la complessità dei motivi che hanno concorso alla sua formazione. Sotto le sapienti elaborazioni di una nuova generazione di esegeti qur˒ānici, di storici e geografi arabi, e soprattutto di poeti persiani, una gran quantità di mitemi, da secoli sparpagliati nell'oceano delle leggende, trovano d'un tratto la loro collocazione e il loro significato.

Numerosi autori arabi si succederanno ad analizzare le relazioni tra Ḏū ʾl-Qarnayn e al-Iskandar: si ricordano, tra gli altri, ad-Dīnawarī (IX sec.), aṭ-Ṭabarī (IX-X sec), al-Masʿūdī (X sec.), al-Bīrūnī (X sec.), aṯ-Ṯaʿlabī (X-XI sec). Ma cosa avevano realmente tra le mani, impiegarono un bel po' a capirlo. Anche quando l'eredità del Profeta era entrata, tenace, nella memoria dei nuovi conquistatori del mondo, l'episodio del pesce suscitava profonde perplessità presso i primi esegeti islāmici, i quali non riuscivano bene a definire la natura della disavventura occorsa a Mūsá e Yušāʾ, e soprattutto cosa fosse esattamente accaduto al loro pranzo nel laconico passo di al-Qur˒ān [XVIII: -]. Sì, qualcosa di strano era successo a quel pesce secco e salato che, dopo aver ripreso vita, sembrava essere fuggito tra le rocce del deserto (Vacca 2013). Ma bisognerà attendere almeno tre o quattro secoli affinché la storia raggiunga una forma canonica nei tafāsīr ed è interessante notare che il senso della vicenda verrà esplicitato nelle fonti persiane: il pesce essiccato resuscita e nuota via perché è stato lavato nella yanbūʿ al-ḥayāt, la «sorgente della vita». Come puntualizza Brannon Wheeler, «fu solo nel XII secolo, o comunque non prima dell'XI, che gli esegeti arabi cominciarono a capire, grazie ai romanzi persiani, che al-Qur˒ān [XVIII: -] alludeva alle vicende di Aléxandros», più che a quelle di Mūsá e Yušāʾ (Wheeler 1998).

Ma Wheeler è forse eccessivamente prudente. L'episodio dell'acqua della vita è già presente in un certo numero di narrazioni arabe incentrate su al-Iskandar, risalenti già all'VIII secolo. In alcuni articoli, il professor David Zuwiyya ha illustrato il Maǧmuʿ qiṣṣat al-Iskandar wa ma fīha min al-ʿamr al-ʿaǧīb, «La storia di al-Iskandar con tutti i suoi fatti meravigliosi», opera di un certo ˓Umāra ibn Zayd (❀ VIII sec.): si tratta di un testo ancora inedito, tradito in un manoscritto cinquecentesco conservato alla British Library (ms. Add. 5928). Agli episodi principali presenti nello pseudo Kallisthénēs si aggiungono in questo Qiṣṣat al-Iskandar molti dettagli inerenti alla geografia e alla cosmologia islāmiche. Analoghi romances arabi provengono dalla Spagna moresca: sono il Qiṣṣat Ḏū ʾl-Qarnayn, il Ḥadīṯ Ḏū ʾl-Qarnayn e il Rrekontamiento del rrey Ališandre. Quest'ultimo testo è in lingua aragonese, sebbene trascritto usando l'alfabeto arabo: questo tipo di grafia, conosciuta come aljamiado/ʿaǧamiyah, è tipica delle traduzioni dai testi arabi, effettuate in genere da interpreti moriscos. (Zuwiyya 2011 | Zuwiyya 2012)

Il Qiṣṣat al-Iskandar è un romanzo di ampio respiro, ricco di episodi fantastici. ˓Umāra ibn Zayd riferisce di aver ricavato il suo materiale da notizie e aḥadīṯ tratti da molteplici fonti, nessuna delle quali è posteriore all'VIII secolo (cita Ibn Isḥaq, Hišām al-Kalbī, Kaʿb al-Aḥbār, al-Ḥasan al-Baṣrī, ʿAbd Allāh ibn ʿAbbās, Muqātil ibn Sulaymān...). Gli episodi che a noi interessano riguardano i viaggi di Ḏū ʾl-Qarnayn/al-Iskandar verso la terra del sole nascente e del sole calante, narrati da ˓Umāra con gran dovizia dei dettagli. Come Bulūqiyā, anche al-Iskandar di ˓Umāra cammina sulle onde del mare, sostenuto dalla sua fede e, quando la fede viene meno, sprofonda. Dopo essersi spinto fino alle estreme propaggini della terra, sia in oriente che in occidente, giunge al ǧabal al-Qāf, la montagna che circonda la terra. Al-Qāf è di un intenso verde smeraldo, ma nei suoi pressi al-Iskandar è costretto a procedere in una tenebra assoluta. Il monte è talmente imponente che riesce a nascondere la luce del sole anche a mezzogiorno: e noi ancora una volta riconosciamo in questa tenebra una reminiscenza del ḫarran šamši nel racconto di Gilgameš. Varcata la montagna, Iskandar trova due meravigliose città: Ǧābarsā a occidente e Ǧābalqā a oriente. Sono abitate dai discendenti del nabī preislāmico Ḥūd (o dei nabiyyūn Ḥūd e Ṣāliḥ nel Rrekontamiento). Vi ritroviamo l'episodio dell'«angelo della montagna» [al-malʾak bi ǧabal] che, seduto sul Qāf, obbedisce agli ordini di Allāh e, tirando invisibili redini, scatena dovunque terremoti. E naturalmente l'episodio della māʾ al-ḥayāt, l'«acqua della vita», che viene bevuta da al-Ḫiḍr ma non da al-Iskandar.

Le tradizioni sul ǧabal al-Qāf e sulle favolose città di Ǧābarsā e Ǧābalqā tornano insistentemente a riaffacciarsi nella letteratura araba. L'uno e le altre erano già citate nel ciclo di Ṣaʿb ibn Ḏī Marāṯid (Ṣaʿb Ḏū ʾl-Qarnayn), e avranno degli interessantissimi sviluppi presso i teosofi persiani, come ben sanno i lettori di Henry Corbin, che ne ha analizzato la vertiginosa portata esoterica (Corbin 1979).

Del ǧabal al-Qāf tratta il geografo Yāqūt ibn ʿAbdullah al-Hamawī ar-Rūmī (1179-1229):

 Al-Qāf è il monte che circonda la terra e la racchiude. Al-Qāf è menzionato nel Qurʾān. Gli esegeti dicono che la montagna circonda la terra. Dicono che è fatta di cristallo verde e che il verde del cielo deriva dal suo colore verde. Dicono che ha per base una roccia verde, dal quale si sviluppa il ǧabal al-Qāf, che si trova sulla sua cima. Dicono anche che le radici di tutte le montagne derivano dal ǧabal al-Qāf. Alcuni hanno stabilito che la cima [del Qāf] dista dal cielo quanto l'altezza di un uomo. È pure detto che il cielo si poggia su di esso. Oltre al-Qāf, dicono alcuni, vi sono mondi e creazioni che solo Allāh conosce. Tra questi, altri affermano che tutto ciò che si trova oltre [al-Qāf] appartiene al mondo futuro e alle sue leggi, e che il sorge e tramonta da esso. [Al-Qāf] scherma il sole alla terra. Gli antichi lo chiamavano al-Burz.
Yāqūt al-Hamawī ar-Rūmī: Kitāb muʿǧam al-buldān

Questo spiega lo strano potere dell'«angelo della montagna». Poiché le radici del Qāf sono collegate a quelle di tutte le montagne della terra, quando al-malʾak bi ǧabal agisce sulle connessioni del Qāf, tirando gli invisibili collegamenti che lo uniscono agli altri sistemi montuosi, può causare terremoti e catastrofi in qualsiasi paese del mondo. Riporta lo storico Šihāb ad-Dīn Abū al-˓Abbās Aḥmad ibn Faḍl Allāh al-˓Umarī (1300-1384): «Tutti i monti sono diramazioni della montagna che circonda il mondo. È chiamata ǧabal al-Qāf, ed è la madre di tutti i rilievi, che dipendono da essa. In qualche punto [al-Qāf] si estende ininterrotto, in altri tratti presenta dei varchi. Essendo un circolo, per essere precisi, non ha né un inizio né una fine. La curva del ǧabal al-Qāf non è quella di una sfera, ma quella, pressappoco, di un recinto» (Hopkins ~ Levtzion 2000).

Interessanti informazioni sono fornite dal Taʾrīḫ ar-rusul wa al-mulūk di aṭ-Ṭabarī, nella traduzione persiana di Abū ʿAlī Muḥammad al-Balʿamī (❀ X sec.), il quale integra del materiale aggiuntivo (Zotenburg 1958). Un'illuminante digressione sul ǧabal al-Qāf viene fatte risalire all'autorità degli aḥadīṯ di Muḥammad:

 Il rasūl ha detto: Allāh creò il ǧabal al-Qāf tutto intorno alla terra. È anche chiamato il palo della terra, così come si dice nel Qurʾān: «[noi abbiam fatto della terra un'amaca] e le montagne sono pali alti» [XLVIII: -]. Questo mondo è al centro del ǧabal al-Qāf come il dito è in mezzo all'anello. La montagna è color smeraldo. Nessun uomo vi può arrivare, a meno di non avanzare per quattro mesi nelle tenebre. Non vi sono [sul Qāf] né sole, né luna, né stelle: ma [il monte] è di un verde talmente intenso che lo smeraldo del cielo è il riflesso della montagna che si riflette sulla volta celeste, che sembra perciò di questo colore. Se così non fosse, il cielo non sarebbe verde. Tutte le montagne che tu puoi vedere nel mondo appartengono al ǧabal al-Qāf. Sappi che se il ǧabal al-Qāf non esistesse, tutto il mondo vacillerebbe e nessuna creatura potrebbe vivere su di esso.
Aṭ-Ṭabarī / al-Balʿamī: Taʾrīḫ ar-rusul wa al-mulūk [VI]

Anche al-Qurṭubī, Ibn Kaṯir e lo stesso Yāqūt enfatizzano il collegamento tra al-Qāf e il cielo, il cui color smeraldo (secondo il cromatismo arabo, che associa al verde concetti di purezza e perennità) nasce dal riflesso dello smeraldo della montagna che circonda l'orizzonte, suggerendo che al-Qāf sia lo specchio del cielo (o il cielo lo specchio del Qāf), ma pure che il monte simboleggi il paradiso (Wheeler 2002). Si noti che un eco del Qāf era presente nelle versioni siriache, laddove si legge che Aleksandrōs «guardò la montagna che circondava tutto il mondo, il grande limite che Allāhā aveva stabilito in eterno (pseudo Yaʿqûḇ Sǝrûāyâ: Mēmrā dʿal Aleksandrōs bar Pilipūs [178]).

In quanto alle città di Ǧābarsā e Ǧābalqā, non è stata proposta un'etimologia soddisfacente per spiegarne i nomi. Poiché il toponimo Ǧābalqā sembra una corruzione di ǧabal Qāf, ci si è chiesti se Ǧābarsā non possa essere interpretato in modo analogo, anche considerato che questo toponimo, in alcune fonti persiane, compare come Ǧābalsā, con sostituzione di rāʾ con lām. Se l'arzigogolata etimologia da un ǧabal Sīnāʾ, cioè «monte Sinai», fosse confermata, Ǧābarsā e Ǧābalqā esprimerebbero forse, metaforicamente, l'occidente e l'oriente del mondo. Ma concentriamoci piuttosto sulle città stesse. Su di esse ci è di notevole aiuto aṭ-Ṭabarī, il quale, nel suo tafsīr, il Ǧāmiʿ al-bayān ʿan tāʾwīl āy al-Qurʾān, nel corso della dettagliata esegesi a Qurʾān [XI: ] – dove si parla del «viaggio notturno» [al-isrā˒] di Muḥammad – inserisce una bella digressione sulle due città:

 Ti meravigli del comando di Allāh? È quello stesso dio che creò due città: una a oriente e l'altra a occidente. Il popolo della città a oriente è costituito dagli ʿĀd, i discendenti di quanti di loro credettero [a Ḥūd]. Il popolo della città a occidente sono è costituito dai Ṯamūd, i discendenti di quanti di loro credettero a Ṣāliḥ. Il nome [della città] a oriente è Marqīsīyā in siriaco, e Ǧābalqā in arabo. Il nome della città a occidente è Barǧīsīyā in siriaco e Ǧābarsā in arabo. Entrambe le città hanno diecimila porte, un farsaḫ di distanza tra ogni coppia di porte. Ogni giorno, diecimila sentinelle armate fanno la guardia a ciascuna porta della città, [e ci sono là così tanti uomini che ciascun gruppo di diecimila sentinelle] farà un unico turno fino al giorno della tromba [del giudizio]. Se, per volere di colui nelle cui mani è l'anima di Muḥammad, non ci fossero là così tante persone e il suono delle loro voci non fosse così forte, tutti i popoli del mondo potrebbero udire il fragore del sole quando sorge e quando tramonta. Oltre a queste [città] ci sono altre tre nazioni: Mansak, Tāqīl e Tārīs, e prima di esse ci sono Yaʾǧūǧ e Maʾǧūǧ.
Aṭ-Ṭabarī: Ǧāmiʿ al-bayān ʿan tāʾwīl āy al-Qurʾān

Molti pittoreschi dettagli vengono riferiti in una fitta serie di aḥadīṯ presenti nella traduzione di al-Balʿamī del Taʾrīḫ ar-rusul wa al-mulūk. Apprendiamo così che le città di Ǧābarsā e Ǧābalqā sorgono accanto al Qāf, nel mezzo della tenebre, tanto che i loro abitanti non sanno nemmeno che Allāh ha creato il sole, la luna e le stelle. Essi ricevono luce dal ǧabal al-Qāf. Essendo inoltre le due città composte del medesimo smeraldo ricavato dalle pendici del monte – e alzi la mano chi non ha pensato al palazzo del mago di Oz –, gli edifici e le mura risplendono di luce propria. In questo testo, tuttavia, un ḥadīṯ nega che Ǧābalqā e Ǧābarsā siano situate non lontano dal luogo dove il sole sorge e declina, e anche che il clamore delle due città dissimuli il fragore prodotto dal sole all'alba e al tramonto.

Le città di Ǧābalqā e Ǧābarsā sono fastose e immense: ampie dodicimila farsaḫ in larghezza e dodicimila in lunghezza. Ciascuna comprende diecimila fortificazioni, e in ciascuna una guarnigione di diecimila sentinelle sta di guardia ogni notte. Ci sono così tanti soldati che una guarnigione sta di servizio soltanto una notte all'anno. Gli abitanti di Ǧābalqā e Ǧābarsā sono infatti minacciati dai popoli di Tāqīl e Tārīs, che notte e giorno, incessantemente, tentano di assalire le due città e sterminare coloro che vi dimorano. Questi sono descritti come un popolo assai virtuoso. Sono tutti maschi, non avendo femmine tra loro; non indossano abiti e si nutrono dell'erba prodotta dalla terra. Pur appartenendo al genere umano, non hanno mai sentito parlare di Ādām, né del demonio Iblīs. Tuttavia, secondo un ḥadīṯ, nella notte del miʿrāǧ, Muḥammad sarebbe stato condotto a Ǧābarsā e Ǧābalqā dal malʾak Ǧibrāʾīl. Il rasūl chiese ai popoli delle due città di seguire la sua religione e la sua legge, ed essi subito credettero in Allāh e aderirono all'Islām. Dopo di che il profeta si recò dai popoli di Tāqīl e Tārīs, di Yaʾǧūǧ e Maʾǧūǧ, ma questi rifiutarono di ascoltare la sua parola e rimasero infedeli. (Aṭ-Ṭabarī/al-Balʿamī: Taʾrīḫ ar-rusul wa al-mulūk [VII])

Mentre aṭ-Ṭabarī pone Ǧābarsā a occidente e Ǧābalqā a oriente, Yāqūt ne inverte le posizioni. Ma esistono anche altre opinioni. Ǧābarsā e Ǧābalqā sono state correlate alla «città del sole» dello pseudo Kallisthénēs, a cui Aléxandros giunge nel corso del suo viaggio in India, con il suo meraviglioso giardino i cui alberi gli profetizzeranno la prossima morte (Bíos Alexándrou toû Makedónos γ [II: 44]). È significativo il fatto che gli abitanti di Ǧābarsā e Ǧābalqā vengano fatti discendere dalle mitiche tribù degli ʿĀd e dei Ṯamūd. Costoro sono a più riprese ricordati nel Qurʾān come due antichissimi popoli della stirpe di Šām ibn Nūḥ, sterminati da Allāh a causa della loro idolatria, avendo ignorato il messaggio dei due nabiyyūn mandati a convertirli: rispettivamente Ḥūd e Ṣāliḥ.

Aṭ-Ṭabarī dedica alle vicende degli ʿĀd e dei Ṯamūd due lunghi e affascinanti capitoli nel Taʾrīḫ ar-rusul wa al-mulūk, su cui tuttavia non è il caso di soffermarci. Ma di uno dei loro re, l'orgoglioso Šaddād ibn ʿĀd, si narra abbia voluto innalzare una città meravigliosa, Iram ḏāt al-ʿimād, «dalle alte colonne», così da rivaleggiare con i giardini del paradiso. Sebbene al-Qurʾān si limiti ad alludere all'episodio in una sola abbagliante terzina, nella Sūra al-faǧr (la «sūra dell'aurora»),...

Alam tara kayfa faʿala rabbuka bi ʿĀdi
Irama ḏāti al-ʿimādi
āllatī lam yuḫlaq miṯluhā fī al-bilādi?
Non hai visto quel che fece il signore alla gente di ʿĀd,
a Iram dalle alte colonne,
che non aveva pari su tutta la terra?
Al-Qur˒ān [LXXXIX: -]

...le fiabe arabe non cessano di favoleggiare sull'arrogante bellezza della città di Iram, la cui costruzione avrebbe richiesto trecento anni. Ma la leggenda, che ha la sua autorità negli ḥadīṯ provenienti dalla cerchia del Profeta, è ben attestata tanto nei tafāsīr tanto nei testi storici. Secondo lo storiografo Abū Zayd ʿAbd ar-Raḥmān ibn Muḥammad ibn Ḫaldūn al-Ḥaḍrami (1332-1346), che riporta la vicenda pur reputandola poco plausibile, Šaddād e Šadīd sarebbero stati figli di ʿŪṣ figlio di Iram della stirpe di Šām. Alla morte di Šadīd, Šaddād gli succedette quale unico sovrano degli ʿĀd. Un giorno, avendo sentito decantare le bellezze del paradiso, Šaddād decise che avrebbe costruito lui stesso un paradiso in terra. Progettò la costruzione di Iram da qualche parte nel deserto di ʿAdan, nello Yaman. Le colonne che sorreggevano la città erano monoliti alti quasi quanto le montagne da cui erano stati scolpiti. Sopra di essi, centomila palazzi erano decorati di gemme e perle, i pavimenti ricavati da legni pregiati, i giardini composti da alberi di diaspro e crisolite, con foglie di metalli preziosi e frutti di smeraldi e rubini. Uccelli meravigliosi riempivano le verzure con il loro canto e la luce di innumerevoli lampade rivaleggiava con il bagliore del sole. Ma non appena Šaddād e i suoi uomini accedettero a Iram, un agghiacciante grido risuonò dal cielo e ogni vita si spense. (Ibn Ḫaldūn: Muqaddima). Dopo di che, Iram sprofondò nelle sabbie del Rubʿ al-Ḫālī, trasformandosi in una sorta di «atlantide del deserto», i cui ritrovamenti formano un ciclo a parte nella novellistica araba. La leggenda è anche nota nei paesi anglosassoni per la romantica versione che ne offre Richard Burton nella sua traduzione delle Alf layla wa layla (The Book of One Thousand and One Nights [IV: 277-279]).

Cosa ci sia sotto questa affascinante leggenda, di probabile origine sudarabica, è difficile dirlo: è arrivata a noi già bella e incastonata nel ciclo profetico e quindi riletta in chiave fortemente islāmizzata. Chi erano Šaddād e Šadīd? E il loro congiunto Luqmān, sapiente e longevo, non potrebbe prefigurare al-Ḫiḍr? Non abbiamo risposte, ma certo gli scrittori arabi seguivano una loro idea quando ponevano i discendenti degli ʿĀd e dei Ṯamūd (o dei nabiyyūn Ḥūd e Ṣāliḥ, i quali appartenevano alle rispettive qabāʾil) nelle favolose città di Ǧābarsā e Ǧābalqā, ai confini del mondo. Secondo aṭ-Ṭabarī/al-Balʿamī, solo tre uomini degli ʿĀd, convertiti da Ḥūd, riuscirono a giungere a Ǧābarsā e Ǧābalqā (ma non Ḏū ʾl-Qarnayn, il quale avrebbe arrancato nelle tenebre per soli due mesi, e non i quattro necessari per arrivare alle due città) (Taʾrīḫ ar-rusul wa al-mulūk [VII]).

Ma al-Iskandar è legato a Šaddād a filo doppio. Entrambi sono segnati dalla loro hýbris: l'uno cerca la via per ritornare al paradiso, l'altro il paradiso intende costruirselo in terra. Al-Masʿūdī narra che al-Iskandar avrebbe rinvenuto, nel luogo prescelto per fondarvi la futura città di Iskandariyya/Alexándreia, un'iscrizione in caratteri sudarabici in cui re Šaddād ibn ʿĀd affermava di aver voluto erigere, in quello stesso sito, «riparato dai colpi del tempo, dalle cure e dai mali», una città simile a Iram, ma di non aver avuto il tempo di farlo. L'iscrizione si concludeva con l'invito a non lasciarsi sedurre dall'ingannevole fortuna e dalle lusinghe del mondo (Murūǧ aḏ-ḏahab wa maʿādin al-ǧawhar [II: ]) (Di Branco 2011). Troveremo altri traîts-d'union tra questi due orgogliosi sovrani.

L'enciclopedico al-Masʿūdī è particolarmente utile, ai nostri fini, in quanto ci fornisce un equivalente islāmico della «tavola delle nazioni» che collega esplicitamente i Greci ai popoli sudarabici, fornendoci al tempo stesso la giustificazione dello strano viluppo di equazioni tra al-Iskandar e i sovrani dello Yaman. Ai suoi tempi, infatti, gli storici arabi sostenevano opinioni genealogiche piuttosto discordanti sulle origini dei popoli ellenici: alcuni autori ritenevano che gli Yūnaniyyūn (i «Greci») e i Rūm (i «Romani», cioè i Bizantini) discendessero da Yūnān ibn Yāfiṯ ibn Nūḥ (il biblico Yāwān bẹn Yāẹṯ bẹn Nōḥ (Bǝrēʾšîṯ [10: ])), altri li ritenevano di stirpe ibrāhīmica, discendenti di Ṣūfar ibn ʿĪsaw ibn Yiṣḥāq ibn Ibrāhīm (un figlio del biblico ʿĒśāw bẹn Yiṣḥāq bẹn Aḇrāhām non riconosciuto dal Bǝrēʾšîṯ). Al-Masʿūdī, negava una parentela tra gli Yūnaniyyūn e i Rūm, e teneva ben distinte le due stirpi. Inoltre riteneva che Yūnān fosse fratello di Qaḥṭān ibn Ġābar ibn Šālaḫ ibn Arfaḫšaḏ ibn Sām ibn Nūḥ, il mitico antenato di tutte le popolazioni dell'Arabia meridionale: «Il tubbaʿ [?] ha cantato al-Iskandar nelle sue poesie e ha sfruttato la gloria di questo principe facendolo discendere da Qaḥṭān. Secondo una tradizione, un tubbaʿ s'impadronì di una città dei Rūm e la popolò di coloni venuti dallo Yaman: da questi arabi, restati in queste città, discenderebbe Ḏū ʾl-Qarnayn, cioè al-Iskandar. Ma Allāh sa di più» (Murūǧ aḏ-ḏahab wa maʿādin al-ǧawhar [II: -]). E, con maggiori dettagli:

  Studiosi molto esperti nella storia dei tempi antichi dicono che Yūnān era fratello di Qahṭān e discendeva da ʿĀbar ibn Šālaḫ, e che dalla sua separazione dal fratello sono nate tutte le incertezze che coinvolgono la sua comunità di origine: Yūnān uscì dallo Yaman accompagnato dai suoi figli, dalla sua famiglia e da tutti coloro che vollero unirsi a lui. Giunto nelle lontane regioni d'Occidente, vi si stabilì, e la sua famiglia si moltiplicò. Là la sua lingua perse la sua purezza e prese i caratteri dell'idioma barbarico di cui si servivano i Faranǧ [Franchi] e i Rūm che abitavano quelle contrade. Allora tutte le tracce della sua parentela scomparvero, tutti i suoi legami furono spezzati e il ricordo del suo nome si cancellò nello Yaman, dove infatti i genealogisti lo ignorano. Yūnān era dotato di una grande forza e di una notevole corporatura; alla bellezza del corpo si aggiungeva l'intelligenza, la sicurezza del giudizio, la nobiltà degli istinti e un alto valore personale.
Al-Masʿūdī: Murūǧ aḏ-ḏahab wa maʿādin al-ǧawhar [II: -]

Yūnān si stabilisce ad Āṯīnā (Athnai) dove fonda il suo regno. Alla sua morte, gli succede il figlio arbiyūs (Kékrops?), il quale – annullando la distanza temporale tra Grecia classica e impero bizantino – estende il dominio ellenico su tutto l'occidente (Murūǧ aḏ-ḏahab wa maʿādin al-ǧawhar [II: -]). Questa strana parentela tra Sudarabici e Greci ha forse origini più antiche di quanto non si pensi: la via dell'incenso aveva probabilmente stabilito rapporti tra lo Yaman e gli Yawān forse addirittura a partire dalla fine del VII secolo a.C., rapporti che tra l'altro potrebbero aver esercitato un influsso sulla formazione stessa dell'alfabeto sudarabico (Di Branco 2011).

Oltre a narrare il ciclo leggendario di Ḏū ʾl-Qarnayn/al-Iskandar nel Taʾrīḫ ar-rusul wa al-mulūk, aṭ-Ṭabarī – il quale sta diventando una guida di tutto rispetto in questa nostra ricerca – analizza nel suo tafsīr gli āyyāt qur˒ānici su Ḏū ʾl-Qarnayn. Anch'egli identifica il «bicorne» con un re sudarabico, che chiama, nella coincisa onomastica araba, Ḏū al-Aḏʿār ibn Abrahah Tubbaʿ Ḏū al-Manār ibn ar-Rāʾiš ibn al-Qays ibn Sayfī ibn Sabaʾ ar-Rāʾid. In un ḥadiṯ, ripreso ancora una volta da Wahb ibn Munabbih, aṭ-Ṭabarī spiega che Ḏū ʾl-Qarnayn viaggiò verso i quattro punti cardinali, attraversando interamente «la lunghezza della terra» [wasṭ al-arḍ] e «la larghezza della terra» [ṭawl al-arḍ]. I popoli che abitano alle quattro estremità del mondo sono chiamati rispettivamente Mansik e Nāsik, e Hāʾwil e Tāʾwīl. La barriera di Yaʾǧūǧ wa Maʾǧūǧ viene invece posta al centro dello schema. (Ǧāmiʿ al-bayān ʿan tāʾwīl āy al-Qurʾān)

Analogamente, tra le narrazioni moraleggianti sui nabiyyūn e sui rusul riportate nella sua deliziosa assemblea delle spose, Abū Isḥaq Aḥmad ibn Muḥammad ibn Ibrāhīm aṯ-Ṯaʿlabī († 1035) descrive i popoli di Hāwīl e Tāʾwīl, stanziati alle estremità della larghezza della terra, e i popoli di Mansik and Nāsik, alle estremità della lunghezza della terra (ʿArāʾis al-maǧālis fī qiṣaṣ al-anbiyāʾ). Nella storia universale di Sibṭ ibn al-Ǧawzī († 1257), al-Iskandar viaggia in aẓ-Ẓulumat, la terra delle tenebre, in compagnia dei suoi consiglieri al-Ḫiḍr e Afšaḫīr, e quando esce dall'oscurità incontra i popoli di Hāwīl e Tāʾwīl (Mirʾāt az-zamān fī taʾrīḫ al-aʿyān).

La cosmologia presente nei racconti arabi non è sempre di facile confronto con quanto avevamo trovato nel racconto di Gilgameš: troppi elementi e apporti l'hanno ridisegnata; senza contare che al-Qurʾān, con il suo dettato della «sorgente del sole» [ʿayn aš-šamsi], che sorge e tramonta in una pozza fetida e melmosa, ha un po' – se ci si perdona il bisticcio – intorbidito le acque. Ma al fine di contestualizzare in un ambito più ampio il ǧabal al-Qāf e le città di smeraldo, dobbiamo spostarci in Īrān nel tentativo di trovare un po' di... chiarezza cosmologica.

DEMONIO, SOVRANO, FILOSOFO, PROFETA: I VOLTI PERSIANI DI ESKANDAR

La tradizione iranica non aveva molte ragioni per nutrire simpatia nei confronti di Aléxandros, su cui gravava il peso della memoria storica. I persiani non avevano dimenticato che il condottiero macedone aveva invaso l'Īrān, sbaragliato Dārayavauš III Haxāmanišiya (Dario III Codomano, 336-330 a.C.) e causato il crollo dell'impero achemenide. Aleksandar, Sikander o Eskandar era visto come un sovrano malvagio, campione della druǰ. La letteratura medio-persiana lo definisce goǰāstag, «odioso, dannato, maledetto» e lo classifica, con Dahāg/Zaḥḥāk e Frāsiyāk/Afrāsiyāb, tra i nemici storici del popolo iranico e i principali avversari della religione zoroastriana. (Saccone 1997 | Manteghi 2010)

L'immagine che gli ambienti medio-persiani avevano di Aléxandros è ben illustrato nell'incipit dell'Ardā Wīrāz-nāmag, uno dei lontani antenati letterari della Commedia dantesca:

ēdōn gōwēnd kū ēw-bār ahlaw zardušt dēn ī padīrift andar gēhān rawāg be kard tā bawandagīh [ī] sēsad sāl dēn andar abēzagīh ud mardōm andar abē-gumānīh būd hēnd Si narra che, in altri tempi, il santo Zardušt avesse diffuso in tutto il mondo la religione ricevuta [da Ohrmazd] e per trecento anni la religione rimase pura e gli uomini conservarono la fede.
ud pas gizistag gannāg mēnōg [ī] druwand gumān kardan ī mardōmān pad ēn dēn rāy ān gizistag aleksandar ī hrōmāyīg ī muzrāyīg-mānišn wiyābānēnīd ud pad garān sezd ud nibard ud wišēg ō Ērānšahr frēstīd u-š ōy ērān dahibed ōzad ud dar ud xwadāyīh wišuft ud awērān kard Poi, il maledetto spirito maligno [Ahriman], il dannato, per seminare il dubbio tra gli uomini e far loro perdere la fede, istigò il maledetto Aleksandar, di Hrōm [Bisanzio], che abitava in Meṣr [Egitto], in modo che venisse in Ērānšahr per portarvi l'oppressione, la guerra e la devastazione. Egli uccise i governatori di Ērān e distrusse la «porta dei re» [la capitale], e tutto rese desolato.
ud ēn dēn čiyōn hamāg abestāg ud zand [ī] abar gāw pōstīhā ī wirāstag pad āb ī zarr nibištag andar staxr [ī] pābagān pad diz [ī] nibišt nihād ēstād ōy petyārag ī wad-baxt ī ahlomōγ ī druwand ī anāg-kardār aleksandar [ī] hrōmāyīg [ī] muzrāyīg-mānišn abar āwurd ud be sōxt E la religione, l'Avestā e lo Zand, scritte in lettere d'oro su pelli di bue, era depositata negli archivi di Staxr-ī-Pābagān; e l'ostilità di colui che era destinato al male [Ahriman], il dannato, il malfattore, fece sì che [questi libri] venissero portati davanti a Aleksandar di Hrōm, che abitava in Meṣr, e vennero bruciati davanti a lui.
ud čand dastwarān ud dādwarān ud hērbadān ud mowbadān ud dēn-burdārān ud abzārōmandān ud dānāgān ī Ērānšahr rāy be kušt ud mehān ud kadag-xwadāyān ī Ērānšahr ēk abāg did kēn ud an-āštīh ō mayān abgand ud xwad škast [ud] ō dušox dwārist E [Aleksandar] uccise molti dastwarān, dādwarān, hērbadān e mowbadān e difensori della religione, e tutti gli eruditi e i saggi di Ērānšahr. E mescolando odio e dissidio, mise una con l'altra le nobili casate di Ērānšahr, e annientato anche lui, si precipitò all'inferno.

Ardā Wīrāz-nāmag [I: -]

Questa visione negativa del condottiero traspare in tutta la letteratura medio-persiana (si vedano anche il Denkard e, in misura minore, il Bundahišn). Aleksandar è dunque un personaggio ahrimanico che mette a dura prova l'esistenza stessa del popolo iranico e della sua religione. Gli si imputa la distruzione dei libri sacri dell'Avestā (i quali pare fossero andati distrutti nell'incendio della reggia di Pārša/Persépolis (Ardā Wīrāz-nāmag [I: -] | Dēnkart [3: ])) e l'uccisione di magi, sapienti e, in generale, di tutti i depositari della tradizione mazdea (i dastwarān, dādwarān, hērbadān e mowbadān). In seguito gli sarà anche imputata, sebbene a torto, la distruzione dei templi del fuoco. Nessun compromesso è possibile con Aleksandar, il goǰāstag. Nei testi medio-persiani non viene mai nominato come portatore di un ideale universalistico e di una civiltà cosmopolita, bensì soltanto di odî e divisioni.

Visti i lumi di luna, e la diffidenza iranica nei confronti del condottiero macedone, è possibile che la buona accoglienza che gli Arabi fecero subito al mito alessandrino, dove Ḏū ʾl-Qarnayn aveva finito per essere annoverato tra i profeti preislāmici, dipendesse da qualche vis polemica durante il periodo in cui l'Islām si trovò a convivere fianco a fianco con le minoranze zoroastriane. Solo con la graduale islāmizzazione dell'Īrān, l'immagine di Eskandar comincia a mutare anche in ambito persiano. Quando, e siamo ormai a cavallo tra il IX e il X secolo, il persiano aṭ-Ṭabarī scrive in arabo il suo Taʾrīḫ ar-rusul wa al-mulūk, le tradizioni islāmiche e quelle zoroastriane corrono fianco a fianco nella sua opera, illuminandosi a vicenda.

Ma sarà Ferdowsī, nel suo Šāhnāmè, a far giungere a completo sviluppo l'iranizzazione di Eskandar. Poiché Aléxandros era stato l'unico sovrano straniero, dall'Īrān primordiale all'avvento dell'Islām, ad ascendere al trono d'avorio, nella compilazione del suo poema Ferdowsī si trova di fronte all'urgenza della legittimizzazione di questo re rūmī, che la non sopita tradizione zoroastriana continuava a indicare come un empio usurpatore. L'identificazione del condottiero macedone con il Ḏū ʾl-Qarnayn qur˒ānico poneva, se non altro, sotto una luce diversa la distruzione dei templi del fuoco e quello dell'Avestā. Ferdowsī opera una censura della storiografia zoroastriana, riscrivendo la realtà storica in nome delle convenienze poetiche e politiche.

La tradizione tolomaica dei natali «egiziani» di Alexánder, figlio del faraone Nektanebṓ e della regina Olympiás (Bíos Alexándrou toû Makedónos α, β, γ [I: 1-8]), riappare nella letteratura siriaca e non era ignota agli autori arabi. È citata da al-Bīrūnī nel Kitāb al-ātār al-bāqiya ʿan al-qurūn al-ḫāliya. Tuttavia, accanto a questa versione, ne esisteva un'altra in cui al-Iskandar era di origine persiana. È citata dal solito aṭ-Ṭabarī, secondo cui il condottiero sarebbe stato il figlio illegittimo di Key Bahman, šāhan-šāh d'Īrān, sebbene cresciuto alla corte di Fīlakūs (Phílippos), re di Rūm (Taʾrīḫ ar-rusul wa al-mulūk). Ma ancor prima era stata attestata dal geografo, astronomo, matematico, storico e naturalista Abū Ḥanīfa ad-Dīnawarī (828-896), secondo il quale il padre di al-Iskandar sarebbe stato Dārā al-Akbār («Dārā il vecchio», cioè Dārayavauš II, ♔ 424-404 a.C.) (Kitāb al-aḫbār aṭ-ṭiwāl).

È possibile che la fonte di questa leggenda fosse il perduto Xwadāy-nāmag, il «libro dei signori», una cronaca medio-persiana, forse risalente al VI-VII secolo, dove si riportava l'intero ciclo regale iranico, dalle origini mitologiche all'epoca contemporanea. Non ne conosciamo esattamente il contenuto, ma sappiamo che conservava tradizioni in contrasto con quelle «ufficiali» sacerdotali. È possibile dunque che lo Xwadāy-nāmag avesse riservato ad Aleksandar un trattamento diverso, in tutto o in parte, da quello dei testi zoroastriani. Si ritiene – pur senza certezze – che questo libro sia stato tradotto in arabo dal mazdeo Rūzbih pūr-i Dādūyè, convertitosi all'Islām con il nome di Abū Muḥammad ʿAbd Allāh Rūzbih ibn Dādūya al-Muqaffaʿ († 756/757). È però probabile che del materiale tratto dallo Xwadāy-nāmag sia stato adattato in opere storiche arabe (aṭ-Ṭabarī in primis). Dallo Xwadāy-nāmag attinsero diversi autori persiano-classici per i loro šāhnāmè: Abū ʾl-Mūʾayyad di Balḵ, citato da Balʿamī nel X secolo; un certo Abū ʿAlī, pure di Balḵ, citato da al-Bīrūnī all'inizio dell'XI secolo; e Abū Manṣūr di Ṭūs, governatore del Ḵorāsān, che lavorò su fonti appositamente raccolte da alcuni sapienti zoroastriani (Bausani 1968). Questi tre šāhnāmè in prosa furono fonti dirette di Daqīqī e Ferdowsī. Abū Manṣūr Muḥammad ibn Aḥmad Daqīqī (935/942-976/980) fu probabilmente il primo poeta a tentare di scrivere uno šāhnāmè in metrica, ma non riuscì che a buttar giù un migliaio di versi: morì ucciso da uno schiavo e il suo lavoro fu ereditato a Ferdowsī, che ne incluse i versi nel suo Šāhnāmè.

Molti iranisti hanno presunto di poter ricostruire, almeno in parte, il contenuto dello Xwadāy-nāmag, confrontando gli episodi che Ferdowsī ha in comune con gli storici arabi. Ma tanto Ferdowsī, quanto gli storici arabi, erano musulmani: i racconti forniti dall'uno e dagli altri sono quindi, quanto minimo, oculatamente selezionati e adattati. (Ionescu 2012 | Manteghi Amín 2014)

Lamento di Eskandar alla morte di Dārā ( XVII sec.)
Miniatura da una copia dello Šāhnāmè di epoca ṣafawīyān (1502-1736).

Anche in Ferdowsī, Eskandar è di stirpe iranica. Nello Šāhnāmè, Key Dārāb (Dārayavauš II), dopo aver sconfitto Feylqūs (Phílippos), ne sposa la figlia Nāhīd (lezione persiano-classica del nome della dea Anāhitā/Anāhīd). Poco dopo il matrimonio, però, Dārāb ripudia la ragazza, a causa del suo alito cattivo, e la rispedisce a casa del padre. Ella è incinta e dà alla luce Eskandar. ①▼

Intanto lo šāhan-šāh Dārāb ha, da un'altra moglie, il figlio Dārā (Dārayavauš III, conosciuto alle fonti medio-persiane come Dārā-ī-Dārāyān), che succede al padre a dodici anni di età. Nel frattempo, Eskandar, divenuto re di Rūm, sceglie Arsṭālīs (Aristotélēs) come consigliere. Ma smette di pagare il tributo a Dārā figlio di Dārāb e muove guerra all'Īrān.

Dopo essere stato sconfitto in battaglia, Dārā cade in una congiura di palazzo, ucciso dai suoi consiglieri Māhīyār e Ǧānūšīyār. Eskandar arriva troppo tardi: ha appena il tempo di rivelare a Dārā la loro parentela e lo šāhan-šāh spira con la testa sulle ginocchia del fratellastro – scena frequente raffigurata nelle miniature persiane – pregandolo di sposare sua figlia Rowšanak. Eskandar fa innalzare un doḵmè – una «torre del silenzio» – per Dārā, secondo l'uso zoroastriano, poi sposa la principessa e si proclama legittimo šāhan-šāh dell'Īrān, in quanto appartenente alla stirpe dei Keyānīyān. Dopo aver portato a termine la conquista dell'India, Eskandar si reca in Arabia, compiendo una sorta di ḥaǧǧ alla Makka e completando l'identificazione con Ḏū ʾl-Qarnayn, profeta e coerente assertore della ḥanīfiyya ibrāhīmica. (Saccone 1997 | Manteghi 2010)

Al contrario del Ṣaʿb Ḏū Marāṯid sudarabico, l'Eskandar ferdowsiano è un messaggero di pace: utilizza la diplomazia più di quanto non faccia ricorso alle armi. Eskandar non è solo un nabī qurʾānico, ma soprattutto un re-profeta persiano. Se la tradizione zoroastriana lo aveva accusato di aver fatto strage della nobiltà iranica, in Ferdowsī Eskandar spartisce il regno tra i nobili dell'Īrān. L'immagine zoroastriana del re rūmī, feroce e devastatore, è ormai rovesciata.

Anche le famose spedizioni di Eskandar ai confini del mondo sono assai più articolate che non in Qurʾān [XVIII] e nei testi arabi più antichi. L'Eskandar ferdowsiano si muove dapprima a est e, giunto in Andalos, salpa sul mare esterno, dove avvista una montagna che si rivela essere il dorso di un pesce gigantesco. Dopo essere tornato indietro, dopo aver debellato giganti in Abissinia e un drago in Arabia, Eskandar decide di raggiungere l'estremo occidente, il luogo dove il sole tramonta. E qui, dopo essere penetrato nel Ẓolmat, la terra delle tenebre, si affida alla guida di Ḵeżr (trascrizione persiana di al-Ḫiḍr) e va alla ricerca della yanbūʿ al-ḥayāt, la «sorgente della vita». Ma quando arrivano a un bivio, ciascuno segue un sentiero diverso e solo Ḵeżr trova l'acqua che rende immortali: la beve e si dilegua. La sorgente scompare anch'essa e a Eskandar non resta che accettare la propria mortalità. I suoi compagni, che tornano dalle terra delle tenebre recando delle pietre, scoprono al ritorno che queste sono in realtà delle gemme preziose.

Eskandar ritorna in Īrān e in seguito erige la celebre barriera contro Yaʾǧūǧ e Maʾǧūǧ. Poco dopo, su una montagna, ha la visione di un morto seduto su un trono: ed è la stessa immagine di malik Sulaymān deceduto sul suo scranno che si era presentata agli occhi esterrefatti di Bulūqiyā. Difficile dire come questo tema si sia incastonato nel nostro ciclo: qui prefigura forse il destino dello stesso Eskandar, la cui breve ma turbinosa esistenza si avvicina ormai alla fine.

Con Ferdowsī, Eskandar è ormai elemento canonico del ciclo regale iranico. Gli scrittori successivi, liberi di approfondire il personaggio, lo iranizzeranno in modi assai più sottili. È il caso del grandissimo Ǧamal ad-Dīn Abū Muḥammad Ilyās ibn Yūsuf Neāmī (±1141-±1209). Di etnia probabilmente āzerī (all'epoca di lingua iranica) e di madre curda, Neāmī era nato a Ganǧè, nell'attuale Azǝrbaycan, all'ombra delle porte alessandrine di Darbend. Autore di pregevoli ġazal e qaṣīdè, egli deve la sua fama ai suoi cinque celeberrimi maṯnavi, noti anche come panǧ ganǧ, i «cinque tesori». Nel primo di essi il Maḵzan al-asrār, o «tesoro dei misteri», intreccia nell'eleganza dei suoi apologhi temi filosofici, teologici ed etici; con Ḵosrow o Šīrīn mette in scena una vicenda cavalleresca che ruota attorno all'impossibile passione tra un re sāsānide e una principessa armena; con Leylā o Maǧnūm definisce l'archetipo orientale di tutte le storie d'amore; nelle Haft Peykar, i «Sette ritratti», conduce i suoi lettori nel gioco di specchi erotico-planetario delle sue sette principesse, in una fantasia abbagliante di colori e di sensualità; e infine, nell'Eskandarnāmè, la sua opera più lunga e ideologicamente più complessa, Neāmī conduce il condottiero Eskandar da un angolo all'altro del mondo.

Neāmī afferma, nell'introduzione all'Eskandarnāmè, di essere stato spinto a scrivere la storia del condottiero rūmī da un colloquio avuto in sogno con lo stesso Ḵeżr, il quale lo aveva spinto a riprendere l'episodio alessandrino di Ferdowsī sottolineando la triplice dimensione di Eskandar: di politico, filosofo e profeta, secondo l'immagine dell'uomo ideale teorizzata da Abū Naṣr Muḥammad al-Fārābī (±872-±950). Neāmī si mantiene neutrale riguardo alla vexata quaestio sui natali di Eskandar. Egli ricorda la versione iranica della leggenda, dove Eskandar è il figlio di Dārāb, adottato da Feylqūs, ma riporta anche una versione nuova di zecca, che definisce «greca», dove Eskandar è il figliolo neonato di una donna che muore in mezzo al deserto; passa per caso Feylqūs, re di Rūm, il «miglior sovrano della terra», e lo raccoglie. Dopo aver riportato entrambe le leggende, Neāmī aggiunge però che, secondo lui, Eskandar era davvero figlio di Feylqūs. Al poeta di Ganǧè non serve imbastire una parentela con Dārā per fare di Eskandar il legittimo successore al trono d'avorio.

Il ragazzo viene educato dal filosofo Neqūmāḵos (Nikómakhos), padre di Arsṭālīs, mostra grande impegno e desiderio di conoscenza e, alla morte di Feylqūs, gli succede nel regno. Gli abitanti del Meṣr (gli egizi), avendo avuto notizia del suo senso di giustizia, lo chiamano in aiuto contro gli Zangihā (gli abitanti del Zangebār, o «costa dei negri»). Dopo una sanguinosa battaglia, Eskandar ammira il campo costellato dei corpi dei caduti e Neāmī effonde un grido incredulo e lucido di fronte all'inevitabile futilità della guerra:

 Con sguardo edificato [Eskandar] rimirò quegli uccisi, in apparenza ridendo di gioia, ma nascosto piangeva. Perché tante creature, pensava, in lotta feroce bisogna uccidere dunque con spada e con frecce? Se attribuisco a quei morti la colpa, non è cosa giusta, e pur se la prendo con me, sono ancora in errore!
Neāmī: Eskandarnāmè > Šarāfnāmè

Divenuto re del Meṣr, Eskandar si dichiara libero dall'ingiusto e pesante tributo che Rūm deve all'Īrān. Tuttavia, pur di evitare una guerra, tenta la via della diplomazia e invia a Dārā ricchissimi doni, ma questi rendono lo šāhan-šāh ancora più avido e invidioso. Il confronto armato è inevitabile. Eskandar passa con il suo esercito in Asia e incontra quello persiano in ʿIrāq. Dopo aver tentato invano di dissuadere Dārā dallo scendere in battaglia, Eskandar è costretto ad accettare lo scontro, e grazie alla sua superiore strategia, sbaraglia il nemico. Dārā ripiega ma, come da copione, cade in una congiura, colpito dai suoi stessi generali. Il dialogo tra Eskandar e lo šāhan-šāh morente è uno dei passi più efficaci del poema; Dārā riconosce Eskandar degno del trono d'avorio e lo prega di esaudire tre sue richieste: di succedergli alla guida dell'impero, di punire i suoi assassini e di prendere in sposa sua figlia Rowšanak. Il macedone adempie alle tre condizioni e si ritrova sovrano di un regno sterminato.

Neāmī è un troppo esperto conoscitore dei più sottili tropi del linguaggio poetico per limitarsi a una intronizzazione semplicemente politica, ed è col semplice ma significativo rendere omaggio al mausoleo di Key Ḵosrow, fondatore della dinastia dei Keyānīyān, che Eskandar viene legittimato šāhan-šāh dell'Īrān. Poi beve alla proverbiale coppa di Ǧemšīd, nella quale si riflette l'intero universo, e questa è la sua consacrazione a šāh-ǧahāndār, «re del mondo». Infine, per diffondere il monoteismo che ha ereditato dal suo antenato, il nabī Ibrāhīm, distrugge i templi zoroastriani e spegne i fuochi sacri. È solo a questo punto che Eskandar parte per le sue spedizioni attraverso i paesi della terra. Circondato da una corte di sapienti l'Eskandar neāmiano esplora i quattro angoli del mondo, ben tenendo l'Īrān al centro del suo compasso, e in tal modo va incontro al suo destino.

Ma Neāmī, il brillante poeta di Ganǧè, lo squisito stilista, il miniaturista della penna, il gioielliere della parola, l'autore delle più raffinate e leziose metafore della letteratura persiana, era anche un fine erudito, un difensore della scienza e della filosofia, un razionalista ante-litteram. E l'Eskandarnāmè è sostenuto da una precisa posizione ideologica: in un periodo in cui le autorità religiose contrastavano le posizioni dei filosofi, Neāmī difende il libero pensiero contro tutte le derive fondamentaliste. Il suo Eskandar è un personaggio complesso e sfaccettato, e i suoi viaggi rivelano un inesausto desiderio di conoscenza, un confronto con i limiti della propria umanità, un autentico spirito utopistico. È un viaggio etico, prima che epico.

Due secoli dopo Neāmī, anche il ṣūfī Nūr ad-Dīn ʿAbd ar-Raḥmān Ǧāmī (1414-1492) celebrerà Eskandar quale sovrano illuminato e apostolo della ḥanīfiyya. Ma allo spirito eclettico e «laico» del poeta di Ganǧè corrisponde in Ǧāmī una polemica antifilosofica e una difesa dell'interpretazione religiosa. Nel suo maṯnavi Ḵiradnāmè-i Eskandarī prevalgono gli apologhi morali, conferendo all'opera la funzione di un Fürtenspiegel, un testo didattico per l'ammaestramento dei sovrani. Dopo essersi confrontato con l'esempio di un principe che ha deciso di vivere da eremita, l'Eskandar di Ǧāmī s'incammina sulle onde del mare – come già Bulūqiyā nella fiaba araba – fino a raggiungere il ǧabal al-Qāf che circonda il mondo. Anche qui un faraštè (un angelo) lo mette al corrente di come invisibili radici o «vene» colleghino al-Qāf a tutte le regioni della terra: “Se l'ira di Allāh è sopra una regione, io la rimuovo attraverso questa vena dal suo posto. In un solo momento, semino il caos e stravolgo le sue fondamenta» (Ḵiradnāmè-i Eskandarī [p. 992, -]). ②▼

Ḵeżr e Ilyās ( XVII sec.)
Miniatura di epoca ṣafawīyān (1502-1736).

Sia in Neāmī che in Ǧāmī la spedizione di Eskandar alla ricerca dell'acqua della vita avanza attraverso Ẓolmat, la terra delle tenebre, e anche qui è Ḵeżr a trovare la fonte della māʾ al-ḥayāt, ed è lui, e non Eskandar, a bere alla fonte prodigiosa. Neāmī aggiunge anche un'altra tradizione, che afferma tramandata dai poeti di Rūm, secondo cui sarebbero stati Ḵeżr e Ilyās a cercare l'acqua della vita. La storia le conosciamo già: essi si fermano a mangiare un pesce, il quale però cade nel ruscello e... Ora, sia Ilyās che Ḵeżr godono di un'esistenza immortale e sono i protettori dei viandanti, l'uno sulla terraferma e l'altro sul mare. Nella versione di Ǧāmī, come anche nell'Āyena-e Eskandar del ṣūfī indiano Amīr Ḵusrow Dehlavī (1253-1325), tanto Ḵeżr che Ilyās sono compagni di Eskandar nella spedizione alla ricerca della vita.

Il terreno su cui ci stiamo muovendo è ben noto. Le affinità tra l'epopea di Gilgameš e le tradizioni dei viaggi di al-Iskandar/Eskandar sono state analizzate nei dettagli dagli studiosi. Esiste al riguardo una letteratura scientifica molto vasta, e non ci resta che rimandare a testi ben più paludati del nostro per eventuali approfondimenti. Giustamente nessuno ha mai preteso di identificare tout-court il condottiero macedone con l'antico lugal sumerico: ma è indubbio che il ricordo dello smagliante Aléxandros abbia attratto su di sé motivi mitici che permeavano la secolare cultura del Medio Oriente. Già le definizioni con cui Gilgameš veniva presentato nell'incipit dello Ša naqba īmuru, «colui che vide le profondità» e «percorse vie lontane», non stonano affatto addosso ad al-Iskandar/Eskandar. Il livello più superficiale di questo ciclo di narrazioni ci presenta una figura di sovrano che si spinge ai confini del mondo, ai confini dell'umano, cercando un modo per vincere la morte.

Ma il senso della spedizione è ancora più profondo. Gilgameš e al-Iskandar/Eskandar sono grandi signori sulla terra e soprattutto il macedone ha ultimato la missione di unire sotto di sé tanto l'oriente quanto l'occidente. Gilgameš e al-Iskandar/Eskandar hanno percorso l'intera ampiezza dello spazio: ora vogliono diventare signori del tempo. Non più limitati dalla morte, desiderano estendere il loro regno nel futuro remoto. Una presunzione che non ha soltanto un aspetto dimensionale: i due sovrani vogliono trascendere la loro natura umana e condividere l'essenza degli dèi.

Questo percorso si concretizza nella spedizione oltre i confini del mondo. Lo scopo – lo ricordiamo ancora una volta – è ritornare al giardino meraviglioso da cui l'umanità era stata esiliata all'inizio del tempo. È un luogo situato non solo all'esterno dello spazio, ma anche all'inizio della storia, dove ancora sussiste l'età aurea. È un percorso, quello di Gilgameš, di al-Iskandar/Eskandar e anche di Bulūqiyā, che li conduce in una terra disabitata oltre, il mare, nel luogo dove il sole sorge o tramonta e il mondo sfuma nell'oceano cosmico. Qui, alla «confluenza dei fiumi», si trova il giardino dove spunta l'albero della vita, fiorisce la pianta della giovinezza, sgorga la sorgente dell'immortalità. È il luogo dove Ūtnapištî e al-Ḫiḍr/Ḵeżr incrociano il loro diverso modo di aver superato la morte: il primo immortale dai tempi del diluvio, il secondo immortale fino al giorno del giudizio.

La leggenda islāmico-alessandrina vuole anche spiegare come al-Ḫiḍr abbia raggiunto il suo invidiabile status. L'intento crea però grossi problemi di coerenza letteraria. Le ragioni che impediscono a al-Iskandar/Eskandar di bere alla stessa sorgente a cui ha attinto al-Ḫiḍr appaiono spesso pretestuose. Il destino dei due personaggi segue una predestinazione metaletteraria, se non addirittura teologica. La morale, alla fine, è che a uno viene permesso di attingere alla sorgente e all'altro no. Inšāʾallāh, e non c'è altro da aggiungere. L'ironia in quest'ineffabile scelta divina è sottolineata da Neāmī in un distico divenuto proverbiale:

Eskandar, che l'acqua della vita a lungo cercò, non la vide,
ma l'acqua della vita giunse a Ḵeżr che non l'aveva cercata.
Neāmī: Eskandarnāmè > Šarāfnāmè [69: ]

Ma è ora di cominciare a localizzare il luogo dove si recano Gilgameš e Ḏū ʾl-Qarnayn/Eskandar. Prima di addentrarci nel cuore turbinoso del mito e ritrovare la strada per il giardino meraviglioso, dobbiamo però tirare un respiro lungo e comprendere la forma del mondo.

①▲ Lo stesso giorno nasce il cavallo destinato a essere montato da Eskandar, chiamato già in aṭ-Ṭabarī (A)būkefārasb (Bouképhalos). Nelle fonti greche esso ha una macchia a forma testa di toro sulla coscia, ma diviene una testa di leone in Ferdowsī.
 
②▲ Vi è anche un'Eskandarnamè, anonimo, in prosa, databile tra il XII e il XIV secolo, che identifica Eskandar con il Ḏū ʾl-Qarnayn qurʾānico. Il racconto mostra un'evoluzione verso le componenti esotiche e favoloshe e presenta una quantità di episodi secondari non più rapportabili né alla tradizione islāmica né a quella greca. Qui Eskandar esplora un gran numero di paesi meravigliosi (la terra dell'oro, dei giganti e dei cannibali, il paese delle streghe), è oggetto di intrighi e di avventure erotiche. Vi è nominata ancora la città di Ǧābalqā, governata da un re chiamato Šāhmalik e posta a ridosso del luogo dove sorge il sole. (Saccone 1997 | Wheeler 2002 | Wiesehöfer 2012)
L'ĪRĀN IN UN CONTESTO COSMOLOGICO. L'OIKOUMÉNĒ

L'Eskandarnāmè, il maṯnavī alessandrino di Neāmī, è diviso in due parti ben distinte tra loro: lo Šarāfnāmè, o «libro dell'onore», e l'Eqbālnāmè, o «libro della fortuna». I due tomi sono pure chiamati, specie in India, l'Eskandarnāmè-i barrī e l'Eskandarnāmè-i baḥrī, il «libro di Eskandar sulla terra» e «libro di Eskandar in mare», vista la netta separazione delle tipologie di viaggio operata da Neāmī (Chelkowski 1977). In realtà il nostro autore distingue, assai più sottilmente, il percorso dell'Eskandar condottiero da quello dell'Eskandar filosofo, e scinde il tema della vana spedizione alla ricerca della māʾ al-ḥayāt, l'«acqua della vita», che frustra le ambizioni del rūmī di superare i limiti della propria umanità, da quello delle sue esplorazioni dei confini del mondo, che è invece argomento della seconda parte del libro, la quale è anche conosciuta come Ḵiradnāmè, o «libro della saggezza». Terremo anche noi ben distinti i due percorsi, dimostrando come il viaggio conoscitivo ed esoterico di Eskandar si muova, dallo Šarāfnāmè all'Eqbālnāmè/Ḵiradnāmè, ampliandosi verso un superiore ordine di grandezza, dall'oikouménē al kósmos, ovvero, da un contesto geografico a uno cosmologico. Vedremo poi – una volta depurati i testi dalle interpretazioni «scientifiche» di Neāmī – come essi sottendano a una visione del mondo che attinge tanto alle concezioni avestiche quanto a quelle mesopotamiche.

Ma soffermiamoci sullo Šerāfnāmè. Le imprese di Eskandar, in questo primo tomo dell'Eskandarnāmè, segnano una serie di percorsi nelle quattro direzioni. Il punto di partenza e di arrivo è il regno di Rūm, nome con cui l'Oriente islāmico conosceva l'impero bizantino, e non poteva essere altrimenti viste le origini storiche di Aléxandros. Gli spostamenti di Eskandar tracciano uno schema a croce che ha il suo centro in Īrān e toccano alternativamente i quattro punti estremi del mondo abitato dagli uomini:

  1. Ovest. Eskandar parte da Rūm, si ferma in Meṣr [Egitto], poi arriva in Īrān, dove sconfigge Dārā.
  2. Sud. Compie il pellegrinaggio alla Makka, tocca lo Yaman e quindi risale verso il ʿIrāq e torna in Īrān.
  3. Est. Si reca in Hind e poi in Čīn, per poi ripiegare attraverso il Tūrkestān [la Transoxiana] per tornare in Īrān.
  4. Nord. Sale a Bardaʿ, nel Caucaso, e combatte contro i Rūs. Poi inizia il suo viaggio verso il settentrione...

Lo Šerāfnāmè sta ormai volgendo ai suoi ultimi capitoli quando Eskandar tiene udienza nella sua corte e ognuno dei sovrani vassalli vanta dinanzi a lui le attrattive del proprio regno. Per un ultimo parla un misterioso vecchio (nel quale si ravvisa lo stesso Ḵeżr), il quale dice:

 

“Di ogni terra, la migliore è la terra dell'oscurità,
nella quale scorre un'acqua che dà la vita.
Non pesare la tua vita con il peso dei tesori,
ché sui tesori polvere si accumula e su chi li custodisce.
Di rimanere a lungo sulla terra è il tuo desiderio,
e il desiderio può solo esaudirlo l'acqua della vita. [...]
C'è un velo [di tenebra] sotto la stella polare,
e sotto il velo una sorgente di limpida acqua.
Da questa tenebra, il cui nome è Ẓolmat,
sgorga fluente l'acqua della vita.
Chiunque beva quest'acqua di vita
la sua vita preserva dalla divoratrice del mondo.
Se fede non presti alle mie parole,
chiedi pure a qualche altro vecchio sapiente.”

Neāmī: Eskandarnāmè > Šarāfnāmè [68: - ... -]

Nelle fonti extrapersiane, e nello stesso Ferdowsī, l'episodio della māʾ al-ḥayāt veniva solitamente posto nel corso della spedizione verso i confini orientali o occidentali del mondo. La meravigliosa sorgente sgorgava nella terra delle tenebre, e questa, nelle fonti arabe, coincideva con l'ombra impenetrabile del ǧabal al-Qāf. Avendo separato i viaggi per «terra» del rūmī da quelli per «mare», o per meglio dire, quelli «geografici» da quelli «cosmologici», Neāmī non ha più alcuna ragione di collocare le prodigiose sorgenti nell'estremo oriente o nell'estremo occidente della terra. Nel tentativo di dare alla mitica Ẓolmat, la terra delle tenebre, una collocazione «scientifica», la localizza a settentrione, in un nord definito in senso astronomico, «sotto il polo celeste».

Eskandar si mette allora in marcia verso nord e, partendo dall'Īrān, attraversa l'immenso deserto della terra dei Bolġār (identificabile con il qanato protobulgaro fiorito tra il VII e il XIII secolo alla confluenza del fiume Kama con il Volga) e prosegue in direzione della stella polare. È un viaggio affascinante, quello con cui ci delizia Neāmī, un percorso insieme geografico e astronomico. Sono infatti l'eclittica e l'asse celeste a segnare il progredire del rūmī verso il nord, verso la tenebrosa terra di Ẓolmat:

 

Quando ebbero viaggiato per un mese verso nord
il tracciato del sole aveva mutato la sua posizione.
La sua luce filtrava bassa sotto il polo del cielo:
un chiarore che si accendeva e subito si spegneva.
L'eclittica era calata lungo il cerchio dell'orizzonte,
lo zenith coincideva ormai con il polo celeste.
Giunsero infine in un luogo dove la luce del sole,
come un fantasma in un sogno, era del tutto svanita.
Giunti veloci al confine del mondo,
nella terra delle tenebre innalzarono gli stendardi.
La terra carpiva chiarore dall'aria,
un velo di tenebra si stendeva su Ẓolmat.
Da un lato l'oscurità segnava il confine,
dall'altro un mare profondo chiudeva il cammino.
La sapiente guida li aveva guidati a nord,
nella direzione indicata dalla sfera celeste:
allontanandosi poco a poco dall'eclittica,
la luce si era fatta più remota a ogni passo.
Il percorso li condusse infine laddove
il sole si era reso del tutto invisibile.
L'oscurità si rivelò [a Eskandar], giunti alla meta.
“Il mondo è sgradevole, quando tutto s'abbuia”.

Neāmī: Eskandarnāmè > Šarāfnāmè [68: -]

Nel descrivere l'abbassamento dell'eclittica e l'elevarsi in verticale del polo celeste, Neāmī ci sta descrivendo il progredire verso nord sulla superficie di una Terra sferica, in modo coerente con le concezioni astronomiche del suo tempo. La sfericità della Terra, accettata dall'astronomia ellenistica fin dal III secolo avanti Cristo, era ben nota nel mondo islāmico mille anni più tardi. Quando il ḫalif Abū Ǧaʿfar ʿAbd Allāh al-Maʾmūn (♔ 813-833) aveva chiesto all'astronomo persiano Aḥmad ibn Muḥammad ibn Kaṯīr al-Farġānī di calcolare la circonferenza terrestre, questi gli aveva fornito una stima di 20˙376 miglia arabe, corrispondenti a 40˙248 km (recte: 40˙068 km). Un secolo e mezzo più tardi, lo sviluppo di nuovi metodi trigonometrici aveva permesso ad Abū ar-Rayḥān Muḥammad ibn Aḥmad al-Bīrūnī (973-1048) di definire la misura del raggio terrestre in 6339,6 km (recte: 6356,7), migliorando la stima di 6314,5 km compiuta da Eratosthénēs nel 230 avanti Cristo.

Per meglio illustrare il modello cosmologico degli astronomi islāmici, che è anche quello di Neāmī, ci rifacciamo a una nota che il ṣūfī Šaraf ad-Dīn Dāwūd ibn Maḥmūd ibn Muḥammad al-Qayṣarī († 1350) inserisce nel suo libro dedicato proprio al tema della ricerca dell'acqua della vita, il Taḥqīq māʾ al-ḥayaṱ fī kašf asrār aẓ-ẓulumāt. Ironicamente, gli editori hanno criticato l'inserimento di questa notazione «scientifica» in un testo teosofico, tanto più che contraddice in parte l'interpretazione simbolica del mito (Martini 2012); ma poiché a noi interessa più il substrato mitico che non le posteriori incrostazioni esoteriche, l'annotazione ci va a fagiolo:

 Nella scienza dei corpi celesti e delle misurazioni, è noto che il globo solare misura centosessantaquattro volte quello terrestre e, se questa è la situazione, di conseguenza più della metà della terra si trova di fronte al sole, e dunque ne è illuminata. Non v'è che un luogo sulla terra al quale la luce non giunga e dove quest'ultima non si diffonda almeno in una certa misura e questo luogo è sotto il polo settentrionale [al-quṭb al-šimālī] Questo è l'asse attorno al quale avviene la rotazione del sole e riceve [una luce] media tra il giorno e la notte. [Al polo] è giorno per sei mesi e notte per sei mesi, poiché per tre mesi il sole si alza finché non raggiunge l'elevazione massima e poi per tre mesi ridiscende e scompare [sotto la linea dell'orizzonte], proseguendo nella discesa per altri tre mesi, fino a ricoprire la distanza equivalente alla precedente, dopo di che torna indietro fino a raggiungere [nuovamente] l'orizzonte. In questi luoghi è difficile trovare degli animali a causa dell'estrema calura durante il giorno e dell'estremo freddo durante la notte. [Invece] la parte di terra situata di fronte al polo meridionale [al-quṭb al-ǧanūbī] è sommersa sotto le acque e le tenebre non sono visibili, così come la tenebra non persiste in tutti i luoghi che si trovano al di sotto del polo settentrionale.
Al-Qayṣarī: Taḥqīq māʾ al-ḥayaṱ fī kašf asrār aẓ-ẓulumāt [3]

La cosmografia abbozzata da al-Qayṣarī deriva dalla banale osservazione che la traiettoria diurna del sole non ha sempre la stessa altezza sull'orizzonte. Essa si alza e si abbassa nel corso dell'anno, raggiungendo la massima altezza nel solstizio d'estate e la minima nel solstizio d'inverno. Ma varia anche con la latitudine: andando verso nord, l'eclittica si abbassa e il corso del sole si avvicina all'orizzonte meridionale. Di conseguenza, salendo di latitudine, la durata del giorno e della notte varia sempre di più e, come i nostri geografi islāmici correttamente deducono, al polo nord il giorno dura sei mesi e la notte sei mesi. Secondo al-Qayṣarī, inoltre, abbassandosi sempre più il sole sull'orizzonte, la regione circumpolare godrebbe di una luminosità «media tra il giorno e la notte». Questo luogo è definito da Neāmī «terra semi-illuminata», da cui la bellissima descrizione che fa dell'affievolirsi della luce solare a cui va incontro Eskandar mentre sale verso nord. Ciò che manca ai nostri autori, oltre all'esperienza diretta delle regioni sopra il circolo polare artico, è la cognizione della rotazione della terra e dell'inclinazione dell'asse terrestre.

Il problema nasce dall'identificazione della regione polare, dove la notte dura sei mesi, con la mitica terra di Ẓolmat, dove le tenebre sono eterne. Qualche secolo dopo, l'instancabile viaggiatore maġribino ʾAbū ʿAbd Allāh Muḥammad ibn ʿAbd Allāh al-Lawātī aṭ-Ṭanǧī ibn Baṭṭūṭa (1304-1368/1369) localizzerà aẓ-Ẓulumat/Ẓolmat a quaranta giorni di cammino a nord di Bulġār/Bolġār, e la descrive come una terra tenebrosa, ghiacciata, nella quale i mercanti arrivano solo a fatica, a bordo di slitte trainate da cani (Tuḥfat al-naẓār fī ġarāʾib al-amṣār wa ʿaǧāʾib al-asfār). Tuttavia, con la sua digressione astronomica, al-Qayṣarī vuole evidentemente rispondere a una qualche polemica – che forse faceva capo alle osservazioni dei viaggiatori, come quelle riportate da Ibn Baṭṭūṭa – dove si cercava di collocare geograficamente la terra delle tenebre verso il polo settentrionale, e insieme ribadisce la natura spirituale e metaforica di aẓ-Ẓulumat/Ẓolmat, che corrisponderebbe – nella sua interpretazione – all'ottenebramento dello spirito e dell'intelletto, non certo a una regione geografica. Ma che dire dell'interpretazione di Neāmī?

Il poeta di Ganǧè si rende ovviamente conto di questa difficoltà e descrive il trapasso dalla «terra semi-illuminata» alla regione di buio totale con colorite metafore cromatiche, senza però spiegare nei dettagli cosa stia accadendo:

 

Quando cadde la notte, la terra semi-illuminata
cambiò in muschio nero il legno di aloe.
La sfera si confuse come la sabbia calpestata da un folle
e il kašmirī divenne uno zangī [negro].
La strada si fece più sottile di un capello;
e l'oscurità più buia della notte.

Neāmī: Eskandarnāmè > Šarāfnāmè [68: -]

In precedenza, Neāmī aveva descritto il progredire di Eskandar verso il nord con il distico «da un lato l'oscurità segnava il confine / dall'altro un mare profondo chiudeva il cammino» [68: ]. Sebbene alcuni studiosi avessero letto questa allusione al «mare profondo» nel senso di un arrivo di Eskandar sulla sponda del Baḥr al-muḥīṭ, l'oceano onniavvolgente (Clarke 1881), tale interpretazione ha poco senso, visto che il macedone sta avanzando attraverso il cuore dell'Eurasia: il «confine» e il «mare profondo» sono a nostro avviso le masse di oscurità che si addensano ai lati del sentiero. La vecchia guida, che tra poco si scoprirà essere Ḵeżr, sta guidando Eskandar lungo un percorso sempre più tenebroso. Arrivati al confine con Ẓolmat, in cui la luce ha cangiato la sua carnagione, dall'olivastro al nero, e si è fatta «più buia della notte», una massa di oscurità preme addosso a Eskandar, ed è talmente densa che il sentiero appare più sottile di un capello. A questa strana via, tuttavia, Neāmī aveva accennato in precedenza, in un inciso piuttosto interessante: «vicino a Ẓolmat c'è una montagna alla quale mena una strada sottile come un capello» [63: ].

La presenza di questa montagna comincia a delineare le ragioni dell'oscurità. Sebbene Neāmī non la chiami mai con il nome del ǧabal al-Qāf, è evidente che il mitema è analogo. Eskandar si sta recando verso una sorta di montagna polare, talmente immensa da cancellare del tutto la luce del sole... o quel poco che ne arriva in latitudini tanto estreme. E come il ǧabal al-Qāf sostiene il cielo, anche questa montagna funge da axis mundi: è il perno intorno al quale rotea tutto il firmamento, quello che gli astronomi persiani chiamano, con affascinante ellenismo, falak al-Aṭlas, il «cielo di Átlas». La montagna coincide con «l'asse attorno al quale avviene la rotazione del sole» a cui aveva accennato Al-Qayṣarī (Taḥqīq māʾ al-ḥayaṱ fī kašf asrār aẓ-ẓulumāt [3]). Il luogo viene descritto da Neāmī in termini di concavità: sembra una sorta di «grotta» quella in cui il manipolo di Eskandar sta accedendo, anche se forse l'immagine è solo dovuta al fatto che la montagna è talmente grande da occupare l'intera volta celeste, apparendo essa stessa come una cupola. E il sentiero sottile come un capello ricorda il ponte escatologico Ṣirāṭ che nello yawm ad-dīn i risorti dovranno solcare per arrivare all'altro mondo. Per il beato, il ponte è una strada ampia e comoda che lo mena al delizioso giardino di Ǧannaṱ; ma sotto i passi del dannato, il ponte si assottiglia fino a farsi sottile come un crine, facendogli perdere l'equilibrio e facendolo precipitare tra le fiamme del Ǧahannam. Ma teniamo d'occhio questo ponte, come il monte-asse a cui è collegato: l'uno e l'altro ci daranno altre informazioni preziose.

Arrivati sul confine della tenebrosa terra di Ẓolmat, Eskandar si chiede come faranno a ritrovare la strada del ritorno. Ḵeżr gli propone un metodo infallibile, per quanto crudele: entrare in Ẓolmat con una cavalla che abbia da poco figliato e uccidere il suo puledro sul limitare delle tenebre: l'amore materno farà infallibilmente ritrovare la strada del ritorno all'animale. Eskandar entra così nel buio «celandosi come la luna nelle fauci del drago» (Eskandarnāmè > Šarāfnāmè [69: ]). “D'ora in poi sei tu il nostro capo, nessuno è sopra di te” dice Eskandar a Ḵeżr. Gli raccomanda di procedere per primo, facendosi luce con lo splendore di una speciale gemma. “E quando troverai l'acqua della vita, bevi. Poi mi condurrai alla sorgente, e io ti ricompenserò.” E Ḵeżr, «colui che verdeggiando avanza», si muove dinanzi al drappello, tenendo davanti a sé la gemma. La marcia nel Ẓolmat dura quaranta giorni. Poi, Ḵeżr vede una sorgente sgorgare dalla roccia. La scena esce dalla penna di Neāmī, vivace e suggestiva:

 

La sorgente si profilò d'argento,
argento liquido che sgorgava dal cuore della roccia.
Non una semplice sorgente... che parola lontana dal suo senso!
era una sorgente di luce, certo non d'acqua.
Era forse come la stella del mattino?
come la stella del mattino era la sorgente.
Era forse come la luna piena nella notte?
come la luna piena e ancora più brillante.
E il suo flusso non certo facile da cogliere:
era come mercurio nella mano di un vecchio paralitico.
Descrivere la sua purissima natura, io non saprei,
non trovo paragoni, né forme di confronto.
Quel fulgore non brilla certo in ogni gemma:
la potremmo chiamare tanto acqua quanto sole.

Neāmī: Eskandarnāmè > Šarāfnāmè [69: -]

Ḵeżr beve alla sorgente e subito si sente trapassare alla vita immortale. È davvero la māʾ al-ḥayāt, quella che ha trovato, l'«acqua della vita». Il vecchio ne dà da bere al suo cavallo, poi si volta per avvertire Eskandar, ma la sorgente scompare. Il vecchio riconosce da quel segno che Allāh nega al re l'immortalità, dopo averla invece concessa a lui. Ed è per questo, non certo per timore di una punizione, che decide di non far più ritorno al suo cospetto.

Un farastè compare quindi dinanzi a Eskandar e lo invita a tornare indietro. “Del mondo tutto intero ti sei impadronito e la tua mente non è ancora sazia di vane fantasie?” [69: ], lo investe l'angelo, e aggiunge:

Eskandar, che l'acqua della vita a lungo cercò, non la vide,
ma l'acqua della vita giunse a Ḵeżr che non l'aveva cercata.
Neāmī: Eskandarnāmè > Šarāfnāmè [69: ]

Nelle rappresentazioni geografiche persiane, ai tempi di Neāmī, s'intersecavano due diverse immagini del mondo. Alcuni geografi seguivano la concezione ellenistico-tolemaica trasmessa dai geografi arabi – presente nel Kitāb nuzhat al-muštāq fī iḵtirāq al-āfāq, «Il sollazzo per chi si diletta a girare il mondo» (✍ 1153), del berbero Muḥammad al-Idrīsī (1099-1165) –, secondo la quale la terra abitata andava suddivisa in sette fasce climatiche, parallele tra loro, chiamate in greco klíma, «inclinazione» (da intendersi l'inclinazione apparente del cielo con il progredire della latitudine), parola passata in arabo nella forma aqlīm, persiano eqlīm. Nel seguente mappamondo sferico, costruito secondo le concezioni geografiche islāmico-persiane, evidenziamo i sette «climi». Ẓolmat va da identificarsi con il polo settentrionale:

Il greco ha una bella parola, assai compatta, per indicare l'insieme delle terre abitate dall'uomo: oikouménē. Il lettore non si dispiacerà se, da qui in poi, la utilizzeremo come «termine tecnico», in contrasto con kósmos, con il quale indichiamo la terra nella sua struttura cosmologica. L'oikouménē è una piccola parte del kósmos.

In persiano classico, la terra abitata dall'uomo (oikouménē) veniva definita Ḵonīras (a volte, nella formula Ḵonīras-e bāmi, la «splendida Ḵonīras»). Questo termine risale ai primordi della civiltà iranica: deriva infatti dal medio persiano Xwanirah, a sua volta dall'avestico aniraθa. Nelle fonte più tarde, Ḵonīras appare divisa a sua volta in sette «regioni», dette kešwar in persiano medio e classico (a loro volta da un avestico karvąr, cfr. karš- «arare, tracciare i confini»). Al centro di Ḵonīras si collocava Ērānšahr (dall'antico persiano *Aryānām Xšaθra), o Ērān, la terra degli Irani (avestico Airya-, medio persiano Ēr-). Intorno ad Ērānšahr, i sei kešwarān nei quali l'etno-geografia iranica ripartiva il resto del mondo abitato (anērān, «non-iranico»). Il aniraθa/Xwanirah/Ḵonīras era a sua volta circondato dall'oceano onniavvolgente, chiamato in medio persiano Warkaš o Fraxwkard (avestico Vourukaa); solo nel periodo classico entrerà nel lessico l'arabismo Baḥr-i-moḥīṭ.

Nonostante l'antichità della struttura e della sua terminologia, la divisione dello Xwanirah/Ḵonīras in sette kešwarān compare solo nelle speculazioni medio-persiane, che i cosmografi d'epoca sāsānide avevano rielaborato a partire dalle antiche cosmologie mazdee. Esse traevano la loro autorità dall'etnogenesi stabilita negli equivalenti iranici delle «tavole delle nazioni». Ecco ad esempio, la redazione minore o «indiana» del Bundahišn VIII-IX sec.), dove si narra della moltiplicazione del genere umano dai comuni progenitori Mašya e Mašyānē, della distinzione dei popoli e della loro migrazione nelle sedi storiche:

u-šān haft ǰuxt aziš būd hēnd nar [ud] mādag. hamāg brād ud xwah nar [ud] zan būd hēnd. u-šān har ē pad panǰāh sāl frazand azist zād hēnd, ud xwad pad sad sālag be murd hēnd. az ān haft ǰuxt ek siyāmak nām [ī] mard ud zan wašāg. u-šān ǰuxt-ē aziš zād, kē mard frawāg ud zan frawagēn nām būd hēnd. az awēšān panzdah ǰuxt zād hēnd kē har ǰuxt-ē sardag-ē būd hēnd. u-šān purr-rawišnīh paywand [ī] gēhān aziš būd.E da quelli [Mašya e Mašyānē] nacquero sette coppie, maschio e femmina, ciascuna di un composta fratello e di una sorella-sposa, e ciascuna coppia, a cinquanta anni, ebbe dei figli, e a cento anni morì. Di queste sette coppie, Siyāmag era il nome dell'uomo e Wašāg quello della donna, e da essi nacque un'altra coppia, i cui nomi erano Frawāg l'uomo e Frawagēn la donna. Da essi nacquero quindici coppie, da ognuna delle quali discese una stirpe [sardag]; e da costoro, con il perpetuarsi delle generazioni, il mondo venne popolato.
az har pānzdah sardag īšān nō sardag pad pušt ī gāw ī srisōg, pad ān ī frāxwkard zrēh, ō ān šaš kišwar dudīgar widārd, ud ānōh būd hēnd. ud šaš sardag mardōm pad xwanirah mānd hēnd. az ān šaš sardag ǰuxt-ē mard tāz ud zan tāzag nām būd hēnd, ud [pad] dast ī tāzīgān šud hēnd. ud ǰuxt-ē hōšang mard ud zan gūzag nām, u-šān ērānagān az awēšān būd hēnd. ud ǰuxt-ē māzandarān aziš būd hēnd, pad āmār, ān ī pad ērān dēhān. ān ī pad anēr deh: ān ī pad tūr dēhān, ān ī pad salm deh, ast ī hrōm. ān ī pad sind deh, ān ī pad čīnestān, ān ī pad gāy deh, ān-iz pad šaš kišwar, hamāg az paywand frawāg ud siyāmak ud mašī hēnd.

Mentre si moltiplicavano le quindici stirpi, nove di esse si spostarono sul dorso del bue Srisōg, attraversarono [l'oceano] Frāxwkard, si spostarono sugli altri sei kešwarān e si stabilirono lì. Le rimanenti sei stirpi umane rimasero in Xwanirah. Tra queste sei stirpi, il nome dell'uomo di una coppia era Tāz, quello della donna Tāzag ed essi andarono nella terra dei Tāzīgān [gli Arabi]. Il nome dell'uomo di [un'altra] coppia era Hōšang e quello della donna Gūzag, e da loro discendono gli Ērānagān [gli Irani]. Da un'altra coppia discendono i Māzandarān. Questo il novero di coloro che erano nella terra di Ērān. E questi coloro che erano nelle terre anērān: quanti erano nel paese di Tūr, quanti erano nel paese di Salm, cioè Hrōm, quanti erano nel paese di Sind, quanti erano nel Čīnestān, quanti erano nel paese di Gāy. Tutti coloro che abitano nei sette kešwarān sono tutti della stirpe di Frawāg, figlio di Siyāmag, figlio di Mašya.

Zand-āgāhīh Bundahišn [15: -]

Questo testo applica due divisioni: la prima, tra coloro che rimasero in Xwanirah e coloro che attraversarono l'oceano Frāxwkard. Questi ultimi sono gli antenati dei mitici popoli proiettati ai confini cosmologici del mondo. La seconda divisione, riguarda coloro che erano rimasti in Xwanirah, i quali daranno origine alle nazioni della terra: Ērānagān (Irani), Tāzīgān (Arabi) e Māzandarān (abitanti del Ṭabarestān) sono – secondo il Bundahišn – i tre popoli che abitano in Ērānšahr; i popoli anērān («non-iranici») sono invece: Turān/Turkān (turchici), Hrōmāyīgān (greci), Hindūgān o Sindīgān (indiani), Čīnegān (cinesi) e Gāyīgān (ebrei). In epoca medio-persiana e, soprattutto, persiano-classica, i geografi daranno dettagliate ripartizioni dei regni e dei popoli del mondo nei sette kešwarān. Non è necessario entrare nei dettagli, tanto più che gli autori sono raramente d'accordo con loro. Lo stesso Neāmī definisce un sistema di sette kešwarān o eqlīm (egli usa i due termini come sinonimi) nel suo maṯnavī Haft peykar, dove ciascuna delle sette affascinanti spose del re Bahrām Gūr è originaria di un diverso «continente», e questi sono: (I) Hindūstān, (II) Rūm, (III) Ḵārezm, (IV) Ṣaqlāb («Slavonia»), (V) Barbaristān, (VI) Čīn e (VII) Īrān. Il dizionario Burhān-i Qāṭiʿ dà invece un novero appena diverso: (I) Hindūstān, (II) Čīn e Ḵaṭā, (III) Tūrkistān, (IV) ʿIrāq e Ḵorāsān (e quindi l'Īrān), (V) Ḵwārezm, (VI) Rūm, (VII) Ẓolmat.

Il poeta-geografo Ḥamdallāh Mustawfī Qazwīnī (1281–1349), nel suo Nozhat al-qolub, tira le fila dell'argomento e, prima di fornirci un resoconto dettagliato di tutto il mondo a lui conosciuto, regione per regione, eqlīm per eqlīm, ci fornisce un rapido sunto etnogeografico, che è quanto ci basta in questa sede:

 La terra è divisa in sette kešwarān, a forma di sette cerchi, uno al centro e gli altri sei che lo circondano separatamente. Il primo di questi, a sud, è il Sind [India]; il secondo comprende i Tāzīgān [Arabi], con Yaman e Habaš [Abissinia]; il terzo Šūr, Meṣr e Barbarestān [Siria, Egitto e Maġrib]; il quarto, che è il kešwar centrale, è l'Īrānistān; il quinto è il kešwar di Rūmiyān, Farangān e Rūsiyān [Greci, Franchi e Russi]; il sesto comprende Turkān e Ḵazarān [Turchici e Xazari], mentre il settimo è il kešwar di Čīn, Ḵaṭā e Tabat [Cina, Kotan e Tibet].
Ḥamd-Allāh Mustawfī Qazwīnī: Nozhat al-qolub [3, 1]

Possiamo trarre un diagramma da tali informazioni, integrandole con i dati forniti da al-Bīrūnī:

  1. Sud-est. Hind o Sind (Hindūstān), «India».
  2. Sud-ovest. ʿArabestān (< Arwāstān), «Arabia» | Yaman | Habaš (Habašistān), «Abissinia, Etiopia».
  3. Ovest. Šūr/Ašūr (Šūrestān/Ašūrestān), «Siria/Assiria» | Meṣr, «Egitto» | Barbarestān, «Barberia, Maġrib».
  4. Centro. Īrān
  5. Nord-ovest. Rūm (o Yūnān), «Bisanzio/Grecia» | Farang (Farangestān), «[terra dei] Franchi» | Rūs o Ṣaqlāb, «Russi/Slavi».
  6. Nord-est. Tūr(k)estān, «terra dei popoli turchici» | Bolġar (Bolġarestān), «Balğarestan» o «[terra dei] Bulgari del Volga» | Ḵazar, «Xazari».
  7. Est. Čīn (Čīnestān), «Cina» | Tabat, «Tibet».

Possiamo ora tracciare una mappa dell'itinerario di Eskandar alla ricerca della sorgente della māʾ al-ḥayāt, secondo lo Šarāfnāmè di Neāmī. Varcato il mar Caspio, Eskandar si muove in direzione nord, lungo la linea di separazione tra i kešwarān V e VI. Superata la terra dei Bolġar egli procede verso settentrione, attraverso il disco di Ḵonīras. La mappa che riportiamo qui sotto, disegnata estrapolando la topografia medio-persiana all'alba della cultura islāmica, non è in proiezione, essendo costruita su una rappresentazione «piatta» del mondo. I kešwarān esterni, solitamente immaginati di forma circolare, sono qui definiti – con un po' di arbitrio da parte nostra – da linee equidistanti poste a 60° l'una dall'altra. Per capire come Neāmī possa riuscire a identificare Ẓolmat con il polo nord, collocando questo punto sulla perpendicolare dell'asse terrestre, sotto la stella polare, dobbiamo sovrapporvi la tavola precedente. Dall'insieme delle due concezioni scaturisce la cosmografia neāmiana.

L'ĪRĀN IN UN CONTESTO COSMOLOGICO. IL KÓSMOS

Se lo Šarāfnāmè narra le spedizioni di Eskandar attraverso l'intera estensione del mondo abitato dagli uomini (Ḵonīras), nel secondo libro del suo maṯnavī alessandrino, l'Eqbālnāmè, Neāmī amplia la visuale, sale di un ordine di grandezza, e invia il suo eroe ben oltre i limiti del mondo abitato. Si passa così dall'oikouménē al kósmos.

Dopo aver fallito nella propria ricerca dell'acqua della vita, ridimensionato nel proprio orgoglio, Eskandar è tornato in Rūm e i sette maggiori filosofi affollano la sua corte, e cioè, anacronisticamente: Arsṭālīs, Wālīs, Balīnās, Soqrāṭ, Farfūrīyūs, Hermes e Aflāṭūn (Aristotélēs, Thalḗs?, Apollṓnios Tyaneús, Sōkrátēs, Porphýrios, Herms Trismégistos e Plátōn), che è chiamato «maestro di tutti». Sono fiumi di sapienza quelli a cui il grande rūmī ora si disseta. Dopo una lunga parte normativa, Eskandar decide di partire per la sua missione profetica e si mette in cammino da Rūm, diretto verso occidente. Attraversa il Meṣr, il Maġrib e giunge in Andalos. Eskandar si trova così dinanzi alla distesa oceanica. Decide di mettersi in mare e passare oltre. È un brano davvero sorprendente quello che Neāmī ci propone:

 Per tre mesi, [Eskandar] navigò con i suoi per il mare, da esso soltanto traendo i viveri, e la prua tenendo sempre volta là dove il sole tramontava. Molte isole scoprì interamente spopolate, sbarcandovi per esplorarle palmo a palmo. Molte creature gli si fecero incontro, vuoi umane, vuoi di altre specie, ma nessuna si mescolò con i suoi, anzi, subito fuggivano da un monte all'altro a gambe levate. Finalmente, dopo un lungo navigare, il declivio di una terra riapparve all'orizzonte. Era un nuovo deserto, dalla sabbia straordinariamente luminosa, che non era fatto d'altro che d'argilla gialla...
Neāmī: Eskandarnāmè > Eqbālnāmè

Ma dov'è arrivato Eskandar? Il testo non sembra lasciare dubbi. Partito dalla costa ispanica, diretto verso occidente, si direbbe abbia scoperto un altro continente! Ma prima di pensare ad Eskandar inopinato precursore di Colombo – come hanno avanzato alcuni ingenui interpreti – dobbiamo imporci prudenza e ricordare a noi stessi che non siamo mai usciti dalla scenografia dei miti. Anche Gilgameš, dopo aver traversato il «mare» [tâmtu] e le «acque della morte» [mê mūti], era giunto nel Pû-nārāti, alla «bocca dei fiumi», nella lontana terra dove abitava Ūtnapištî. Ciò che stiamo inseguendo sembra essere appunto il mito di una terra posta oltre l'oceano.

Una volta sbarcato in questa «America» ante-litteram, Eskandar si mette in marcia con i suoi uomini attraverso il deserto. La sabbia, che sembra fatta di zolfo, emette fiamme e scintille sotto gli zoccoli dei cavalli. Dopo aver galoppato per un mese su quella distesa abbagliante, davanti al rūmī si profila una nuova distesa marina. Scrive Neāmī:

 Dinanzi a quella profonda distesa d'acqua, che i Greci chiamano Baḥr-i-Oqiyānūs, Eskandar rimase sbalordito: essa circondava il mondo intero sollevando ondate spaventose sicché, chiaramente, non era dato a nessuno di poter proseguire oltre. Qui, in questo mare profondissimo, il tramonto del sole all'orizzonte non pareva più nascosto a nessuno, ché se pur un magico velo ricopriva quella distesa, esso non nascondeva però agli occhi umani il luccichio del sole che vi affondava. Ebbene il cielo, al volgere d'ogni giorno, precipitava il globo di luce nella sua sorgente marina, lontano dai nostri occhi; e noi uomini, in effetti, al tramonto del sole, abbiamo appena un indizio di questa sorgente e di quell'immenso mare.
Neāmī: Eskandarnāmè > Eqbālnāmè

Il tema della «sorgente del sole» [ʿayn aš-šamsī], dove l'astro si tuffa al tramonto, ha la sua autorità nel Qur˒ān, dove già abbiamo letto riguardo a Ḏū ʾl-Qarnayn: «E quando giunse all'[estremo] occidente, vide il sole che tramontava in una sorgente ribollente» [Ḥattá iḏā balaġa maġriba aš-šamsi waǧadahā taġrubu fī ʿaynin ḥamiʾatin] (al-Qur˒ān [XVIII: ]). Ma pare che il tema sia di origine preislāmica, se possiamo fidarci della citazione che Muḥammad ibn Isḥāq attribuisce ad Abū Karib Asʿad: «[Ḏū ʾl-Qarnayn] vide dove il sole affondare sotto gli occhi in una pozza di fango e di fetida melma» (Sīrat rasūl Allāh). È anche il «mare fetido» [yamā saryā] del siriaco Neṣḥānā d-leh d-ʾAleksandrōs.

Ma il dettaglio curioso è che Neāmī definisce questo nuovo mare, che si spalanca davanti agli occhi di Eskandar, baḥr-i-oqiyānūs, il «mare Ōkeanós». L'uso di questo termine di origine greca doveva creare un'impressione di maggior lontananza e antichità rispetto agli equivalenti arabo-iranici che Neāmī aveva a disposizione. L'autore distingue così due regioni oceaniche concentriche. Un primo mare, il più interno, circonda Ḵonīras, la terra degli uomini: e questo è l'oceano terrestre; un secondo mare, posto al di là delle isole e dei continenti esterni, è l'oceano cosmico tout-court. Se il mare interno lo aveva definito semplicemente baḥr, per il mare esterno Neāmī utilizza il forestierismo, l'ellenismo, il baḥr-i-oqiyānūs.

L'inesausto Eskandar vorrebbe mettersi in mare ancora una volta, attraversare anche questo baḥr-i-oqiyānūs e andare a scoprire il mistero della «sorgente del sole». I suoi sapienti lo sconsigliano: l'acqua è densa come il mercurio, le onde sono possenti e le correnti tremende: nessuna nave riuscirebbe a navigare su quell'oceano insidioso. Vi è inoltre un mostro marino (memoria del Gaṇdǝrǝβa- avestico? (Yašt [V: 38])) che sale dai neri pozzi dell'abisso e non lascia scampo. Ma il più tremendo pericolo, spiegano a Eskandar, viene dalle innumerevoli pietre, scintillanti di colori vivi e accesi, che ricoprono il litorale. È così incontenibile il piacere che si sprigiona alla loro semplice vista, che solo a guardarle si muore di gioia. E concludono i sapienti: “Perciò i piloti, accusandolo di sottrarre la vita ai naviganti, chiamano questo mare baḥr-i-mard, la «distesa della morte»”. Ed eccoci di nuovo alle mê mūti, le «acque della morte», di babilonica memoria.

A fatica distolto dalla sua intenzione di avventurarsi sul baḥr-i-oqiyānūs, Eskandar si mette in cammino attraverso il deserto. Il seguito non fa che testimoniare l'interesse per il favoloso e l'esotico che animava gli scrittori arabi e persiani alla fine dell'epoca selçukide. Una volta che Eskandar è tornato dall'occidente, Neāmī, simmetricamente, gli fa esplorare il mondo anche a sud, a est e a nord, intrecciando l'inesausto piacere dell'affabulazione agli apologhi filosofici e morali. Egli risale il Nilo fino alle sue sorgenti, arriva a una montagna che chiunque scali scompare nel nulla, incontra popoli semiumani corrono veloci come fiere e si cibano del sangue di draghi caduti dal cielo. Più tardi arriva alla favolosa città di Iram, e si riposa nei suoi giardini, in cui l'antico re Šaddād aveva piantato alberi d'oro, dai frutti d'ambra, di perle e rubino, «e da ogni parte pendevano mele e melagrane, né si capiva se fossero melagrane simili a rubini o viceversa!». Più tardi, Eskandar arriva in un villaggio di adoratori di teschi dalle usanze raccapriccianti, attraversa un sentiero di pietre aguzze che spezzano i ferri dei cavalli, varca un torrente pieno di diamanti sorvegliati da serpenti, e giunge in una terra dai campi fertili ma perennemente abbandonata perché i suoi abitanti non riescono ad accordarsi sulla spartizione dei raccolti... (Eskandarnāmè > Eqbālnāmè). Ma non dobbiamo troppo indugiare su questo materiale o rischiamo di essere attirati assai lontano dal nostro argomento.

Al poeta di Gānǧè non interessa seguire il percorso su una carta geografica e non è chiaro se, tra una spedizione e l'altra, Eskandar ritorni ogni volta alla base (in Rūm o in Īrān) prima di ripartire per un nuovo viaggio, o se il suo sia un unico, vastissimo periplo. Nessuno dei paesi visitati da Eskandar può essere ricondotto con certezza a una geografia reale, con l'eccezione del viaggio a oriente, in cui riconosciamo l'Afġanistān e il Čīnestān: poi Eskandar salpa di nuovo per mare, questa volta in direzione dell'alba, e torniamo di nuovo in un contesto cosmologico:

 Quindi si staccò dal litorale, prese il largo spingendo la nave sul mare infinito e su quelle acque salmastre attraversò un mondo nuovo dopo l'altro, mentre la sorte intanto gli mandava incontro prove tremende. Infatti, dopo un po' che le navi scivolavano placide sull'onda, ecco si produsse un gigantesco tifone a sconvolgere il mare e le correnti d'acqua cominciarono a spingere in direzione del Baḥr-i-moḥīṭ. [...]. D'un tratto, un'isola di lontano apparve ai loro occhi, qualcosa che luccicava come un punto di luce, e lì riuscirono ad approdare trovando un po' di tregua, ancora intimoriti dal tifone oceanico. A quel punto, uno dei marinai anziani così parlò all'esperto sovrano: “Quest'isola è una stazione pericolosa e, secondo le carte nautiche, è comunque l'ultimo approdo possibile. Non essere temerario o re, ché le correnti di queste profonde acque spingono inesorabilmente al largo verso il Baḥr-i-moḥīṭ! Se andremo anche solo un po' oltre in quella direzione, sii certo che non troveremo più altri approdi”.
Neāmī: Eskandarnāmè > Eqbālnāmè

Mentre a occidente, il mare esterno veniva chiamato baḥr-i-oqiyānūs, a oriente ricompare il termine di origine araba baḥr-i-moḥīṭ. Eskandar vorrebbe varcare anche questo nuovo mare esterno ma viene bloccato dal giudizio dei suoi sapienti e dei suoi marinai. La distinzione tra i due idronimi è però artificiosa, un guizzo di erudizione gocciolato dalla penna di Neāmī: sia il baḥr-i-moḥīṭ sia il baḥr-i-oqiyānūs sono nomi che si riferiscono allo stesso oceano onniavvolgente che la cosmografia tradizionale iranica chiamava Warkaš.

Ma torniamo alla nave di Eskandar, risucchiata – come quella di Odysseús – da un gigantesco vortice marino. Dopo essere sfuggita per un pelo alla distruzione, la nave torna indietro e approda in una terra che Neāmī afferma essere il Čīnestān. Ma è una «Cina» sospinta in un oriente cosmologico, dove si ode, ogni mattina, il cupo rimbombo del sole che, sorgendo, sfonda la superficie del mare, terrorizzando ogni anima viva. Le avventure di Eskandar sono però quasi giunte alla fine: muovendo per via terra in qualche vaga direzione nord-occidentale, arriva alla fine in una landa utopica, serena, in una sorta di Shangri-la i cui abitanti coniugano la saggezza alla virtù. Eskandar innalza la grande barriera in un passo tra i monti per proteggere questi gentili valligiani dal feroce popolo di Māʾǧūǧ e si capisce che Neāmī riporta il famoso episodio del sadd al-Iskandar per dovere di buon musulmano. Il rūmī è ormai ricco di sapienza e di virtù, ma la sua vita è quasi giunta alla fine. Dopo Eskandar muoiono, uno dopo l'altro, i sette filosofi, e alla fine lo stesso Neāmī mette in scena la propria morte, congedandosi cerimoniosamente dai suoi lettori: «...il sonno lo rapì e, avresti detto, fu come se mai fosse stato desto» (Eskandarnāmè > Eqbālnāmè).

I critici hanno puntualizzato che al rigore geografico-astronomico dello Šarāfnāmè si contrappone, nell'Eqbālnāmè, una fantasia più sbrigliata. Non si può negare che in questo secondo tomo Neāmī lasci prevalere il senso del meraviglioso. Nondimeno rimangono molti spunti interessanti, soprattutto in questa strana presenza di «continenti» transoceanici, i quali peraltro costringono Neāmī a distinguere tra un mare interno, «terrestre», e un oceano esterno, «cosmico». Il baḥr guarda verso la terra ed è ancora navigabile dagli esseri umani; il baḥr-i-oqiyānūs e il baḥr-i-moḥīṭ appartengono invece a un contesto cosmologico: il sole vi si tuffa nel tramonto e vi emerge dall'alba, e sono del tutto impenetrabili alle navi costruite dall'uomo.

Ma una volta lasciata l'infantile ipotesi «americana» ai talk-show, possiamo chiederci: a quali terre, isole e continenti si riferisce Neāmī? Tutto questo è il parto di una sua fantasia, o corrisponde a una tradizione esistente? La spiaggia ricoperta da pietre preziose che si staglia davanti alle sorgenti del sole rimanda, mutatis mutandis, a un motivo che troviamo attestato fin dallo pseudo Kallisthénēs: le pietre che gli uomini al seguito di Aléxandros hanno raccolto nella terra delle tenebre si rivela trattarsi di gemme. Gli alberi d'oro carichi di frutti simili a pietre preziose che Eskandar trova nei giardini di Iram corrispondono ovviamente agli iṣû ilī, gli «alberi degli dèi», carichi di pietre preziose, che Gilgameš ammira una volta emerso dagli oscuri interstizi del monte Māšu (Ša naqba īmuru [IX: ]). Il baḥr-i-mard, la «distesa della morte», è un evidente memoria delle mê mūti, le «acque della morte» dell'epopea ninivita (sebbene Gilgameš osi attraversarle ed Eskandar no). Vi riconosciamo incagliati motivi più antichi e sembra senz'altro ragionevole che i «continenti» transoceanici scoperti da Eskandar siano dei lontani parenti mito-geografici di Dilmun e del Pû-nārāti. Ma è davvero così?

Per rispondere dobbiamo contestualizzare storicamente la divisione del Ḵonīras in sette kešwārān/eqālīm, a cui abbiamo accennato parlando dei viaggi narrati nello Šarāfnāmè. Questa rappresentazione dell'oikouménē eptapartito sembra essere un'innovazione dei geografi dell'epoca sāsānide e del primo periodo islāmico, i quali l'avevano però elaborata a partire da una concezione cosmologica precedente, risalente alla fase più antica dello zoroastrismo, dove non era la terra abitata (l'avestica aniraθa) a essere suddivisa in sette «climi», ma era concepita essa stessa come elemento centrale di un ampio sistema cosmo-geografico formato da sette «continenti», uno centrale e gli altri sei periferici.

L'antichità di questa tradizione è testimoniata nell'Avestā, in uno yašt dedicato allo yazatā Miθra, di cui riportiamo un ampio stralcio. I sette «continenti» o karvąr (forma avestica di kešwar) sono elencati per nome:

miθrǝm vouru-gaoyaoitīm ... ǰaγaurvåŋhǝm yō paoiryō mainyavō yazatō tarō harąm āsnaoiti paurva-naēmā amǝahe hū ya aurva-aspahe, yō paoiryō zaranyō-pīsō srīrå barǝnava gǝrǝwnāiti aδā vīspǝm ādiδāiti airyō-ayanǝm sǝvištō, yahmya sāstārō aurva paoiriš īrå rāzayeṇte yahmya garayō bǝrǝzaṇtō pouru-vāstråŋhō āfǝṇtō θātairō gave frāδayeṇte yahmya ǰafra varayō urvāpåŋhō hištǝṇte yahmya āpō nāvayå pǝrǝθwiš xaoδaŋha θwaxǝṇte āiatǝm pourutǝmca mourum hārōyum gaomca suxδǝm airizǝmca avi arǝzahi savahi avi fradaδafu vīdaδafu avi vouru-barǝšti vouru-ǰarǝšti avi ima karvąrǝ ya aniraθǝm bāmīm gavaayanǝm gavaitīmca baēazyąm miθrō sūrō ādiδāiti.Sacrifichiamo a Miθra, signore degli ampi pascoli [...], instancabile e sempre vigile, che è il primo yazatā del mondo celeste a superare il monte Harā [Bǝrǝzaitī], prima del sorgere del sole immortale, dai veloci destrieri; che primo, in un abbigliamento tutto d'oro, prende le belle cime e là, con occhio benevolo, osserva la dimora conquistata dagli Airya, dove i valenti capi trascinano le molte truppe, dove le alte montagne, ricche di pascoli e acqua, producono quantità al bestiame; dove si stendono i profondi laghi di acqua salata, dove i fiumi che scorrono ampi si gonfiano e scorrono veloci verso Āiata e Pourita, Mouru e Hārōyu, Gava-suxδa e airizǝm: su Arǝzahī e Savahī, su Fradaδafu e Vīdaδafu, su Vourubarǝštī e Vouruǰarǝštī, su questo luminoso karvąr di aniraθa, la dimora del bestiame, l'abitazione del bestiame, il potente Miθra guarda con occhio che porta salute.
yō vīspāhu karvōhu mainyavō yazatō vazaite arǝnō-då yō vīspāhu karvōhu mainyavō yazatō vazaite xaθrō-då, aēąm gūnaoti vǝrǝθraγnǝm yōi dim dahma vīduš-aa zaoθrābyō frāyazǝṇte. ahe raya ... tåscā yazamaide.Colui che muove tutto il karvąr, uno yazatā non visto, e porta arǝnāh, colui che si muove lungo tutto il karvąr, uno yazatā non visto, e porta sovranità, e cresce la forza per la vittoria a coloro, i quali con pio intento, gli offrono santamente libagioni. Al suo splendore e gloria, io offrirò un sacrificio degno di essere esaudito.

Yašt Mihr [10: -]

Questa descrizione, integrata da altre fonti, ci fornisce una sorta di rappresentazione del kósmos stabilita nella tavola successiva. aniraθa, la terra abitata dagli uomini, è posta al centro di un sistema di coordinate che vede i sei karvąr extramondani situarsi a corona intorno ad essa.

Questa è dunque la situazione antico-iranica:

  1. Est. Arǝzahī- (medio persiano: Arzah)
  2. Sud-est. Fradaδafu- (medio persiano: Fradadafš)
  3. Sud-ovest. Vīdaδafu- (medio persiano: Wīdadafš)
  4. Centro. aniraθa- (medio persiano: Xwanirah > persiano classico: Ḵonīras)
  5. Ovest. Savahī- (medio persiano: Sawah)
  6. Nord-ovest. Vourubarǝštī- (medio persiano: Wōrūbaršt)
  7. Nord-est. Vouruǰarǝštī- (medio persiano: Wōrūǰaršt)

I dettagli di questo sistema sono chiariti nei testi di epoca medio-persiana, soprattutto nel Bundahišn, a cui ritorniamo. Un primo passo ci fornisce i nomi e le posizioni relative dei sette karvąr/kešwarān, e aggiunge – se abbiamo bene interpretato il testo – che la dimensione complessiva dei sei «continenti» periferici raggiunge, in dimensioni, il solo Xwanirah:

 ...Una parte è al centro, sei parti intorno ad essa, e queste parti sono [grandi] quanto Xwanirah: il nome kešwar si applica a tutte queste parti, in quanto hanno forma rotonda.
 Come alcuni dicono, la parte a oriente è il kešwar di Arzah, la parte a occidente è il kešwar di Sawah, le due parti a meridione sono i kešwarān di Fradadafš e Wīdadafš, le due parti a settentrione sono i kešwarān di Wōrūbaršt e Wōrūǰaršt. Costoro chiamano Xwanirah la parte che è al centro, e che è grande quanto le altre.

Bundahišn [8: -]

I kešwarān sono separati gli uni dagli altri: tra di essi si estendono mari invalicabili, ovvero bracci dell'oceano cosmico Warkaš/Frāxwkard, ma anche montagne e boschi che impediscono il passaggio da un kešwar a un altro:

 Non è possibile andare da un kešwar a un altro kešwar, se non con la guida e l'illuminazione degli yazatā.
 Come costoro dicono, tra Arzah, Sawah e Xwanirah c'è il mare: li circonda un tratto dell'oceano Frāxkward; tra Fradadafš [e Wīdadafš] vi è una foresta nel mezzo; tra Wōrūbaršt e Wōrūǰaršt si erge una montagna. Sebbene vi possa essere una connessione tra un kešwar e un altro kešwar, non è possibile passare dall'uno all'altro.

Bundahišn [5B: -]

Un passo molto importante ci fornisce le esatte coordinate astronomiche dei sei kešwarān periferici:


 
Da dove viene il sole nel giorno più lungo a dove viene nel giorno più corto è il kešwar orientale di Arzah; da dove viene nel giorno più corto a dove va nel giorno più corto si trovano i kešwarān meridionali di Fradadafš e Wīdadafš; da dove va nel giorno più corto a dove va nel giorno più lungo, si trova il kešwar occidentale di Sawah, da dove viene nel giorno più lungo a dove va nel giorno più lungo sono i kešwarān settentrionali di Wōrūbaršt e Wōrūǰaršt. Quando il sole viene, illumina i kešwarān di Arzah, Fradadafš, Wīdadafš e metà di Xwanirah; quando va sull'altro lato del monte Tērag, illumina i kešwar di Sawah, Wōrūbaršt e Wōrūǰaršt e metà di Xwanirah. Quando è giorno qui è notte là.

Bundahišn [5B: -]

Questa descrizione astronomica – non del tutto coerente con la visione avestica – ci dà delle informazioni importanti. I kešwarān, come nota acutamente Henry Corbin, non sono semplicemente situati nello spazio ma situativi dello spazio stesso (cfr. Bundahišn [8: -]) (Corbin 1979). Detto in parole nostre, i kešwarān, definiti secondo parametri astronomici, relazionano la geologia terrestre con i movimenti del sole e stabiliscono i punti calendariali. In pratica, fungono essi stessi da paralleli e meridiani, da tropico del Cancro e tropico del Capricorno. Arǝzahī-/Arzah si estende dal punto dove il sole sorge nel solstizio d'estate al punto dove sorge nel solstizio d'inverno; Savahī-/Sawah dal punto dove il sole tramonta al solstizio d'estate al punto dove tramonta al solstizio d'inverno (si noti che nella redazione indiana del Bundahišn, Sawah si trova invece a est, Arzah a ovest).

Lo strano ordine di illuminazione dei sette kešwarān viene spiegato dal Bundahišn ipotizzando una struttura cosmologica assai particolare:


 
Il monte Harborz circonda il mondo; il monte Tērag è al centro del mondo. Il sole, girando come una corona intorno al mondo, ritorna, puro, oltre il monte Harborz, intorno a Tērag. Come qualcuno ha detto: il Tērag di Harborz, dietro cui roteano il mio sole, la luna e le stelle.”
 In Harborz, vi sono centottanta apertura a est e centottanta a ovest: il sole entra attraverso un'apertura e esce da un'apertura ogni giorno. La luna e anche le costellazioni e i pianeti, sono tutti connessi tra loro e si muovono insieme: ogni giorno illuminano tre kešwarān e mezzo.

Bundahišn [5B: -]

Il Bundahišn è attentissimo ai dettagli astronomici, soprattutto astrologici, e l'interpretazione di questo passo ha messo a dura prova gli iranisti. Ci limiteremo per ora a brevi osservazioni nel tentativo di spiegarne i dettagli più esteriori. Nel Bundahišn (sebbene tali concezioni abbiano un eco nei passi dell'Avestā è dubbio che fossero interpretate nello stesso modo in epoca anteriore) la terra risulta circondata da un'ininterrotta montagna circolare, il Harborz (cfr. avestico Harā Bǝrǝzaitī; persiano classico Alborz). Essa ha la stessa funzione del ǧabal Qāf nella tradizione araba e, come abbiamo visto, il geografo Yāqūt al-Hamawī identifica esplicitamente i due rilievi: «[al-Qāf] gli antichi lo chiamavano al-Burz» (Kitāb muʿǧam al-buldān).

Al centro del mondo, in Xwanirah, sorge il monte Tērag (cfr. avestico Taēra). Nonostante il Tērag sembri assai distante dalla catena del Harborz, nondimeno viene considerato un elemento di questa (viene infatti esplicitamente chiamato Tērag-ī-Harborz), come del resto tutte le montagne della terra, che anche la cosmologia iranica considera collegate nel sottosuolo da vaste, invisibile radici. Il monte Tērag funge da axis mundi e il sole vi rotea attorno illuminando così metà del mondo per volta, l'altra metà rimanendo in ombra.

Il modello di un monte centrale intorno al quale gira il sole presenta però un problema non da poco: nel cosmo reale, l'eclittica, sulla quale si muovono il sole e i pianeti, interseca l'equatore celeste a un angolo di 23,5° e l'orizzonte visibile a un angolo che che varia a seconda della latitudine. Ciò è ovviamente incompatibile con un modello in cui il sole e i pianeti si muovano su un piano parallelo alla superficie della terra e i persiani erano dei troppo buoni astronomi per non rendersi conto di questa difficoltà. Se ne esce in due modi: (1) ipotizzando che la terra non sia un piano ma una sezione di sfera e che il monte Tērag coincida con l'asse terrestre: ma questa concezione la troviamo compiuta letterariamente soltanto in epoca islāmica; (2) che l'eclittica non sia – ovviamente – parallela al piano della terra e che, quindi, il movimento del sole attorno al monte Tērag-ī-Harborz sia assai più complesso. Questa sembra essere l'idea suggerita dal Bundahišn:

 In Harborz, vi sono centottanta rōzan a est e centottanta a ovest: il sole entra attraverso un rōz e esce da un rōz ogni giorno. La luna e anche le costellazioni e i pianeti sono tutti connessi tra loro e si muovono insieme: ogni giorno illuminano tre kešwar e mezzo.

Bundahišn [5B: ]

La parola rōz, che qui indica una sorta di porta situata lungo la catena del Harborz, significa letteralmente «giorno». Centottanta rōzan a est e centottanta rōzan a ovest, per far sorgere e tramontare il sole, sono dovuti al fatto che, nel corso dell'anno, il sole non sorge e non tramonta mai dallo stesso punto. Poiché il calendario mazdeo contemplava 360 giorni (più cinque giorni epagomeni), durante i quali i punti in cui il sole sorge e tramonta si spostano, verso nord d'estate e verso sud d'inverno, ritornando due volte all'anno nel punto equinoziale, i rōzan o «giorni» da ciascun lato sono appunto 180. Ogni dì, dunque, il sole sorge da uno dei rōzan orientali situati lungo la catena del Harborz, si alza nel cielo con un angolo pari a quello dell'eclittica, rotea attorno al monte Tērag-ī-Harborz, e quindi declina a ovest, rientrando da uno dei rōzan occidentali del Harborz. Lo schema successivo è tratto da uno splendido lavoro di David Neal MacKenzie (MacKenzie 1964):

Ci soffermeremo in seguito sulle implicazioni cosmologiche della «montagna centrale», entrando nel merito delle non poche difficoltà di interpretazione dei testi zoroastriani. Ciò che ci preme sottolineare, a questo punto, è la struttura del mondo che affiora nei testi iranici e che possiamo riassumere in questo modo, con qualche semplificazione:

  1. esternamente il mondo è circondato da una vasta montagna circolare (avestico Harā Bǝrǝzaitī, medio persiano Harborz, persiano classico Alborz), attraverso le cui numerose «porte» (il termine iranico è rōzan «giorni») il sole esce all'alba e rientra al tramonto;
  2. la terra è suddivisa in sette kešwarān: un «continente» centrale (il mondo abitato dagli uomini) e altri sei periferici, disposti all'esterno del disco terrestre;
  3. i kešwarān sono separati tra loro dalle acque dell'oceano cosmico (avestico Vourukaa, medio persiano Frāxwkard e Warkaš), ma anche da montagne e boschi, rendendo impossibile, o difficoltoso, il transito dall'uno all'altro.

Questa cosmologia spiega efficacemente i viaggi di Eskandar nell'Eqbālnāmè. Si ricorderà che il condottiero rūmī era salpato da Andalos (sulla costa spagnola), diretto verso ovest e, dopo una lunga navigazione, era sbarcato in un altro «continente». Si trattava naturalmente di uno degli altri kešwarān (presumibilmente Savahī-/Sawah). Eskandar aveva dovuto attraversarne i deserti di zolfo prima di arrivare di fronte a un nuovo oceano, e qui, finalmente, aveva potuto vedere il sole tramontare nel mare (secondo il dettato qur˒ānico della «sorgente del sole» [ʿayn aš-šamsi], un motivo non presente nei testi zoroastriani).

La cosmologia zoroastriana, nella sua formulazione conclusiva, quella attestata nel Bundahišn e nei testi collegati, viene di solito ricondotta alle concezioni indiane. Nei Purāṇa la terra abitata dagli uomini corrisponde al Jambudvīpa, il «continente» centrale di una serie di sette dvīpa, immaginati però come anelli concentrici, separati gli uni dagli altri da oceani intermedi. Anche qui, Jambudvīpa è suddiviso a sua volta in una serie di regioni minori [varṣa], il cui numero è, a seconda delle fonti, nove o quattro. Al centro di Jambudvīpa si leva il monte Meru, centro dell'universo, attorno al quale ruotano il sole, la luna e l'intera volta celeste: la notte è dovuta all'ombra del Meru allorché il sole scivola sul lato opposto della montagna. Una montagna, detta Lokāloka (ovvero loka «mondo» + aloka «non-mondo»), percorre sul lato esterno il confine della terra, separandola dall'oscuro spazio esterno.

Molti dettagli, nelle concezioni iranica e indiana, hanno sicuramente una comune origine, sebbene la differente storia religiosa e filosofica di Īrān e India li abbiano sviluppati in maniera affatto diversa. La mitologia indiana, così come quella greca, produce però un singolare effetto sui mitologi: una volta che questi riescono a ricondurre alcuni elementi di un qualsivoglia sistema mitico all'India o alla Grecia, sentono di essere arrivati a destinazione. Come se l'alto magistero della tradizioni vedica o ellenica basti per dare l'ultima, definitiva parola, a una ricerca.

Nel nostro caso, se anche le comparazioni con l'India possano spiegare efficacemente alcuni elementi della cosmologia iranica, possiamo chiederci se quest'ultima, o l'intero spettro cosmologico indoiranico, non possano essere considerati un esito particolare di un sistema più generale e più diffuso.

UNO SPECCHIO MESOPOTAMICO: L'IMAGO MUNDI BABYLONICA

Per rispondere dobbiamo rivolgerci alla cosiddetta Imago mundi Babylonica, una tavoletta d'argilla rinvenuta a Sippar o a Borsippa e oggi custodita al British Museum, dov'è stata catalogata nel 1899 con la collazione BM 92687. Il sito di rinvenimento è datato al V secolo avanti Cristo, ma la tavoletta è più antica di cento o duecento anni ed è stata incisa probabilmente a Babilonia. Secondo le note presenti nel colophon, sarebbe stata ricopiata da un esemplare più antico, che si ritiene risalente al IX secolo. Riportiamo l'immagine e una trascrizione delle didascalie che accompagnano la mappa.


  1. šá-du-⌜ú⌝
  2. URU
  3. ú-ra-áš-tu[m]
  4. aš+šurk
  5. BAD.AN(=dér)
  6. ×-ra-[...
  7. ap-pa-r[u]
  8. [M]ÚŠ.⌜EREN⌝[](=[š]uša[n])
  9. bit-qu
  10. bῑt-ia-ʾ-ki-n
  11. URU
  12. ḫa-ab-ban
  13. TIN.TIR
  14. mar-ra-tum
  15. [⁽⁾mar-ra-tum]
  16. [⁽⁾m]ar-ra-tum
  17. mar-r[a-tum]
  18. BÀD.GULA
    ⌜6⌝ bēru
    ina bi-rit
    a-šar šamaš
    la NU.IGI.LÁ(=innammaru)
  19. na-gu-ú
    6 bēru
    ina bi-rit
  20. [na-gu]-⌜ú⌝
    [...
  21. [na]-gu-ú
    [...
  22. na-gu-ú
    ⌜8⌝ bēru
    ina bi-rit
  1. montagne
  2. città
  3. Urartu
  4. Assiria
  5. Dēr
  6. (?)
  7. palude
  8. Susa (Elam)
  9. canale
  10. Bīt-Yakin
  11. città
  12. Ḥabbān
  13. Babilonia
  14.  amaro
  15. [⁽⁾ amaro]
  16. [⁽⁾ a]maro
  17. am[aro]
  18. grande muro
    6 bēru
    in mezzo
    dove Šamaš
    non è visto
  19. regione
    6 bēru
    in mezzo
  20. [na]
    [...
  21. [na]
    [...
  22. nagû
    8 bēru
    in mezzo

Imago mundi Babylonica [recto: didascalie nell'immagine]

L'oikouménē, il mondo abitato dagli uomini, è qui rappresentato in forma circolare. Babilonia è rappresentata al centro, in forma rettangolare e divisa in due dal corso dell'Eufrate. Intorno sono rappresentate delle regioni circostanti, tra cui si riconoscono Urartu, l'Assiria e l'Elam; Bīt-Yakin, il «paese del mare», è la regione dei Caldei, presso il golfo Persico; la località di Ḥabbān, nell'odierno Yaman, porta ancora oggi questo nome. Šadû, le «montagne», sono i monti Zāgros o, più probabilmente, l'altopiano armeno. Appāru, la «palude», è forse l'odierna regione dello Šaṭṭ al-ʿArab, alla confluenza del Tigri e dell'Eufrate, nel sud del ʿIrāq.

Intorno all'oikouménē, in un perfetto circolo, vi è il Marratu, il fiume «amaro» (il termine è infatti contrassegnato con il determinativo «» che contrassegna i nomi dei fiumi). L'idronimo mar-ra-tum appare ben quattro volte. Nel Primo millennio questo termine è un sinonimo di tâmtu, «mare». In una iscrizione, il re assiro Šarru-kīn II (Sargon II, ♔ 721-705 a.C.) dichiarava orgogliosamente che gli dèi gli avevano conferito la regalità su tutti i popoli «dal marratu superiore al marratu inferiore» [ištu marrati elîti adi marrati šaplīti], intendendo l'intera regione compresa tra il Mediterraneo e il golfo Persico, mentre abbiamo già citato l'analoga formula con la quale, quindici secoli prima, re Šarru-kīnu di Akkad (♔ 2335-2279 a.C.), dichiarava di essere sovrano del «mare superiore e inferiore» [tiāmtam alîtam u šapiltam]. In questa concezione del Marratu, dunque, i mari noti alla geografia accadica venivano considerati come estensioni, o parti, di un oceano esterno che circondava il mondo ad anello, a guisa di un vasto fiume. Tutti i fiumi interni e i canali tracciati sull'Imago mundi sfociano infine nel Marratu, dando un senso all'espressione pû-nārāti, la «confluenza dei fiumi».

Sul lato esterno del Marratu spuntano, in forma di triangoli allungati, delle «isole» che sembrano protendersi nello spazio cosmico, dando a tutto l'insieme l'aspetto di una stella. Nella terminologia della mappa esse sono definite dalla parola nagû, «regione»: questo termine, raro nei testi letterari babilonesi, è però abbastanza frequente nei testi assiri per indicare le unità amministrative (province o distretti) dell'impero. Il significato del termine è diverso nei testi mitologici. Nel racconto del diluvio fatto da Ūtnapištî a Gilgameš, ad esempio, è un nagû quello che compare dinanzi alla sua nave mentre le acque si ritirano, una sorta di isola temporanea che emerge dal mare:

ap-pa-li-is kb-ra-a-ti pa-ṭú A.AB.BA(=tâmti)
a-na 12 (
var. 14)⋅ i-te-la-a na-gu-ú
a-na ni-muš i-te-mid MÁ(=elippu)
šadû ni-muš elippa iṣ-bat-ma a-na na-a-ši ul id-din
Scrutai la distesa delle acque in cerca di una riva:
finché a 12 (var. 14) (leghe) apparve un nagû.
La nave s'incagliò sul monte Nimuš,
il monte Nimuš prese la nave e non la fece più muovere.
Ša naqba īmuru [XI: -]

Nei testi neo-assiri il termine nagû può indicare delle isole o terre lontane sul mare: in un'iscrizione di Aššur-bāni-apli (♔ 668-±627 a.C.), la Lydia è descritta come un nagû oltre il mare (Asb. [XX: -]). In un caso ci si riferisce agli isolotti sul fiume Tigri come a dei nagi˒ānu.

L'Imago mundi Babylonica ( VI sec. a.C.)
British Museum, Londra (Regno Unito)

Il numero complessivo dei nagi˒ānu sull'Imago mundi non è subito evidente, dato il cattivo stato della tavoletta, ma dalle iscrizioni sul verso si presume fossero otto. Le didascalie sulla cartina non sono molto precise: si limitano a indicare la distanza tra i nagû in termini di sei o otto bēru. Soltanto nel caso del nagû settentrionale (n. 18 nel nostro schema) troviamo una breve scritta: «grande muro [...] dove Šamaš non è visto». L'assiriologo Wayne Horowitz, che ha dedicato uno studio memorabile all'Imago mundi, pensa ovviamente alla scena dove Gilgameš segue lo ḫarran šamši, il «sentiero del sole», nella cavità del monte Māšu, ma anche alla tradizione letteraria riguardante re Šarru-kīnu di Akkad, il quale, in un enigmatico passaggio, ha la visione di un viaggio attraverso le tenebre: «il presagio di Šarru-kīnu, che avanzava nell'oscurità, e una luce brillava per lui» [...a-mu-ut ⌜šar-ru⌝-ki-in ša ek-le-tam il₈-ti-ku-ma nu-ru-um û-ṣi-aš-šu-um...] (Scheil RA27 [149: -]) (Horowitz 1998). Al contrario, ci sembra piuttosto improbabile che i Babilonesi – come suggerisce Horowitz – possano aver spiegato il fatto che, al di sopra del tropico del Cancro, il sole non salga mai nella metà settentrionale del cielo a causa di un «grande muro».

Altri studiosi hanno identificato il «grande muro» con i monti del Caucaso, a dispetto del fatto che l'Imago mundi riporta l'iscrizione ben oltre il cerchio del Marratu. A questo punto l'intuito vola subito alla muraglia di Ḏū ʾl-Qarnayn, che le esigenze del mito avevano innalzato ai confini del mondo ma che i geografi musulmani, sulla scolta di Iosephus Flavius, avevano localizzato tra le vette del Caucaso. Ma alternativamente possiamo vedere in questo «grande muro» una versione babilonese della montagna assiale che nasconde il sole allorché vi ruota dietro. La larghezza fornita nel testo, sei bēru, se intesa in termini temporali, dà dodici delle nostre ore, cioè il tempo che il sole impiegherebbe – negli equinozi – per transitare nel lato notturno del mondo. Alternativamente, il «grande muro» potrebbe essere un esito mesopotamico del cingulus mundi, simile al monte al-Qāf della tradizione arabo-islāmica, o al suo antemito iranico, il monte Harā Bǝrǝzaitī (Harburz, Alborz) che circonda il mondo, e che solo Miθra «supera prima del sorgere del sole immortale» (Yašt Mihr [10: ]).

Se l'Imago mundi non porta altre didascalie presso i nagi˒ānu, nel verso della tavoletta compaiono ventisette righe di testo nelle quali si offrono brevi e suggestive descrizioni di ciascun nagû. È veramente un peccato che il testo non sia ben conservato:

...] × [...
...tab]-ra-[ti...
...tam-t]u₄ ra-bi-tú [...
...] × [...
...me]ravi[glie (?)...
...mar]e grande [...
[maḫ-ru na-gu-ú ina e-re-b]i-šú tal-l[a-ku 7 bēru...[Il primo (?) nagû (?) quando si en]tra, camm[ini 7 bēru...
[a-na šanû na-gu-ú] ⌜a⌝-šar ta-la-ku 7 bē[ru...
[...] × × × šap-[liš/lat...
[Al secondo nagû] dove tu cammini 7 [ru...
[...] ...sot[to...
[a-na šalšu]⌜⌝ na-du(=gu)-ú a-šar tal-la-ku 7 bēr[u...
[iṣ-ṣu]-ru mut-tap-ri-ši la ú-šal-l[a-am uruḫ-šu]
[Al terz]o nagû dove tu cammini 7 bēr[u...
un [uc]cello alato non può compl[etare il suo tragitto]
[a-na re]-bi-i na-gu-ú a-šar tal-la-ku 7 bē[ru...
[× × ×]-du ik-bi-ru ma-la par-sik-tum 20 ŠU.S[I](=ubān) [...
Al qua]rto nagû dove tu cammini 7 [ru...
[...] sono spessi come un parsiktum, 20 ubān [...
[a-na ḫanš]u⌜⌝ na-gu-ú a-šar tal-⌜la⌝-ku 7 bēru [...
[× ×] mi-lu-šú 1 ⋅ ṣu-up-pan × [...
[× × ×] × zi-nu-šú a-na aš-la⋅ [...
[× ×]-×-mi da-mi-šu ul im-mar [...
[× × ×] ni-il-lu aš-ri tal-la-[ku...
[× × × × ta/]-al-la-ku ⌜7⌝ bē[ru...
[× × × × × ×].A a-ṣi-⌜i šá ina šu⌝-[...
[× × × ×]-šú i-bi-ri [...
[Al quin]to nagû dove tu cammini 7 bēru [...
[...è] l'inondazione/l'altezza, 1 e 2 ṣuppān (= 840 cubiti)
[...] pioggia/fronde, tanto quanto 1 ašlu (= 120 cubiti) è...
[...] il suo sangue non può essere visto [...
[...che noi sca]liamo (?) dove tu cammini...
[...tu/] io camminerò [7 bēru...
[...] la partenza che (?) è in [...
[...] la sua [...] ha attraversato [...]
[a-na šeššu] na-gu-ú a-šar tal-la-ku [7 bēru...
[× × × × × ina] muḫḫi a-na-ku KIM/DÍM-m[u...
[Al sesto] nagû dove tu cammini [7 bēru...
[... sulla (?)] cima, io [...]
[a-na sebî]⌜⌝ na-gu-ú a-šar tal-la-ku [7 bēru...
ša GU(=alpu) qar-nu šak-nu [...
i-⌜la⌝-as-su-mu-ma i-kaš-šá-du-⌜u⌝[...
[Al sett]imo nagû dove tu cammini [7 bēru...
dove il bestiame è fornito di corna [...
corrono veloci e raggiungono...
a-na [šam]anî na-gu-ú a-šar tal-ka-ku 7 bēr[u...
[× × × ×] a-šar-ti-še-ʾ-ru ina ḫa-an-du-ri-šú ⌜ú/šam⌝-[×-×]
All'[ott]avo nagû dove tu cammini 7 [ru...
[...il l]uogo dove [...] l'alba sorge alla porta [...
[× × × × × -t] šá kib-ra-a-ti er-bet-ti šá kal × [...]
[× × × × ×] × : qé-reb-ši-na man-na la ⌜i⌝ -[du-ú]
[...] dei quattro quadranti dell'intero [...]
[...] che nessuno può comprend[ere]
[× × × × ×] × ki-ma la-bi-ri-i-šu ša-ṭi-ir-ma ba-r[i]
[× × × × ×] mār-šú šá iṣ-ṣu-⌜ru⌝ [mā]r IDIM(=ea)-EN(=bēl)-il[ī]
[...] copiato da un vecchio esemplare e collaz[ionato]
[...] il figlio di Iṣṣuru, [discend]ente di Ea-bēl-il[ī].

Imago mundi Babylonica [verso]

Le prime tre righe introduttive sono quasi del tutto perdute: si legge malamente la parola tabrâti, «meraviglie», alla riga [], mentre l'ipotetico [tâmt]u rabitu «grande mare» alla riga [] potrebbe riferirsi al Marratu. La riga [], che conserva la frase ina erēbīšu, «quando si entra», si riferisce probabilmente al primo nagû, ma su questo e sul secondo nagû [-] lo stato del testo non permette di cogliere alcun dato significativo. Il terzo nagû [-] viene definito come un luogo in cui gli uccelli non possono giungere: formule simili sono utilizzate per indicare luoghi deserti ostili alla vita animale e umana (Horowitz 1998). Incomprensibile anche la nota al quarto nagû [-].

La descrizione del quinto nagû è la più lunga [-] ma le lacune e le difficoltà di lettura non la rendono affatto chiara. Le due possibili interpretazioni, secondo Horowitz, dipendono dall'ambiguità dei cuneiformi . e . alle righe [] e []. Se leggiamo . come mēlû «altezza» e . come zinû «fronde», allora ci troviamo in una regione di vaste foreste; la parola damīšu, «il suo sangue», alla riga [] potrebbe riferirsi alla linfa degli alberi: il termine damu indica infatti sia il sangue degli animali che la linfa delle piante. In tal caso, il verbo nillu, «che noi scaliamo», alla riga [], potrebbe suggerire l'idea di una faticosa ascesa sui pendii boscosi delle montagne. Se questa interpretazione è corretta, il quinto nagû potrebbe essere messo in correlazione con il Qišti Erēn, la «foresta dei cedri» raggiunta da Gilgameš e da Enkidu tanto nei poemi sumerici quanto nella tavola IV dello Ša naqba īmuru. Alternativamente, però, il quinto nagû potrebbe essere una terra di avverse condizioni meteorologiche, se leggiamo . come mīlu «inondazione» e . come zinnu «pioggia»; difficile in questo contesto spiegare la parola damu. Un più preciso significato dei termini . e . potrebbe essere suggerito dalle misure di lunghezza presentate nel testo, rispettivamente 840 cubiti e 120 cubiti, il cui senso era probabilmente spiegato nella parte mancante delle righe [] e []: l'altezza degli alberi, l'estensione della foresta o il livello raggiunto dall'inondazione? Ma le ambiguità non sono ancora finite: se accettiamo l'emendamento della riga [] in mi-lam-mi-šu ul im-mar, «il suo splendore non può essere visto», il quinto nagû viene a essere una terra di tenebre, identificandosi con il nagû settentrionale sull'Imago mundi. (Horowitz 1998)

Ma procediamo. Il settimo nagû [-] è descritto come un luogo ricco di bestiame cornuto. È probabile che la notazione «corrono veloci e raggiungono», conservata nella riga [], si riferisca proprio agli animali, a meno che non vi sia un precedente cambio di soggetto. L'ottavo nagû [-] è probabilmente localizzato a est, visto che viene descritto come il luogo da cui il sole sorge all'alba. Interessante in questo contesto la parola ḫandūru, «porta», che ci riconduce a piè pari nello schema cosmologico che stiamo analizzando in questa pagina. Nella cosmologia mesopotamica, non solo i cieli sono connessi da una serie di «porte» (si veda il racconto della scalata celeste di Etana, primo miʿrāǧ della storia della letteratura universale), tra cui sono contemplate quelle che il sole utilizza per sorgere e tramontare.

Abbiamo dati importanti. Teniamoli da conto non è ancora tempo di tirare i nostri fili. Piuttosto, tiriamo un bel respiro lungo e lasciamo i crudeli splendori del Medio Oriente. È tempo di tornare in Occidente.

IN GRECIA: COLUI CHE DI GRAN LUNGA FU IL PIÙ FORTE DEGLI UOMINI
Hērakléa Diòs hyiòn aeísomai, hòn még' áriston
geínat' epikhthoníōn Thḗbēıs éni kallikhóroisin
Alkmḗnē mikhtheîsa kelainephéï Kroníōni:
hòs prìn mèn katà gaîan athésphaton ēdè thálassan
plazómenos pompısin hýp' Eurysthos ánaktos
pollà mèn autòs érexen atásthala, pollà d' anétlē:
nŷn d' ḗdē katà kalòn hédos niphóentos Olýmpou
naíei terpómenos kaì ékhei kallísphyron Hḗbēn
Khaîre ánax Diòs hyié: dídou d' aretḗn te kaì ólbon.
Hērakls, figlio di Zeús canterò, che, di gran lunga il più forte
degli uomini, generò a Thbai dalle belle danze
Alkmḗnē, unitasi al figlio di Krónos, [Zeús] dagli oscuri nembi;
Hērakls, che dapprima, sulla terra infinita e sul mare,
soffrì errando e battendosi con vigore agli ordini di re Eurysteús,
molte cose inaudite compì egli stesso, e molto sofferse:
ma ora, nella bella dimora dell'Ólympos nevoso
vive lieto, e ha come sposa Hḗbē dalle belle caviglie.
Salve, signore figlio di Zeús; concedimi valore e prosperità.

Homḗrou hýmnoi [XI]

Hērakls con i frutti delle Hesperídes
Copia romana di originale greco (V sec. a.C.)

Nella sua eloquente concisione, questo inno omerico accenna al destino di Hērakls: il più popolare e allo stesso tempo il più enigmatico degli eroi greci. Le vicende della sua vita, i suoi trionfi, le sue imprese turbolente, a cui abbiamo già accennato parlando di Promētheús Ⓐ▼, sono troppo numerose perché si possa narrarle nei dettagli, tanto più che a noi interessano solo alcuni momenti della sua sterminata biografia, quegli episodi che lo proiettano di prepotenza nel maestoso scenario che stiamo indagando. Tra tutti gli eroi ellenici, infatti, Hērakls è quello che più degli altri sembra muoversi su uno sfondo cosmologico, più degli altri è proiettato in viaggi e ricerche compiute ai confini del mondo, più degli altri è sospeso in bilico tra la mortalità degli esseri umani e l'immortalità degli dèi.

Di Hērakls si potrebbe parlare a lungo, enumerando minutamente le numerosissime imprese che gli hanno attribuito i mitografi. Ci limiteremo qui ai fatti essenziali, approfondendo quanto interessa al nostro studio riservandoci in seguito di approfondire altri dettagli. Figlio di Zeús e di Alkmḗnē, sposa di Amphitrýōn, un principe di stirpe argolide, Hērakls era stato generato grazie a un inganno. Un giuramento impegnava Amphitrýōn a rispettare la giovane moglie finché non fosse riuscito a vendicare i fratelli di lei, caduti durante un'incursione da parte dei Tēlebóai (na popolazione pre-ellenica stanziata allora sull'isola di Táphos, sulle coste dell'Akarnanía). Lasciata la sposa a Thebai, Amphitrýōn partì per la spedizione. Ma approfittando della sua assenza, Zeús prese il suo aspetto, si presentò da Alkmḗnē e, annunciandole la vittoria del marito, giacque con lei. Zeús rese interminabile quella notte d'amore, trattenendo nelle loro stalle i cavalli del sole: intendeva infatti generare un eroe superiore a ogni altro mai esistito prima. Ad Amphitrýōn, al suo ritorno, non rimase che accettare di essere stato cornificato dal re degli dèi. (Apollódōros: Bibliothḗkē [II: 4, ])

Hērakls venne alla luce segnato dalla gelosia di Hḗra, regina degli dèi, e poiché Zeús aveva dichiarato che il bimbo che stava per nascere avrebbe regnato sull'Argolís, Hḗra ritardò la nascita di Hērakls e anticipò quella di un cugino di Amphitrýōn, Eurysteús, che nacque lo stesso giorno. A causa di tale astuzia, e poiché Zeús non poté rimangiarsi quanto aveva decretato, il possente e coraggioso Hērakls fu costretto agli ordini del pavido Eurysteús, re al suo posto per diritto di nascita, e spese la sua intera esistenza affrontando e sconfiggendo i mostri che la gelosa dea non cessava di porre dinanzi al suo cammino, a partire dai due serpenti che spedì alla sua culla quand'egli era ancora infante.

 Quando il bimbo ebbe otto mesi, Hḗra inviò contro la sua culla due serpenti smisurati con l'intenzione di ucciderlo; ma mentre Alkmḗnē gridava chiamando in soccorso Amphitrýōn, Hērakls si destò, afferrò i due serpenti e li strangolò con le proprie mani.
Apollódōros: Bibliothḗkē [II: 4: 8]

La giovinezza di Hērakls è costellata da un'inarrestabile moltitudine di imprese eroiche, con continui eccessi di violenza e brutalità. È molto giovane quando sposa la tebana Mégara, che ha diversi anni più di lui. Non è un matrimonio felice. Colto da improvvisa follia, Hērakls massacra i suoi figli e quelli di suo fratello Iphikls ①▼. Ma è stata Hḗra ad ottenebrare la sua mente costringendolo a macchiarsi di un così orrendo delitto. In tal modo la dea ha caricato Hērakls di un'impurità morale che lo costringerà a sottomettersi a un'espiazione. Condannatosi a un esilio volontario, l'eroe si reca Delphoí per sottoporsi al giudizio del dio, ed è appunto in questa circostanza che la pythía si rivolge per la prima volta a lui col nome di Hērakls, «gloria di Hḗra», e così egli sarà per sempre conosciuto (prima di questo momento, infatti, veniva chiamato Alkídēs). Il giudizio dell'oracolo è incontestabile: Hērakls sarà condannato a servire suo cugino Eurysteús, re di Mykḗnē e di Tíryns, per dieci lunghi anni. (Apollódōros: Bibliothḗkē [II: 4, ])

In questi anni – che diverranno dodici –, l'imbelle Eurysteús, nel tentativo di sbarazzarsi dell'ingombrante nipote, obbligherà Hērakls a viaggiare da un angolo all'altro della Grecia, e poi del mondo, per compiere una serie di imprese ai limiti delle forze umane. È così che Hērakls compie le sue dodici érga, o «fatiche». Quali fossero e in quale ordine venissero compiute, c'è discordanza tra gli autori; la lista più comunemente accettata (Bibliothḗkē [II: 5]) è la seguente:

  1. l'uccisione del leone di Neméa,
  2. l'uccisione dell'hýdra di Lérnē,
  3. la cattura della cerva di Kerýneia,
  4. la cattura del cinghiale di Erýmanthos,
  5. la caccia agli uccelli del lago Stymphalídes,
  6. la pulizia delle stalle di re Augeías,
  7. la cattura del toro di Krḗtē,
  8. il furto delle giumente di Diomḗdēs,
  9. il furto della cintura di Ippolytē, regina delle Amazónes,
  10. il furto del bestiame di Gēryṓn,
  11. il furto dei frutti d'oro nel giardino delle Hesperídes,
  12. la cattura di Kérberos.

Entrare in dettaglio in tutte queste avventure, con tutte le avventure accessorie di cui sono costellate, è compito che esula dai nostri scopi. Menzioniamo come significativi il primo érgon, l'uccisione dell'invulnerabile leone di Neméa, col cui cranio e con la cui pelle Hērakls si confezionerà un elmo e un mantello, e il settimo érgon, la cattura del toro sacro a Poseidn, che Hērakls trascinò vivo, a nuoto, da Krḗtē nell'Attikḗ. Ma la parte centrale del ciclo di Hērakls, la più elaborata e complessa, è costituito da due érga, la decima e l'undicesima «fatica», rispettivamente il furto del bestiame di Gēryṓn e la ricerca dei frutti delle Hesperídes. I temi che ci interessano sono infatti concentrati in questi due episodi: sul secondo in particolar modo.

Mentre le prime «fatiche» hanno per teatro il Pelopónnēsos, in seguito Eurysteús spedisce Hērakls in luoghi sempre più lontani, con la segreta speranza che il leonuto e clavuto nipote finisca per farsi ammazzare in qualche remota contrada del mondo. Quando il re pretende che Hērakls gli porti il bestiame di Gēryṓn, l'eroe capisce che questa volta il suo viaggio sarà particolarmente lungo e difficile. Gēryṓn custodiva infatti le sue rosse giovenche nella remota isola di Erýtheia, ai confini occidentali della terra. Dopo un lungo cammino attraverso l'Aígyptos e la Libýē, costellato di avventure di ogni genere, Hērakls arriva nello stretto tra Africa ed Europa. Non era possibile procedere oltre, e qui Hērakls pone due «colonne» [stlai] che ebbero per sempre il suo nome. Dopo di che, giunto sulle coste atlantiche della penisola iberica, Hērakls si trova di fronte ai flutti del potamós Ōkeanós, che nessun uomo aveva mai attraversato prima d'allora.

Solo il dio-sole Hḗlios aveva la facoltà di traversare quelle acque: quando tramontava, la sera, nell'estremo occidente, si imbarcava con i suoi cavalli su un'enorme coppa d'oro, e durante la notte il potamós Ōkeanós lo trasportava lungo la sua corrente, tutto intorno al mondo, conducendolo nelle lontane sponde di Aithiopía, a oriente, da dove Hḗlios sarebbe di nuovo sorto il mattino successivo. Ora, durante la lunga marcia attraverso il deserto africano, poiché i raggi cocenti del sole gli arrostivano la schiena, Hērakls aveva minacciosamente teso l'arco contro il carro del sole, ed Hḗlios, ammirato per il suo coraggio, aveva acconsentito a prestargli la sua coppa d'oro.

 Ed Hērakls tese contro di lui il suo arco come per colpirlo e Hḗlios gli impose di desistere, così Hērakls ebbe paura e desistette. In cambio Hḗlios gli attribuì la coppa d'oro che lo portava insieme ai cavalli quando durante la notte si trasferiva verso oriente nella direzione in cui il sole sorge. Allora Hērakls su quella coppa raggiunse Erýtheia. E quando fu in mare aperto, Ōkeanós per metterlo alla prova fece beccheggiare tremendamente la coppa tra le onde. Hērakls stava per rivolgergli contro l'arco ma Ōkeanós s'intimorì e lo pregò di desistere.
Pherekýdēs apud Athḗnaios: Deipnosophistaí [XI, 38,  c-d] = FGrHist [3 F 18a]
Hērakls nella coppa d'oro di Hḗlios ( 500-450 a.C.)
Immagine in una kýlix greca a figure rosse, attribuito a Doûris.
Da Vulci, Etruria (Viterbo, Italia).
Museo Gregoriano-Etrusco:
Musei Vaticani, Roma (Città del Vaticano)

A bordo di questa coppa, Hērakls può intraprendere la traversata del fiume Ōkeanós, primo uomo a tentare tale impresa. Venuti meno i venti e le correnti, utilizza la sua pelle di leone come vela, facendo egli stesso da albero (Servius: Scholia in Vergilii Aeneidem [VIII, ]). Giunto nell'isola di Erýtheia, Hērakls uccide Gēryṓn e gli altri mandriani. Dopo di che, imbarcate le rosse giovenche sulla coppa del sole, torna in Ibēría. Riconsegnata la coppa d'oro al legittimo proprietario, Hērakls sospinge le mandrie attraverso l'Ibēría, la Keltikḗ e l'Italía prima di tornare in Hellás, e questo vasto periplo diviene occasione per inventarvi sopra una gran quantità di vicende, amori, miti eziologici e fondazioni di città.

Non soddisfatto di un così straordinario bottino, anzi, contrariato dal fatto che Hērakls, a dispetto di ogni pronostico, sia tornato vivo, Eurysteús impone al cugino un érgon ancora più arduo del precedente: di portargli i krýsea mla, i «frutti d'oro», che crescono nel giardino delle Hesperídes. Questi frutti provenivano da un albero sacro che la terra Gaîa aveva donato ad Hḗra nel giorno del suo matrimonio con Zeús e che la dea stessa aveva piantato nel Kpos Hesperídōn, affidandone la cura alle nýmphai che colà vivevano.

Questa volta l'eroe comincia a vagare senza una direzione precisa, perché non sa dove si trovi il giardino meraviglioso. Si reca dapprima in Makedonía, e quindi in Illyría, dove, sulle rive del fiume Ēridanós, riesce a catturare il saggio Nēreús, nonostante le sue inaudite metamorfosi, e dopo averlo strettamente legato, riesce a farsi indicare la strada da seguire. Seguendo i consigli di Nēreús, Hērakls scende dall'Illyría di nuovo in Libýē, dove allora regnava Antheús figlio di Poseidn. Costui costringeva gli stranieri a lottare con lui, ma essendo superiore in forza e vigore, finiva per ucciderli. Antheús traeva dalla terra la sua forza, ragione per cui molti dicono che proprio la terra Gaîa fosse sua madre, e infatti, prima del combattimento, mentre il suo avversario si spalmava il corpo d'olio, Antheús si cospargeva di sabbia affinché il contatto con la terra aumentasse il suo vigore e la sua forza. Come altri viaggiatori, Hērakls è costretto a misurarsi con lui, ma riesce a tenerlo sollevato sopra di sé, interrompendo il contatto di Antheús con la terra, ne serra le costole tra le braccia e lo uccide.

Sconfitto Antheús, Hērakls giunge in Egitto, dove rischia di essere sacrificato dal locale re Boúsiris e accoppa anche lui. Poi scende verso sud. Alcuni dicono abbia risalito il Nílos, altri l'Arabía. Quale che sia il giusto itinerario, giunto ancora una volta dinanzi alle acque del potamós Ōkeanós, sebbene dal lato sud-orientale, Hērakls s'imbarca di nuovo sulla coppa aurea del sole, con la quale può lasciarsi trasportare dall'instancabile corrente fino al Kaúkasos. Qui, Hērakls libera Promētheús e uccide l'aquila che lo tormentava da secoli. Il titán gli fornisce finalmente la giusta rotta da seguire: il kpos, il giardino delle Hesperídes, si trova nell'estremo settentrione del mondo, oltre la terra degli Hyperbóreoi, là dove il cielo e la terra si toccano. Salito di nuovo a bordo della coppa d'oro del sole, Hērakls naviga attraverso gelidi mari boreali. Giunge così alla remotissima terra in cui si trova il mitico giardino. Qui, Átlas è condannato a reggere sulle spalle l'intera volta celeste.

Abbiamo parlato altrove di come Átlas tenta di ingannare Hērakls, cercando di imporre a lui il peso del cielo Ⓑ▼. Quel che ci interessa sottolineare è che i frutti dell'immortalità erano protetti da Ládōn, il drákōn hespérios. Nella versione di Apollódōros, Hērakls deve uccidere il serpente per impadronirsi dei krýsea mla (Bibliothḗkē [II: 5, ]). E lasciato Átlas a reggere il cielo sulle spalle, porta tre frutti d'oro ad Eurysteús. Questi li regala allo stesso Hērakls, ed Hērakls li restituisce ad Athēnâ, la quale li riporta al Kpos Hesperídōn, non essendo giusto che quei sacri pomi si trovino in un luogo diverso dal mitico giardino.

Concluso il suo impegno con Eurysteús, Hērakls trascorre gli anni successivi viaggiando per tutta la Grecia, dove ha diversi conti da saldare con chi aveva tentato di approfittarsi di lui nel periodo della sua schiavitù. Nel frattempo prende per sposa Dēiáneira, figlia di Oineús, per amore della quale lotta contro il dio fluviale Akhelos (sul quale ritorneremo). Qualche tempo dopo, conducendo con sé Dēiáneira, Hērakls giunge al fiume Eúēnos, dove il kéntauros Néssos traghetta i viandanti dietro compenso. Hērakls guada il fiume, mentre il kéntauros prende in groppa Dēiáneira. Giunto al centro della corrente, Néssos tenta di approfittarsi della donna ma Hērakls trae una freccia dalla faretra e lo colpisce. Il sangue velenoso dell'hýdra di Lérnē, di cui è intrisa la punta della freccia, procura al kéntauros un'atroce agonia. Prima di morire, Néssos dice a Dēiáneira, mentendo, che se raccoglierà il suo sangue, potrà trarne un filtro d'amore per ricondurre a sé Hērakls il giorno in cui egli darà segno di trascurarla.

Tempo dopo infatti, Hērakls s'invaghisce di una schiava, Iólē, e temendo di perderlo, Dēiáneira cosparge un chitone col filtro tratto dal sangue di Néssos e lo invia ad Hērakls in dono. Hērakls lo indossa, ma...

 Non appena il chitone cominciò a scaldarsi, il veleno dell'hýdra cominciò a corrodergli la pelle. Hērakls [...] cercò di strapparsi il chitone che gli aderiva al corpo, ma insieme a quello si laceravano anche le carni. Prostrato da questa sciagura, venne trasportato a Trakhís. Dēiáneira, quando apprese l'accaduto, s'impiccò. [...] Hērakls raggiunse il monte Oítē, che si trovava nel territorio di Trakhís, e lì, dopo avere fatto innalzare una pira, vi salì e diede ordine di accendere il fuoco. Nessuno voleva obbedire, fino a che un certo Poías, che era di passaggio alla ricerca delle sue gregge, accese il rogo: a lui Hērakls donò il proprio arco. Mentre la pira ardeva, si racconta che una nuvola l'abbia avvolto e trasportato in cielo tra i tuoni. Lì [Hērakls] ottenne l'immortalità, e riconciliatosi con Hḗra, sposò sua figlia Hḗbē...
Apollódōros: Bibliothḗkē [II: 7: 7]
①▲ Euripídēs, che nella sua tragedia Hērakls ci dà un crudo, toccante resoconto della follia di Hērakls e della macabra uccisione dei suoi stessi figli, pone il massacro dopo il ritorno dell'eroe dal compimento delle dodici «fatiche». Secondo Károly Kerény questa versione risalirebbe alla tradizione tebana e sarebbe più arcaica di quella fornita da Apollódōros, dove le «fatiche» vengono compiute in espiazione dell'omicidio (Kéreny 1963). Si veda sotto per una discussione al riguardo.
HĒRAKLS: RADIOGRAFIA DI UN HĒMÍTHEOS

In un sistema mitico in cui Apóllōn ricorda brutalmente che «saranno sempre due razze distinte, quella degli dèi immortali e quella degli umani che camminano sulla terra» (Ilías [V: -]), Hērakls presenta lo strano paradosso di un eroe che è riuscito a colmare lo iato con la divinità. Tra tutti gli eroi greci, Hērakls è quello che più degli altri si muove in bilico tra l'umano e il divino; è l'unico a innalzare da sé il proprio rogo funebre, l'unico a cui venga concessa l'apoteosi. Quando Odysseús scenderà nella casa di Áıdēs, troverà solo la sua ombra terribile, perché egli in realtà era contemporaneamente presente sull'Ólympos come un dio:

 E poi conobbi la grande forza d'Hērakls,
ma la parvenza sola: lui tra i numi immortali
gode il banchetto, possiede Hḗbē dalle belle caviglie
figlia del gran Zeús e di Hḗra dai sandali d'oro...

Hómēros: Odýsseia [XI: -]

La figura di Hērakls sembra il risultato di una complessa stratificazione di temi mitici che sono venuti a sovrapporsi nell'area del Mediterraneo orientale nella seconda metà del Secondo millennio avanti Cristo, e dall'identificazione di personaggi appartenenti a tradizioni differenti, con interessanti scambi di attributi e valenze. Stabilire le tappe di questo percorso mitogenetico è difficile, se non impossibile. Possiamo solo identificare alcuni degli apporti che, nel corso del tempo, hanno dato vita all'immagine di Hērakls, in particolare quella attestata dal mito ellenico, che conosciamo più approfonditamente, a cui possiamo affiancare gli «eracli» eterogenei consegnatici dalle tradizioni italica, etrusca e fenicia.

Gli apporti più facilmente distinguibili alla base della figura di Hērakls sono tre: 1) il dio-tuono indoeuropeo, 2) il dio fenicio Melkqart, 3) il Gilgameš mesopotamico, a cui si aggiunge il confronto con l'Hercules/Hercle italico. Entriamo nel dettaglio.
 

1. Il dio-tuono indoeuropeo

Dietro l'iconografia, fin troppo nota, di Hērakls, che la tradizione greca ci propone come figura essenzialmente eroica, traspare il profilo dell'antico dio-tuono indoeuropeo. In uno studio successivo delineeremo con maggiore precisione i tratti comuni ai vari esiti di questo comune mitema: il lettore ci scuserà se per ora daremo per scontate delle conclusioni che richiederebbero una più attenta argomentazione.

Gli esiti del dio-tuono indoeuropeo sono facilmente individuabili: Indra in India, Tarḫunta in Anatolia, Þórr in Scandinavia, Taranis in Gallia, Perunŭ tra gli Slavi orientali sono alcuni degli esempi più evidenti. A nostro avviso, queste figure non sono soltanto analoghe (cioè non condividono semplicemente la medesima funzione), ma sono anche omologhe, cioè derivate – sebbene con modifiche e apporti – da una figura comune, appartenente all'antica religione indoeuropea. In alcuni dei casi sopra elencati, l'omologia dei personaggi è evidenziata dalla radice stessa del nome (da un indoeuropeo *(S)TENH₂-, cfr. sanscrito tanyati, greco sténō, latino tonare «tuonare», antico germanico *þunraz, medio irlandese torand/torann, antico slavo stenǫ «brontolare»).

L'originaria mitologia di questa figura può essere dedotta dagli elementi comuni ai vari esiti. La funzione principale del dio-tuono sembra essere quella di difendere l'ordine cosmico dalle minacce presenti ed escatologiche: si sposta lungo i confini del mondo per spacciare mostri e giganti; è rissoso, irascibile, vorace, gran bevitore, dotato di un gagliardo appetito sessuale. Sembra che in origine il dio-tuono fosse considerato il re degli dèi, sebbene nei limiti di una regalità guerriera di seconda funzione. Tra gli schemi mitici comuni alla maggior parte degli esiti del dio-tuono ne ricordiamo tre: (a) lo scontro con il tricefalo, identificabile in alcune tradizioni al titano incatenato; (b) un paradossale difetto di virilità che lo porta a travestirsi da donna o ad assumere attribuiti femminili; (c) la lotta escatologica con il serpente-delle-acque. In alcuni casi, la figura del dio-tuono appare trasposta in forma eroica: è il caso di Θraētaona/Frēdōn in Īrān o Tullus Hostilius a Roma. A volte, egli sviluppa dei sodali che appaiono in forma triplice o come terzo elemento di un terzetto: è il caso di Trita Āptya in India, dello stesso Θraētaona in Īrān, dei tre Horatii a Roma o dei Clanna Tuirenn in Irlanda.

Hēraklês contro Akhelôos ( 1824)
François-Joseph Bosio (1769-1845), scultura in bronzo
Musée du Louvre, Paris (Francia).

In Grecia, l'esito del dio-tuono indoeuropeo è, appunto, Hērakls. Ce ne danno una prima indicazione il carattere e gli attribuiti del dio, compatibili con quelli del dio-tuono indoeuropeo (forza fisica, voracità, appetito sessuale, etc.); la clava di Hērakls può essere messa in correlazione con il vajra di Indra, il mjǫllnir di Þórr, la clava di Θraētaona/Frēdōn, etc. In secondo luogo, vi è la funzione generica del personaggio, che viaggia ai confini del mondo e combatte mostri di ogni sorta. In terzo luogo, i tre schemi mitici sopra riferiti, trovano un puntuale riferimento nel ciclo di Hērakls: (a) lo scontro con Gēryṓn; (b) l'episodio in cui, abbigliato da donna, deve servire la regina Omphálē; (c), la lotta contro l'hýdra di Lérnē e/o quella contro il dio fluviale Akhelos.

Difficile dire come sia avvenuto, in Grecia, il declassamento di questa divinità a hēmítheos. Una delle ragioni, se non forse la principale, è stata la progressiva crescita di importanza di Zeús, che ha portato a una ridefinizione dell'intero pántheon protoellenico. Il dio-cielo indoeuropeo, a giudicare dal suo omologo indiano, Dyauṣ Pitā, era probabilmente avvertito come un essere lontano e inaccessibile: assente nella mitologia, presentava probabili caratteristiche di deus otiosus. Ma nello sviluppo della mitologia greca, Zeús dovette subire l'influenza degli dèi supremi medio-orientali, in particolare Enlil, Yǝhwāh e Baʿal, divinità temporalesche tanto nel carattere quanto negli attributi (e abbiamo visto come Zeús abbia sostituito puntualmente Enlil nelle riletture esiodee dei miti mesopotamici). Questa interpraetatio orientalis finì col conferire a Zeús una sorta di regalità atmosferica, assai differente dalla regalità guerriera tipica del dio-tuono, dandogli nel contempo il dominio sui fulmini e sui lampi. Questo passaggio dovette provocare il declassamento del dio-tuono, il quale, perduta la regalità guerriera, trasformata la sua arma folgorante in una semplice clava, venne restituito come un semplice semidio, o eroe. In un certo senso, l'apoteosi finale di Hērakls, è il processo formale che, all'interno del canone mitico, ristabilisce la giusta statura di un personaggio che nel corso della sua evoluzione storica aveva subito il processo inverso. Il mito dell'apoteosi doveva anche giustificare, a posteriori, il culto tributato al «dio» Hērakls, culto che ovviamente risaliva a epoche più antiche del suo declassamento a eroe.
 

2. Il dio fenicio Melkqart

Melkqart, il «re della città», era il dio poliade di Týros/Ṣūr (baʿal Ṣūr), il cui culto fu diffuso dai Fenici in tutto il Mediterraneo. La sua identificazione con l'Hērakls classico appare piuttosto antica e, tenendo conto della profonda influenza culturale che i Fenici ebbero sulla civiltà greca (basti pensare all'alfabeto...), ci si può chiedere quali elementi siano passati dal dio fenicio all'eroe greco. Disgraziatamente sappiamo pochissimo sulla mitologia di Melkqart. Una storia piuttosto interessante viene riportata da Athḗnaios Naukratítēs († 392 a.C.):

Eúdoxos d' ho Knídios en prṓtōi gs periódou toùs Phoínikas légei thýein ti Hērakleî órtygas dià tò tòn Hērakléa tòn Asterías kaì Diòs poreuómenon eis Libýēn anairethē̂nai mèn hypò Typhnos, Ioláou d' auti prosenénkantos órtyga kaì prosagagóntos osphranthénta anabinai. Échaire gár, phēsí, kaì periṑn tō̂i zṓiōi toútōi.Eúdoxos Knídios, nel suo Gs periódos [«Descrizione della terra»], dice che i Fenici sacrificano quaglie a Hērakls, perché Hērakls, figlio di Astería (= Aštart?) e Zeús (= Hadad?), andò in Libýē e fu ucciso da Typhn. Ma Iólaos gli portò una quaglia e la mise accanto a lui; egli ne annusò il profumo e tornò alla vita. Finché egli rimase in vita, dice Eúdoxos, Hērakls fu ghiotto di tali uccelli.
Athḗnaios Naukratitēs: Deipnosophistaí [IX: 392d-e]

Inoltre, nelle pseudepigrapha Clementis, serie di omelie attribuite al teologo Klḗmēns Alexandreús († 215), vi è un passo dove si compiange la follia del politeismo e si citano i sepolcri di diverse divinità, inclusa la tomba «di Hercules di Tyrus, che venne bruciato col fuoco» (Pseudo Clementines recognitiones [X, 24] = Homilíai [XX]). Se la testimonianza delle pseudoepigrapha non dipende dal mito greco, se cioè riporta un'effettiva tradizione fenicia, potremmo ipotizzare un'ispirazione medio-orientale alla base del mito della morte sulla pira dell'Hērakls ellenico. Dal racconto di Athḗnaios si suggerisce anche il motivo della resurrezione dell'eroe, che potrebbe essere alla base del mito dell'apoteosi di Hērakls, oltre alla presenza, accanto all'Hērakls fenicio, di un suo compagno, qui identificato con Iólaos. Anche nei frammenti del mitografo fenicio Saŋkouniáthōn, di cui rimane solo una parafrasi parziale di Phílōn di Býblos/Gebal, Melkqart (Melkathros) viene identificato con Hērakls (Eusébios Kaisareús: Euaŋgelikḕ proparaskeuḗ / Praeparatio Evangelica [X]). Ma avremo modo in seguito di approfondire alcuni dettagli legati al culto dell'Hērakls fenicio.


3. Elementi dall'epopea di Gilgameš

Un certo numero elementi epico/mitologici presenti nel ciclo di Hērakls, in particolare la dinamica dei suoi viaggi ai confini del mondo e la ricerca dei frutti dell'immortalità nel giardino delle Hesperídes, trovano un confronto particolareggiato e puntuale con l'epopea di Gilgameš. Come cercheremo ora di dimostrare, vi è probabilmente alla base di entrambi i cicli – ellenico e mesopotamico – un mito più antico di ricerca dell'immortalità, di cui ne analizzeremo le varianti e che, nei miti indoeuropei, viene solitamente collegato al dio-tuono. Le divergenze, anche profonde, tra il ciclo di Gilgameš e quello di Hērakls sono in parte spiegabili attraverso la complessa storia di apporti che, nel caso di Hērakls, ha modificato l'ideologia del personaggio, e nella millenaria rielaborazione letteraria che, nel caso di Gilgameš, ha alterato alcuni tratti del suo mito originario.


L'Hercules/Hercle italico

Uni allatta Hercle ( ±325-300 a.C.)
Specchio etrusco, in bronzo, da Volterra.
Museo Archeologico di Firenze (Italia)
L'iscrizione sullo specchio riporta: eca sren tva iχnac hercle unial clan θrasce «Questa immagine mostra come Hercle figlio di Uni poppava». La scena ricorda il mito ellenico dell'allattamento del piccolo Hēraklês da parte di Hḗra, ma il fatto di trovare qui l'eroe adulto e barbuto, attaccato al seno della dea, non ha ancora un'interpretazione convincente. Tra le letture proposte: (1) una forma rituale di riconciliazione tra Hercle e la sua avversaria storica Uni; (2) una variante etrusca del mito d'immortalità.

Sembra che a Roma, ancora intorno al V secolo avanti Cristo, Hercules fosse adorato come una delle principali divinità del pántheon locale e a lui fosse dedicata l'ara maxima sul mons Boarius. Il nome latino del dio, d'altra parte, non è teoforico come quello di Hērakls; cioè non è legato né al nome della dea Hēra, né a quello della sua interpraetatio romana Iuno. E nonostante ancora Marcus Terentius Varro consideri la lezione latina derivata dalla greca (De lingua latina [V: 45 | 66]), tra i nomina Hērakls ed Hercules non sembrano esservi elementi corradicali.

Che in origine Hercules fosse stato un dio ce ne dà certezza anche il fatto che a Roma gli si tributavano onori divini prima ancora che la sua figura venisse interpretata sulla scolta dei miti greci, e dal fatto che un dio a tutti gli effetti era sempre stato Hercle tra gli Etruschi. È curioso che questo ercole tirrenico fosse stato definito dagli Etruschi Unial clan, «figlio di Uni», che altri non era che la Iuno romana. Si profila l'immagine, paradossale, di un Hērakls figlio di Hḗra. E questo a totale dispetto del mito greco, in cui incontriamo una Hḗra gelosissima del figlio di suo marito, che cerca anzi di contrastare in tutti i modi. È davvero possibile che in un certo stadio della sua formazione il mito sia stato capovolto? Sembrerebbe proprio di sì, se pensiamo che il nome ellenico dell'eroe significa «gloria di Hḗra», e che ai miti che descrivono la gelosia della dea, se ne affiancano altri dove Hḗra ha un diverso contegno nei confronti di Hērakls.

Si comincia a delineare una diversa figura di Hērakls. Un antico dio del tuono, legato alla dea Hḗra, ma interpretato in maniera diametralmente opposta nella narrativa mitologica, declassato da dio a semplice eroe. Un eroe sui generis, tuttavia, talmente preso dalla nostalgia delle sue origini divine, da sfidare il fato per riconquistare il suo posto nel consesso degli immortali.

LA STRADA PER LE HESPERÍDES

Prima di proseguire, dobbiamo fare il punto su una questione di non secondaria importanza. Dov'era localizzato, con esattezza, il giardino delle Hesperídes? E quale tragitto aveva percorso Hērakls per arrivarci?

Il giardino delle Hesperídes ( ±1892)
Frederic Leighton (1830-1896).
Lady Lever Art Gallery, Port Sunlight (Regno Unito).

Questa domanda non ha una risposta univoca. Come vedremo, gli stessi mitografi antichi mostrano un certo grado di incertezza su dove collocare il favoloso kpos dove crescevano i frutti dorati dell'immortalità.

Il nostro affaticatissimo Hērakls, come abbiamo visto, dovette recarsi due volte ai confini del mondo, per compiere due distinti érga: la decima «fatica», il furto del bestiame di Gēryṓn, e l'undicesima, quella, appunto, per procurarsi i frutti delle Hesperídes. Poiché riconosciamo agilmente nella prima impresa uno dei classici miti indoeuropei legati al ciclo del dio-tuono (la lotta con il tricefalo), possiamo facilmente escluderla dal nostro lavoro. Tuttavia, molti elementi geografici e cosmologici legati a Erýtheia, l'isola dove dimorava Gēryṓn, risultano perfettamente sovrapponibili ad alcune delle tradizionali localizzazioni del Kpos Hesperídōn, al punto che possiamo considerare i due itinerari di Hērakls come la duplicazione letteraria di un percorso singolo.

Effettivamente, alcune delle avventure minori vissute da Hērakls nel corso di questi peripli (con la lotta con Antaîos, o lo scontro con Boúsiris) sono indifferentemente assegnate dai mitografi all'uno o all'altro érgon. E ancora, Erýtheia, la «rossa», è tanto il nome dell'isola di Gēryṓn, quando il nome di una delle nýmphai Hesperídes. Possiamo dunque utilizzare senza problemi il materiale geografico tratto dal decimo érgon di Hērakls per tentare di localizzare il kpos raggiunto nell'undicesimo.

Le nome delle Hesperídes deriva dal sostantivo greco hespéra, nei suoi significati convergenti di «occidente» e di «tramonto». Il sostantivo maschile hésperos (< *wésperos) vuol dire «sera» ma Hésperos è anche la stella della sera, il nome che il pianeta Venere assume quando segue il sole nel tramonto (all'alba porta il nome di Phósphoros); come aggettivo, hésperos vuol dire «serotino» e «occidentale». La radice deriva da un indoeuropeo centro-occidentale *WESPER-/*WEKER-, del medesimo significato (cfr. latino vesper, armeno gišer, lituano vãkaras, antico russo večerŭ «sera»).

Le Hesperídes erano dunque le nýmphai dell'occidente e del tramonto. Le tradizioni non sono univoche nell'elencare i loro nomi. Secondo un incerto frammento esiodeo, erano in numero di tre, e si chiamavano: Aíglē, la «radiosa», Erýtheia, la «rossa», ed Esperéthousa, la «rapida sera» dai dolci occhi bovini (Hēsíodos: Phragmenta [360 dub MW]). Apollódoros scinde però l'ultimo nomen e ci propone quattro distinte fanciulle: Aíglē, Erýtheia, Espéra e Aréthousa (Bibliothḗkē [II: 5, ]). Aíglē, Erýtheia ed Espérē tornano invece ad essere in Apollṓnios Rhódios (Tá Argonautiká [IV: -]). Esistono anche altre tradizioni, ma elencarle è un giochino da mitografi. In quanto alla loro paternità, non vi è nemmeno qui uniformità di vedute. Hēsíodos le enumera – giustamente – tra i figli delle «notte», Nýx dalle nere ali (Theogonía [-]). In seguito altri mitografi diranno che erano figlie di Zeús e Thémis (Servius: Scholia in Vergilii Aeneidem [IV, ]); di Phórkys e Ketṓ (Scholia in Apollonium Rhodium [IV, ]); o di Átlas (Pherekýdēs: FGrHist [3 F 16a]; Diódōros Sikeliṓtēs: Bibliothḗkē Historikḗ [IV: 26]; Hyginus: De Astronomia [II: 3]), identificandole in tal caso con le Atlantídes.

Ritorniamo alla nostra domanda: dove si trovava il giardino delle Hesperídes?

A giudicare dall'etimologia del nome, verso il tramonto, a occidente, ed è questa la più antica e razionale localizzazione del meraviglioso giardino. Nella Theogonía, Hēsíodos colloca le Hesperídes in una sorta di occidente cosmologico. Le nýmphai del tramonto abitavano «verso la notte» [], «al di là del famoso Ōkeanós» [ | ]:

...Hesperídas th', hs mla pérēn klytoû Ōkeanoîo
chrýsea kala mélousi phérontá te déndrea karpón.
...le Hesperídes che, al di là del famoso Ōkeanós, si prendono
cura delle mele d'oro e degli alberi che ne portano il frutto.
Hēsíodos: Theogonía [-]

...Gorgoús th', haì naíousi pérēn klytoû Ōkeanoîo
eschati pròs Nyktós, hín' Hesperídes ligýphōnoi...

...e le Gorgónes, che hanno dimora al di là del famoso Ōkeanós,
verso la notte, agli estremi confini, dove sono le Hesperídes dalla voce acuta...
Hēsíodos: Theogonía [-]
Átlas d’ ouranòn eurỳn échei kraters hyp’ anáŋkēs
peírasin en gaíēs, própar Hesperídōn ligyphṓnōn,
hestēṑs kephal te kaì akamátēısi chéressin;
taútēn gár hoi moîran edássato mētíeta Zeús.
Átlas regge il vasto cielo, soggiacendo a dura necessità,
ai confini della terra, davanti alle Hesperídes dalla voce sonora
stando ritto, con la testa e le braccia instancabili:
tale sorte gli assegnò, infatti, Zeús prudente.
Hēsíodos: Theogonía [-]

Sebbene Hēsíodos citi le nýmphai e non il kpos, sembra ovvio inferire che esse dimorino in qualche terra o isola posta oltre il fiume Ōkeanós, non lontano dal luogo dove il titán Átlas è condannato a sorreggere il cielo. Ci troviamo in un luogo oltremondano, che si confonde tanto con l'isola di Erýtheia, tanto con le Makárōn Nsoi, le «isole dei beati» del mito ellenico.

Autori successivi cercheranno di razionalizzare la materia situando il Kpos Hesperídōn non al di là del fiume Ōkeanós, ma prima di esso, sulle coste occidentali della terra abitata. Identificando il titán con il monte omonimo, alcuni mitografi pongono il giardino nei pressi del monte Átlas (il massiccio occidentale dell'Atlante, nel Maġrib). Il primo a suggerire questa localizzazione sembra sia stato Pherekýdēs (FGrHist [3 F 16a]). Secondo Diódōros Sikeliṓtēs i krýsea mla crescevano in «certi giardini delle Hesperídes in Libýē» (Bibliothḗkē Historikḗ [IV: 26]). Apollṓnios Rhódios colloca il kpos presso il semimitico lago Tritōnís, sempre in Libýē (Tá Argonautiká [IV: -]). Hyginus lo localizza sul monte Átlas (De Astronomia [I: 30]). Saltando dalla sponda africana a quella europea, Strábōn compie prodigi di geografia localizzando le Hesperídes, come pure Erýtheia e le Makárōn Nsoi, in Ibēría, tra le isolette poste di fronte a Gádeira (od. Cádiz, Spagna) (Geōgraphiká [III: 1, ]).

L'identificazione del titán Átlas con l'óros Átlas viene portata a compimento in un racconto di Publius Ovidius Naso, che attiene però al ciclo di Perseús. L'eroe – antenato di Hērakls – tornando vittorioso dall'impresa contro Médousa, vola, sospeso sui suoi sandali alati, sopra il meraviglioso giardino di Átlas, che il brillante poeta augusteo pone in un luogo non lontano dal punto dove il sole tramonta tuffandosi in mare:

Iamque cadente diem veritus se credere nocti,
constitit Hesperio, regnis Atlantis, in orbe,
exiguamque petit requiem. [...]
Hic hominum cunctos ingenti corpore praestans
Iapetionides Atlas fuit, ultima tellus
rege sub hoc et pontus erat, qui Solis anhelis
aequora subdit equis et fessos excipit axes.
Mille greges illi totidemque armenta per herbas
errabant, et humum vicinia nulla premebant.
Arboreae frondes auro radiante nitentes
ex auro ramos, ex auro poma tegebant.
E ormai il giorno volgeva alla fine, e non osando volare di notte
[Perseús] su fermò nella regione di Hespería, nel regno di Átlas,
per concedersi un po' di riposo. [...]
Di statura enorme, superiore a quella di qualsiasi uomo,
Átlas, figlio di Iapetós regnava sull'estremo lembo della terra
e sulle distese marine che accolgono nel loro grembo
i cavalli ansimanti e il cocchio stanco del sole.
Aveva mille greggi e altrettanti armenti che gli erravano
per i prati, e nessun vicino premeva ai suoi confini.
Sugli alberi, fronde lucenti, d'oro sfavillante,
coprivano rami d'oro, frutti d'oro.
Publius Ovidius Naso: Metamorphoseon [IV: -]

Perseús chiede ad Átlas di permettergli di scendere nel meraviglioso kpos per ristorarsi dalle fatiche del viaggio, ma il titán rifiuta, in quanto gli è stato profetizzato che il suo giardino sarà spogliato da un discendente di Zeús. Perseús non ha modo di sapere che la profezia riguarderà il suo futuro bisnipote Hērakls. Irritato, trae la testa mozzata di Médousa dalla bisaccia e con quella pietrifica Átlas, trasformandolo nel monte che porta il suo nome. Dopo di che, senza badare al groviglio di contraddizioni nelle quali, così facendo, infilerà Hērakls tre generazioni più tardi, Ovidius si appresta a seguire Perseús verso le sponde di Aithiopía, dove l'immaginario erotico legato alla nudissima Andromédē incatenata al suo scoglio darà modo al giovane eroe di cominciare a pensare a una discendenza...

Ma vi è anche una terza localizzazione del Kpos Hesperídōn: nell'estremo settentrione della terra, ed è questa la versione fornita da Apollódōros il quale, dopo aver raccontato il furto del bestiame di Gēryṓn, passa alla ricerca dei krýsea mla delle Hesperídes e, cercando di variare l'itinerario del viaggio, abbraccia la variante boreale, arrivando al punto di duplicare la catena africana dell'Atlante nella terra degli Hyperbóreoi:

[I frutti delle Hesperídes] non si trovavano, come alcuni hanno detto, in Libýē, ma sull'Átlas tra gli Hyperbóreoi, ed erano i doni che G aveva fatto a Zeús quando aveva sposato Hḗra.
Apollódōros: Bibliothḗkē [II: 5]

Nel racconto di Apollódōros, che tra quelli che ci sono pervenuti è il più completo e coerente, una volta giunto nella terra degli Hyperbóreoi, Hērakls trova Átlas che sostiene il cielo sulle sue spalle, e lo sostituisce nell'ingrato compito il tempo necessario affinché questi vada a prendere per lui i frutti d'oro nel Kpos Hesperídōn. Questa vicenda è anche riportata, tra gli altri, da Euripídēs, che localizza Átlas «sotto il centro del cielo»:

 

Fra le vergini che
cantano là negli orti delle Hesperídes, per afferrare piombò
quel bel frutto dorato da foglie di melo
e uccidere quel fulvo serpente vigile
custode, in spire attorto.
Entrò fin laggiù, nel fondo pelago
a infondere, in chi remiga, serena calma.
Sotto il centro del cielo
quindi punta le braccia,
nella casa di Átlas,
sedi astrali di dèi, la sua
forza umana sostenne.

Euripídēs: Hērakls

Meno chiaro è capire come possa il mitico giardino, etimologicamente legato all'occidente e al tramonto, essere stato traslato nell'estremo nord. Una possibile risposta potrebbe derivare da una considerazione astronomica: il luogo più ovvio dove Átlas sia posto a sorreggere il cielo non può trovarsi nell'estremo occidente, come afferma Hēsíodos, ma sotto il polo celeste, a settentrione. Se così è, i mitografi, d'accordo con gli astronomi, hanno agguantato il possente titán e, a dispetto della sua mole, gli hanno cambiato residenza. Questa rivoluzione sembra aver avuto l'effetto di spostare tutto il tragitto di Hērakls, lasciando tracce profonde nel groviglio di tradizioni incoerenti che ci sono pervenute. Parte del primitivo tragitto occidentale di Hērakls è stato dirottato sull'érgon gerioneo; un'altra parte è stata duplicata e alterata in modo che l'eroe potesse volgere i suoi passi a nord.

Almeno questa è l'impressione generale. Ma non ci stupiremmo se, al contrario, proprio la versione boreale sia la più antica.

Dunque, riassumendo le varie versioni, il Kpos Hesperídōn è localizzato:

  1. in una terra oltre il fiume Ōkeanós, presso il luogo dove il sole tramonta, nell'estremo occidente del kósmos;
  2. presso l'óros Átlas, in Libýē, nell'estremo occidente della terra abitata o oikouménē;
  3. nella terra degli Hyperbóreoi, nell'estremo settentrione, in prossimità del polo celeste.

Ma affronteremo poi i dettagli di questa rivoluzione «copernicana». È ora di prendere il nostro forzuto campione, di certo il più arcaico degli eroi greci, e cominciare a distinguere quali tratti della sua figura nascondano degli elementi del mito di Gilgameš.

GILGAMEŠ ED HĒRAKLS: DUE EROI A CONFRONTO

Tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento, mentre l'epopea di Gilgameš ritornava alla memoria dell'umanità dopo un oblio di duemila anni, i filologi cominciarono a rilevare i punti di contatto che l'epopea mesopotamica suggeriva tanto con i testi biblici, tanto con l'epica classica. Ciò che gli archeologi portavano alla luce dai loro scavi nei tilāl ˓irāqeni erano versioni parallele, certamente più antiche, sia delle ben note vicende bibliche, sia degli usuali miti classici su cui si credeva non vi fosse nient'altro da aggiungere, ma che ora, nel confronto con il mito mesopotamico, proiettavano ombre di cui non si era mai sospettata l'esistenza.

Eppure l'atteggiamento degli studiosi di fronte al nuovo materiale non fu sempre positivo. Sebbene fosse divenuto possibile contestualizzare la Bibbia nell'ambito della riscoperta letteratura dell'antico Vicino Oriente, vi fu (e c'è ancora) chi cercò di difendere il primato morale e letterario delle sacre scritture. Per quanto possa apparire strano, una resistenza di questo genere si verificò anche nella comparazione con la cultura greca, la cui «purezza» fu strenuamente difesa da molti classicisti. La presenza di forti radici medio-orientali nel mito ellenico stentò parecchio a farsi strada presso gli specialisti.

Certo, non si poteva negare che molti dettagli del mito di Hērakls avessero già avuto una loro più antica formulazione nella storia di Gilgameš. Lo scontro del re di Uruk contro il toro celeste e i leoni del deserto aveva un parallelo in due delle fatiche di Hērakls; la lotta tra Gilgameš ed Enkidu richiamava (forse) quella tra Hērakls ed Antheús; la strana scena di Gilgameš che attraversa in barca le acque della morte, usando i suoi vestiti come una vela, era un doppione sputato della strana variante riferita da Servius Honoratus, dove Hērakls naviga verso Erýtheia usando a mo' di vela la sua pelle di leone (Scholia in Vergilii Aeneidem [VIII, ]). Tuttavia, nessuno specialista aveva mai avanzato l'ipotesi di una omologia profonda e consistente tra il mito del re urukita e quello dell'eroe ellenico: ci si accontentava di segnalare una lista di episodi «minori» che sembravano essersi trasmessi dal mondo mesopotamico a quello ellenico. Questi episodi similari erano interpretati come frammenti erratici di antiche epopee medio-orientali o mediterranee, irrimediabilmente scisse dai racconti originali e venute a incagliarsi in questo o quel punto del ciclo greco di Hērakls. Questa spiegazione è tuttora considerata sufficiente: d'altra parte, l'ipotesi di un'omologia tra Gilgameš ed Hērakls cozza contro la distanza ideologica tra i due personaggi, i quali paiono muoversi in direzioni diametralmente opposte. Il primo, un eroe tragico che ambisce all'immortalità, beffato dall'intervento di un serpente; il secondo, un eroe epico, che i serpenti li strangola nella culla e che, alla fine di una carriera di viaggi e avventure, viene reso immortale suo malgrado.

Si aggiunga che il mito classico è parte integrante della nostra cultura: è difficile scrollarci di dosso le fisionomie degli dèi e degli eroi greco-romani, acquisite in venticinque secoli di poesia, teatro, pittura, scultura, romanzi, cinema, cartoni animati e libri per ragazzi. Non è facile decostruire vicende che abbiamo assorbito per osmosi insieme alla nostra stessa cultura, e che conosciamo in maniera talmente intima da non riuscire più a intravederne lo stampo originario. Come abbiamo più volte sottolineato, un tema mitico, trasferito da un popolo all'altro, o ereditato da una cultura di substrato, può mutare fino a rendersi quasi irriconoscibile. Individuare dei singoli temi è abbastanza facile (il serpente e la pianta dell'immortalità; la lotta contro il serpente/drago; la navigazione sulla barca del sole...). Assai più difficile è individuare schemi dettagliati e complessi in cui a ogni punto in un mito corrisponda un punto simmetrico in altro. Ma solo così possiamo individuare la metamorfosi di un racconto attraverso il tempo e lo spazio, distinguere quei temi che, mutate le ideologie di base, sono andati trasformandosi o, addirittura, capovolgendosi.

Attenzione. Non stiamo sostenendo un'omologia «forte» tra Gilgameš ed Hērakls: è evidente che i personaggi abbiano un'origine affatto differente. La nostra ipotesi è che alcuni dei più importanti racconti del ciclo di Hērakls siano stati disegnati sugli schemi del medesimo mito della ricerca dell'immortalità che ha animato l'epopea di Gilgameš. Tale ipotesi richiede però un'ulteriore precisazione: a quali livello di sviluppo del ciclo del lugal sumerico dobbiamo fare riferimento? Lo Ša naqba īmuru è una composizione letteraria neoassira, risalente – nella sua versione definitiva – al 700 a.C. In quest'epoca il ciclo di Hērakls si era già formato. Analizzando il ciclo di Gilgameš, dobbiamo dunque sforzarci di filtrare quegli elementi che potrebbero essere un'innovazione del poema ninivita, lo Ša naqba īmuru, e concentrarci, dove possibile, sui testi più antichi. Le analisi che seguono ci aiuteranno in questo lavoro.


Il protagonista

Soffermiamoci su quello che potremmo chiamare il character design di Gilgameš ed Hērakls. A prima vista possono comparire delle differenze incolmabili: il primo è un sovrano ossessionato dalla paura della morte; il secondo un eroe ridotto in servitù che non ha paura di nulla. Tuttavia, se andiamo ad analizzare i due personaggi a una risoluzione più sottile, si rivelano alcune precise affinità. La natura di Gilgameš ed Hērakls, ad esempio, non è interamente contenibile nella definizione di «umanità», ma straborda. Quando Gilgameš fa la sua comparsa, stanco ed emaciato, dal deserto, i due uomini-scorpione si guardano l'un l'altra. Dice il maschio: “chi arriva a noi è carne degli dèi” [šá il-li-kan-na ši UZU(=šīr) DIIR(=ilī) zu-mur-šu]; ribatte la femmina: “costui è per due terzi dio ma un terzo è uomo” [šit-ta-šu DIIR(=ilum)-ma šul-lul-ta-šú a-me-lu-tú] (Ša naqba īmuru [IX:  | ). Gilgameš avrebbe dunque le carte quasi in regola per ambire a un seggio nel consesso degli dèi. Ma nonostante egli si avvicini alla divinità più di ogni altro uomo, quel terzo di natura umana condanna Gilgameš al comune destino di tutti i mortali. Il suo dolore per la morte di Enkidu passa attraverso un riconoscimento dei propri limiti, limiti che egli misura con la consapevolezza del suo essere quasi un dio e che, per questa ragione, non può accettare.

Come Gilgameš, anche Hērakls ha una parte preponderante di carne divina. Ma anche in una mitologia come quella greca, dove tutti i maggiori eroi sono stati generati dal connubio tra un dio e una mortale (più raramente una dea e un mortale), la superiorità di Hērakls rispetto agli altri hēmítheoi è spesso sottolineata. Zeús aveva triplicato la lunghezza della notte trascorsa con Alkménē affinché il figlio generato da quelle nozze fosse il più possente di tutti gli eroi. Ma alle fine anche il vantaggio di nascita di Hērakls si rivela insufficiente, sebbene sotto un profilo differente da quello di Gilgameš: il trono di Tíryns e Mikḗnē, a cui Zeús lo ha destinato, viene assegnato a Eurysteús, la cui nascita è stata affrettata da Hḗra. Queste scelte letterarie sono spiegate dal fatto che il mito di Hērakls è naturalmente orientato verso l'apoteosi. Sebbene gli antenati degli Elleni avessero riletto l'intero ciclo del dio-tuono indoeuropeo in forma di carriera eroica, avevano comunque mantenuto un posto a Hērakls nel pántheon e nel culto. Questa schizofrenia – di cui troviamo traccia nel duplice destino dell'eroe, in Odýsseia [XI: -] – rende inevitabile l'apoteosi finale dell'eroe e impedisce a Hērakls un percorso tragico simile a quello di Gilgameš. Per tale ragione, gli episodi che nell'epopea mesopotamica erano legati a un'estenuante ricerca dell'immortalità, vengono qui adattati a un diverso contesto.

Il mito presenta Gilgameš ed Hērakls come due eroi quasi sulla soglia della divinità, ma non abbastanza per poter godere dei diritti a cui sono stati (o sentono di essere stati) destinati. Gilgameš è un possente lugal («grande uomo», re), ma gli dèi gli hanno negato l'immortalità; Hērakls, a cui le esigenze del mito e del culto hanno assegnato un destino di immortalità, si vede negare la regalità da Hḗra. Come si vede, una stessa dinamica di base, associata a diversi contesti ideologici, ha prodotto un'inversione dei motivi mitici.

 RegalitàImmortalità
Gilgameš Concessa dagli dèiNegata dagli dèi
Hērakls Negata da HḗraConcessa dagli dèi

L'avversaria

Il dramma centrale che cambia la vita di Gilgameš è dovuto al modo offensivo con cui tratta Inanna/Ištâr: è la dea a inviare Gudanna, il toro del cielo, la cui uccisione provoca – come contrappasso – la morte di Enkidu. Di fronte a questo lutto, che lo mette di fronte alla propria natura e mortalità, Gilgameš scende dal trono e, vestito di una pelle di leone, si avventura nel deserto alla ricerca della vita. Analogamente, la carriera eroica di Hērakls è segnata dal suo rapporto conflittuale con Hḗra, regina del cielo. È la dea a fare impazzire Hērakls, il quale, nel trovarsi di fronte i corpi dei figli da lui stesso uccisi, anch'egli in pelle di leone si consegnerà – nella versione di Apollodórōs – in servitù per dodici anni a Eurysteús. Il ruolo della dea avversaria, nelle carriere di Gilgameš ed Hērakls, sebbene si esplichi in maniera diversa, è fondamentale nel provocare un lutto che è anche una crisi: dinanzi alla morte di Enkidu, o ai corpi dei propri figli, sia Gilgameš che Hērakls rinunciano alla loro vita e intraprendono – direttamente o indirettamente – l'avventura eroica che li porterà ai confini del mondo.

La ragione dell'ira di Ištâr, nell'epopea ninivita, è lo sprezzante rifiuto di Gilgameš alle sue profferte amorose (Ša naqba īmuru [VI: -]). A questo tema – che sembra però un escamotage letterario, al fine di elencare i molti amanti della dea, in un'esibizione di sapienza mitologica sul filo di Madamina il catalogo è questo – corrisponde però, nei testi sumerici, un motivo affatto diverso: per quanto i testi non siano chiarissimi, l'impressione è che Inanna abbia rifiutato delle precise richieste da parte di Bilgames insieme ai doni che l'en le aveva offerto. L'interpretazione degli studiosi è che Bilgames avesse preteso più poteri e competenze di quanti gli spettassero, vista la ferma, secca risposta della dea:

am-u₁₀ lú-u₁₀ ME.EN.NE.EN šu nu-ri-bar-re
en gilgaméš am-u₁₀ lá-u₁₀ NE
       šu nu-ri-bar-re
é-an-na-ka di kud-dè šu nu-ri-bar-re
i₆-par₄ kug-á ka-aš bar-re šu nu-ri-bar-re
é-an-na an-né ki á di kud-dè šu nu-ri-bar-re
gilgaméš za-e ù-NE ḫé-me-en za-e gud ḫé-e
“Il mio bestiame, di qualunque specie esso sia, non ti concedo;
en Bilgames, il mio bestiame, di qualunque specie esso sia,
       non ti concedo;
di giudicare nell'Eanna non ti concedo;
di dare ordini nel mio santo ipar non ti concedo;
di giudicare nell'Eanna che An ama non ti concedo;
o Bilgames che tu sia... che tu sia...”
Šul meka šul meka [B, -]

Le due varianti attestate nella tradizione mesopotamica, la gelosia offesa e il conflitto di competenze, sembrano entrambe presenti nel ciclo di Hērakls, sebbene in maniera adattata al carattere di Hḗra. Nella forma a noi pervenuta del mito ellenico, infatti, la fedeltà coniugale di Hḗra non viene mai messa in discussione. Il re e la regina degli dèi si muovono in direzioni opposte: tanto Zeús estende il suo desiderio a legioni di amanti immortali e mortali, tanto Hḗra, di contrasto, difende il principio di monogamia (l'unica volta che le capiterà di avere un figlio, Hḗphaistos, senza concorso del marito, sarà per partenogenesi). Nel ciclo di Hērakls, il rifiuto da cui scaturisce lo sdegno di Hḗra è in realtà dovuto a Zeús, che le preferisce il letto di Alkménē, e questo provoca l'inimicizia tra la dea ed Hērakls.

Ma allora, si dirà, perché sostituire alla lussuriosa Ištâr proprio la morigerata Hḗra? Effettivamente, nell'interpraetatio graeca, la grande dea medio-orientale era di solito identificata con Aphrodítē, con la quale condivideva il carattere appassionato e libertino. Quella di Inanna/Ištâr era tuttavia una figura dalle funzioni piuttosto diversificate: spacciarla per una smeplice «dea dell'amore» è piuttosto riduttivo. Già il suo nome sumerico, NIN.AN.AK, la «regina del cielo», le conferisce una sorta di regalità celeste che la porta al livello di Hḗra; dea astrale legata al pianeta Venere, Inanna/Ištâr viene a diventare, in epoca assira, una dea della guerra.

 MesopotamiaGrecia
Regalità celeste Inanna/IštârHḗra
SensualitàAphrodítē

Il fatto che, nel ciclo di Hērakls, sia Hḗra a interpretare la parte che era stata di Inanna/Ištâr nel ciclo di Gilgameš, è forse un'indicazione del fatto che il mito ellenico debba venir confrontato non tanto sullo Ša naqba īmuru, ma sulle versioni più antiche dell'epopea gilgamešaica. Nel mito greco, infatti, il dissidio tra l'eroe e la dea si basa su un conflitto di competenze. I litigi tra Zeús ed Hḗra sono spesso di natura politica: capita che il re e la regina degli dèi parteggino per partiti avversi. Hḗra, inoltre, è spesso gelosa, oltre che delle amanti, anche dei poteri e delle prerogative di Zeús. Ora l'Árgolis era una regione che apparteneva alle tímai di Hḗra, la quale vi era particolarmente venerata con l'epiteto di Hḗrē Argeíē. Il tempio principale della dea, il Hēraîon Árgous, si trovava tra Mikḗnē e Mídeia, proprio al centro del territorio di cui, secondo il decreto di Zeús, Hērakls era destinato a diventare re. Come Inanna/Ištâr era la dea poliade di Uruk, Hḗra lo era dell'Árgolis. Così, mentre Bilgames cerca di ottenere maggiori poteri a discapito di quelli di Inanna, Zeús mette suo figlio Hērakls a regnare su un territorio appartenente a sua moglie, di fatto usurpandoglielo. Adesso capiamo meglio la reazione di Hḗra, e anche perché la dea si sia affrettata a provocare la nascita prematura di Eurysteús, così da dargli diritto, al posto di Hērakls, di salire al trono di Tíryns e Mikḗnē.

Ma il confronto tra Inanna/Ištâr ed Hḗra ci consegna anche altre analogie, sebbene meno importanti. In Mesopotamia è Ištâr a richiedere che Gudanna, il toro celeste, venga scatenato contro la città di Uruk, che ne viene devastata. Nel mito greco, quando Hērakls cattura il toro cretese e lo trascina da Eurysteús, questi lo dedica proprio a Hḗra, la dea poliade dell'Árgolis, la quale, sdegnata, fa infuriare l'animale e lo manda a devastare la piana di Marathṓn, nell'Attikḗ. Il toro, in seguito, verrà catturato e ucciso da Thēseús. Il gesto irriverente di Enkidu, che scaglia la coscia del toro contro il volto di Ištâr, potrebbe avere una relazione con lo scocco di freccia che Hērakls vibra ad Hḗra nel corso dell'assedio di Pýlos: il colpo la ferisce al seno destro e, poiché le frecce di Hērakls erano intinte nel sangue dell'hýdra, le produce una ferita insanabile (Ilías [V: ]): ma su quest'ultimo punto il terreno delle comparazioni si fa piuttosto fragile e non insistiamo oltre.

Detto tutto questo, il rapporto tra Hērakls ed Hḗra rivela dettagli piuttosto contraddittori. Il più esplicito è che l'eroe, che di nascita faceva Alkídēs, sia conosciuto con un nome teoforo legato a quello della sua acerrima nemesi: Hērakls, «gloria di Hḗra», per spiegare il quale sono stati spesi fiumi di inchiostro. Kerényi nota che gli artisti antichi decoravano i templi di Hḗra con immagini delle dodici «fatiche» (ad esempio a Paestum), segno che dopotutto le imprese di Hērakls erano gradite alla regina degli dèi. Né si può ignorare che fu la stessa Hḗra ad allattare il piccolo Hērakls. Secondo i mitografi, Alkménē, temendo la gelosia di Hḗra, aveva esposto Hērakls neonato in un campo subito fuori le mura di Thbai. Poco dopo erano passate di là, su consiglio di Zeús, Hḗra e Athēnâ. Raccogliendo quel magnifico bimbo, Hḗra sconsideratamente gli aveva porto il seno. Hērakls vi si era aggrappato con tanta forza che la dea, gemendo di dolore, lo aveva strappato da sé. Un getto di latte era arrivato nel firmamento creando la striscia argentea della Via Lattea. Intanto, però, quel latte divino aveva reso Hērakls immortale (Diódōros Sikeliṓtēs: Bibliothḗkē Historikḗ [IV: 9, ] | Hyginus: De Astronomia [II: 43]). Secondo un'altra versione, tutto questo sarebbe avvenuto sull'Ólympos, nella sede stessa degli dèi, come ci informa l'astronomo Eratosthénēs:

 Non era possibile ai figli di Zeús avere parte agli onori del cielo, se non avevano succhiato il seno di Hḗra. Per questo si racconta che Hērms trasportò Hērakls sull'Ólympos, dopo la sua nascita, e lo attaccò al seno di Hḗra e quello succhiò. Quando se ne accorse, la dea lo respinse, e il latte in più, versato in questo modo, costituì il cerchio della Galaxías.
Eratosthénēs: Katasterismoí [44]

Da queste note trapelano molti importanti segnali. I mitografi greci stanno evidentemente cercando di adattare un antico mito, dove i rapporti tra la dea e l'eroe sembrano essere più quelli di una madre nei confronti del figlio, a un sistema più recente dove Hḗra ed Hērakls sono acerrimi nemici. A un livello più antico, affiora qui l'ercole tirrenico, il dio che gli Etruschi chiamavano Hercle Unial Clan, «figlio di Uni». Costei altro non era che la Iuno romana. Così si profila l'immagine, paradossale, di un antico «Hērakls» figlio di «Hḗra»? La questione non è tanto semplice: Hḗra è una dea di substrato, sicuramente preellenica che, nello sviluppo della mitologia greca, finì con il sostituire e l'occupare il ruolo dell'originaria paredra e controparte femminile di Zeús, Diṓnē (la quale corrisponde etimologicamente a Iuno/Uni) ①▼. Si scorge dunque, in controluce, di una situazione originaria dove l'antico dio-tuono «Hērakls» era figlio del dio-cielo Zeús e della sua sposa Diṓnē? È un'ipotesi ragionevole, sebbene non vi siano prove; la successiva sostituzione di Hḗra a Diṓnē, con il parallelo declassamento di Hērakls (anche in base alle riletture operate dal materiale che arrivava dal Medio Oriente) potrebbe aver provocato la situazione contraddittoria attestata in età classica: l'«eroe» Hērakls a cui veniva attribuito un culto divino, e la dea Hḗra, acerrima nemica dai tratti a volte stranamente «materni»

 GILGAMEŠ ed INANNA/IŠTÂR HĒRAKLS ed HḖRA
1Inanna/Ištâr è la dea poliade della città di Uruk.Hḗra è particolarmente venerata nell'Argolís.
2aGilgameš cerca di accrescere il suo potere su Uruk a spese di quello di Inanna, la quale diviene sua implacabile avversaria.Zeús decreta che suo figlio Hērakls diventerà re di Tíryns, Mikḗnē e Mídeia, a spese di Hḗra, la quale reagisce e pone invece sul trono Eurysteús.
2bSdegnata da Gilgameš, Ištâr diviene sua implacabile avversaria.Tradita da Zeús con Alkménē, Hḗra diviene implacabile avversaria di Hērakls.
3Su ordine di Inanna/Ištâr, Gudanna, il toro del cielo, irrompe infuriato nella città di Uruk, devastandola. L'animale viene ucciso da Gilgameš ed Enkidu.Hḗra fa infuriare il toro di Krḗtē – che Hērakls ha catturato ed Eurysteús le ha dedicato – e lo manda a devastare la piana di Marathṓn. Il toro verrà catturato e ucciso da Thēseús.
4Dopo questi fatti, il consiglio divino decreta la morte di Enkidu: il lutto causerà la crisi attraverso la quale Gilgameš partirà per il suo viaggio alla ricerca della vita.Hḗra fa impazzire Hērakls, il quale uccide i suoi figli. È questa la crisi decisiva per l'eroe, il quale si metterà agli ordini di Eurysteús che gli imporrà le dodici «fatiche», tra cui la ricerca dei pomi delle Hesperídes.


Il gemello/compagno e la crisi esistenziale

La relazione tra Gilgameš ed Enkidu costituisce una difficoltà non facilmente superabile per quanto riguarda l'ipotesi di un'eventuale relazione con il mito di Hērakls. Certamente, non si può pretendere che il mito greco abbia adattato in toto ogni motivo dello schema del mito di Gilgameš; ma tentare di scoprire cosa sia accaduto a Enkidu potrebbe essere un interessante esercizio intellettuale.

Gli studiosi hanno cercato di stabilire quale tipo di rapporto intercorresse tra Gilgameš ed Enkidu. I due personaggi sono presentati molto simili l'uno all'altro: quando Anu ordina ad Aruru di creare Enkidu, chiede che possa fungere da perfetto rivale di Gilgameš:

ai-ti a-ru-ru tab-ni[i LÚ(=amēla)]
⌜e⌝-nin-na bi-ni-i zi-kir-šú
ana u₄-um lìb-bi-šú lu-u ma-ḫ[ir]
liš-ta-an-na-nu-ma uruk liš-tap-š[iḫ
]

Proprio tu, o Aruru, che hai creato [l'uomo],
crea ora la sua controparte:
che egli sia pari alla tempesta del suo cuore,
sì che essi contendano e che Uruk possa riposare

Ša naqba īmuru [I: -]

Gilgameš ed Enkidu diventano inseparabili compagni. «L'amico mio, che amo sopra ogni cosa, che ha condiviso con me ogni sorta di avventure» [ib-ri šá a-ram-mu- šú dan-niš it-ti-ia ittallaku ka-lu mar-ṣa-a-ti] (Ša naqba īmuru [X: ]), così Gilgameš definisce Enkidu, e ancora: «l'ascia del mio fianco, la spada della mia cintura, lo scudo del mio petto, i miei ornamenti festivi, la mia cintura regale» (Ša naqba īmuru [VIII: -]). È una relazione di compagnonnage, quella tra i due sodali, come a volte si instaura tra un eroe e il suo compagno prediletto nell'epica universale, ma c'è anche una somiglianza fisica tra Gilgameš ed Enkidu, creati dagli dèi, per così dire, con la stessa creta: si riflettono l'un l'altro, speculari e simmetrici. Quando Enkidu arriva in città, la gente esclama: «Egli è simile nella figura a Gilgameš! In statura gli è inferiore ma le ossa sono più forti» [a-na-mi GIŠ ⌜ma⌝-ši-il pa-ID(=da)-tam la-nam [š]a-pi-il ⌜e-ṣe-em-tam⌝ [pu-u]k-ku-ul] (AB Šūtur eli šarrī [P: -]). E quando il lugal di Uruk si trova davanti Enkidu, ne riceve un'impressione assai esplicita: «per Gilgameš era stato posto un sostituto simile a un dio» [a-na GIŠ-gín-maš ki-ma DIIR(=ili) šá-ki-i[š-š]ú pu-ḫ[u]] (Ša naqba īmuru [II: ] | cfr. AB Šūtur eli šarrī [P: -]). Nella lotta, è Gilgameš a piegare il ginocchio, ma Enkidu lo riconosce re per volere degli dèi.

Alcuni studiosi hanno anche avanzato l'ipotesi di una relazione omosessuale tra i due campioni, suggerita peraltro alla fine della tavola I, dove Ninsun interpreta il sogno di Gilgameš e, annunciandogli l'arrivo di Enkidu, ripete più volte la frase «lo amerai come una donna, abbracciando e accarezzandolo» [⌜ta-ram-šu⌝-ma GIM(=kīma) DAM(=aššati) ta-ḫab-bu-bu UGU(=eli)-šú] (Ša naqba īmuru [I:  = ]). Nell'epopea non ci sono altre indicazioni che facciano pensare a un risvolto sessuale nella relazione tra Gilgameš ed Enkidu, ma non conosciamo abbastanza le dinamiche dell'amicizia o dell'amore virile in epoca paleo-babilonese per dare una risposta a questo interrogativo. Viene anche detto che Gilgameš vuole presentare Enkidu alla madre affinché lo riconosca come suo figlio; questo avviene nella tavola II, ma le lacunae del testo non permettono di capire bene cosa sia accaduto: il successivo disappunto di Enkidu fa pensare che la proposta sia stata respinta. Gilgameš non cessa tuttavia di chiamare Enkidu «fratello», oltre che «amico».

Alcuni studiosi hanno ipotizzato un collegamento con il tema di Akhilleús e Patróklos nell'Ilías. Effettivamente abbiamo anche qui un rapporto intimo tra un eccellente guerriero e il suo giovane compagno, e uno straziante racconto del dolore dell'uno quando l'altro cade in combattimento. Il costume greco dell'efebato – dove un guerriero più vecchio ed esperto prendeva un ragazzo sotto la sua ala protettrice, utilizzandolo come compagno, scudiero e amante [erṓmenos] – spiega alcune delle divergenze tra la coppia omerica e quella mesopotamica, in particolare la differenza di età tra i due sodali, che nel mito greco è piuttosto marcata. Sebbene Enkidu sia stato creato da poco, quando incontra Gilgameš, i due manifestano pari sviluppo e simile forza: il loro rapporto – che pure vede in Gilgameš l'elemento dominante – non è mai sbilanciato come quello tra Akhilleús e Patróklos. Inoltre il parallelo tra la morte del sodale nello Ša naqba īmuru e quella nell'Ilías cede dal punto di vista funzionale. La morte di Enkidu costringe Gilgameš a mettere in discussione la propria esistenza: è la crisi che lo porterà ai confini del mondo alla ricerca della vita. Lo smarrimento universale di Gilgameš è ben lontano dal dolore di Akhilleús, il quale non si solleva di un palmo dal fatto che abbia semplicemente perso il proprio éphebos. Il dolore dell'eroe, nell'epopea omerica, rimane assai circoscritto e non si solleva mai al di sopra del formalismo letterario. La sua raison d'être è inoltre piuttosto diversa: serve a provocare in Akhilleús quell'«ira funesta» che porterà il principe Héktōr alla sua tragica morte.

Il rapporto tra Gilgameš ed Enkidu non ha nulla a che vedere con quello di Akhilleús e Patróklos. Detto questo, è altrettanto arduo, nel ciclo di Hērakls, vedere l'eroe stringere una relazione tanto critica con un compagno. Tra i vari sodali che lo accompagnano nelle sue imprese bisogna analizzarne due: Iphikls e Iólaos.

Iphikls è il fratello gemello di Hērakls, partorito da Alkménē poche ore più tardi. Pur avendo la stessa madre, i due gemelli hanno padre differente: Hērakls è infatti figlio di Zeús, Iphikls di Amphitrýōn. Quando Hḗra spedisce i suoi serpenti nella stanza dove dormono i due pargoli, è il piccolo Hērakls a ucciderli, non certo Iphikls: e si dice che è in quell'occasione che Amphitrýōn scopre quale dei figli sia suo e quale di Zeús. Nelle mitiche coppie gemellari, di solito i due gemelli hanno o acquistano una natura differente. Ciò che distingue Gilgameš ed Enkidu è che il primo è investito di melāmmu, «gloria regale», per volontà degli dèi, mentre il secondo viene creato per contrapporsi al primo unicamente sul piano fisico: sebbene lo vinca in una prova di forza, ne riconosce la superiorità regale. Nel caso di Hērakls e Iphikls, l'uno esprime i suoi geni divini con la capacità di compiere imprese sovrumane; l'altro non può che muoversi nel comune ambito della normale umanità. Lo iato tra i due gemelli è dunque in un quid presente nel membro principale e assente nel suo complementare: a distinguere Gilgameš da Enkidu è il melāmmu, a distinguere da Hērakls e Iphikls è la natura divina.

Ciò che manca al mito di Hērakls è l'episodio drammatico della morte del sodale. Alcune sbrigative fonti ci informano che Iphikls fu al fianco di Hērakls in alcune delle sue imprese e cadde nella battaglia contro Hippokóōn (Apollódōros: Bibliothḗkē [II: 7]) o contro i Molionídēs (Pausanías: Periḗgēsis [VIII: 14, ]), ma se in qualche antemito si narrava del dolore di Hērakls per la morte del gemello, non ci è pervenuto. ②▼

Se Iphikls scompare, annullato dalle oscure necessità del mito, è però suo figlio Iólaos a trovarsi al fianco di Hērakls in alcune delle sue principali imprese. La sostituzione di Iphikls con il figlio è forse dovuta, ancora una volta, alla volontà di ricondurre la relazione tra i due sodali a un rapporto di efebato, il quale necessita l'affiancamento di un guerriero esperto e maturo con un compagno più giovane, cosa ovviamente impossibile se i due sono gemelli. Possiamo dunque considerare Iphikls e Iólaos come un unico personaggio, poi «ringiovanito» tramite sostituzione del padre con il figlio. Il rapporto anche di natura sessuale tra Hērakls e Iólaos, l'erastḗs e l'erṓmenos, è di frequente sottolineato dai testi greci. Anche qui, però, non vi è alcuno schema che preveda una crisi scatenata dalla morte di Iólaos. Anzi, dei due, è proprio Hērakls a morire per primo. Secondo una tradizione, fu Iólaos ad accendere la pira funebre dello zio. ③▼

Le considerazioni fatte fin qui partono tuttavia dall'idea che il mito del lutto di Gilgameš per la morte di Enkidu sia un elemento antico e fondamentale del ciclo mesopotamico del lugal di Uruk e che se ne debba trovare una traccia nel mito ellenico (di Hērakls o, come hanno proposto altri, di Akhilleús). In realtà, nulla vieta che tale vicenda non possa essere un'elaborazione letteraria relativamente recente. La crisi di Gilgameš per la morte del compagno è infatti centrale nello Ša naqba īmuru, è attestata in alcune versioni medio-babilonesi: nella tavoletta di Ur, nel frammento di Meîddô e in uno dei frammenti di Ḫattuša/Böğazköy (MB [U | M | Böğ₁]); era sicuramente conosciuta anche in Anatolia, visto che è attestata nella versione ḫittita dell'epopea (Ḫ). Inoltre la vicenda era conosciuta anche nelle versioni antico-babilonesi, visto che nella tavoletta di Berlino/Londra, Gilgameš parla di come la morte di Enkidu abbia scatenato in lui la paura della morte (AB [B/L: ii '-' | iii: ]). Risaliamo così almeno alla prima metà del Secondo millennio avanti Cristo, ed è effettivamente un'epoca abbastanza antica perché la vicenda di Gilgameš, arrivata in occidente per tramite anatolico, abbia potuto influenzare i miti ellenici. Tuttavia, se torniamo ancora un po' indietro, in epoca sumerica, la vicenda della morte di Enkidu, attestata nel poema Ud rea ud sudra rea (che peraltro è argomento della tavola XII dell'epopea ninivita), è profondamente diversa dalla versione accadica. Enkidu scende nell'Arali per recuperare il pukku e il mekku (qualunque cosa siano) perduti da Bilgames al «pianto di una fanciulla», ma viola le leggi degli inferi e ne rimane prigioniero. In seguito, Bilgames riesce a richiamare l'ombra dell'amico dalle profondità del Kur, ed Enkidu gli fornisce un desolante panorama del destino degli uomini dopo la morte.

Sembra dunque che il mito della crisi scatenata in Gilgameš dalla morte di Enkidu sia stato elaborato in epoca accadica. Possiamo dunque chiederci quale fosse la forma del mito su cui sia stata modellata la vicenda di Hērakls: si tratta di una versione già accadizzata del ciclo di Gilgameš, risalente al Secondo millennio avanti Cristo (e in questo caso, sì, potremmo aspettarci di trovare un episodio critico della morte del compagno), o si tratta di un mito anteriore, ancora più antico, sul quale sono state modellate tanto la versione accadica del mito di Gilgameš quanto il ciclo di Hērakls? Se così è, potremmo aspettarci di trovare una diversa versione della crisi che spinge l'eroe alla ricerca dell'immortalità.

Hērakls uccide i suoi figli ( 1799)
Antonio Canova (1757-1822), olio su carta.

Nel mito ellenico, infatti, la crisi definitiva, quella che abbatte le sicurezze di Hērakls e lo consegna nelle mani di Eurysteús, dando l'avvio al ciclo delle «fatiche», non consiste nella morte di Iphikls e/o Iólaos, ma nell'orribile episodio dell'uccisione dei propri figli. Il legame tra l'infanticidio commesso da Hērakls e la servitù a cui è condannato presso Eurysteús non ha tuttavia una tradizione decisa. Nella tragedia di Euripídēs, ad esempio, l'uccisione dei figli viene compiuta dopo il ritorno di Hērakls dal compimento delle «fatiche» (Euripídēs: Hērakls mainómenos; cfr. Hyginus: Fabulae [32]). Károly Kerényi considera tale tradizione più antica e autorevole (Kerény 1963), visto che in onore dei figli di Hērakls si celebravano a Thbai, ogni anno, dei giochi atletici e dei sacrifici (Píndaros: Ísthmia [4, -]; Pausanías: Periḗgēsis [IX: 11, ]).

Gli studi folklorici ci insegnano, tuttavia, che molto spesso i miti vengono costruiti ad hoc per giustificare dei riti più antichi. La tragedia di Euripídēs è un memorabile pezzo di letteratura: è tragica, cruenta, dolente. Tuttavia troviamo più coerente la tradizione alternativa, secondo la quale il delitto non solo sarebbe avvenuto prima delle «fatiche» dell'eroe, ma ne sarebbe stato la causa. È la versione di Apollódōros:


 
...[a Hērakls] accadde d'impazzire a causa della gelosia di Hḗra e di scagliare nel fuoco i propri figli, avuti da Mégara, insieme ai due figli di Iphikls. In seguito a ciò [...], recatosi a Delphoí, interrogò il dio sul luogo in cui avrebbe dovuto prendere dimora. Fu allora che la pythía per prima si rivolse a lui col nome di Hērakls (in precedenza veniva chiamato Alkídēs). Essa gli ingiunse di stabilirsi a Tíryns al servizio di Eurysteús per dodici anni, compiendo le dieci fatiche che gli sarebbero state imposte, e predisse che dopo averle portate a compimento sarebbe divenuto immortale.
Apollódōros: Bibliothḗkē [II: 4, ]

Nella versione di Diódōros Sikeliṓtēs, Hērakls riceve l'ordine da re Eurysteús di mettersi al suo servizio. Poco convinto, l'eroe si reca a Delphoí dove però gli viene assicurato che è volontà degli dèi che si sottometta alle dodici fatiche; ciò fatto, avrebbe ottenuto l'immortalità. Hērakls viene però colto dallo scoraggiamento, ritenendo indegno sottomettersi a una persona vile come Eurysteús:


 
Dunque, trovandosi egli in grande impaccio, Hḗra gli mandò un furore; egli, inquieto nello spirito, cadde in uno stato di follia. La malattia progrediva e, uscito di senno, Hērakls cospirò per uccidere Iólaos, ma poiché quello fuggì e i figli che aveva avuto da Mégara stavano là vicino, li colpì col suo arco come se fossero suoi nemici.
Diódōros Sikeliṓtēs: Bibliothḗkē Historikḗ [IV: 11, ]

Sia Apollódōros che Diódōros collegano la crisi di Hērakls al compimento delle dodici «fatiche», sebbene Diódōros ne capovolga i termini: è la prospettiva di dover servire il vile Eurysteús a provocare nell'eroe quello stordimento dello spirito che permetterà a Hḗra di indurlo alla follia. Ciò nonostante, i due mitografi concordano su un fatto forse ancora più importante, sebbene non lo giustifichino in alcun modo: che sia proprio il compimento delle «fatiche» a meritare a Hērakls l'immortalità. Questa nota ci suggerisce che siamo sulla pista giusta. Il secondo punto interessante è che, in entrambi i casi, la follia di Hērakls è rivolta contro la prole di Iphikls: in Apollódōros tra le vittime vi sono anche due figli di Iphikls; in Diódōros l'eroe vuole uccidere proprio Iólaos, il quale però riesce a fuggire.

È forse un indizio che, in una qualche versione tradita del mito, a venire ucciso sia stato il fratello o il sodale dell'eroe, e che la sostituzione con il tema dell'uccisione da parte di Hērakls dei propri figli sia dovuto alla sovrapposizione di una tradizione locale. Altro particolare interessante è che, concluse le «fatiche», Hērakls darà in sposa a Iólaos la sua ex moglie Mégara, poiché la semplice vista di lei gli causava il doloroso ricordo dei figli che aveva ucciso.

È piuttosto interessante questa «doppia» parentela, tanto di sangue quanto acquisita, tra Hērakls e Iólaos. Vorremmo saperne di più sul tentativo di Gilgameš di far adottare il suo «gemello» Enkidu dalla madre Ninsun, sebbene le lacunae dei testi non ci permettano di entrare nel dettaglio. Questo motivo potrebbe spiegare la strana parentela tra Sikander e Dārā nello Šāhnāmè di Ferdowsī. I due sono fratelli, essendo figli dello šāhan-šāh Key Dārāb, sebbene con diversa madre. La guerra che Sikander muove all'Īrān crea una serie di ripercussioni che provocano la morte di Dārā in una congiura di palazzo. Dārā fa in tempo a morire con la testa sulle ginocchia di Sikander, ma intanto lo prega di prendere in moglie sua figlia Rowšanak, nipote del macedone. La struttura, che l'epopea ninivita tiene collegata con una certa coerenza a uno stesso personaggio, Enkidu, nel mito greco sembra ripartita in uno schema più complesso, dove il sodale (Iphikls e Iólaos) ha tuttavia un'importanza meno decisiva nell'economia complessiva della vicenda:

 GILGAMEŠ  HĒRAKLS
Gemello Enkidu viene creato da Aruru a somiglianza di Gilgameš; gli è tuttavia inferiore nella funzione regale. Gemelli, Hērakls e Iphikls hanno stessa madre, Alkménē, ma padri diversi: Hērakls ha natura divina essendo figlio di Zeús, Iphikls ha natura umana essendo figlio di Amphitrýōn.
SodaleEnkidu è compagno di Gilgameš nelle sue imprese; in particolare la spedizione contro Ḫumbaba e l'uccisione del toro celeste Gudanna.Iólaos (figlio di Iphikls) è compagno di Hērakls in alcune sue imprese; in particolare nell'uccisione dell'hýdra di Lérnē.
AmanteIl rapporto tra Gilgameš ed Enkidu viene a volte espresso in termini di intimità e tenerezza: ma rimane dubbio che si possa intendere in termini di una relazione omosessuale. ?Iólaos è l'erṓmenos di Hērakls.
Parentela acquisitaViene fatto un tentativo perché Ninsun adotti Enkidu (?) ?Iólaos prende in sposa l'ex moglie di Hērakls, Mégara.
CrisiLa crisi esistenziale di Gilgameš viene scatenata dalla morte di Enkidu.La crisi esistenziale di Hērakls viene scatenata dall'uccisione dei suoi stessi figli.

In conclusione, vi è sicuramente un comune mito alla base tanto del ciclo di Gilgameš tanto di quello di Hērakls. Il mito in questione era incentrato su un eroe (un semidio? un sovrano?) che si muoveva ai confini del mondo alla ricerca di un modo per sconfiggere la morte: la crisi era stata scatenata dall'azione, mortale e luttuosa, di una dea avversaria, che aveva messo il nostro eroe di fronte a una sorta di ingiustizia esistenziale. La natura della crisi non è ben specificata: un delitto? la morte di un compagno? Nei prossimi capitoli cercheremo di definire meglio l'ideologia dell'immortalità che anima il nostro eroe e le tappe del suo percorso alla ricerca della vita.

①▲ Nonostante fossero state identificate in età classica, Iuno ed Hḗra non sono personaggi omologhi. Vero: l'immagine che abbiamo della Iuno italica dipende in gran parte dal fatto che in epoca classica le è stato praticamente sovrapposto il carattere e la mitologia dell'ingombrante Hḗra ellenica, tuttavia i nomi delle due dee ci indicano la loro diversa origine. Il nomen Iuno deriva da un antico *Diūno, equivalente femminile di *Diuspater > Iuppiter. La relazione etimologica tra Iuppiter e Iuno è la stessa che in Grecia sussisteva tra Zeús (< miceneo di-we/di-wo) e Diṓnē (< miceneo di-u-ja). Si tratta dei due esiti del dio-cielo, derivato dall'antico *Dyeus ph₂tēr indoeuropeo, pervenuta anticamente tanto in Grecia quanto in Italia, accompagnato da un suo equivalente femminile in qualità di paredra. Ma in Grecia, una complessa interazione con la mitologia di substrato, ha fatto sì che Diṓnē venisse sostituita da una divinità preellenica: Hḗra. Non sappiamo quale parte della mitologia dell'antica *Diṓnē sia stata ereditata dalla figura classica di Hḗra: nel sistema mitologico a noi noto, Diṓnē è una titanide, ricordata tra le spose minori di Zeús. Parte dell'antico culto è sopravvissuto in epoca classica a Dōdṓnē, dove Zeús veniva ancora associato a Diṓnē.
 
②▲ L'unico compagno di cui Hērakls avverta la morte con una certa durezza, è Hýlai (o Hýlē), che però è presente solo in un episodio minore, appartenente al ciclo degli Argonaûtai. È proprio per andarlo a cercare che Hērakls abbandona la spedizione di Iásōn alla ricerca del vello d'oro. Tuttavia non ci sembra che questo esempio sia relativo al tema che stiamo trattando.
 
③▲ Uno scolio alle Pýthia di Píndaros ci informa che Iólaos uscì dalla tomba per uccidere Eurysteús: episodio in cui si può forse riconoscere, da lontano, il mito della risalita di Enkidu dagli inferi nella tavola XII dello Ša naqba īmuru. Il contesto tuttavia è molto diverso e non è il caso di insistere troppo su questo punto.
GILGAMEŠ ED HĒRAKLS: L'IDEOLOGIA DELL'IMMORTALITÀ

L'ipotesi che andiamo sostenendo, di un substrato comune al mito di Gilgameš e a quello di Hērakls ha il suo punto di maggiore divergenza nel motivo della ricerca della vita. Sembra a prima vista una difficoltà insolubile visto il destino praticamente opposto a cui vanno incontro il re mesopotamico e l'eroe ellenico: gli dèi negano a Gilgameš la vita eterna, ma la concedono a Hērakls. Tale distacco è talmente esplicito e sensazionale, e anzi, talmente significativo nella definizione dei due personaggi, da avere in pratica reso irriconoscibile, agli occhi della maggior parte degli studiosi, il fatto che entrambi i campioni si muovano lungo i binari di uno schema comune. Poche voci si sono accorte che tra Gilgameš ed Hērakls le somiglianze erano assai più profonde e decisive di quanto non fossero i punti di distacco.

Il fatto che, nello sviluppo e nella trasmissione dei miti, si possano verificare divergenze tanto contrastanti, non è una difficoltà per mitografi, ma piuttosto una ragione di interesse. Quando una civiltà eredita una tradizione di substrato o assimila un mito straniero, deve adattarne gli elementi al fine di incorporarli nei propri schemi ideologici. Tali adattamenti possono anche comportare, nei casi estremi, il completo rovesciamento del senso di un racconto, qualora i valori, la cultura, la teologia del sistema ricevente siano molto diversi rispetto a quelli del sistema di partenza. Tali alterazioni, prese singolarmente, possano rendere arduo il riconoscimento della similarità tra due miti: ma in genere esse non vengono trasmesse in modo isolato, ma entro schemi narrativi piuttosto complessi, ed è appunto dalla comparazione di questi schemi che possiamo stabilire la presenza di omologie significative. Il confronto tra i singoli mitemi, una volta individuati gli schemi, ci permette di trarre conclusioni sulle ragioni delle alterazioni che li hanno interessati, a volte dei rovesciamenti, e quindi sulle ideologie che hanno provocato l'alterazione.

Nei capitoli precedenti abbiamo indicato delle affinità tra alcuni elementi tratti dal mito di Hērakls e quelli di Gilgameš. L'approccio invertito alla regalità e all'immortalità; il rapporto con la dea antagonista; la relazione con il gemello/sodale e la crisi esistenziale. Alcune delle affinità che abbiamo proposto appaiono, anche ai nostri occhi, segnate da una certa fragilità, e le avanziamo soltanto come ipotesi di lavoro per futuri studi. Ma gli episodi del ciclo di Hērakls in cui si può scorgere una sicura influenza del mito di Gilgameš sono proprio quelli relativi alle sue spedizioni ai confini del mondo, nei quali si riconoscono, in controluce, i viaggi del lugal di Uruk alla ricerca della vita.

Che l'itinerario di Hērakls venga compiuto su una cosmologia analoga a quella di Gilgameš, è un tratto banale. Tuttavia i due eroi risolvono le difficoltà escogitando analoghe soluzioni. Ad esempio, quando Gilgameš cerca un modo per attraversare il tâmtu, il «mare», Šiduri lo avverte che solo il dio-sole è in grado di varcare quelle acque funeste: “L'unico che attraversa il mare è l'eroe Šamaš: al di fuori di Šamaš chi può mai attraversare il mare?” [e-bir tam-ti UTU(=šamaš) qu-ra-du-um-mu ba-lu UTU(=šamaš) e-bir tam-tim man-⌜nu⌝⌉] (Ša naqba īmuru [X: -]). Analogamente, una volta arrivato dinanzi al potamós Ōkeanós, Hērakls lo attraversa a bordo della coppa d'oro di Hḗlios. Inoltre, quando Gilgameš, nel mezzo della traversata, esaurisce i pali con cui spinge la barca, fa egli stesso da albero e utilizza il suo abito come fosse una vela. Alle prese con un analogo dilemma, venuti meno i venti e le correnti, Hērakls agisce nello stesso modo, così come ci assicura la rara tradizione riportata dallo scoliaste Servius Honoratus: «navigò verso [l'isola di] Gēryṓn, come abbiamo detto, su una nave di bronzo che per vela aveva la pelle di leone» [ad Geryonem autem, sicut iam supra dictum est, navi aenea navigavit tergo leonis velificans] (Servius: Scholia in Vergilii Aeneidem [VIII, ]).

La storia dei krýsea mla, dei «frutti d'oro» che crescevano nel giardino delle Hesperídes, era narrata in uno dei perduti libri di Pherekýdēs (FGrHist [3 F 16a]). Secondo questo racconto, riferito in sintesi tanto da Apollódōros (Bibliothḗkē [II: 5, ]) quanto da Eratosthénēs (Katasterismoí [3]), questi frutti erano il dono di nozze che la dea-terra Gaîa aveva recato a Hḗra in occasione del suo matrimonio con Zeús, ed erano talmente belli che la dea dagli occhi bovini aveva ordinato di piantarli nel «giardino degli dèi» [then kpos]. E poiché le figlie di Átlas (le Hesperídes) avevano preso l'abitudine di rubare i preziosi frutti, Hḗra vi aveva posto a guardia il drákōn hespérios, Ládōn, al fine di proteggerli. Per tale ragione il luogo era meglio conosciuto come il kpos Hesperídōn, il «giardino delle Hesperídes».

Il mitema degli alberi dai frutti d'oro o carichi di gemme è piuttosto vario e diffuso. Ne avevamo trovato una traccia nel corso di uno dei viaggi di Bulūqiyā. Nella mitologia scandinava, la dísa Iðunn custodisce le epli ellilyf, le «mele contro la vecchiaia», anch'esse tutte d'oro, che proteggono dalla vecchiaia e dalla morte (Gylfaginning [26]; Skírnismál [19]). Il «giardino degli dèi», posto accanto all'óros Átlas, dove le Hesperídes vanno a cogliere i frutti dorati, corrisponde agli iṣû ilī, gli «alberi degli dèi», carichi di pietre preziose, che Gilgameš ammira una volta emerso dagli oscuri interstizi del monte Māšu (Ša naqba īmuru [IX: ]). Il primo è localizzato laddove il sole tramonta, il secondo dove il sole sorge. È indubbio che l'immagine di questo frutteto riecheggi il biblico giardino di ʿĒḏẹn, sebbene nell'epica ninivita risulti scisso dal motivo dell'albero della vita e dal suo sinuoso guardiano: Gilgameš, stanco e impolverato, si limita ad ammirare, stupito, i frutti che scintillano come pietre preziose. Possiamo certo parlare di un relitto mitologico rimasto incagliato all'interno dello Ša naqba īmuru, un residuo letterario, ormai del tutto privo di una giustificazione, che il compilatore dell'epopea (Sîn-lēqi-unninni?) ha evidentemente lasciato soltanto per il suo sense of wonder.

Ovviamente, Ládōn, il serpente che protegge il kpos then, o Hesperídōn, è un parente stretto del serpente/nāḥāš che, in un ipotetico antigrafo del mito biblico, stava a guardia del ʿēṣ haḥayyîm, dell'«albero della vita» che spuntava al centro del gan ʿĒḏẹn. Ma tra tutti questi giardini e serpenti rischiamo di perdere la bussola: e non rimane che ricordarci del serpente che, nell'epopea ninivita, divora la šammu nikitti, la «pianta dell'irrequietezza», privando Gilgameš del dono inestimabile della gioventù (Ša naqba īmuru [IX]).

Ma se Gilgameš non riesce a ottenere l'immortalità, e se per questo nemmeno Eskandar e Bulūqiyā ottengono quanto hanno cercato nel corso dei loro lunghi viaggi, perché Hērakls fa eccezione? Perché l'eroe ellenico è, tra tutti questi inesausti esploratori dei confini del mondo, l'unico che alla fine pervenga a una vita immortale? La ragione l'abbiamo già sottolineata: gli Elleni cercarono di adattare un antichissimo mito di substrato, incentrato su un eroe che viaggia ai confini del mondo alla ricerca della vita eterna (di cui il ciclo di Gilgameš è un esito medio-orientale), a un personaggio simile nell'aspetto ma profondamente diverso come natura. Sebbene apparentemente trasformato in un eroe epico, Hērakls non aveva cessato di essere considerato una vera e propria divinità: il suo pacchetto mitologico prevedeva già un'apoteosi finale, e questo rendeva praticamente inutili le ragioni del suo viaggio alla ricerca dei krýsea mla nel lontano giardino d'occidente. Nella forma definitiva del racconto, questi dettagli erratici appaiono del tutto pretestuosi. È Eurysteús a chiedere i frutti dell'immortalità, con il segreto desiderio che Hērakls finisca per farsi ammazzare nel corso di quel suo viaggio impossibile. E quando Hērakls, a dispetto di ogni pronostico, gli reca i krýsea mla, Eurysteús non sa che farsene. Ha paura di offendere ulteriormente gli dèi, mangiando i frutti rubati dal loro sacro giardino. Così li restituisce all'eroe. Ma Hērakls li riconsegna alla dea Athēnâ, sua protettrice, che li riporta al Kpos Hesperídōn.

Hērakls non ha bisogno di mangiare i frutti della vita. La pýthia, a Delphoí, gli ha profetizzato che, al termine dei dodici érga, sarebbe diventato immortale. Secondo l'ironica annotazione di Diódōros Sikeliṓtēs, Hērakls ne era talmente convinto che, nel tornare in Hellás spingendo avanti le rossigne mandrie di Gēryṓn, accettava sacrifici dalle popolazioni presso cui transitava, ritenendo di aver già cominciato a ricevere l'immortalità (Bibliothḗkē Historikḗ [IV: 24, ]). Concluse le «fatiche», dice sempre Diódōros, Hērakls «si mise ad attendere di ricevere l'immortalità, come [l'oracolo di] Apóllōn gli aveva profetizzato» (Bibliothḗkē Historikḗ [IV: 26, ]). I mitografi sottolineano spesso il fatto che Hērakls sia destinato in ogni caso a diventare immortale. Secondo Eratosthénēs questo sarebbe avvenuto quando Hērakls neonato aveva poppato il latte alle mammelle di Hḗra. Un personaggio come Hērakls avrà forse il fisique du rôle di Gilgameš, e potrà sicuramente interpretarne la parte sul piano puramente fisico, ma certamente non è in grado di far propria la disperazione esistenziale del lugal sumerico. Ecco dunque che, pur seguendone le tracce, e arrivando vittorioso alla meta, perde completamente lo scopo e l'essenza originaria della propria ricerca.

Possiamo apprezzare l'ingegnosità dei mitografi nel riattualizzare gli elementi del ciclo di Gilgameš, o del suo antemito. E gli elementi li ritroviamo quasi tutti: la dea avversaria, il viaggio, la ricerca, la barca del sole, il giardino incantato, il serpente. Ma quando Šiduri, la taverniera che risiede sulla riva dell'oceano cosmico, ricorda a Gilgameš che la vita umana può avere un senso anche nella propria limitatezza e caducità, un briciolo di dubbio ancora ci assale. Gli studiosi si sono sempre interrogati sulla figura di Šiduri, che la versione accadica dell'epopea chiama semplicemente sābītu, la «taverniera», e la si è voluta paragonare a Kírkē o a Kalypsṓ. Ma Šiduri rifiuta la propria ospitalità a Gilgameš: spaventata, tenta di chiudergli in faccia la porta. Perché?

Ragioniamo sui simboli. Šiduri, la taverniera, è un'immagine dell'enofora; colei che, nelle sue molte declinazioni mitiche, distilla la bevanda della sapienza, della regalità, dell'immortalità. Vero, nessuno di questi elementi viene mai esplicitato nei testi mesopotamici per definire la figura di Šiduri. Le nostre ipotesi sembrano ragionevoli, a meno di non lasciare inesplicata l'immagine di questa strana bierstube posta sulle rive dell'oceano cosmico, tra gli alberi degli dèi e le acque della morte. Sappiamo che Šiduri è una dea, in quanto il suo nome appare sempre contrassegnato dal determinativo «» che caratterizza i teonimi. Dietro il suo profilo possiamo forse scorgere, in controluce, figure come l'irlandese Étaín, la scandinava Iðunn, la greca Hḗbē: enofore che offrono agli dèi il cibo e la bevanda dell'immortalità. Hḗbē, in particolare, figlia di Zeús ed Hḗra, personificazione della giovinezza, serviva il néktar e l'ambrosía alla mensa degli dèi. Ammettendo un legame, per quando debole, tra Hḗbē e Šiduri, e confrontando il diverso destino di Hērakls e Gilgameš, forse non dovremmo stupirci di accorgerci che proprio Hḗbē, la coppiera che elargisce agli dèi il cibo e la bevanda dell'immortalità, è destinata a divenire la giovane sposa di Hērakls, ormai immortale, sulla cima nevosa di Ólympos.

Questo schema può parere quasi pretestuoso, tanto i mitemi appaiono distorti e capovolti nello schema greco rispetto a quello mesopotamico. Chi ci ha seguito fin qui potrà tuttavia valutare la verosimiglianza della nostra ricostruzione:

GILGAMEŠ HĒRAKLS
Dopo la morte di Enkidu, Gilgameš parte per i confini alla ricerca di un modo per sconfiggere la morte. Dopo l'uccisione dei suoi figli, Hērakls entra al servizio di Eurysteús.
Hērakls viene inviato da Eurysteús a cogliere i frutti dell'immortalità nel Kpos Hesperídōn.
Giunto al limite orientale (settentrionale?) della terra, Gilgameš si fa aprire la porta del monte Māšu, per immettersi sul sentiero del sole e uscire dal mondo.Giunto al limite occidentale della terra, Hērakls pone le colonne nello stretto tra Africa e Europa, delimitando la «porta» per uscire dal mondo. In alcune tradizioni egli crea lo stretto, scansando i monti, per passare oltre.
Attraversato il monte Māšu, sulla sponda orientale del mondo, Gilgameš giunge nel frutteto dove crescono gli alberi degli dèi, dai frutti di pietre preziose e gemme.Arriva in Erýtheia, l'isola del tramonto.
Il giardino degli dèi o delle Hesperídes, i cui alberi portano i frutti d'oro dell'immortalità, si troverebbe, secondo alcuni, oltre il monte Átlas.
Gilgameš attraversa il mare esterno [tâmtu], che solo Šamaš può superare, sulla barca di Uršanabi.Hērakls attraversa il fiume Ōkeanós, che nessuno ha mai superato, a bordo della coppa d'oro di Hḗlios
Gilgameš funge lui stesso da albero utilizzando il proprio vestito come vela.Hērakls utilizza come vela la sua pelle di leone.
Arrivato nel Pû-nārāti, Gilgameš scende nel profondo dell'Apsū, dove coglie la šammu nikitti, la «pianta dell'irrequietezza».Hērakls giunge nel Kpos Hesperídōn, dove ottiene i frutti d'oro dell'immortalità.
Un serpente divora la šammu nikitti.Hērakls combatte e uccide il serpente Ládōn, il drákōn hespérios, che è a guardia del giardino.
Gilgameš incontra Šiduri, la donna della vigna, la coppiera che mesce il vino sulla riva del mare. Ella lo avverte che non raggiungerà l'immortalità che cerca.Dopo la sua apoteosi, Hērakls sposa Hḗbē, la coppiera degli dèi, colei che mesce il néktar e l'ambrosía che rendono immortali.
Gilgameš non riesce a ottenere la vita eterna e deve soggiacere alla morte.Hērakls ottiene l'immortalità ed entra nel consesso degli dèi.

IN SCANDINAVIA: I VIAGGI DI ÞÓRR

La cosmologia germanica ci è conosciuta grazie alla letteratura medievale in lingua norrena. Trattata tanto nei carmi della Ljóða Edda (risalenti al periodo tra il IX e il XII secolo), quanto nella Prose Edda di Snorri Sturluson (composta tra il 1222 e il 1225), meriterebbe uno studio a parte, data la sua complessità. Ma è purtroppo piuttosto frammentaria, affidata a citazioni slegate e non sempre coerenti tra loro. Vi è anche il sospetto che non fosse nemmeno ben compresa dagli ultimi interpreti della tradizione scandinava, visto che, nella forma in cui ci è stata trasmessa, sembra ridotta a una lista di conoscenze antiquarie. Non viene mai detto dove sorgano e dove tramontino il sole e la luna, come sia disegnata la loro traiettoria celeste, cosa ci sia all'orizzonte. Niente di tutto ciò: Sól e Máni, si limitano a correre nel cielo sui loro carri, inseguiti da una coppia di lupi celesti, chiamati Skǫll e Hati, e questo è tutto quanto i testi mitologici scandinavi ci raccontino in materia astronomica. Alcuni elementi cosmologici possono però essere recuperati dai alcuni episodi del ciclo di Þórr.

Nella mitologia scandinava, Þórr è il dio-tuono, figlio di Óðinn e della dea-terra Jǫrð. Di imponente forza fisica e per di più facile alla furia [ásmóðr], Þórr è dotato di un appetito gagliardo ed è un formidabile bevitore. Il suo ruolo principale – parallelamente a quello di Hērakls – è quello di muoversi ai confini del mondo per spacciare mostri e malevoli giganti [jǫtnar], ostili all'ordine istituito dagli dèi, gli Æsir. Sua arma prediletta è il martello Mjǫllnir, che riassume in sé tanto l'idea del fulmine di Indra quanto quella della clava di Hērakls. Pur mancando, nella mitologia scandinava, il tema della ricerca della vita, possiamo comunque riconoscere nel ciclo di Þórr alcuni elementi dell'isomitema del viaggio ai confini del mondo, e quindi diverse avventure in comune con quelle degli eroi di cui abbiamo fin qui seguito le imprese.

Spesso Þórr vagabonda agli estremi estremi del mondo, nel corso delle sue avventure, permettendoci così di tracciare una mappa del kósmos germanico. Questo comprendeva innanzitutto la nozione di una terra centrale, sorta di oikouménē abitata dagli uomini, definita Miðgarðr, «recinto mediano», a cui corrispondevano delle «terre» periferiche, considerate irraggiungibili dai mortali. In molti passi eddici il complesso cosmologico è definito con la formula «nove mondi» [heimar nío o jǫrðar nío], ma quali siano questi «mondi» e in quali direzioni dello spazio vadano localizzati, non è molto chiaro. Le liste degli jǫrðar nío, quelle che troviamo nei libri di divulgazione e nei siti di cultura nordica, non appartengono alle fonti originali ma sono state compilate a tavolino da studiosi e appassionati mettendo insieme i nomi delle varie regioni cosmiche citate nelle due Edda. Ⓐ▼ Una di queste liste «apocrife» potrebbe essere la seguente:

  1. Ásaheimr (il mondo degli Æsir)
  2. Álfheimr (il mondo degli Álfar)
  3. Jǫtunheimr (il mondo degli Jǫtnar)
  4. Vanaheimr (il mondo dei Vanir)
  5. Miðgarðr (il mondo degli uomini)
  6. Múspellsheimr (il mondo del fuoco)
  7. Svartálfaheimr (il mondo dei Døkkálfar e dei Dvergar)
  8. Niflheimr (il mondo della nebbia)
  9. Hel/Niflhel (il mondo dei morti)

Questi mondi sarebbero disposti nelle varie direzioni dello spazio, nonché impilati lungo un asse verticale. Piergiuseppe Scardigli propone il seguente schema, in gran parte speculativo (Scardigli 1982):

In un episodio narrato da Snorri nella Prose Edda, ampiamente analizzato in una pagina apposita Ⓑ▼, Þórr e Loki si mettono in viaggio a bordo del carro del dio, trainato dai caproni Tanngnjóstr e Tranngrisnir. Giunti alla casa di un fattore [búandi], come consueto Þórr uccide i caproni e li imbandisce per la cena, invitando a desinare anche il fattore e i suoi figli. Purtroppo, il mattino dopo, quando Þórr riunisce le ossa dei caproni e li resuscita, scopre che uno dei due animali è azzoppato. Þórr è furibondo: qualcuno, durante la cena, contravvenendo alle sue indicazioni, ha inciso il femore dell'animale per succhiare il midollo. È stato Þjálfi, l'agile figlio del fattore. Per ricompensare l'áss del danno, Þjálfi e sua sorella Rǫskva si mettono al suo servizio e lo accompagneranno per il resto del viaggio, che sarà compiuto a piedi. (Gylfaginning [44]). Ed è un viaggio i cui elementi non possono che suscitarci un immediato déjà-vu.

Ma lasciamo la parola a Snorri:

Lét hann þar eptir hafra ok byrjaði ferðina austr í Jǫtunheima ok allt til hafsins, ok þá fór hann út yfir hafit þat it djúpa. En er hann kom til lands, þá gekk hann upp ok með honum Loki ok Þjálfi ok Rǫskva. Þórr si lasciò i caproni alle spalle e cominciò il suo viaggio a est, verso lo Jǫtunheimr e dritto fino al mare, del quale attraversò le profondità. Giunto a terra, con lui approdarono Loki, Þjalfi e Rǫskva.
Snorri Sturluson: Prose Edda > Gylfaginning [45]
Þórr e i suoi compagni attraversano il mare ( 1875)
Lorenz Frølich (1820-1908). Illustrazione (Oehlenschläger 1875-1877)

Þórr e i suoi compagni hanno dunque lasciato Miðgarðr e si sono recati verso uno dei mondi esterni: in questo caso Jǫtunheimr, il «mondo degli Jǫtnar», i giganti.

Dopo alcune divertenti avventure, che Snorri ha abilmente cucito nella trama del racconto (Gylfaginning [45]), Þórr, Loki, Þjalfi e Rǫskva giungono in un posto chiamato Útgarðr. Sebbene Snorri descriva questo luogo come una fortezza, il toponimo ha un significato cosmologico. Come Miðgarðr è il «recinto mediano», Útgarðr è il «recinto esterno». Saxo Grammaticus, che di questo mito riporta una variante evemerizzata, definisce Utgarth- una «terra oltremondana» [extramundanum clima] (Historia Danorum [VIII: xv, 8]). Si profila una concezione del mondo costituito da due regioni grosso modo concentriche: Miðgarðr, la terra abitata dagli uomini (oikouménē), che si trova al centro del kósmos, e Útgarðr, la terra esterna, che ne costituisce la periferia oltremondana. Tra l'uno e l'altro si stende il mare [haf] di cui Þórr e i suoi compagni hanno «attraversato le profondità».

L'idea ricorda, in modo molto generale, alcune delle strutture cosmologiche che abbiamo analizzato fin qui. L'Imago mundi Babylonica, ad esempio, distingueva tra un oikouménē centrale circolare e una serie di otto nagi˒ānu esterni, l'uno separato dagli altri dal circolo del fiume «amaro» Marratu. La cosmologia iranica distingueva invece tra la terra abitata centrale,  aniraθa-, e i sei karvąr periferici, separati dalle distese interne dell'oceano cosmico Vourukaa. La struttura del kósmos scandinavo, sebbene non venga mai dettagliatamente spiegata nei testi pervenuti fino a noi, sembra rientrare in un modello di questo tipo, estremizzando tuttavia l'opposizione geografica e ontologica tra centro e periferie.

Ma le sorprese non sono finite. Giunti nello Jǫtunheimr, Þórr, Loki, Þjalfi e Rǫskva si trovano ora dinanzi all'ingresso per Útgarðr. Anche questo passaggio per i confini del mondo, come gli altri che abbiamo incontrato in precedenza, è custodito da una porta. È un cancello, per l'esattezza. È chiuso, ma è talmente grande e imponente, che Þórr e i suoi compagni non hanno difficoltà a strisciare, come pollicini, attraverso le sue sbarre:

Þórr fór fram á leið ok þeir félagar ok gekk fram til miðs dags. Þá sá þeir borg standa á vǫllum nǫkkvorum ok settu hnakkann á bak sér aptr áðr þeir fengu sét yfir upp, ganga til borgarinnar ok var grind fyrir borghliðinu ok lokin aptr. Þórr gekk á grindina ok fekk eigi upp lokit, en er þeir þreyttu at komask í borgina þá smugu þeir milli spalanna ok kómu svá inn... Þórr prese la sua strada coi compagni e proseguì fino a mezzogiorno. Allora essi videro una rocca che sorgeva in mezzo a una pianura e dovettero inarcare il collo fino alla schiena prima di riuscire a scorgerne la sommità. Giunsero fino alla rocca, davanti alle porte, che erano chiuse da un cancello. Þórr andò al cancello ma non riuscì ad aprirlo. Decisi a penetrare nella rocca, essi strisciarono fra le sbarre e così riuscirono a passare...
Snorri Sturluson: Prose Edda > Gylfaginning [46]

Il seguito della storia l'abbiamo già narrato altrove Ⓒ▼ e abbiamo anche analizzato l'incontro tra Þórr e Útgarðaloki, il «Loki dei recinti esterni» (útgarða è infatti genitivo plurale), dimostrando come possa essere considerato un equivalente nordico dell'incontro tra Hērakls e Promētheús Ⓓ▼. Nel corso di questo episodio (Gylfaginning [46-47]), Þórr viene peraltro sottoposto a tre interessanti sfide:

  1. bere dal vítishorn, un corno che, segretamente, attinge al mare: nonostante il dio-tuono sia irritato da non essere riuscito a seccarlo in un colpo, ha abbassato considerevolmente il livello dell'acqua, provocando la bassa marea;
  2. sollevare un grosso gatto, che si rivelerà essere Jǫrmungandr, il serpente che circonda il mondo, dissimulato da un sjónhverfingr, un inganno magico della vista e dei sensi;
  3. combattere contro la vecchia Elli, la quale è tuttavia la vecchiaia [elli] in persona, che nessun uomo può vincere.

Snorri utilizza la prova (b), la sfida di sollevamento del gatto/Jǫrmungandr, per giustificare – toppa assai poco raffinata – l'astio che intercorre tra Þórr e il serpente. Subito dopo, infatti, in un impeto di rivalsa per lo smacco subito, il dio del tuono parte per andare a pescare il Miðgarðrsormr dal fondo dell'oceano (Gylfaginning [48]). Questo mito, rappresentato più volte nell'iconografia antico-nordica e citato in diverse fonti scaldiche, ha una formulazione assai più interessante in un poema eddico, l'Hymiskviða, sorta di ballata anteriore di circa un secolo all'Edda di Snorri, nella quale si possono indovinare degli elementi paralleli alla vicenda del viaggio di Þórr a Útgarðr. All'episodio abbiamo dedicato una pagina apposita. Ⓔ▼

Nell'Hymiskviða, la ragione per cui Þórr si mette in viaggio, accompagnato da Týr, è piuttosto diversa: deve procurarsi un paiolo abbastanza capiente affinché il gigante marino Ægir possa preparare birra [ǫl] per tutti gli Æsir. I due si recano allora dal gigante Hymir – qui detto padre di Týr –, nel tentativo di impadronirsi di uno smisurato calderone appartenente a quest'ultimo. Poco sappiamo su questo Hymir, nonostante l'Hymiskviða ci faccia balenare l'esistenza di molti antichi miti, andati perduti. Il suo nome potrebbe forse essere corradicale con il norreno himinn («cielo). Se tale etimologia fosse dimostrata, potrebbe forse fornire un barlume di significato a una battuta presente nel poema, dove Týr spiega:

Býr fyr austan
Élivága
hundvíss Hymir
at himins enda...
Dimora a oriente
degli Élivágar
il sapiente Hymir,
ai confini del cielo...
Ljóða Edda > Hymiskviða [5]

Il termine Élivágar indica l'insieme complessivo dei fiumi cosmici che, nella cosmologia scandinava, attraversavano tutti i livelli del kósmos, scendendo dal cielo, solcando la terra e sprofondando negli inferi, la cui lunga lista di nomi è elencata nei poemi sapienziali della Ljóða Edda (Grímnismál [26-29]), ma anche in Snorri (Gylfaginning [5]). Vi riconosciamo un mitema attestato tanto in Īrān quanto in Grecia. Gli Élivágar sgorgavano da una sorta di sorgente abissale, Hvergelmir, la «caldaia gorgogliante», sorta di versione nordica dell'Apsū, e dopo aver attraversato l'intero universo, tornavano a confluire in quell'abisso. Alcuni degli Élivágar erano velenosi: ed è a questo veleno, recato a tutti gli angoli del cosmo, che la soteriologia germanica attribuiva le ragioni della presenza del male nel mondo e della malvagità insita in tutti gli esseri (Gylfaginning [5]). Ⓕ▼

L'Hymiskviða localizza dunque la dimora di Hymir a «oriente degli Élivágar» [fyr austan Élivága] e «ai confini del cielo», o più letteralmente: «alla fine del cielo» [at himins enda]. Quest'ultima espressione viene altrove utilizzata per indicare il posto in cui sta appollaiata l'aquila Hræsvelgr, che produce tutti i venti che soffiano sulla terra (Vafþrúðnismál [37]), ma Snorri la usa anche per indicare il luogo dove il ponte arcobaleno Bifrǫst raggiunge la cima di Himinbjǫrg, il «monte del cielo», obbligato punto di passaggio per accedere ad Ásgarðr, la rocca degli Æsir (Gylfaginning [17 | 27]). In questo caso, entrambe le formule (fyr austan Élivága e at himins enda) sembrano indicare l'orizzonte, il punto dove la terra finisce e l'oceano cosmico diviene una nozione astronomica. Hymir potrebbe essere interpretato come una sorta di «guardiano» che sorveglia i confini del mondo. Potremmo considerarlo un lontano parente boreale di Átlas? Difficile a dirsi.

Prima di arrivare alla dimora dello jǫtunn, Þórr e Týr si fermano alla casa di Egill: e vi riconosciamo lo stesso episodio della sosta di Þórr e Loki a casa del fattore [búandi] nel racconto di Snorri (Gylfaginning [44]) (seguirà anche l'episodio dell'azzoppamento del caprone, ma più tardi, sulla via del ritorno). La scena è descritta in una sola strofa:

Fóru drjúgum
dag þann fram
Ásgarði frá,
unz til Egils kvómu.
Hirði hann hafra
horngǫfgasta...
Viaggiarono decisi
avanti tutto il giorno
dall'Ásgarðr,
finché giunsero da Egill;
al sicuro [Þórr] mise i caproni
dalle splendide corna...
Ljóða Edda > Hymiskviða [7]

La casa del búandi/Egill sembra essere una «stazione» sulla via ai confini del mondo. Si potrebbe pensare alla strana Bierstube di Šiduri, se motivi e funzioni non fossero così irrimediabilmente differenti (e l'ostessa mesopotamica assai più affascinante del ruvido fattore). L'Hymiskviða non spiega la ragione per cui Þórr e Týr parcheggino carro e caproni a casa di Egill, prima di proseguire a piedi verso la dimora di Hymir. L'impressione è che per Þórr sia impossibile proseguire a bordo del carro. Come sappiamo da un'altra fonte, egli è quotidianamente costretto a guadare una serie di fiumi quando si reca al þing degli Æsir, in quanto il ponte Bifrǫst arderebbe sotto le ruote del suo carro (Grímnismál [29]). La sosta presso Egill è forse legata a qualche ragione analoga: carro e caproni non possono guadare gli Élivágar (o il haf) e arrivare at himins enda, «alla fine del cielo» (Eysteinn 2006). La cosa è piuttosto curiosa: mentre Gilgameš deve mendicare un passaggio sulla barca di Uršanabi, ed Hērakls deve farsi prestare l'aurea coppa di Hḗlios, Þórr è costretto, al perfetto contrario, a rinunciare a ogni mezzo di trasporto e attraversare l'oceano cosmico a guado.

Þórr pesca il serpente di Miðgarðr ( 1790)
Johann Heinrich Füssli (1741-1825), dipinto
Royal Academy of Arts, London (Regno Unito)

Sorvoliamo le pur divertenti avventure di Þórr e Týr a casa di Hymir. A sera il dio-tuono mangia talmente tanto che, la mattina dopo, è costretto a seguire il truce padrone di casa in una battuta di pesca. Per procurarsi l'esca, Þórr decapita il miglior toro della mandria di Hymir, che Snorri chiama Himinhrjótr (Gylfaginning [48] | Hymiskviða [17-19]). Questo nome (formato sulla radice himin- «cielo») ci ricorda il «toro celeste» Gudanna abbattuto da Gilgameš. Inutile dire che lo jǫtunn è assai poco soddisfatto della bella pensata di Þórr. Poi i due mettono in mare il nǫkkvi e Þórr convince Hymir a spingersi al largo. Lo jǫtunn è piuttosto nervoso: sa che in mare aperto rischiano di imbattersi nel serpente che circonda il mondo, Jǫrmungandr. Così infatti avviene: non appena Þórr getta in mare l'esca, cioè la testa del toro, il Miðgarðrsormr abbocca. Con sforzo immane, Þórr solleva l'immenso serpente fino alla fiancata del nǫkkvi e solleva il martello per ucciderlo. Ma Hymir, terrorizzato, taglia la lenza e Jǫrmungandr torna a sprofondare negli abissi. L'áss è infuriato. Nella versione di Snorri, Þórr assesta un pugno allo jǫtunn, scagliandolo fuori dalla barca, quindi, avendo sfondato la chiglia con i piedi, torna indietro guadando ancora una volta l'oceano. Nell'Hymiskviða i due tornano invece a riva a colpi di remi:, entrambi di malumore, sebbene per ragioni diverse. Lo scontro di Þórr con il serpente è ormai rimandato al giorno di ragnarǫk (Vǫluspa [56] | Gylfaginning [51]).

Quella sera, nel corso di una movimentata cena a casa di Hymir, Þórr spacca il calice dello jǫtunn, reputato infrangibile, contro la fronte del padrone di casa, poi sradica il suo enorme calderone e, capovolgendoselo sul capo (con i manici che gli tintinnano alle caviglie), si dà alla fuga. Ma Hymir gli è presto alle calcagna, seguito da una masnada di jǫtnar. Per Þórr è un invito a nozze: posa il calderone, agguanta il martello Mjǫllnir e li massacra. Il calderone viene infine portato alla dimora di Ægir – il dio del mare, il birraio degli dèi –, che può così distillare ǫl per tutti gli Æsir.

Se mettiamo in parallelo le due vicende – il viaggio di Þórr a Útgarðr, narrato da Snorri in Gylfaginning [44-47], e la spedizione di Þórr presso Hymir, narrata nell'Hymiskviða (e in lectio brevis in Gylfaginning [48]) – possiamo riconoscervi degli elementi simili, alcuni dei quali direttamente confrontabili tra loro. Le due vicende potrebbero essere dei collages narrativi effettuati giustapponendo episodi tratti da un mito unitario, ancora più antico, forse il racconto di un periplo ai confini del mondo, simile a quello di Hērakls.

Ma vediamo innanzitutto di costruire, intorno a questo percorso, una cosmologia coerente. Secondo Snorri, una volta lasciate le sponde del Miðgarðr, Þórr e i suoi compagni attraversano a nuoto il «mare» [haf], e giungono a Útgarðr, l'extramundanum clima alla periferia del mondo. Snorri non entra in dettagli cosmologici, tutto intento com'è a narrarci la storia delle sfide lanciate da Útgarðaloki a Þórr. Ovvero: (a) bere da un vítishorn che attinge al mare; (b) sollevare un gatto, che è in realtà il serpente Jǫrmungandr; (c) combattere contro la vecchia Elli, che è la vecchiaia in persona.

Piuttosto interessante, la sfida del sollevamento del gatto, ovvero di Jǫrmungandr. Se il serpente giace negli abissi del mare, come possiamo trovarlo nella fortezza di Útgarðaloki? Ci troviamo immersi in un clima di sjónhverfingar, inganni magici dei sensi, è vero. Ed è evidente che la scena, senza che Þórr, se ne accorga, si svolge nel mare o in prossimità di esso. Ma quale mare? Difficile si tratti di quello stesso haf che Þórr e i suoi compagni avevano attraversato a nuoto per giungere in Útgarðr, altrimenti avrebbero già incontrato il serpente nel corso della traversata (proprio come accadrà a Þórr e a Hymir quando, nell'Hymiskviða, si spingeranno troppo al largo). I meccanismi dell'epica di solito procedono dal lontano al più lontano, dal grande al grandissimo, dal forte al fortissimo. Quindi, nonostante abbia attraversato il haf e sia arrivato a Útgarðr, Þórr non può tornare indietro, ma deve spingersi ancora più al largo per trovare Jǫrmungandr. Dunque Útgarðr non si trova semplicemente oltre il mare, ma in mezzo al mare, e che l'oceano cosmico – dove giace Jǫrmungandr – si estende subito oltre.

Tale topografia, ipotetica in Gylfaginning [44-47], è parzialmente confermata in Hymiskviða. La dimora di Hymir si trova oltre i fiumi Élivágar, in una terra posta at himins enda, «alla fine del cielo», e noi vi riconosciamo ancora una volta, per associazione semantica, la «terra oltremondana» [extramundanum clima] di Saxo Grammaticus (Historia Danorum [VIII: xv, 8]). E quando Þórr e Hymir salpano col nǫkkvi, e il dio-tuono trascina lo jǫtunn più al largo di quanto questi non fosse solito arrivare nelle sue battute di pesca, inevitabilmente i due si imbattono nel serpente Jǫrmungandr. Ci sembra che il mare su cui si inoltrano Þórr e Hymir nell'Hymiskviða sia profondamente diverso dal haf attraversato a nuoto da Þórr in Gylfaginning [45]. Non è un mare che, per quanto ampio e difficile da attraversare, si limita a separare il nostro mondo dalle regioni oltremondane. Al contrario. È un oceano che ha una sola sponda. Un oceano che si estende senza limiti, fino a confondersi con il cielo. Possiamo chiamarlo úthaf, il «mare esterno», utilizzando un raro termine che la letteratura norrena ha escogitato (guarda caso!) per la Alexander saga [118].

  Gylfaginning [44-47] Hymiskviða

Oikouménē

Miðgarðr Miðgarðr

Mare interno

haf Élivágar

Extramundanum clima

Útgarðr at himins enda

«Guardiano»

Útgarðaloki Hymir

Oceano cosmico

?
Jǫrmungandr
[úthaf]
Jǫrmungandr

Naturalmente presumiamo che i due testi (Gylfaginning [44-47] e Hymiskviða) siano costruiti attorno a una cosmologia comune, cosa di cui non possiamo essere certi. La situazione descritta trova tuttavia un riscontro alla luce delle altre cosmologie da noi analizzate. L'oceano che circonda il mondo risulta diviso in due sezioni: un «mare» [haf] che bagna il Miðgarðr, oltre il quale si trovano le terre oltremondane, ovvero Útgarðr; e al di là, un «mare esterno» [úthaf], dimora del serpente Jǫrmungandr, che si estende fino al firmamento.

Nel mito scandinavo manca tuttavia il tema più importante: quello della ricerca della vita. Ammettendo che il mondo germanico abbia adattato una versione del nostro mito analoga a quelle fin qui esplorate, la totale scomparsa del tema potrebbe avere una semplice spiegazione: Þórr, essendo un dio, non ha alcun bisogno di ottenere l'immortalità. Infatti gli Æsir possedevano già il loro frutteto dorato con le epli ellilyf, le «mele contro la vecchiaia», custodite dalla dísa Iðunn. Dovevano stare attenti, piuttosto, a non farsele rubare, quelle mele. Altrimenti sarebbero stati guai seri. Ⓖ▼

Dunque il nostro tema è scomparso senza lasciare traccia? In realtà ci sarebbero un paio di elementi, incagliati in questo complesso di leggende, che potrebbero avere un rapporto con il mito della ricerca della vita. Il primo è il furto del caldaio di Hymir, indispensabile affinché il dio del mare Ægir possa distillare birra [ǫl] per tutti gli dèi. Nel mondo celtico, le Túatha Dé Danann, gli dèi dei Gaeli d'Irlanda, consumavano birra e idromele per mantenersi sempre giovani, esenti dal disfacimento, dalla malattia e dalla morte. Colui che aveva organizzato il «banchetto della vecchiaia» era il dio del mare Manannán mac Lir, il nocchiero del mito gaelico, figlio del dio dell'oceano Lér. È interessante notare che Ægir, detto Hlér, è probabilmente una versione scandinavizzata del celtico Lér. Vi è dunque la possibilità che il nostro tema si celi proprio nel mito del furto del calderone? Lo proponiamo come progetto per future analisi. Al riguardo si veda anche la variante testimoniata dal ciclo irlandese dei Clanna Tuireann, di cui parleremo tra poco [infra]▼.

Un altro episodio interessante è costituito dall'ultima delle tre sfide sostenute da Þórr a Útgarðr: un incontro di lotta contro Elli, la stessa vecchiaia. Lasciamo la parola a Snorri:

Þá svarar Útgarðaloki ok litask um á bekkina ok mælti: “Eigi sé ek þann mann hér inni er eigi mun lítilræði í þykkja at fásk við þik”. Ok enn mælti hann: “Sjám fyrst. Kalli mér hingat kerlinguna fóstru mína, Elli, ok fáisk Þórr við hana ef hann vill. Fellt hefir hon þá menn er mér hafa litizk eigi ósterkligri en Þórr er” Útgarðaloki guardò fra le panche e commentò: “Non vedo qui chi non possa ritenere cosa da nulla un combattimento con te”. Disse ancora: “Ma vediamo; chiamate Elli, la mia vecchia levatrice, e Þórr combatta con lei, se vuole. Ella ha abbattuto uomini che non mi sono sembrati meno forti di quanto sia Þórr”.
Því næst gekk í hǫllina kerling ein gǫmul. Þá mælti Útgarðaloki at hon skal taka fang við Ásaþór. Ekki er langt um at gera. Svá fór fang þat at því harðara er Þórr knúðisk at fanginu, því fastara stóð hon. Þá tók kerling at leita til bragða, ok varð Þórr þá lauss á fótum, ok váru þær sviptingar allharðar ok eigi lengi áðr en Þórr fell á kné ǫðrum fǿti. Entrò quindi nella sala una vecchia donna. Útgarðaloki le disse che doveva battersi con Ásaþórr. Non c'è bisogno di dilungarsi: nello scontro, quanta più forza usava Þórr, tanto più ella resisteva. Poi la vecchia cominciò a reagire, Þórr perse l'equilibrio e la lotta si fece violenta. Dopo non molto Þórr cadde su un ginocchio.
Þá gekk til Útgarðaloki, bað þau hætta fanginu ok sagði svá at Þórr mundi eigi þurfa at bjóða fleirum mǫnnum fang í hans hǫll. Si fece allora avanti Útgarðaloki; impose loro di cessare lo scontro e disse che Þórr non avrebbe più dovuto sforzarsi di combattere contro altri uomini della sua hǫll.
Snorri Sturluson: Prose Edda > Gylfaginning [46]
Þórr contro Elli ( 1930)
Charles E. Brock, illustrazione (Keary ~ Keary 1930)

Þórr è assai amareggiato, ritenendo di non aver fatto una bella figura. Solo più tardi scoprirà di essere stato ingannato. Il mattino dopo, infatti, Útgarðaloki gli confessa di averlo preso per il naso grazie ai suoi sjónhverfingar, e gli dice, tra l'altro: “È stato un grande prodigio la lotta che hai sostenuto tanto a lungo, senza cedere se non con un ginocchio, quando hai combattuto contro Elli, poiché nessuno è mai riuscito e mai riuscirà a non crollare quando giunge la vecchiaia, se diviene abbastanza anziano da incontrarla” [En hitt var ok mikit undr um fangit er þú stótt svá lengi við ok felt eigi meir en á kné ǫðrum fǿti er þú fekzk við Elli, fyrir því at engi hefir sá orðit ok engi mun verða ef svá gamall er at elli bíðr, at eigi komi ellin ǫllum til falls] (Gylfaginning [47]).

Questa prova è anche la più enigmatica. Se Þórr è immortale, ed eternamente giovane (grazie alle mele di Iðunn), per quale motivo viene, seppure a fatica, vinto dalla vecchiaia? Si potrebbe pensare che l'episodio celi un motivo più antico, dove il protagonista era un'emanazione eroica di Þórr, una figura simile al Thorkillus di Saxo Grammaticus: trasparente versione mortale del dio-tuono scandinavo. D'altra parte le mitologie indoeuropee presentano molti esempi di eroi  dotati delle caratteristiche funzionali del dio-tuono, ma distinti da esso. Ricordiamo gli iranici Θraētaona e Kǝrǝsāspa, l'indiano Bhīma, forse lo stesso Hērakls.

Il mito della lotta di Þórr con Elli potrebbe avere una relazione con l'episodio in cui Hērakls si batte contro Thánatos, la morte, per impedirle di trascinare negli inferi la coraggiosa principessa Álkēstis, decisa a morire al posto dell'amato sposo Ádmētos. Nella versione che ne dà Euripídēs in una delle sue più belle tragedie, è lo stesso Hērakls a rivelare al pubblico le sue intenzioni:

  “Andrò laggiù. Farò la posta a Thánatos, il re dei morti, col suo manto bruno. Lo troverò, m'immagino, vicino a quella tomba, intento a bere il sangue delle vittime. Fuori dell'agguato scatterò: se l'agguanto e lo cingo nel giro delle braccia, non lo libera nessuno dalla stretta dolorosa dei fianchi. A meno che non molli prima a me la donna”.
Euripídēs: Álkēstis

Sebbene elaborati in maniera molto diversa, differenti per finalità e anche per esito, Snorri ed Euripídēs ci mostrano un isomitema in cui due campioni omologhi – Hērakls e Þórr – impegnano in una lotta corpo a corpo degli avversari che si rivelano essere delle astrazioni personificate, rappresentazioni allegoriche della caducità e della mortalità umane.

La nostra conclusione è che, sebbene il ciclo di Þórr abbia elaborato i temi in maniera molto differente, conservi al suo interno, ormai quasi irriconoscibili, alcuni elementi del nostro antico Ur-Myth. In un qualche esito anteriore del mito germanico, un eroe – forse il futuro dio «Þūnraz/Þórr», o forse un campione a lui legato per fisionomia – si reca ai confini del mondo per procurarsi giovinezza e immortalità. Due tappe sul percorso del nostro eroe avrebbero potuto essere Utgarðaloki  e Hymir: rispettivamente, il prometeo incatenato e il guardiano dell'orizzonte. In tal caso, il furto del calderone di Hymir potrebbe essere il risultato di una trasposizione del tema originario, dove si cercava di ottenere non tanto il recipiente, quanto il suo contenuto, la birra che rende immortali. Può darsi che il serpente Jǫrmungandr fosse preposto a custodia di questo tesoro.

Vero: la nostra ricostruzione è solo una fantasia fragile e ipotetica. Non insistiamo oltre. Qualunque sia stata la storia originale, è impossibile tentare di ricostruirla. I temi che abbiamo rilevato nel ciclo di Þórr, però, sembrano proprio quelli corretti. Se così è, lo stato di deterioramento in cui il nostro mito è pervenuto ai due testimoni germanici è indice che i suoi elementi risalgono a una notevole antichità.

IN SCANDINAVIA: IL REGNO DI GUTHMUNDUS

Se le Edda poco altro aggiungono sul nostro tema, è lo storico danese Saxo Grammaticus (vissuto tra l'xi e il xii secolo) che riporta una serie di dati interessanti e assai ben integrati tra loro, nel suo Gesta Danorum, dove narra, tra l'altro, dei viaggi oltremondani di un navigatore chiamato Thorkillus, le cui spedizioni ai confini della terra sembrano essere dellel riscritture in chiave eroica di alcuni miti che l'Edda attribuisce a Þórr. D'altra parte, come gli studiosi hanno sottolineato, Thorkillus è un'evidente ipostasi eroica del dio Þórr, cosa che si evince anche dal fatto che il suo nome, latinizzazione del norreno Þórkell, incorpora il teonimo del dio-tuono. Ma abbiamo già incontrato Thorkillus : il suo viaggio ai confini del mondo e il suo incontro con Utgarthilokus, un gigante-dio incatenato in una lontanissima caverna, presenta ovvi riferimenti all'incontro di Þórr con Utgarðaloki, ma – cosa ancora più interessante – può essere messo agevolmente in parallelo con il mito dell'incontro di Hērakls con Promētheús incatenato. Se Thorkillus è un'estrema ipostasi nordica del nostro inesausto esploratore dei confini del mondo (Hērakls, Gilgameš, Eskandar...), ci possiamo attendere che nel suo mito siano confluiti elementi del tema della ricerca dell'immortalità, di cui stiamo trattando in questa pagina. Ⓐ▼

Saxo Grammaticus narra che, all'inizio della sua carriera, il marinaio Thorkillus entrò agli ordini del re danese Gormo, il quale si era invaghito delle ricchezze ammassate da Geruthus , un re dei giganti che dimorava ai confini del mondo. Non sarebbe stato in realtà un viaggio facile, perché la dimora di Geruthus si trovava in un luogo «quasi inaccessibile per dei mortali». La descrizione che ne dà Saxo non ci sorprende affatto:

Ambitorem namque terrarum Oceanum navigandum, solem postponendum ac sidera, sub Chao peregrinandum ac demum in loca lucis expertia iugibusque tenebris obnoxia transeundum expertorum assertione constabat. Secondo quanto affermavano gli esperti di quella rotta, si doveva attraversare l'oceano che circonda la terra, lasciandosi alle spalle sole e stelle, viaggiare nel regno del caos e infine passare in luoghi esclusi dalla luce e immersi nell'oscurità perenne.
Saxo Grammaticus: Gesta Danorum [viii, xiv, 1]

Gormo e Thorkillus si mettono in mare, insieme a trecento uomini. Partono dal Hálogaland, il porto più settentrionale della Norvegia e, puntando le prue a est, solcano il mar glaciale Artico fino a raggiungere il Bjarmaland. Questo luogo – estrema propaggine nord-orientale delle spedizioni vichinghe – si trovava sulla costa settentrionale dell'odierna Russia, oltre la penisola di Kola. In Saxo diviene tuttavia un luogo mitologico, avvolto da una notte perenne, e abitato da orribili mostri e giganti. (Gesta Danorum [viii, xiv, 2-6]). Arrivano infine in una terra selvaggia, percorsa da fiumi fragorosi e spumeggianti, e qui arriva loro incontro un essere gigantesco: è Guthmundus, fratello di Geruthus, il quale invita i danesi nella sua dimora. Lungo la strada arrivano a un ponte d'oro che scavalca un fiume: i danesi vogliono attraversarlo ma Guthmundus li invita alla prudenza, e li informa che «quel fiume era il limite che la natura aveva creato per separare il mondo degli uomini da quello non umano e che non era concesso ai mortali di spingere i passi al di là» (Gesta Danorum [viii, xiv, 7]). Condotti infine danesi nella sua reggia, Guthmundus imbandisce un ricco banchetto e offre loro la compagnia delle sue splendide figlie. Ma Thorkillus avverte i suoi uomini di non accettare né cibo né donne: chi avrebbe condiviso quel cibo avrebbe perso la propria memoria e sarebbe stato costretto a passare il resto della sua vita insieme a quei turpi esseri (Gesta Danorum [viii, xiv, 8-9]).

Sebbene molti dettagli non risaltino cme dovrebbero nel testo di Saxo, altri testi ci vengono in aiuto nel nostro sforzo di definire la natura del regno di Guthmundus. Di un re Guðmundr, sovrano di un'iperborea terra felice, narrano infatti diverse saghe e þáttr di argomento leggendario. Nella redazione lunga della Hervarar saga ok Heiðreks, ad esempio, leggiamo quanto segue:

Svá er sagt, at í fyrndinni var kallat Jötunheimar norðr í Finnmörk, [...]. Guðmundr hét konúngr í Jötunheimum; hann var blótmaðr mikill; bær hans hét á Grund, en héraðit á Glasisvöllum; hann var vitr ok ríkr; hann ok menn hans lifðu marga mannsaldra, ok því trúa menn, at í hans ríki sé Ódáinsakr, en hverr, er þar kemr, hverfr af sótt ok elli, ok má eigi deyja. Eptir dauða Guðmundar blótuðu menn hann, ok kölluðu hann goð sitt. Si tramanda che anticamente la regione a nord del Finnland fosse chiamata Jǫtunheimr [...]. Nello Jǫtunheimr viveva allora un re di nome Guðmundr, un pagano dalle ferme convinzioni. Risiedeva in una città chiamata Grund, mentre la regione aveva nome Glæsisvellir. Era un re forte e saggio. Insieme ai suoi sudditi, vivevano numerosi stranieri, poiché i pagani credevano che nel suo regno si trovasse il [campo di] Ódáinsakr e che, chiunque riuscisse a giungervi, scampasse alla malattia e alla vecchiaia, e non morisse. Dopo la morte di Guðmundr, i suoi celebrarono un sacrificio e lo proclamarono loro dio...
 Hervarar saga ok Heiðreks [1]

Glæsisvellir, la «pianura splendente», reminescente della Glesaria di Plinius, e Ódáinsakr, il «campo degli immortali» (da ó-, prefisso negativo, e dáinn, «morto») sono due nomi della terra d'immortalità che è meta degli eroi del tema che stiamo qui analizzando. Guðmundr è quindi il signore del felice oltremondo, il guardiano dei passaggi che conducono al di là dello spazio. Pur con molta prudenza, potremmo associarlo ad Átlas, e le sue figlie alle Hesperídes. Nel racconto di Saxo, tuttavia, l'incontro dei danesi con Guthmundus viene svolto nei termini di una tentazione da superare: Thorkillus e i suoi uomini devono resistere all'allettamento del cibo imbandito e alle grazie delle bellissime fanciulle che si offrono loro, se vogliono conservare la memoria e la propria integrità.

Che nelle fonti il regno di Guðmundr appaia collocato oltre il Bjarmaland (e quindi in direzione nord-est) non deve indurci in errore: si tratta di interpretazioni eseguite a posteriori da Saxo Grammaticus e dagli altri autori, nel momento in cui le mitologia veniva rielaborata storicamente. L'antica cosmologia nordica, di cui è rimasta traccia nelle ballate e nelle saghe, era assai più complessa. Secondo l'interpretazione di Liestøl e Moe, il mar glaciale Artico era immaginato racchiuso in un vasto golfo che dalla Norvegia si congiungeva alla Groenlandia. La leggendaria terra oltreboreale, al di là del mar Artico, il luogo dove gli eroi delle saghe, delle ballate e delle fiabe andavano a conquistare tesori, abbattere mostri e conquistare fanciulle, era conosciuto con molti nomi. Hafsbotn nella Landnámabók e nelle fornaldarsǫgur, Norðrbotn [Sinus septentrionalis] nella Historia Norwegiae, Trollebotten o Trollabotnar nelle ballate, o semplicemente Botnar, dove il termine botn indicava il «fondo» di un fiordo o di una valle; cfr. inglese bottom (Liestøl ~ Moe 1920-1924; Taglianetti 2016). Ma non bisogna lasciarsi indurre in errore. Ma ritenere, come fanno Liestøl e Moe, che queste regioni cosmologiche possano essere identificate con la Groenlandia (la quale fu scoperta solo nel 1000), significa commettere lo stesso errore di metodo di chi ha cercato di localizzare il giardino di ʿĒḏẹn in qualche oasi del Medio Oriente, o ha ritenuto che Eskandar, salpato dalla Spagna, fosse giunto in America.

Per posizionare questi luoghi non dobbiamo rivolgerci alla geografia, bensì alla cosmologia. La terra d'immortalità di Guthmundus/Guðmundr, così come la fiabesca Hafsbotn/Trollebotten, vanno poste più a nord dell'asse terrestre. Questa definizone, paradossale nella geografia reale, è accettabilissima nella cosmologia mitica. Una volta oltrepassata la terra dell'oscurità (che dallo Ša naqba īmuru in poi sappiamo gettata dalla montagna cosmica, attorno alla quale ruota il firmamento), il sole che illumina queste regioni oltreboreali è il sole dei morti . Luca Taglianetti ricorda che nella ballata Jomfrua Ingebjørg il toponimo Trollebotten indica l'inferno (Taglianetti 2016). Nella descrizione di Saxo, il mitema della terra d'immortalità si confonde alla nozione, comune ai miti scandinavi e finnici, del Tartarus septentrionalis e quello di non accettare il cibo dei morti è una ben nota accortezza di tutti gli eroi che si accingono in questi viaggi cosmologici.

Ma torniamo al racconto di Saxo. Visti inutili i suoi sforzi di ingannare i danesi, Guthmundus dà loro il permesso di oltrepassare il fiume. Thorkillus e i suoi giungono così a una città lugubre e desolata, circondata da una palizzata: teste umane infilzate sulle picche e cani feroci che ne vigilano l'ingresso. Solo con difficoltà riescono a varcarne le porte. All'interno è un groviglio di ricchezze ineguagliabili abbandonate in mezzo al più orribile sudiciume, mentre spettri esangui li guatano dai loro seggi. Al centro della sala si presenta loro un'immagine grottesca:

Procedentes perfractam scopuli partem nec procul in editiore quodam suggestu senem pertuso corpore discissae rupis plagae adversum residere conspiciunt. Praeterea feminas tres corporeis oneratas strumis ac veluti dorsi firmitate defectas iunctos occupasse discubitus. Cupientes cognoscere socios Thorkillus, qui probe rerum causas noverat, docet Thor divum, gigantea quondam insolentia lacessitum, per obluctantis Geruthi praecordia torridam egisse chalybem eademque ulterius lapsa convulsi montis latera pertudisse; feminas vero vi fulminum tactas infracti corporis damno eiusdem numinis attentati poenas pependisse firmabat. Avanzando nella sala, scorgono una fenditura nella roccia e non molto distante, seduto su una piattaforma sopraelevata di fronte alla rupe spaccata, un vecchio con il corpo squarciato. Lì vicino vedono anche tre donne, con il corpo ricoperto di scrofole, che sembravano senza forza nella spina dorsale. I suoi compagni bruciavano dalla voglia di sapere, perciò Thorkillus, che conosceva bene la ragione di quelle cose, raccontò loro che il dio Thor era stato una volta sfidato dall'arroganza dei giganti e, mentre lottava contro Geruthus, gli aveva cacciato nelle viscere una verga di ferro incandescente che, attraversandogli il corpo e scivolando più in basso, era arrivata a spaccare i fianchi della montagna, squarciandola. Disse che le donne erano state colpite dai potenti fulmini di Thor e avevano pagato con il corpo spezzato la colpa di avere provocato la divinità.
Saxo Grammaticus: Gesta Danorum [viii, xiv, 15]

Saxo si riferisce qui al mito della lotta di Þórr contro il gigante Geirrøðr e le sue sgradevoli figlie Gjálp e Greip, narrato dallo scaldo Eilífr Goðrúnarson nell'arduo poema Þórsdrápa (x sec.) e, in maniera più lineare, da Snorri Sturluson in Skáldskaparmál [26] Ⓑ▼. Ciò che colpisce nel racconto di Saxo, tuttavia, è il fatto che l'immagine del sovrano morto, assiso in trono, lo avevamo già trovato nella fiaba araba di Bulūqiyā: si ricorderà che l'eroe, nel corso del suo viaggio verso la lontana terra d'immortalità, arriva in una caverna dove trova un uomo morto su un trono: è re Sulaymān; subito dopo, Bulūqiyā viene aggredito da una serpente che sputa fiamme. È interessante notare che anche i danesi, non appena cominciano a rubare i tesori ammassati nella reggia di Geruthus, verranno attaccati da un serpente. Anche nello Šāhnāmè di Ferdowsī, Eskandar, nel corso della sua ricerca, trova il cadavere di Sulaymān ancora assiso sul suo trono. Quale sia il significato di questo motivo, e come sia pervenuto dal Medio Oriente alla Scandinavia, è difficile dirlo.

Nel racconto di Saxo, dopo aver combattuto contro spettri semimorti e orrigili streghe, Thorkillus e i suoi uomini tornano da Guthmundus e decidono di riprendere la via del ritorno. Ma un uomo del seguito di Thorkillus, l'eroico Buki, piegato dalla passione per una fanciulla, decide di rimanere nel paese di Guthmundus. Mentre accompagna il re alla partenza, tuttavia, fa per guadare il fiume con il suo carro ma, travolto dalle acque vorticose, muore annegato. Immaginiamo che Buki assolva qui, in qualche modo, il ruolo dell'eroe principale del nostro tema. I dati sono però piuttosto frammentari e non permettono un'analisi comparatistica più rigorosa. ②▼
 

①▲ Nel Kalevala finnico compare Pohjola, la lontana e oscura «terra del nord», dove si recano gli eroi del poema per chiedere la mano delle sue meravigliose fanciulle. Sebbene Pohjola non sia mai caratterizzata come una landa d'immortalità, essa è il luogo dov'è custodito il sampo, misterioso strumento di inesauribile ricchezza e fertilità. Nei runolaulut del ciclo di Lemminkäinen, compare la nozione parallela di Päivölä, la «terra del sole», raggiungibile solo dopo un lunghissimo e pericoloso viaggio iperboreo, i cui elementi sono stati messi in correlazione con quelli del regno di Geruthus in Saxo Grammaticus (le picche con le teste umane infilzate, i cani che ne sorvegliano i cancelli, etc.). Gli studiosi, equiparando il percorso di Lemminkäinen a un viaggio sciamanico, tendono a collocare Päivölä nelle regioni celesti. Tuttavia la comparazione con il complesso cosmologico di cui trattiamo in questo pagine, anche tenendo conto della natura oscura degli scenari attraversati da Lemminkäinen, giustificano l'ipotesi che questa «terra del sole» sia in realtà la regione oltreboreale che il sole illumina nel suo percorso notturno: è di nuovo la nozione del Tartarus septentrionalis. Non ha quindi sbagliato Elias Lönnrot che, nella compilazione del Kalevala, ha sostituito per ragioni di economia letteraria Päivölä con Pohjola.
 
②▲ Diverse narrazioni mettono in scena il personaggio di una figlia di Guðmundr. Si vedano la Bósa saga, o il Helga þáttr Þórissonar, dove però i contesti escludono qualsiasi riferimento al tema che stiamo trattando. Nondimeno, un'analisi di questi testi e, in particolare, della Bósa saga, con le sue interessanti affinità con il Kalevala potrebbe portare a interessanti conclusioni. La proponiamo per esercizio ai nostri lettori...

MAPPE DI VIAGGIO: LE MONTAGNE CHE SOSTENGONO IL CIELO

Narrate le grandi avventure, messi i protagonisti in locandina, tolte di mezzo le necessarie premesse, è ora di tracciare il nostro itinerario per i confini del mondo, tappa dopo tappa, e localizzare il giardino meraviglioso dove fiorisce l'albero della vita, dove sgorga l'acqua dell'immortalità. Le nostre guide saranno, ancora una volta, Gilgameš, Hērakls, Eskandar e Bulūqiyā, inesausti esploratori dei confini del mondo, e oltre.

La prima tappa del viaggio compiuto dal nostro eroe, quale che sia il suo nome, consiste in una montagna stagliata ai confini del mondo. Essa ha, in tutti i casi, un valore cosmologico: segna il limite estremo della terra, funge da «porta» per il sorgere e il tramonto del sole, sostiene il cielo. Nei suoi pressi vi è una regione di tenebre. Oltre di essa si stende l'oceano cosmico. Ed è nei pressi di questa montagna che sgorga l'acqua della vita o si trova il giardino dove fiorisce l'albero dell'immortalità.

  • (α) Gilgameš arriva allo šadû Māšu. La direzione non è specificata: ma è dalla porta [bābu] sul fianco della montagna che ogni giorno il sole sorge e tramonta. Varcato l'ingresso, Gilgameš si immette sul ḫarran šamši, il «sentiero del sole», e avanza nella totale oscurità per dodici bēru. Quando arriva dall'altra parte, trova gli iṣû ilī, gli «alberi degli dèi», e davanti a lui si stende il mare [tâmtu], ovvero l'oceano cosmico.
  • (β) Hērakls si muove, nelle varianti del suo ciclo, tanto verso occidente tanto verso oriente. A oriente arriva all'óros Kaúkasos, il monte dell'alba, dove è incatenato Promētheús; a occidente arriva all'óros Átlas, il monte del tramonto, regno di Átlas, oltre il quale c'è il Kpos Hesperídōn. (β₁) Secondo la variante «polare», Hērakls trova Átlas nell'estremo settentrione, dove il gigante/montagna funge da asse celeste, ed è qui che si trova il Kpos Hesperídōn.
  • (γ) La fiaba di Bulūqiyā non fornisce una direzione precisa: l'eroe lascia la terraferma e si mette in cammino sui «sette mari». Dopo aver attraversato vaste distese marine ed essere transitato per isole lontane, attraversa una regione di tenebre e arriva al ǧabal al-Qāf.
  • (δ) Al-Iskandar/Eskandar compie una serie di viaggi ai confini del mondo, raggiungendo tanto l'estremo oriente, tanto l'estremo occidente. Dopo aver attraversato la terra delle tenebre (aẓ-Ẓulumat), arriva al ǧabal al-Qāf, dove sorgono le città di smeraldo di Ǧābarsā e Ǧābalqā, ed è testimone del sorgere e del tramontare del sole. (δ₁) In Neāmī, si associa un ulteriore viaggio verso il polo settentrionale. Attraversate le tenebre (Ẓolmat), Eskandar arriva alla montagna che funge da asse del mondo, ed è qui che sgorga l'acqua della vita.
  • (ε) Þórr compie una serie di viaggi ai confini del mondo, solitamente verso oriente, direzione in cui sono localizzati il mondo dei giganti Jǫtunheimr, la terra «ai confini del cielo» dove dimora Hymir, o il «recinto esterno» Útgarðr. I tratti astronomici, purtroppo, non sono mai evidenziati. (ε₁) Himinbjǫrg, la «montagna del cielo», servita dal ponte Bifrǫst, è il luogo di passaggio dalla terra all'Ásgarðr, la fortezza celeste dove vivono gli dèi.

In tutti i miti citati, la montagna può assumere tre modelli differenti:

  1. portae mundi - due montagne: un monte dell'alba a est, un monte del tramonto a ovest;
  2. cingulus mundi - una montagna anulare che circonda la terra sul confine esterno;
  3. axis mundi - una montagna localizzata all'estremo settentrione, che funge da perno per il polo celeste.

Tali modelli non sono esclusivi dell'uno o dell'altro sistema mitico. Essi possono sovrapporsi in un sistema cosmologico coerente (Īrān zoroastriano); possono apparire come possibilità alternative nelle varianti del medesimo mito (Grecia, Īrān islāmico); oppure presentarsi come possibili interpretazioni in un sistema non meglio specificato (Mesopotamia).
 

Mesopotamia

Quando Gilgameš arriva allo šadû Māšu, i filologi gettano la spugna e i cosmologi si arrendono. Il testo dello Ša naqba īmuru, anche per via delle lacunae e delle difficoltà di interpretazione, non permette di definire la precisa localizzazione del Māšu. Che il viaggio di Gilgameš lo abbia condotto a est lo si deduce quasi unicamente dal fatto che Ziudsura, l'equivalente sumerico di Ūtnapištī, era stato reso immortale e traslato «in una regione al di là del mare, a Dilmun, dove si leva Utu» [kur-bal kur dilmun-na ki utu éd-šè mu-un-tìl-eš] («Poema di Ziudsura» [V: ]). Tra il poema sumerico del diluvio e lo Ša naqba īmuru vi è una distanza temporale di quasi due millenni. Ipotizzando, tuttavia, che la localizzazione del Pû-nārāti sia rimasta quella dell'antica Dilmun, la conclusione comunemente accettata dagli studiosi è che Gilgameš sia arrivato allo šadû Māšu muovendosi in direzione est (e qui pesa anche, bisogna ammetterlo, il ricordo del gan ʿĒḏẹn piantato «a oriente»). Ci troviamo dunque di fronte al modello delle portae mundi?

È possibile. Altri testi, come abbiamo visto, citano lo Šadû Ḫašur e lo Šadû Budugḫudug, il monte dell'alba e il monte del tramonto, l'uno a oriente e l'altro a occidente della terra (SB [Hh XXII]; TCL [XV: 7, ]). E questa è una possibile attestazione dell'esistenza del modello delle portae mundi.

Purtroppo lo Ša naqba īmuru non permette di sciogliere l'ambiguità. La localizzazione dello šadû Māšu – lo ripetiamo per chiarezza – è affidata a due versi del poema ninivita. Nel primo, mutilo, Gilgameš ammira il Māšu «che giornalmente guarda il sorg[ere del sole...]» [šá umišama inaṣaru a[ṣê šamši...]] [IX: ], apparentemente suggerendo una localizzazione orientale della montagna. Ma poche righe sotto è scritto che gli aqrab-amēlû, gli uomini-scorpione, le solerti sentinelle del Māšu, «stanno a guardia del sole, al tramonto del sole e al sorgere del sole» [ana a-ṣe-〈e〉 UTU(=šamši) u e-reb UTU(=šamši) i-na-aṣ-ṣa-ru UTU(=šamši)-ma] [IX: ], inducendo gli studiosi, sebbene a malincuore, a emendare il verso [IX: ] in šá umišama inaṣaru a[ṣê šamši u ereb šamši], «che giornalmente guarda il sorg[ere del sole e il tramonto del sole]».

Chiedersi come faccia il sole a sorgere e tramontare dalla stessa porta può essere una domanda scomoda. Una possibilità risolutiva, sebbene raramente proposta dagli studiosi, è che lo šadû Māšu sia un'unica montagna e si trovi a nord e che funga da asse celeste; che non risponda al modello delle portae mundi ma a quello dell'axis mundi. Ciò spiegherebbe perché gli aqrab-amēlû stanno a guardia del sole tanto al tramonto quanto al suo sorgere [IX: ], ma anche perché, nel momento in cui Gilgameš è al nono bēru del suo buio percorso lungo il ḫarran šamši, avverta il «vento del nord» [iltānu] soffiare sul suo viso.

Il modello axis mundi è sicuramente meno intuitivo, ma dopo aver analizzato la cosmologia iranica, con il suo monte Tērag-ī-Harborz che funge da asse per la rivoluzione del sole intorno la terra, e dopo aver seguito l'Eskandar di Neẓāmī a Ẓolmat, sotto la scura montagna polare, l'idea appare assai meno peregrina. Ci si può chiedere se il KUR delle varianti sumeriche non sia un esempio arcaico di questo mitema. Nell'Imago mundi Babylonica, all'altezza di uno dei nagi˒ānu settentrionali, compariva un BÀD.GULA, un «grande muro [...] dove Šamaš non è visto», che potrebbe essere un altro esito mesopotamico del modello dell'axis mundi. Il tal caso, la distanza di sei bēru, fornita dall'Imago mundi, se intesa in senso temporale, potrebbe indicare le dodici ore che il sole impiega a percorrere l'altro lato della montagna. Ma l'idea di un «grande muro», se presa nel più elementare senso semantico, ricorda piuttosto il cingulus mundi, sebbene tale modello non sia altrimenti attestato nei testi sumeri o accadici.

In sintesi, le possibili interpretazioni dei testi mesopotamici ci consegnano un'ampia possibilità di opzioni, che però sono valide unicamente come interpretazioni alternative degli oronimi che compaiono nei singoli testi:

  Portae mundi Axis mundi Cingulus mundi
Ša naqba īmuru šadû Māšu (?) šadû Māšu (?)  
En-e kur lu tillaše
 Ia lulu uluḫḫa sudsud
  KUR (?)  
SB [Hh XXII]
TCL [XV: 7, ]
Šadû Ḫašur
Šadû Budugḫudug
   
Imago mundi Babylonica   BÀD.GULA (?) BÀD.GULA (?)


Egitto

Non appaia un arbitrio se ci spostiamo un momento in Egitto, territorio culturale che abbiamo appena accennato in questo studio. Sebbene la letteratura della terra dei faraoni non abbia conservato, a nostra conoscenza, alcun racconto incentrato su una disperata ricerca della vita eterna, questo tema era onnipresente in tutti i miti escatologici e aveva continuo riscontro nel riti funerari di questo popolo ossessionato dalla morte e dalla possibilità di una vita oltremondana. Il lettore che ci ha seguito fin qui, d'altra parte, riconderà come un riscontro con la simbologia egizia ci è stato precedentemente utile nel delineare il motivo della «gemellarità» del monte dell'alba e del tramonto. Abbiamo visto come le due cime dello šadû, ben evidenti in alcuni sigilli antico-babilonesi che raffigurano il sorgere e il calare del dio-sole Utu/Šamaš (immagini: [ME, 89110]✦ e [ME, 89115]✦), abbiano un puntuale riscontro nella scrittura geroglifica, dove la parola ḏew [ḏw], «monte», era rappresentata da un rilievo concavo, e la parola ẚḫet [ꜣḫt], «orizzonte», era rappresentata dal sole sospeso sulla concavità (immagine: [ḏew e ẚḫet]✦) (Betrò 1995).

Gli egittologi hanno analizzato la complessa simbologia del monte a due cime raffigurato nei geroglifici ḏw e ꜣḫt. A un livello prettamente geografico, le due cime alluderebbero alle catene montuose che si trovano a est e a ovest della valle del Nilo e che segnavano i confini dell'Egitto, chiamate rispettivamente Bẚū [bꜣw] e Mẚnū [mꜣnw]. Il sole, Reʿ [rʿ] nel suo aspetto principale, sorgeva dietro la catena orientale, Bẚū, e tramontava dietro quella occidentale, Mẚnū.

ker. Papiro egizio
Immagine simbolica del dio ker, raffigurato come due leoni maculati ai lati del geroglifico 3ḫt, «orizzonte», dove il sole è sospeso sulla concavità di una montagna bicuspide.

A guardia dell'orizzonte stava il dio ker [ꜣkr], il quale aveva il compito di aprire le porte del mattino e della sera, in modo che Reʿ potesse passare nel suo sorgere e nel suo tramontare. Tali porte erano anche i varchi tra il nostro mondo e il regno dei morti, la Dūẚt [dwꜣt]. Perciò, ker, dio dell'orizzonte, era anche il dio del «passaggio» tra il giorno e la notte e, di conseguenza, tra la vita e la morte. Non lo si rappresentava in forma antropomorfa, ma veniva simbolizzato dal geroglifico ꜣḫt affiancato da due leoni che guardavano in direzioni opposte. I due felini – forse una varietà maculata dell'ormai estinto leone di Barberia – si chiamavano Sef [sf]e Dūẚū [dwꜣw], «ieri» e «domani».

S'imporrebbe qui un trattato sulle concezioni simboliche sul percorso del sole, tanto diurno, quanto notturno, nella mitologia egizia. Di come, sorgendo, «fecondasse» la dea-cielo Nūt, viaggiasse nel corso del giorno lungo il suo corpo, inarcato attraverso la volta celeste, e quindi, a sera, dopo aver attraversato l'orizzonte, entrasse nella sua bocca. E di come, il suo viaggio notturno compiuto, da ovest a est, all'interno del corpo di Nūt, si riflettesse in un percorso ipoctonio, attraverso la Dūẚt. E infine di come, la mattina successiva, il dio-sole rinascesse a nuova vita, «partorito» a oriente dalla dea-cielo (Meeks ~ Meeks 1993 | Tosi 2004 | Zecchi 2004). La natura contorta e spesso contraddittoria di tali simbolismi non deve però lasciarci sviare: le eccessive stratificazioni simboliche della mitologia egizia costituiscono idiosincrasie peculiari, non necessariamente estendibili ad altri sistemi mitologici. Se abbiamo lanciato uno sguardo curioso lungo le rive del Nilo è solo per sottolineare, con un esempio forse eccessivo, come la cosmologia del mito segua a volte percorsi assai poco aristotelici.

Non sarà sfuggito, ad esempio, il fatto che ker sta a guardia delle porte del sole tanto a oriente quanto a occidente. Il suo nome significa «colui che s'incurva» e, quale dio dell'orizzonte, è presente al passaggio del sole sia presso la porta del monte Bẚū, a est, sia presso quella del monte Mẚnū, a ovest. In altre parole, condivide la strana caratteristica degli aqrab-amēlû, gli uomini-scorpione, che stanno a guardia alle porte dello šadû Māšu tanto al tramonto tanto all'alba. Ma non bisogna pensare a una sorta di ubiquità da parte di ker, né sono gli uomini-scorpione che si spostano da est a ovest. Nei geroglifici ḏw «monte» e ꜣḫt «orizzonte», la montagna a due cime rappresenta tanto il monte dell'alba tanto il monte del tramonto. Nella logica del pensiero mitico, il monte a est e quello a ovest sono in realtà una sola montagna. Le due cime, raffigurate l'una accanto all'altra, ne rappresentano la natura duplice. E ker, dio dell'orizzonte, ne è il guardiano dell'unica porta, che è situata sia a est sia a ovest. Inoltre, a un livello prettamente simbolico, il geroglifico ꜣḫt, «orizzonte», rappresenterebbe anche la collina primordiale (ḳꜣꜣ wnw) che venne spaccata in due quando tūm-Reʿ comparve come luce, per la prima volta, all'inizio del mondo.

Estendendo il medesimo ordine di idee ai sigilli antico-babilonesi, la montagna a due cime attraverso la quale il dio-sole Utu/Šamaš sorge [ME, 89110]✦ e tramonta [ME, 89115]✦ è sia la montagna dell'alba sia quella del tramonto, le cui nozioni si fondono in un rilievo duplice, annullando di fatto l'orizzonte. La porta che Gilgameš vede incastonata nello šadû Māšu vale tanto per l'alba quanto per il tramonto.

La simbologia egizia può aiutarci a penetrare in questa logica che trasforma la geografia e l'astronomia in un campo astratto, costituito esso stesso di geroglifici, e sicuramente lontanissimo dal nostro modo di percepire il mondo. Ma non vogliamo insistere troppo su questa linea. Sarebbe improprio – e davvero troppo facile – proporre una simbologia tanto «fumosa» come chiave di interpretazione delle sofisticate concezioni astronomiche dei popoli della Mesopotamia, che erano frutto di lunghe e attente osservazioni. Nella nostra pretesa di razionalità abbiamo bisogno di schemi più rigorosi e concreti.


Grecia

Nella mitologia ellenica troviamo attestato sia il modello delle portae mundi sia quello dell'axis mundi. I due modelli, però, non compaiono mai insieme e non si sovrappongono. In oltre tre millenni di elucubrazioni teologiche, gli Egiziani erano riusciti a sovraccaricare i loro simboli di un gran numero di significati divergenti, deformandone le semantiche fino a farci stare dentro di tutto. Al contrario, i Greci erano troppo razionali per non avvertire una contraddizione, logica prima che cosmologica, tra due modelli tanto diversi come le portae mundi e l'axis mundi. Ragion per cui, pur conservandoli entrambi, li concepirono come alternativi tra loro. Entrambi i modelli sopravvissero nel ciclo di Hērakls, ma vennero considerati delle varianti inconciliabili.

La geografia ellenica identificava la montagna del tramonto col massiccio dell'Atlante e la montagna dell'alba, forse, con la catena del Caucaso. La faccenda presenta complesse stratificazioni che dobbiamo evidenziare prima di procedere.

Che il titán Átlas avesse il proprio regno in Libýē, all'estremità occidentale dell'oikouménē, dinanzi al fiume Ōkeanós, ce ne dà conferma la maggior parte delle fonti classiche, soprattutto di epoca ellenistica e imperiale. Essa ha le sue attestazioni principali in Pherekýdēs (FGrHist [3 F 16a]), Diódōros Sikeliṓtēs (Bibliothḗkē Historikḗ [IV: 27]), Apollṓnios Rhódios (Tá Argonautiká [IV: -]), Hyginus (De Astronomia [II: 30]) e anche in Nónnos Panopolítēs, che parla di un «libico Átlas» [Líbus Átlas] (Dionysiaká [XVIII: ]). Naturalmente in tutti questi casi si parla del titán Átlas, non dell'óros Átlas, sebbene si dia per scontato che la montagna abbia preso nome dal gigante che vi dimorava. Nella maggior parte di queste fonti, il monte è associato al giardino delle Hesperídes, ma il dato cosmologico è assente. Fa eccezione Publius Ovidius Naso, il quale, trattando il mito non come dato geografico, bensì come fabula, non ha timore di attingere ai suoi elementi più arcaici:

Iapetionides Atlas fuit, ultima tellus
rege sub hoc et pontus erat, qui Solis anhelis
aequora subdit equis et fessos excipit axes..
Átlas, figlio di Iapetós regnava sull'estremo lembo della terra
e sulle distese marine che accolgono nel loro grembo
i cavalli ansimanti e il cocchio stanco del sole...
Publius Ovidius Naso: Metamorphoseon [IV: -]

Ovidius definisce cosmologicamente il regno di Átlas come il luogo, situato «sull'estremo lembo della terra», dove scende a immergersi, al tramonto, il «cocchio stanco del sole». In questa terra, che il poeta augusteo chiama Hesperia, «sugli alberi, fronde lucenti, d'oro sfavillante, / coprivano rami d'oro, frutti d'oro» [arboreae frondes auro radiante nitentes / ex auro ramos, ex auro poma tegebant.] [IV: -]. Infine, Ovidius pietrifica il titán Átlas, trasfigurandolo nel monte omonimo, e così completa lo scenario:

Quantus erat, mons factus Atlas; nam barba comaeque
in silvals abeunt, iuga sunt umerique manusque,
quod caput ante fuit, summo est in monte cacumen,
ossa lepis fiunt: tum partes auctus in omnes
crevis in inmsum (sic, di, statuistis) et omne
cum tot sideribus caelum requievit in illo.
Grande quant'era, Átlas diventò un monte. La barba e i capelli
passarono infatti in selve, le spalle e le mani sono balze,
quello che prima era il capo è il più alto cocuzzolo della montagna,
le ossa divennero sasso. Poi, gonfiandosi dappertutto,
crebbe smisuratamente in altezza (così decideste, o dèi), e tutto
il cielo con le sue tante stelle poggiò su di lui.
Publius Ovidius Naso: Metamorphoseon [IV: -]

«...e tutto il cielo con le sue tante stelle poggiò su di lui». E questa, come sappiamo, è un'importante caratteristica delle montagne cosmiche: anche riguardo alle vette del Māšu si diceva che «sulle loro cime grava la volta celeste» (Ša naqba īmuru [IX: ]). E il ǧabal al-Qāf in Arabia e il monte Harā Bǝrǝzaitī/Harborz/Alborz in Īrān hanno la medesima funzione di sostenere il cielo e unirlo alla terra.

Che il massiccio del Caucaso potesse essere considerato, in una qualche remota cosmografia greca, l'analoga montagna dell'alba, non è altrettanto certo. Le fonti non sono esplicite al riguardo: nondimeno ci trasmettono degli interessanti segnali. Il Caucaso era considerato il più remoto punto orientale della geografia arcaica e soprattutto era il luogo dove era stato incatenato Prometheus. È Strábōn a collegare esplicitamente le due nozioni: «I Greci hanno chiamato questi monti Kaúkasos [...]. Lì si svolge il racconto mitico di Promētheús e del suo incatenamento: ma questo perché, allora, il Kaúkasos era l'estremo limite orientale conosciuto» (Geōgraphiká [XI, 5, ]). La concezione del mondo tracciata dal geografo Hekataîos Milḗsios (550-476 a.C.), sebbene si collochi ormai in età classica e contempli località esotiche come l'Assyría, la Mēdía, la Persía e l'Indía, nondimeno continua a disporre il Kaúkasos verso l'estremità orientale della terra (Períodos Gs).

Mappa mundi secondo Hekataîos Milḗsios

Può essere interessante seguire gli spostamenti di Hērakls su una mappa di questo tipo. Vediamo infatti l'eroe toccare le estremità del disco terrestre (oikouménē) in tutti e quattro i punti cardinali:

  • occidente: a Erýtheia, per il furto del bestiame di Gēryṓn (o all'óros Átlas in Libýē per i frutti d'oro nel giardino delle Hesperídes);
  • meridione: in Aithiopía o in Arabía, per imbarcarsi sulla coppa di Hḗlios nel corso dell'undicesimo érgon;
  • oriente: sull'óros Kaúkasos, per liberare Promētheús;
  • settentrione: verso l'óros Átlas nella terra degli Hyperbóreoi per i rubare frutti nel giardino delle Hesperídes.

Infatti Apollódōros, nel corso dell'undicesimo érgon, fa imbarcare Hērakls sulla coppa del sole sul lato sud-orientale di Ōkeanós per poi farlo sbarcare nel Kaúkasos. In epoca arcaica si riteneva che il Kaspía thálassa (il mar Caspio) fosse un golfo aperto a est, o a nord-est, sul potamós Ōkeanós. Aiskhýlos si riallaccia a questa visione geografica quando, nella sua tragedia, invia dapprima le Ōkeanídes a consolare Promētheús, incatenato per ordine di Zeús, e poi lo stesso Ōkeanós per convincere il titán ribelle a riconoscere la sovranità del re dell'Ólympos (Promētheús desmṓtēs). Se il Kaúkasos fosse stato correttamente situato al centro del continente eurasiatico, difficilmente avremmo visto le Ōkeanídes, e ancor più difficilmente Ōkeanós – che nel mito non si muove mai dalla sua sede intorno alla terra –, intrattenersi con Promētheús. Ma nella concezione geografica arcaica, il titán incatenato tra le asperrime rocce del Kaúkasos non era così lontano dai flutti di Ōkeanós.

Apollṓnios Rhódios (❀ III sec. a.C.) che, pur vivendo in piena epoca ellenistica, ambienta il suo poema in una geografia mitica, scrive che «il regno di Aîa, in Kolkhís, si stende agli estremi confini di mare e di terra» (Tá Argonautiká [I: ]). Detto, questo, ciò che ancora ci manca è un collegamento esplicito tra il massiccio caucasico e il sorgere del sole. Forse non è significativo il fatto che il mitico re di Kolkhís, Aiḗtēs, fosse considerato figlio di Hḗlios, e che il nome del suo regno, Aîa, sembri derivare da quello della dea dell'autora Éōs. Più importante, al riguardo, è però una nota dello stesso Apollṓnios, il quale fa dire a un suo personaggio che «la Libýē è tanto lontana dal regno di Kolkhís quanto vediamo lontani l'oriente e il tramonto» (Tá Argonautiká [I: -]), stabilendo finalmente una proporzione ideale in cui la Libia sta al tramontare del sole come il Caucaso sta al suo sorgere.

Atlas e Promētheús ( ±530 a.C.)
Kylix laconico, da Cerveteri
Musei Vaticani, Roma (Italia)

Queste note suggeriscono la presenza, in una fase remota del mito greco, del modello cosmologico delle portae mundi: due montagne, l'óros Kaúkasos e l'óros Átlas, situate sulle sponde del fiume Ōkeanós, l'una nell'estremo oriente della terra, l'altra nell'estremo occidente, le quali sorreggono il cielo e si stagliano dinanzi al sole, rispettivamente nel suo sorgere e nel suo tramontare.

Ciascuna delle due montagne è legata inoltre a un titán condannato a scontarvi un'atroce punizione. Prometheus e Átlas, i due figli di Iapetós, sono infatti segnati da un destino convergente: relegati alle opposte estremità del mondo, sono immobilizzati nelle rispettive sedi: l'uno nel Kaúkasos, incatenato a una colonna, o direttamente alle rocce di una montagna, sospeso tra il cielo e la terra; il secondo condannato a fungere egli stesso da colonna tra la terra e il cielo. Il primo torturato da un'aquila [aetós kaukasíos], il secondo affiancato da un serpente [drákōn hespérios]. Dei due, Promētheús mantiene una certa sua individualità rispetto all'ambiente orografico in cui è collocato (ma in proposito rimandiamo ai miti caucasici su Amirani/Abrskil Ⓐ▼), mentre Átlas è venuto a identificarsi fisicamente con il massiccio di cui porta il nome.

Ma c'è un altro fil rouge che accumuna i due titânes: entrambi vengono visitati da Hērakls nel corso del suo viaggio verso il Kpos Hesperídōn. L'eroe libera Promētheús, ma non Átlas. Inoltre uccide sia il drákōn hespérios sia l'aetós kaukasíos. Il fatto che Hērakls visiti entrambi i figli di Iapetós non è solo un'indicazione delle valenze di simmetria e specularità che associano e oppongono Promētheús ed Átlas, ma anche un'ulteriore traccia che i due Iapetonídēs simboleggiano gli opposti confini del mondo, e l'aver raggiunto sia l'uno che l'altro definisce il personaggio di Hērakls in termini dei suoi spostamenti ai confini della terra.

Il gioco di simmetrie tra Promētheús ed Átlas ci dice che, in una certa fase del mito greco, i mitografi hanno speculato sull'analogo destino a cui sono andati incontro i due Iapetonídēs. È incerto tuttavia che sia mai esistito, in epoca antica, un modello equilibrato e coerente. È assai più probabile, a nostro avviso, che i due personaggi si siano, per così dire, «incastrati» nelle rispettive posizioni in una fase in cui le conoscenze geografiche degli Elleni erano progredite al punto tale che il Kaúkasos aveva cessato di essere l'estremità orientale del mondo, e quindi il sistema non è mai arrivato alla sua perfetta simmetria geografica.

Se ci spostiamo indietro nel tempo, agli albori della letteratura greca, scopriamo che Hēsíodos non identifica Átlas con una montagna, bensì lo proietta «ai confini della terra, davanti alle Hesperídes dalla voce sonora» (Theogonía [-]), dopo aver disposto queste ultime «al di là del famoso Ōkeanós» (Theogonía []). Dunque, per Hēsíodos, l'occidente in cui è collocato Átlas non era la Libýē, ma un luogo indefinito, remoto, situato oltre l'oceano cosmico. Un occidente che non apparteneva all'oikouménē ma al kósmos. E prima ancora di Hēsíodos, in quella che è la prima apparizione letteraria di Átlas, lo stesso Hómēros ci fornisce un suggerimento importantissimo:

Átlantos thygátēr oloóphronos, hós te thalássēs
pásēs bénthea oîden, ékhei dé te kíonas autòs
makrás, haì gaîán te kaì ouranòn amphìs ékhousi.
...Átlas, dal cuore perverso, il quale del mare
tutti conosce gli abissi, regge le grandi colonne,
che terra e cielo sostengono da una parte e dall'altra...
Hómēros: Odýsseia [I: -]

I classicisti, analizzando questo passo omerico sulla base di ciò che hanno appreso dalle fonti successive, ma anche secondo logica, si sono limitati a evidenziare che: (a) Hómēros è ambiguo sull'esatta posizione di Átlas e non dice se il titán fosse collocato a oriente o a occidente; che (b) Átlas viene detto esperto di tutti gli abissi marini [thalássēs pásēs bénthea], i quali sono ovviamente quelli del potamós Ōkeanós che circonda la terra; e che (c) il titán non sostiene direttamente la volta celeste ma lo fa tramite delle «grandi colonne» [kíonas makrás], le quali sostengono il cielo e la terra. L'esatto significato del verso  ha fatto dannare i filologi. L'avverbio amphís viene di solito inteso come «da tutte e due le parti», nel senso che le colonne sosterrebbero da un lato il cielo e dall'altro la terra, ma ha anche il significato di «intorno», e in tal caso la frase potrebbe indicare la presenza di una successione di colonne, o di montagne, che sostengono il cielo tutto intorno alla terra. Avremmo in tal caso un cingulus mundi, simile al ǧabal al-Qāf, oppure un sistema di portae mundi opposte ma coincidenti, affine ai monti egiziani dell'alba e del tramonto.

Quanto abbiamo precedentemente sottolineato riguardo al dio egiziano ker, che presiede tanto ai monti dell'alba tanto a quelli del tramonto, e sugli aqrab-amēlû, che presso lo šadû Māšu osservano il sole tanto nel suo sorgere tanto nel suo tramontare, potrebbe gettare una nuova luce su questi versi omerici. Se valesse per Hómēros una cosmologia affine a quella egiziana, avremmo un Átlas non limitato al solo occidente ma, come ker, identificato con l'intero orizzonte. Il fatto che, secondo Hómēros, Átlas «del mare tutti conosce gli abissi», potrebbe essere una preziosa indicazione che il titán fosse considerato presente nell'intero circolo del potamós Ōkeanós, e quindi tutto intorno al mondo.

Átlas – se abbiamo ben interpretato Hómēros – era forse un'antica divinità dell'orizzonte: il titán a guardia delle portae mundi, situato presso le colonne/montagne che sostengono il cielo da ogni lato, e di cui troviamo forse un antemito nella figura di Upelluri, il torpido atlante abissale della mitologia ḫittita. Promētheús, come abbiamo sottolineato in uno studio precedente, è invece l'esito ellenico del tricefalo incatenato, di probabile origine indoeuropea, i cui omologhi più noti sono Viśvarūpa in India, Aži Dahāka in Īrān e Loki in Scandinavia Ⓑ▼. La convergenza di queste due figure, l'uno relegato a sorreggere il cielo sull'orizzonte, l'altro destinato a venire incatenato tra le montagne che sostengono il cielo, deve aver comportato un complesso scambio di attributi e valenze. Alla fine di questo processo, i due personaggi, trasformati in fratelli, hanno finito per venire rielaborati secondo sorti simmetriche, dividendosi in parte il ruolo: l'uno (Promētheús) imprigionato tra cielo e terra, al limite orientale del mondo, l'altro (Átlas) condannato a sostenere il cielo sulle proprie spalle, al limite occidentale del mondo.

Ma...

Ma accanto al modello delle portae mundi (a cui aggiungiamo l'ipotesi del cingulus mundi), il mito ellenico conosce anche il modello dell'axis mundi, attestato ancora una volta nel ciclo eracleo, nell'ambito del quale, anzi, viene presentato come una variante alternativa. È presente in Apollódōros, il quale spedisce Hērakls nell'estremo settentrione del mondo: ed è appunto qui che l'eroe incontra Átlas e penetra nel Kpos Hesperídōn (Bibliothḗkē [II: 5]).

Le ragioni per cui i mitografi abbiano rimosso Átlas dalla sua sede originaria, l'estremo occidente, e l'abbiano spostato nel settentrione del mondo, potrebbe essere dovuto a considerazioni di carattere astronomico. Poiché il cielo ruota attorno a un asse inclinato in direzione nord, la posizione più logica perché Átlas possa fungere non solo da sostegno celeste, ma anche da axis mundi, da perno per la rotazione del firmamento, è appunto a nord. E nonostante la complessa rilocalizzazione astronomica dell'antico titán, la sua natura orografica, insieme gigante e montagna, rimane valida, come attesta il perplesso Apollódōros, il quale scrive che i frutti delle Hesperídes «non si trovavano, come alcuni hanno detto, in Libýē, ma sul [monte] Átlas tra gli Hyperbóreoi...» (Bibliothḗkē [II: 5]).

Questa posizione «polare» di Átlas è apprezzata soprattutto dagli astronomi. Dà un nuovo significato al drákōn hespérios, Ládōn, catasterizzato nella costellazione che i Greci conoscevano come Ópheōs, il «serpente» (→ Draco, il «dragone»), secondo quanto attesta Eratosthénēs (Katasterismoí [3]). Tale costellazione, situata vicino a quella di Hercules, doveva infatti conservare la memoria della lotta che Hērakls aveva ingaggiato contro Ládōn per impadronirsi dei frutti.

 

Si racconta che [il «serpente»] era il guardiano dei frutti d'oro e fu ucciso da Hērakls. Hḗra gli dette un posto fra le stelle, lei che lo aveva messo a proteggere i frutti presso, presso le Hesperídes. [...] È prova decisiva di questa identificazione il fatto che gli sta accanto l'immagine di Hērakls: con questa disposizione delle figure Zeús voleva conservare nel modo più efficace la lotta tra di loro.

Eratosthénēs: Katasterismoí [3]

Draco e Hercules

Posizioni degli asterismi oggi conosciuti come Draco e Hercules. Nell'antichità, il polo celeste era collocato presso α Draconis. La costellazione Hercules è di costituzione piuttosto recente: gli astronomi greci si riferiscono ad essa tramite diverse lezioni. Immagine creata con il programma Stellarium.

Tale interpretazione sembra tuttavia un'invenzione di Eratosthénēs, stando a quanto afferma Hyginus (De Astronomia [II, 3]).

Uno dei principali curatori dei Katasterismoí, il classicista tedesco Karl Robert (1850-1922), aveva emendato il testo, riportato dai manoscritti nella lezione epì ts hespéras, «a occidente», in taîs Hesperísi, «presso le Hesperídes» (Robert 1878), e la maggior parte dei curatori ha seguito il suo suggerimento. Non è certo una correzione innocua, viste le ricadute cosmologiche che comporta... e non solo riguardo alla localizzazione del Kpos Hesperídōn (Santoni 2009), ma un filologo competente non propone correzioni ai testi senza validissime ragioni. Eratosthénēs è stato uno dei maggiori astronomi dell'antichità: aveva certamente ben presenti tutte le implicazioni dovute alla posizione del mitico Átlas in relazione all'asse celeste e, nell'indicare la costellazione Ópheōs (→ Draco), dirotta esplicitamente l'attenzione a nord.

Tra il Quarto e il Terzo millennio avanti Cristo, la stella principale di questa costellazione, α Draconis (oggi Thuban, dall'arabo ṯuʿbān «basilisco»), si trovava presso il polo celeste ed era utilizzata come stella polare. Nel testo di Eratosthénēs, sia che accettiamo sia che scartiamo la correzione di Karl Robert, sono già presenti tutte le ragioni astronomiche della traslazione di Átlas da occidente a settentrione e quindi della ridefinizione dell'intera macchina celeste.

  Cingulus mundi Portae mundi Axis mundi
Hómēros aut: Átlas sorregge le grandi colonne disposte intorno al mondo. aut: Átlas sorregge le colonne che sostengono il cielo e la terra.  
Hēsíodos   Átlas sorregge il cielo a occidente del kósmos, oltre il fiume Ōkeanós.  
Pherekýdēs
Diódōros Sikeliṓtēs
Apollṓnios Rhódios
Hyginus
Nónnos Panopolítēs
  Átlas risiede a occidente dell'oikouméne,
presso l'óros Átlas.
 

Ovidius

  Átlas, trasformato nell'óros Átlas, sorregge il cielo a occidente dell'oikouméne.  

Apollódōros
Eratosthénēs
(?)
Hyginus (?)

    Átlas sorregge il cielo nell'estremo settentrione del mondo, fungendo da supporto per il polo celeste.

Sembrerebbe logico presumere una progressione storica dei tre modelli (cingulus, portae, axis mundi) presso gli antichi Elleni, ma di nuovo dobbiamo chiederci se non stiamo inconsciamente retro-proiettando un nostro preconcetto sullo sviluppo positivo del pensiero. In realtà potrebbero esservi ottime ragioni per sostenere che il modello dell'axis mundi possa essere altrettanto antico di quello delle portae o del cingulus mundi. Immaginare che i tre modelli rappresentino un'evoluzione del pensiero, significa sottovalutare di gran lunga le competenze astronomiche degli antichi. Non c'è mai stato un momento storico in cui qualcuno si è accorto che il sole non sorge mai nello stesso punto dell'orizzonte, o che il cielo ruota intorno a un asse fissato nel polo celeste. Tali conoscenze sono presenti nell'esperienza umana fin dalla preistoria. Portae, cingulus e axis mundi non sono modelli alternativi, ma coesistono e, in certa misura, si integrano tra loro. È nostra opinione che tali sistemi abbiano cominciato a essere avvertiti come contraddittori soltanto quando sono stati applicati all'astronomia strumenti logici sempre più raffinati, o quando la mitologia, in epoca classica, ha cominciato a essere letta come silloge di fatti inquadrabili storicamente e geograficamente.


Īrān zoroastriano e Islām

Se in Mesopotamia o in Grecia i monti dell'alba e del tramonto si trovavano ancora alle estremità dell'oikouméne, nel modello delle portae mundi, in India e in Īrān vengono sospinti oltre il cerchio dell'oceano, laddove la terra sfuma nel kósmos, e prevale il modello del cingulus mundi. Nella cosmologia indiana, attestata nei Purāṇa, la catena dei monti è detta Lokāloka («mondo-non-mondo») in quanto percorre il confine esterno della terra (qui costituita da una serie di sette dvīpa, continenti anulari, tra loro concentrici, di cui la parte del mondo abitata dagli uomini corrisponde al lato meridionale del continente più interno, il Jambudvīpa), separandola dall'oscuro spazio esterno.

Ma se il modello indiano si presenta in forma eccessivamente astratta e concettualizzata, assai più interessante, e vicino ai nostri scopi, è quello iranico. Nell'Avestā la montagna che circonda il mondo ha nome Harā Bǝrǝzaitī. In questa fase, la tradizione appare ancora fluida ma sono già presenti tutti gli elementi che verranno fissati in seguito dal canone zoroastriano. Il monte Harā ha innanzitutto la funzione di montagna dell'alba: ogni mattina il sorge passa al di sopra della sua vetta (Yašt Mihr [10: ]), sebbene lo yazatā Miθra lo preceda scavalcando l'immensa barriera montuosa per scendere dal mondo celeste sulla terra:

miθrǝm vouru-gaoyaoitīm [...] ǰaγaurvåŋhǝm ýō paoiryō mainyavō ýazatō tarō harąm āsnaoiti paurva-naēmā amǝahe hū ýa aurva-aspahe...Sacrifichiamo a Miθra, signore degli ampi pascoli [...], instancabile e sempre vigile, che è il primo yazatā del mondo celeste a superare il monte Harā [Bǝrǝzaitī], prima del sorgere del sole immortale, dai veloci destrieri...

Yašt Mihr [10: -]

La mitologia zoroastriana, anche nella sua fase più antica, offre uno spazio importante all'orografia cosmica.

miθrǝm vouru-gaoyaoitīm [...] ǰaγaurvåŋhǝm ýahmāi maēθanǝm frāθwǝrǝsa ýō daδvå ahurō mazdå upairi harąm bǝrǝzaitīm pouru-fraorvaēsyąm bāmyąm ýaθra nōi xapa nōi tǝmå nōi aotō ātō nōi garǝmō nōi axtiš pouru-mahrkō nōi āhitiš daēvō-dāta naēδa dunmąn uzǰasaiti haraiθyō paiti barǝzayåSacrifichiamo a Miθra, signore degli ampi pascoli [...], instancabile e sempre vigile, per il quale il creatore, Ahura Mazdā, ha costruito una dimora sullo Harā Bǝrǝzaitī, la luminosa montagna attorno alla quale ruotano molte stelle, dove non c'è notte né buio, né vento freddo né vento caldo, né malattia mortale e nessuna impurità fatta dai daēvā; le nubi stesse non posso raggiungere lo Haraitī Barǝzā.

Yašt Mihr [10: -]

In un altro yašt, dedicato alla Terra, si elencano le varie montagne man mano che spuntano dal suolo, l'una dopo l'altra: esse si moltiplicano e circondano il mondo a oriente e a occidente. È un passo davvero suggestivo, di cui riportiamo la prima parte, essendo il seguito un interminabile catalogo di vette:

paoiryō gairiš hąm-hišta spitama zaraθuštra paiti āya zǝmā haraiti barš hā hama pāirisāite frāpayå dahuš ā upaoaŋhvåsca, bityō zǝrǝδazō gairiš pārǝṇtarǝm arǝδō manuahe hāmō hasci pāirisāite frāpayå dahuš ā upaoaŋhvåsca.La prima montagna che è sorta dalla terra, o Spitāma Zaraθuštra, è stata lo Haraitī Barǝzā. La montagna si estende lungo le spiagge della terra bagnata dal mare verso oriente. La seconda montagna è stata il monte Zǝrǝδo, all'esterno del monte Manuā. Anche questa montagna si estende lungo le spiagge della terra bagnata dal mare verso oriente.
ahma haca garayō fraoxyąn uiδå uidarǝnō ǝrǝzifyasca fraorǝpō xštvō ǝrǝzurō haptaθō būmyō aštǝmō raoδitō naomō mazivå dasǝmō aṇtarǝ-dahuš aēvaṇdasō ǝrǝziō dvadasō aiti-gaēsō…Da lì sono sorti il monte Uiδau, il monte Uidarǝnā, il monte Ǝrǝzifyā e il monte Fraorǝpā. Il sesto a sorgere è il monte Ǝrǝzurā. Il settimo è il monte Būmyā. L'ottavo è il monte Raoδitā. Il nono è il monte Mazivau. Il decimo è il monte Aṇtarǝ-dahu. L'undicesimo è il monte Ǝrǝzisā. Il dodicesimo è il monte Vaiti-gaēsā...

Yašt Zamyad [19: -]

Lo yašt continua a elencare la nascita di una lunga serie di monti e conclude affermando che, in tutto, si siano formate duemila duecento quarantaquattro montagne. Il senso etico del processo di orogenesi viene definito solo nel successivo periodo medio-persiano. Nella letteratura sāsānide, lo spuntare dei monti diviene una disperata reazione al trionfo delle forze ahrimaniche: mentre la druǰ prende forza sulla terra, questa si ribella e tenta di ricongiungersi al cielo, emanando le montagne in una sorta di possente abbraccio tra terra e cielo. Il testo, molto interessante, è riportato sia nel «grande» Bundahišn [9: -], sia nella sua versione «indiana», il Zand-āgāhīh Bundahišn [12: -]. È un passo piuttosto lungo ma abbastanza raro da indurci a presentarlo ai nostri lettori:

gōwēd pad dēn kū fradom, [harborz. pas hamāg kōf] frāz rust hēnd pad haštdah sāl, harborz tā bowandagīh hašt sad sāl hamē rust. dō sad sāl ō star-pāyag ud dō sad sāl ō māh-pāyag ud dō sad sāl ō xwaršēd pāyag ud dō sad sāl ō a-sar-rōšn.Sulla natura delle montagne si parla nelle scritture: la prima montagna a spuntare fu Harborz, che venne fuori in diciotto anni. E Harborz continuò a crescere per ottocento anni: in duecento giunse al pāyag delle stelle, in [altri] duecento al pāyag della luna, in [altri] duecento al pāyag del sole, in [altri] duecento raggiunse la luce infinita.
čiyōn abārīg kōfān az harborz rust hēnd, pad marag dō hazār ud dō sad ud čehel ud čahār kōf, [ī] ast hugar ī buland, tērag ī harborz, čagād ī dāiti, ud arzūr pušt, usindām kōf, kōf ī abarsēn kē kōf [ī] pārs gōwēnd. kōf ī zǝrǝza kē hast {ast} kōf ī manuš, kōf ī iriz, kōf ī kāf, kōf ī wadges, kōf ī ušdāštār, kōf ī arzūr-būm, kōf ī rōyišnōmand, kōf ī padišxwārgar, kē mahist andar xwārīh, kōf ī čīn xwānēnd, kōf ī rēwand, kōf ī dār-spēd, bagīr [kōf], kōf ī was-škeft, kōf ī syāōmand, kōf ī wafrōmand, kōf ī spandyād, kōf ī kadrwasp, kōf ī asnāwand, kōigrās kōf, [ī] sēzdah kōf andar ān ī Kang-diz kē gōwēnd kū āsānīhōmand ud rāmišn-dādār, weh, ud xwurdag kōf; u-šān gōkān gōwēm.Poi sorsero e altre montagne fuori da Harborz, in numero di duemila duecento e quarantaquattro montagne, ed esse sono: l'imponente Hugar, il Tērag-ī-Harborz, il Čagād-ī-Dāiti e la cresta di Arzūr, il monte Usindām, il monte Abarsēn detto anche monte di Pārs, il monte Zǝrǝza che è anche il monte Manuš, il monte Iriz, il monte Kāf, il monte Wadges, il monte Ušdāštār, il monte Arzūr-būm, il monte Rōyišnōmand, il monte Padišxwārgar, che è il più grande in Xwārī, la montagna chiamata Čīn, il monte Rēwand, il monte Dārspēd il monte Bagīr, il monte Was-škeft, il monte Syāōmand, il monte Wafrōmand, il monte Spandyād, il monte Kadrwasp, il monte Asnāwand, il monte Kōigrās, il monte Sēzdah, che è nel Kangdiz, che dicono che fu di conforto e delizia al buon creatore, e le cime più piccole. Ma ora citerò [le montagne] una seconda volta.
harborz kōf pērāmōn ī ēn zamīg ō asmān paywast ēstēd. tērag ī harborz ān kē[-š] star, māh, xwaršēd padiš andar šawēnd, ud padiš abāz āyēnd. hugar ī buland, ān kē āb ī ardwisūr aziš frōd jahēd hazār mard bālāy. usindām kōf, ān kē az xwēn-āhan, az gōhr ī asmān, mayān ī zrēh frāxwkard, kē-š āb [ī] az hugar padiš frōd rēzēd. čagād ī dāitī, ān ī mayān ī gēhān, sad mard bālāy, kē-š činwad puhl padiš ēstēd, ruwān pad ān gyāg āmārēnd. [harborz kōf] arzur grīwag čagād-ē pad dar ī dušox, kē-š hamwār dēwān dwārišnīh ānōh kunēnd. ēn-iz gōwēd kū jud az harborz abarsēn kōf meh ast; abarsēn kōf kōf ī pārs xwānēnd. u-š bun pad sagestān, u-š sar pad čīnestān. kōf ī manuš [meh] ān kōf kē-š manuščihr padiš zād. abārīg kōf[īhā] frahist az awēšān rust hēnd.Harborz è tutto intorno alla terra ed è connesso al cielo. Il Tērag-ī-Harborz è quel [monte] attorno il quale ruotano le stelle, la luna e il sole, e dietro il quale ritornano di nuovo. L'imponente Hugar è da dove le acque di Ardwisūr scendono dalle altezza di un migliaio di uomini. Il monte Usindām è fatto di rubino, della sostanza del cielo, ed è nel mezzo dell'oceano Frāxwkard, così che le sue acque, che scendono dal Hugar, si riversano in esso. Il Čagād-ī-Dāiti [il «picco del giudizio»] è al centro del mondo, alto un centinaio di uomini, su cui è fissato il ponte Činwad: in quel luogo vengono giudicate le anime. La cresta di Arzūr è sopra le porte degli inferi, dove si tengono le assemblee dei dēwān. E si dice anche che, con l'eccezione del Harborz, il monte Abarsēn sia il più imponente, l'Abarsēn, detto anche la montagna di Pārs, che inizia nel Sagestān e finisce nel Čīnestān. [Anche] il monte Manuš è grande, ed è il monte su cui è nato Manuščihr.

Zand-āgāhīh Bundahišn [12: -]

È difficile tirar fuori una geografia razionale da tali cataloghi orografici, nei quali montagne mitiche e montagne reali si mescolano e si confondono senza soluzione di continuità. Lo stesso Harā Bǝrǝzaitī (medio persiano Harborz), portato dal mondo mitico a quello reale, verrà poi identificato con l'imponente catena dell'Elborz, che separa il mar Caspio dall'altopiano iraniano. Tanto dagli yašt avestici quanto il Bundahišn presentano però una situazione piuttosto complessa, dove al cingulus mundi si associa anche il mitema dell'axis mundi, della montagna centrale attorno alla quale ruotano il sole e tutti gli altri luminari. Il monte centrale è perlopiù chiamato Taēra nell'Avestā; nel Bundahišn è definito Tērag-ī-Harborz, ovvero «Tērag del Harborz». Ed è sorprendente che l'orografia iranica consideri il monte al centro del mondo come parte della medesima catena che circonda la terra dall'esterno, ma i testi zoroastriani sono chiari al riguardo: tutte le montagne sono tra loro collegate da un groviglio di radici sotterranee che ne fanno, in pratica, una sola montagna.


 
Il monte Harborz circonda il mondo; il monte Tērag è al centro del mondo. Il sole, girando come una corona intorno al mondo, ritorna, puro, oltre il monte Harborz, intorno a Tērag. Come qualcuno ha detto: il Tērag-ī-Harborz, dietro cui roteano il mio sole, la luna e le stelle.”

Bundahišn [5B: -]

Il fatto che ogni giorno il sole sorga e tramonti in un punto diverso, ha portato i cosmografi persiani a moltiplicare il numero di portae sui due lati del kōf ī Harborz. Queste sono chiamate rōzan, «giorni», e trasformano il Harborz in una sorta di immenso calendario orografico: «In Harborz, vi sono centottanta rōzan a est e centottanta a ovest: il sole entra attraverso un rōz e esce da un rōz ogni giorno» (Bundahišn [5B: ]).

La cosmografia persiana annulla dunque la differenza tra il cingulus mundi e l'axis mundi: l'uno fa parte dell'altro, così «come il dito è in mezzo all'anello», secondo la bella metafora di aṭ-Ṭabarī e al-Balʿamī (cfr. Taʾrīḫ ar-rusul wa al-mulūk [VI]). Questa visione sembra comprendere e annullare la contraddizione, palese nel mito greco, tra un Átlas proiettato sull'orizzonte e un Átlas che funge da polo celeste. Se poi pensiamo che il titán Átlas è in realtà l'óros Átlas, cioè la personificazione di un elemento cosmologico, raffigurato come montagna, ritroviamo la polisemantica del kōf ī Harborz, che è tanto cingulus mundi quanto axis mundi. Le portae mundi, più che un modello a sé stante, divengono, in questo modello generale, un elemento che connette il tutto in un sistema astronomicamente più integrato.

Nella concezione araba, dove il kōf ī Harborz diviene il ǧabal Qāf, sembra scomparire l'idea dell'axis mundi. In realtà non c'è più bisogno di effettuare una distinzione tra i tre modelli, in quanto al-Qāf assume su di sé l'intero sistema. Quando al-Iskandar, nelle versioni arabe della leggenda, giunge al ǧabal Qāf, perviene regolarmente in una regione d'oscurità, aẓ-Ẓulumat: la montagna è talmente alta che, nei suoi pressi, il mondo è immerso in una notte senza luna e senza stelle. Quando Neẓāmī conduce Eskandar alla ricerca dell'acqua della vita, a settentrione, lo fa arrivare ai piedi di un'enorme montagna immersa nelle tenebre, ed essa non è soltanto il kōf ī Tērag-ī-Harborz, ma anche il kōf ī Čagād-ī-Dāiti, il «picco del giudizio», sul quale vengono giudicate le anime, il quale, leggiamo in Zand-āgāhīh Bundahišn [12: ], si trova al centro del mondo ed è il punto su cui è fissato il ponte Činwad. Questo ponte avrebbe suggerito, in epoca islāmica, il ponte escatologico Ṣirāṭ che, nello yawm ad-dīn, i risorti dovranno percorrere per arrivare all'aldilà e che sotto i piedi dei malvagi diviene sottilissimo, facendoli precipitare nel Ǧahannam. Neẓāmī si ricorderà di questo motivo quando farà avanzare Eskandar su un sentiero sottile come un capello, tra due masse incombenti di oscurità.

Il mondo arabo-islāmico, inoltre, aderendo al dettato qurʾānico della «sorgente del sole» [ʿayn aš-šamsi], secondo la quale l'astro emerge la mattina da una pozza d'acqua fetida a oriente e s'immerge la sera in una pozza d'acqua altrettanto fetida a occidente, avrebbe potuto tranquillamente eliminare le portae mundi. Invece, la cosmologia islāmica continua a essere fortemente orientata in direzione est ↔ ovest, che è quella presente in tutte le varianti dei viaggi di al-Iskandar. E le porte solari non solo non sono state eliminate, ma hanno avuto uno sviluppo sorprendente, trasformate in due città di meraviglioso smeraldo, Ǧābarsā e Ǧābalqā, l'una a est e l'altra a ovest.

  Cingulus mundi Axis mundi Portae mundi
Avestā Harā Bǝrǝzaitī Taēra
Dāiti
 
Bundahišn kōf ī Harborz kōf ī Čagād-ī-Dāiti
kōf ī Tērag-ī-Harborz
180 rōzan
Letteratura araba ǧabal al-Qāf (ǧabal al-Qāf) Ǧābarsā e Ǧābalqā


Scandinavia

Nella letteratura in lingua norrena è attestata Himinbjǫrg, la «montagna del cielo», sebbene le due Edda non ci diano spiegazioni che ci consentano di inserirla esplicitamente nel tema degli axis mundi. Sappiamo che era considerata il punto di passaggio dalla terra e al cielo, dal mondo degli uomini ad Ásgarðr, la rocca degli Æsir.

Þar er enn sá staðr er Himinbjǫrg heita. Sá stendr á himins enda við brúarsporð, þar er Bifrǫst kemr til himins. C'è anche quel luogo chiamato Himinbjǫrg, che si trova alla fine del cielo, sulla soglia del ponte, là dove Bifrǫst giunge nel firmamento.
Snorri Sturluson: Prose Edda > Gylfaginning [17]

Sul monte aveva la residenza Heimdallr, il dio-sentinella (Grímnismál [13] | Lokasenna [13]). Perfettamente insonne e dai sensi acutissimi, egli stava eternamente guardia all'estremità del Bilrǫst o Bifrǫst, sorta di ponte cosmico identificato, nella letteratura posteriore, con l'arcobaleno.

Hann býr þar er heita Himinbjǫrg við Bifrǫst. Hann er vǫrðr guða ok settr þar við himins enda at gæta brúarinnar fyrir bergrisum. [Heimdallr] abita in quel posto chiamato Himinbjǫrg, presso Bifrǫst. Egli è il guardiano degli dèi: risiede lassù, alla fine del cielo, per vegliare sul ponte l'arrivo dei giganti di montagna.
Snorri Sturluson: Prose Edda > Gylfaginning [27]

Heimdallr ha con sé il Gjallarhorn, il «corno risonante», con il quale darà il segnale della battaglia escatologica, nel giorno di ragnarǫk, risvegliando nel salone di Valhǫll tutti i guerrieri caduti a battaglia nel corso della storia (Gylfaginning [27]). E viene subito in mente il malʾak con il corno incontrato da Ṣaʿb ibn Ḏī Marāṯid (Aṣ-Ṣaʿb Ḏu ʾl-Qarnayn): ci si può chiedere perché proprio a questi guardiani alla fine dello spazio venga dato il compito di segnalare la fine del tempo.

Sebbene il [monte] Himinbjǫrg non abbia alcuna connessione con eventuali miti di ricerca dell'immortalità, ci troviamo probabilmente di fronte a una versione nordica del mitema iranico del kōf ī Tērag-ī-Harborz, il monte attorno al quale girano il sole, la luna, i pianeti e le stelle, o del kōf ī Čagād-ī-Dāiti, il picco del giudizio, dove verranno giudicate le anime dei morti, e alla cui cima è fissato il ponte Činwad.


Se ci è permesso condensare queste note in un periplo comune, la prima tappa del percorso compiuto da tutti i nostri inesausti esploratori dei confini della terra (Gilgameš, Hērakls, Eskandar e Bulūqiyā), nella loro affannosa ricerca della vita, consiste nell'uscire dal mondo e raggiungere il limite dove l'oikouméne sfuma nel kósmos. Le antiche cosmologie ci dicono che cielo e terra sono connessi da un sistema di montagne... sistema che, pur nella sua complessità, si mostra stranamente unitario. La montagna cosmica circonda la terra tutto intorno all'orizzonte, dischiude delle porte a est e a ovest per far passare il sole e funge essa stessa da perno per la rotazione del cielo e degli astri. In definitiva, il cielo è una montagna, e noi viviamo al suo interno, come dentro una luminosa caverna di smeraldo che ruota sopra la nostra testa. L'azzurro del cielo ne è il riflesso sulla sua volta, e la notte è la sua ombra allorché il sole si trova dall'altro lato di essa.

Per arrivare al regno degli dèi, al mondo imperituro, è dunque necessario uscire dalla terra, ovvero uscire dal cielo. Per far questo è necessario seguire il sole nel suo cammino e imboccare le porte, incastonate sul fianco della montagna, che conducono fuori di essa. Oppure – e simbolicamente è la stessa cosa – arrivare all'axis mundi che collega la terra il cielo, perché anch'esso, in un certo senso, è la montagna che separa la terra dal cielo.

E dunque:

  GILGAMEŠ HĒRAKLS BULŪQIYĀ AL-ISKANDAR ESKANDAR
I Arriva allo šadû Māšu, il monte da dove il sole sorge e tramonta. Tocca tanto l'óros Kaúkasos nel lontano oriente, quanto l'óros Átlas nel lontano occidente. Arriva al ǧabal al-Qāf. Arriva al ǧabal al-Qāf sia da oriente sia da occidente, arrivando alla «sorgente del sole» [ʿayn aš-šamsi]. Si spinge tanto nell'estremo oriente quanto nell'estremo occidente, arrivando alla «sorgente del sole» [ʿayn aš-šamsi].
II Al monte stanno gli aqrab-amēlû, gli uomini-scorpione. I monti sono presieduti rispettivamente da Promētheús ed Átlas.   Le estremità orientale ed occidentale sono presiedute dalle città di Ǧābarsā e Ǧābalqā.  
III Si immette lungo il ḫarran šamši, il «sentiero del sole», e avanza nella totale oscurità per dodici bēru   Attraversa una regione di tenebre, aẓ-Ẓulumat, creata dall'ombra di al-Qāf. Attraversa una regione di tenebre, aẓ-Ẓulumat, creata dall'ombra di al-Qāf. Attraversa una regione di tenebre, Ẓolmat, creata dall'ombra della montagna boreale.
IV Sente sul viso il vento del nord, ed esce dalle viscere della montagna nel frutteto degli «alberi degli dèi» (iṣû ilī). Giunge all'estremo settentrione, dove, sotto il polo boreale, Átlas funge da asse celeste, ed è qui che si trova il Kpos Hesperídōn.     Giunge all'estremo settentrione, dove, sotto il polo boreale, una montagna funge da asse celeste, ed è qui che sgorga l'acqua della vita.

MAPPE DI VIAGGIO: LE USCITE DAL MONDO

La seconda tappa del viaggio del nostro eroe consiste nel passaggio attraverso una «porta» situata sul fianco della montagna, apertura che conduce oltre i confini del mondo.

  • (α) Gilgameš trova una porta sul monte Māšu. Contratta con gli aqrab-amēlû il passaggio attraverso di essa: percorre il ḫarran šamši, il «sentiero del sole», e giunto dalla parte opposta, trova gli iṣû ilī, gli alberi degli dèi, carichi di frutti di pietre preziose e gemme. All'esterno si estende il tâmtu, il «mare» che circonda il mondo.
  • (β) Superato l'óros Átlas in Libýē, Hērakls apre/chiude lo stretto per entrare nel fiume Ōkeanós e dispone due colonne ai suoi lati. (β₁) Secondo un'altra versione, chiude lo stretto per impedire ai mostri marini di entrare nel Mediterraneo.
  • (γ) Dopo aver attraversato i sette mari, e aver visitato isole paradisiache, Bulūqiyā trova la grande porta sulle pendici del ǧabal al-Qāf e contratta il passaggio con i malāʾika preposti ad essa.
  • (δ) Nel mito di Ḏū ʾl-Qarnayn/al-Iskandar, il motivo delle porte ai confini del mondo appare piuttosto indebolito. Nel corso dei suoi viaggi l'eroe arriva in luoghi paradisiaci dove il tema degli alberi coperti di gemme è solo un leit-motiv letterario ormai scisso dal contesto (nella variante di Neāmī, Eskandar arriva a Iram ḏāt al-ʿimād, la città di Šaddād ibn ʿĀd, nei cui giardini vi sono alberi d'oro con frutti d'oro). Quando l'eroe arriva al ǧabal al-Qāf, le portae mundi appaiono sostituite dalle città di Ǧābarsā e Ǧābalqā. (δ₁) La variante del mito della chiusura della porta è sviluppata nel mito del sadd al-Iskandar, la barriera destinata a tenere confinati all'esterno del mondo i popoli escatologici di Yaʾǧūǧ e Maʾǧūǧ.
  • (ε) Dopo aver attraversato il haf, «mare», ed essere giunti nella terra oltremondana di Útgarðr, Þórr e i suoi compagni si trovano di fronte a un immenso cancello, e lo oltrepassano strisciando in mezzo alle sue sbarre.

Nello Ša naqba īmuru, Gilgameš, giunto di fronte allo šadû Māšu, deve contrattare con i suoi guardiani – gli aqrab-amelu – il permesso di transitare attraverso la porta [bābu] aperta sul monte. Si tratta presumibilmente della porta attraverso cui passa Šamaš nel suo sorgere e/o tramontare [IX:  | ]. Una volta entrato, Gilgameš cammina nelle tenebre più assolute per dodici bēru, lungo il ḫarran šamši, il «sentiero del sole», finché avverte sul viso il «vento del nord» [iltānu] e, uscito nella luce del giorno, arriva al giardino dove crescono gli iṣû ilī, gli «alberi degli dèi», dai cui rami pendono pietre preziose e gemme. A questo punto Gilgameš si trova dinanzi il tâmtu, il «mare» che circonda il mondo (è il Marratu, il «fiume» amaro del Imago mundi Babylonica) (Ša naqba īmuru [IX]). Anche Bulūqiyā trova la grande porta scolpita sulle pendici del ǧabal Qāf, oltre il quale si trova il Baḥr al-muḥīṭ, l'oceano onniavvolgente della cosmologia islāmica.

Il frutteto degli iṣû ilī, nell'epopea di Gilgameš, si trova ai confini del mondo, tra il Māšu, la montagna dove il sole sorge e/o tramonta, e il Marratu. Nel mito ellenico il Kpos Hesperídōn ha una localizzazione analoga: si trova ai confini occidentali del mondo, tra l'óros Átlas, il monte che si erge dinanzi al tramonto del sole, e il fiume Ōkeanós (o presso l'óros Átlas, inteso come monte che funge da perno per la rotazione del cielo). In Grecia, tuttavia, il luogo dove si trova il favoloso giardino delle Hesperídes è definito etimologicamente in relazione all'ovest e al tramonto del sole (da éspera, «occidente», «sera»). Una relazione ancora più diretta è fornita da Hēsíodos nella sua Theogonía, a patto però di considerare Átlas nella sua personificazione titanica. In questo passo di dice infatti che il giorno [Hēméra] e la notte [Nýx] si alternano attraverso una porta di bronzo situata sull'orizzonte, proprio dove Átlas, figlio di Iapetós, regge la volta del cielo:

Tn prósth' Iapetoîo páis échei ouranòn eurỳn
hestēṑs kephal te kaì akamátēısi chéressin
astemphéōs, hóthi Nýx te kaì Hēmérē âsson ioûsai
allḗlas proséeipon, ameibómenai mégan oudòn
chálkeon; hḕ mèn ésō katabḗsetai, hḕ dè thýraze ...
Di fronte ad essa [la dimora di Nýx], il figlio di Iapetós
regge saldo con il capo e le braccia infaticabili la volta del cielo
là dove Nýx ed Hēméra si avvicinano
e si salutano, varcando alterni la porta di bronzo,
l'uno per entrare e l'altra per uscire...
Hēsíodos: Theogonía [-]

Si potrebbe ribattere, però, che nel ciclo di Hērakls non vediamo mai l'eroe passare esplicitamente attraverso una porta mundi. Sì, lo vediamo arrivare sia ai monti dell'alba sia a quelli del tramonto, ma mai transitare esplicitamente attraverso una porta, né, come Gilgameš, contrattare il passaggio ai suoi eventuali guardiani. Ma è proprio vero? O non sarà che questo motivo ha soltanto cambiato aspetto divenendo più o meno irriconoscibile?

Ed è infatti proprio così! La «porta» che conduce all'esterno dello spazio viene stabilita dallo stesso eroe nel momento in cui arriva alle estreme propaggini occidentali dell'oikouménē. Arrivato dinanzi alle acque del potamós Ōkeanós, infatti, l'eroe pone due «colonne» nel punto più ravvicinato dello stretto che conduce al Mediterraneo: una sulla sponda libica, ad Ábila (od. Sibtah/Ceuta, nell'attuale exclave spagnola sulla costa africana), l'altra sulla sponda iberica, a Kálpē (od. Gibilterra). «Giunto a Tártēssos, [Hērakls] innalzò come segno del suo passaggio due colonne, una di fronte all'altra, ai confini tra Eurṓpē e Libýē» (Apollódōros: Bibliothḗkē [II: 5]). Non crediamo sia eccessivo confrontare queste colonne con quelle presenti sul sigillo antico-babilonese, dove le montagne attraverso cui il dio-sole Utu/Šamaš sorge sono a sua volta incastonate tra due colonne, a formare una sorta di porta priva di architrave (immagine: [ME, 89110]✦).

Le colonne di Hērakls
Monumento a Ceuta/Sibtah (exclave spagnola in Marocco).
Fotografia di J. Sarría (particolare).

Strábōn riferisce di alcune spedizioni effettuate anticamente dagli abitanti di Týros, su suggerimento di un oracolo, per fondare una colonia oltre le Hērákleioi stlai: sebbene fossero sbarcati in vari luoghi e isolotti dentro e fuori lo stretto, i fenici non trovarono un luogo adatto a impiantarvi una colonia e, dopo essere arrivati su un'isola sacra a Hērakls, gli tributarono un sacrificio e tornarono indietro. Solo alla terza spedizione venne fondata Gádeira (od. Cádiz, Spagna) (Geōgraphiká [III: 5, ]). Strábōn è abbastanza sospettoso riguardo questa vicenda, che definisce una «favola fenicia», ma intanto ci suggerisce un'origine semitica della leggenda. Egli fornisce molte possibili localizzazioni geografiche delle Hērákleioi stlai, identificando Gádeira con Eirýthia (Geōgraphiká [III: 5, -]), ma ci troviamo ormai in un'epoca in cui i miti pretendevano spiegazioni razionali. Le Hērákleioi stlai finirono per venire identificate tout-court con le due colonne di bronzo che sorgevano nel tempio di Hērakls a Gádeira, sulle quali era incisa un'iscrizione che registrava il costo di costruzione del tempio stesso (cfr. Strábōn: Geōgraphiká [III: 5, ] | Plinius: Naturalis historia [II: 242]). Ma le due colonne di bronzo celebrano quelle mitiche: Hērakls era venerato in tutta la regione fin dall'epoca dei Fenici, i quali lo identificavano nel loro Melkqart. Pare che anticamente le stlai fossero anche attribuite a Krónos o a Briáreōs (Eustáthios Thessaloníkēs: commenta in Dionýsios Periēgētḗs: Oikouménēs periḗgēsēs [64-68]; Claúdios Ailianós: Poikílē historía [V: 3]). Anche Strábōn parla di un tempio sacro a Krónos in un'isoletta di fronte a Gádeira (Geōgraphiká [III: 5, ]). La presenza di Krónos è significativa, in questa sede, come infatti vedremo tra poco.

Gilgameš e Bulūqiyā devono ottenere il permesso di passare dai guardiani delle portae mundi. A Hērakls basta la sua proverbiale forza. Che anche le Hērákleioi stlai fossero viste come un portale, quindi come un «passaggio» che fosse necessario aprire per imboccare l'uscita dal mondo, è testimoniato da un'importante variante del mito dove Europa e Africa erano inizialmente uniti in un istmo, che lo stesso Hērakls avrebbe spaccato creando in tal modo lo stretto. Così riferiscono, tra gli altri, Diódōros Sikeliṓtēs (Bibliothḗkē Historikḗ [IV: 18, ]), Seneca (Hercules furens [-]), Plinius (Naturalis historia [III: 4]), Pomponius Mela (De situ orbis [I: 27]) e altri.

Seneca, nella sua tragedia Hercules furens, offre una visione quasi apocalittica dell'impresa dell'eroe. Hērakls, pervenuto nella terra di Hesperia, all'estremo ovest del mondo, si sarebbe trovato di fronte a una catena continua di montagne. Allora si sarebbe aperto lui stesso un varco, spalancando i monti dall'una e dall'altra parte dello stretto, lasciando irrompere le acque di Ōkeanós all'interno del bacino mediterraneo.

Inter remotos gentis Hesperiae greges
pastro triformis litoris Tartessii
peremtus, acta est praeda ab occasu ultimo;
notum Cithaeron pavit Oceano pecus.
Penetrare iussus solis aestivi plagas
ed adusta medius regna quae torret dies,
utrimque montes solvit abrupto obiice,
et iam ruenti fecit Oceano viam.
Fra i greggi remoti della gente di Hesperia
il pastore triforme della spiaggia tartessia
fu ucciso e fu fatto bottino dall'estremo limite d'occidente:
il Cithaeron nutrì un gregge noto all'Oceanus.
Avuto l'ordine di giungere fino alle regioni del sole estivo
e ai regni che arde il mezzogiorno
da entrambe le parti [Hercules] aprì i monti e, spezzato ogni impedimento,
fece una larga via all'Oceanus che precipitava.
Lucius Annaeus Seneca: Hercules furens [-]

La versione di Diódōros Sikeliṓtēs è particolarmente interessante:

 

Hērakls, infatti, giunto ai capi estremi dei continenti di Libýē ed Eurṓpē, situati dinanzi a Ōkeanós, decise di porvi queste due colonne a ricordo della propria spedizione. Dal momento che desiderava compiere un'opera sempiterna, affermano che egli arginò entrambi questi capi per lungo tratto. E perciò, mentre prima essi erano separati da una grande distanza, egli restrinse quel braccio di mare affinché, resolo poco profondo e stretto, fosse impedito ai grandi mostri marini di passare da Ōkeanós al mare interno e, contemporaneamente, data la grandiosità di quelle opere, la celebrità del loro costruttore perdurasse eterna. Ma alcuni affermano che, al contrario, essendo uniti i due continenti, egli vi tagliò un passaggio e aprendo quel braccio di mare fece sì che Ōkeanós si mescolasse al nostro mare.
Diódōros Sikeliṓtēs: Bibliothḗkē Historikḗ [IV: 18, ]

In questo passo affiorano tanto il mitema dell'apertura della «porta» tra i monti, per spostarsi all'esterno della terra, sia quello del pericolo legato a tale apertura. La rara variante di Diódōros, dove Hērakls avvicina i due capi dello stretto in modo da impedire il passaggio ai «grandi mostri marini» confinati fuori dallo spazio, potrebbe illuminare il capovolgimento presente nel mito arabo-persiano, dove Ḏū ʾl-Qarnayn/al-Iskandar salda tra i monti una barriera di ferro, la sadd al-Iskandar, affinché i popoli escatologici di Yaʾǧūǧ e Maʾǧūǧ rimangano confinati all'esterno della terra.

Si riteneva, in epoca classica, che Hērakls e Diónysos avessero posto colonne anche durante i loro viaggi a oriente. Stando a quanto ci riferisce Strábōn, nel corso della sua spedizione in India, Mégas Aléxandros cercò invano le colonne lasciate dai suoi mitici predecessori, e non trovandole, o credendo di localizzarle in questo o quel posto, pose a sua volta altari e colonne nei punti più lontani che riuscì a raggiungere (Geōgraphiká [III: 5, -]). L'annotazione di Strábōn ci informa non soltanto di una possibile tradizione «orientale» delle Hērákleioi stlai, ma anche che, in epoca tardo-classica, il mito di Aléxandros andava sovrapponendosi a quello di Hērakls. Se la nostra teoria è corretta, e se nella cosmografia arcaica il limite orientale della terra era posto nell'óros Kaúkasos, si potrebbe inferire la presenza di un mito (non tramandato) secondo il quale Hērakls avesse posto le sue stlai orientali nel massiccio caucasico (aprendo o chiudendo un passaggio, analogamente alle versioni del mito sulle stlai occidentali). Questa ipotesi potrebbe fornire un antemito alla notizia di Flavius Iosephus secondo la quale re Aléxandros avrebbe sbarrato le portae Caspiae, cioè il passaggio tra l'Hyrcania e la Media, con delle porte di ferro (Bellum Iudaicum [VII: 7, ]).

In seguito, gli arabi, ereditando il mito delle stlai orientali nella sua versione «alessandrina», e dandogli forma canonica attraverso il racconto qur˒ānico, finirono per localizzare la barriera sigillata da Ḏū ʾl-Qarnayn/al-Iskandar nel Caucaso. Non stupisce che il ḫalīfah ʿUmar ibn al-Ḫattāb abbia voluto identificare la proverbiale Bāb al-abwab nelle imponenti fortificazioni di Derbent, presso le portae Caspiae. E poiché il Caucaso si trova a nord dell'Arabia, non stupisce nemmeno che gli autori persiani, quali Ferdowsī nello Šāhnāmè e Neāmī nell'Eskandarnāmè, finiranno per trasferire la forgia della mitica barriera in un settentrione vago e indefinito.

Curiosamente, questo motivo è sopravvissuto anche nel mito germanico. Þórr e i suoi compagni, dopo essere arrivati ai confini del Miðgarðr (cioè l'oikouménē), si pongono davanti al haf, il mare che circonda la terra abitata. Lo attraversano a nuoto e quindi, arrivati nella terra oltremondana (lo Jǫtunheimr), giungono ai cancelli di Utgarðr, il recinto esterno. E qui, le portae mundi sono presentate da Snorri come un cancello sbarrato. Ma Þórr e i suoi compagni, pur non riuscendo ad aprirle, passano ugualmente attraverso le sbarre:

...ganga til borgarinnar ok var grind fyrir borghliðinu ok lokin aptr. Þórr gekk á grindina ok fekk eigi upp lokit, en er þeir þreyttu at komask í borgina þá smugu þeir milli spalanna ok kómu svá inn, sá þá hǫll mikla ok gengu þannig. ...Giunsero fino alla rocca, davanti alle porte, che erano chiuse da un cancello. Þórr andò al cancello ma non riuscì ad aprirlo. Decisi a penetrare nella rocca, essi strisciarono fra le sbarre e così riuscirono a passare.
Snorri Sturluson: Prose Edda > Gylfaginning [46]

E così, incredibilmente, in una scena apparentemente insignificante del mito nordico, e che sarebbe passata del tutto inosservata, se non fosse rimasta incagliata nel giusto contesto, sentiamo echeggiare il passaggio di Gilgameš attraverso la porte del monte Mâšu e ritroviamo Hēraklês stagliato sul limitare delle sue imponenti colonne.

  GILGAMEŠ HĒRAKLS BULŪQIYĀ ḎŪ ʾL-QARNAYN
AL-ISKANDAR
ESKANDAR
ÞÓRR
Ia Arrivato allo šadû Māšu, contratta con gli aqrab-amēlû il passaggio attraverso la sua porta [bābu]. Pone due colonne [Hērákleioi stlai] nello stretto tra Africa ed Europa, che viene aperto e spaccato per poter uscire sul fiume Ōkeanós. Arrivato al ǧabal al-Qāf, contratta con gli angeli il passaggio attraverso la sua porta.   Arrivato a Útgarðr, nella terra esterna al mondo, Þórr ne trova i cancelli chiusi: ma passa attraverso le sbarre.
Ib   Aut
Avvicina i due capi dello stretto per impedire ai mostri di Ōkeanós di entrare nel Mediterraneo.
  Salda tra i monti una barriera di ferro, la sadd al-Iskandar, affinché i popoli escatologici di Yaʾǧūǧ e Maʾǧūǧ rimangano confinati all'esterno  
II Oltre lo šadû Māšu si trovano gli iṣû ilī, gli alberi degli dèi, carichi di frutti di pietre preziose e gemme. Vicino all'óros Átlas si trova il Kpos Hesperídōn, il giardino degli dèi, con i suoi frutti d'oro. Visita molte isole paradisiache, dove gli alberi sono carichi di frutti simili a gemme. Arriva a Iram ḏāt al-ʿimād, la città di Šaddād ibn ʿĀd, nei cui giardini vi sono alberi d'oro con frutti d'oro (in Neāmī).  
III All'esterno si estende il tâmtu, il «mare» che circonda il mondo. Oltre l'óros Átlas si stende il fiume Ōkeanós che circonda il mondo. Oltre il ǧabal al-Qāf, si stende il Baḥr al-muḥīṭ, l'oceano onniavvolgente. All'esterno si stende il Baḥr al-muḥīṭ/Baḥr-i-Oqiyānūs, l'oceano onniavvolgente. Útgarðr si trova oltre il haf, il «mare» che circonda Miðgarðr. Oltre di essa si estende il úthaf, il «mare esterno».
I SEGNALI STRADALI: LEONI E TORI, AQUILE E SERPENTI

Visto che siamo sulla strada, una prima traccia per arrivare alle porte del gan ʿĒḏẹn potrebbero darcela, forse, quei severi guardiani che Yǝhwāh lōhîm aveva messo davanti ai cancelli del meraviglioso giardino, in modo da impedire il regressus ad paradisum ad Āḏām e Ḥawwāh e ai loro discendenti. “Ora dunque, che egli non stenda la mano e non colga anche dell'albero della vita e ne mangi e viva in eterno...” [wǝ˓attāh pẹn-yišlaḥ yāḏô, wǝlāqaḥ gam mē˓ēṣ haḥayyîm, wǝ˒āḵal wāḥay lǝ˓ōlām] (Bǝrēʾšîṯ [3: ]), aveva decretato Yǝhwāh allorché aveva esiliato l'uomo dal gan ʿĒḏẹn e l'aveva mandato nel caduco mondo del tempo a condurre la sua breve esistenza di fatica e di dolore.

Wayārẹš ẹṯ-hā˒āḏām; wayyaškēn miqqẹḏẹm lǝan-˓ēḏẹn ẹṯ-hakkǝruḇîm, wǝ˒ēṯ lahaṭ haḥẹrẹḇ hammiṯhappẹḵẹṯ, lišmōr ẹṯ-dẹrẹḵ ˓ēṣ haḥayyîm.[Yǝhwāh] cacciò dunque l'uomo e pose a oriente del giardino di ʿĒḏẹn i kǝrûḇîm e la fiamma della spada guizzante per custodire l'accesso all'albero della vita.
Bǝrēʾšîṯ [3: ]
Lamassu (883-859 a.C.)
Scultura neoassira, regno di Aššurnāṣirapli II.
Scavata a Nimrud/Kalhu, ‘Irāq (313.7 cm)
Metropolitan Museum of Art, New York (USA).

Il nostro immaginario corre subito all'iconografia dei due angeli, accigliati e biancovestiti, di fronte ai cancelli del gan ʿĒḏẹn, la spada fiammeggiante stretta nei pugni. Tuttavia quest'immagine è solo un'incrostazione posteriore, costruita sul passaggio biblico e non illustrativa dello stesso. Il redattore del Bǝrēʾšîṯ aveva una concezione ben diversa dei kǝrûḇîm, derivata con ogni probabilità dalle profezie di Yǝḥẹzqêl, vissuto due secoli prima, al tempo della deportazione a Babilonia. Costui aveva derivato queste creature dalla demonologia babilonese, dove il kuribu era un essere soprannaturale, sorta di šēdu, «genio», a volte raffigurato in forma di robusto toro alato con testa umana, ornata da una barba finemente arricciolata e sormontata da una maestosa tiara. Le immagini scolpite di tali esseri, definiti lamassu, venivano disposte dinanzi alle porte, con funzione di custodia o apotropaica. Ma nel coacervo di elegie, invettive, lamenti e accese visioni che è il repertorio profetico di Yǝḥẹzqêl, i kǝrûḇîm si stagliano con una strana, virulenta energia.

“Tu eri il modello della perfezione, ripieno di sapienza e di bellezza meravigliosa: abitavi nel ʿĒḏẹn, il giardino di lōhîm” dice ăḏōnāy Yǝhwāh al re di Ṣôr [Týros]: “Il giorno in cui fosti creato, ti stabilii quale kǝrûḇ protettore, ti posi sul qōḏẹš bǝhar, il «monte santo» di lōhîm, e incedevi fra pietre fiammanti. Perfetto tu eri nelle tue vie dal giorno in cui fosti creato, finché spuntò in te l'iniquità. [...] Ma io ti scacciai dal monte di lōhîm e ti feci perire, o kǝrûḇ protettore, in mezzo alle pietre fiammanti” (Yǝḥẹzqêl [28: -]). Non cercheremo di dare un senso a questa invettiva, che è tra i tanti loci obscuri dei libri profetici della Bibbia, se non per notare che è stata probabilmente una delle fonti del redattore del Bǝrēʾšîṯ.

Ma se ci interessa sapere quale aspetto avessero originariamente i kǝrûḇîm, ne troviamo una vivida descrizione proprio nell'incipit del libro di Yǝḥẹzqêl, ed è senza alcun dubbio una delle visioni più inquietanti della Bibbia:

  Io guardavo ed ecco un uragano avanzare dal settentrione, una grande nube e un turbinio di fuoco, che splendeva tutto intorno, e in mezzo si scorgeva come un balenare di elettro incandescente. Al centro apparve la figura di quattro ḥayyôṯ [«esseri viventi»], dei quali questo era l'aspetto: avevano sembianza umana e avevano ciascuno quattro facce e quattro ali. Le loro gambe erano diritte e gli zoccoli dei loro piedi erano come gli zoccoli dei piedi d'un vitello, splendenti come lucido bronzo. Sotto le ali, ai quattro lati, avevano mani d'uomo; tutti e quattro avevano le medesime sembianze e le proprie ali, e queste ali erano unite l'una all'altra. Mentre avanzavano, non si volgevano indietro, ma ciascuno andava diritto avanti a sé.
  Quanto alle loro fattezze, ognuno dei quattro aveva fattezze d'uomo; poi fattezze di leone a destra, fattezze di toro a sinistra e, ognuno dei quattro, fattezze d'aquila. Le loro ali erano spiegate verso l'alto; ciascuno aveva due ali che si toccavano e due che coprivano il corpo. Ciascuno si muoveva davanti a sé; andavano là dove lo spirito li dirigeva e, muovendosi, non si voltavano indietro. [...]
  Al di sopra delle teste degli ḥayyôṯ vi era una specie di firmamento, simile ad un cristallo splendente, disteso sopra le loro teste, e sotto il firmamento vi erano le loro ali distese, l'una di contro all'altra; ciascuno ne aveva due che gli coprivano il corpo. Quando essi si muovevano, io udivo il rombo delle ali, simile al rumore di grandi acque, come il tuono dell'onnipotente, come il fragore della tempesta, come il tumulto d'un accampamento. Quando poi si fermavano, ripiegavano le ali...
Yǝḥẹzqêl [1: - ... -]
Visione di Yəḥẹzqêl
I kǝrûḇîm nell'illustrazione di un autore contemporaneo

La descrizione di questi ḥayyôṯ («esseri viventi», identificati con i kǝrûḇîm in Yǝḥẹzqêl [10]), come anche quella degli ôannîm, i bizzarri malʾāḵîm simili a ruote costellate di occhi, non ha mai smesso di interessare biblisti, esoteristi e psicologi (e categorie ancor più alternative…). E ci chiediamo che effetto poteva aver fatto, sui poveri Āḏām e Ḥawwāh, nel caso avessero voluto tentare il ritorno al gan ʿĒḏẹn, trovarsi la strada sbarrata da esseri simili.

Ma non lasciamoci distrarre e analizziamo bene queste creature. Di forma umana, con zampe bovine, quattro ali e quattro mani. E soprattutto con quattro teste: umana, di toro, di leone e d'aquila. I medesimi tetramorfi che accompagnano i ritratti degli Evangelisti. Il lettore sta provando un senso di déjà vu: dove abbiamo già incontrato questi animali?

Ma dovunque! Nella leggenda di Bulūqiyā, il giovane eroe, durante il suo viaggio, arriva presso un albero maestoso e imponente, e ci sono quattro malāʾika inginocchiati ai suoi piedi: il primo ha forme umane, il secondo di leone, il terzo di uccello, il quarto di toro. Più tardi, quando egli arriva dinanzi alle porte del ǧabal Qāf, i due esseri che la custodiscono sono l'uno simile a un leone, l'altro a un toro. Sembrerebbe che questi teriomorfi siano legati in qualche modo alle portae mundi, ai passaggi per uscire dal mondo. In uno dei sigilli antico-babilonesi precedentemente esaminati, dove Utu/Šamaš tramonta tra i due picchi gemelli, compaiono ancora una volta un leone, un'aquila e un piccolo toro (immagine: [ME, 89115]✦). Due leoni sono presenti tanto in un secondo sigillo, sulle colonne ai lati della porta solare (immagine: [ME, 89110]✦), ma anche nella figurazione egizia di ker, il dio guardiano dell'orizzonte, posti ai lati della montagna/porta solare (immagine: [ker]✦).

Tori e leoni sono animali assai significativi tanto nel ciclo di Gilgameš quanto in quello di Hērakls. Nello Ša naqba īmuru, Gilgameš ed Enkidu uccidono dapprima Gudanna, il toro del cielo, poi Gilgameš combatte dei leoni e afferma di vestirsi della loro pelle. Due delle fatiche di Hērakls riguardavano appunto l'uccisione del leone di Neméa, dalla cui pelle l'eroe trae il suo mantello, e la cattura del toro di Krḗtē. Che valore dare a questi animali? Perché li vediamo ritornare con tanta tenacia?

L'aquila sembra invece un po' più rara in questo tipo di rappresentazioni. È assente nel mito di Gilgameš (possiamo ignorare il racconto greco di Claudius Aelianus, dove il neonato Gílgamos, scagliato dall'alto di una torre, viene salvato da un'aquila (Perì zṓıōn idiótētos [12, ])). Il rapace compare invece nel ciclo di Hērakls in un punto assai significativo: è infatti l'aquila che tormenta Promētheús e che l'eroe abbatte. Ma l'aetós kaukasíos rimanda al suo contraltare, il drákōn hespérios, il serpente che fa la guardia ai krýsea mla, gli aurei frutti dell'immortalità, nel giardino delle Hesperídes. Come già abbiamo più volte notato, i due animali presentano tutta una serie di simmetrie: ciascuno è definito dal luogo in cui è collocato o, se vogliamo, dalla direzione in cui è proiettato: il rapace è kaukasíos, «caucasico», il serpente è hespérios, «occidentale». Il primo è legato all'óros Kaúkasos, il monte ai confini orientali del mondo, il secondo è legato all'estremo occidente, dove si erge l'óros Átlas. Poiché i due monti sono rispettivamente la porta mundi orientale e occidentale, aquila e serpente potrebbero essere i rispettivi guardiani dell'orizzonte nelle due direzioni.

Se però l'aquila è uno dei teriomorfi presenti nell'immagine dei kǝrûḇîm, non possiamo dire lo stesso del serpente. Questo potrebbe non essere tuttavia un problema: non ci si può aspettare di trovare un serpente nell'iconografia di una creatura angelica, tanto più che il nāḥāš si trova già all'interno del gan ʿĒḏẹn, almeno nel Bǝrēʾšîṯ. Il problema è però assai più sottile, visto che, a quanto abbiamo asserito nella nostra ricerca, le montagne dell'alba e del tramonto sono fuse tra loro nell'immagine dell'axis mundi. Tale considerazione toglierebbe, almeno in teoria, questi due guardiani dai loro siti a est e a ovest per collocarli lungo l'asse celeste.

È qui, in effetti, in una lontana terra iperborea, che Hērakls trova (e uccide) Ládon, il drákōn hespérios, nella variante «boreale» dell'undicesimo érgon, per strappargli i frutti d'oro. E Gilgameš viene beffato dal serpente, che gli divora la šammu nikitti, la «pianta dell'irrequietezza», dopo essere risalito in superficie dal suo tuffo «verticale» nelle profondità abissali dell'Apsū. Se l'aquila sembra d'un tratto scomparsa, il serpente assume una strana posizione assiale. E di nuovo, è nel suo regno sotterraneo che Bulūqiyā cattura Yamlīḫā, la regina dei serpenti, la quale lo beffa a sua volta non rivelandogli, potendo farlo, quale sia l'erba che rende immortali.

Riassumendo:

  Bǝrēʾšîṯ Ša naqba īmuru Ciclo di Hērakls Racconto di Bulūqiyā
Leone Un volto dei kǝrûḇîm Dei leoni vengono messi in fuga da Gilgameš Uccide il leone di Neméa Uno dei guardiani della porta del ǧabal al-Qāf ha aspetto di leone
Toro Un volto dei kǝrûḇîm Gilgameš ed Enkidu uccidono Gudanna, il toro del cielo Cattura il toro di Krḗtē Uno dei guardiani della porta del ǧabal al-Qāf ha aspetto di toro
Aquila Un volto dei kǝrûḇîm  Uccide l'aetós kaukasíos Vede malāʾika con teste di leone, toro, aquila e umana
SerpenteIl nāḥāš a guardia dell'albero della vita Divora la šammu nikitti, la «pianta dell'irrequietezza» Uccide il drákōn hespérios, Ládōn, a guardia del Kpos Hesperídōn. Yamlīḫā, la regina dei serpenti, gli cela la natura della pianta dell'immortalità.

Tori e leoni, aquile e serpenti, ci hanno accompagnato in questi viaggi ai confini della terra, indicandoci la strada nei punti cruciali del percorso, o ergendosi come guardiani alle porte che conducono all'esterno del mondo. Ma non è il momento di tentare un'identificazione di questi teriomorfi. Abbiamo appena superato le montagne che sorreggono il cielo e valicato le portae mundi. C'è ancora parecchia strada prima di arrivare al giardino della vita.

MAPPE DI VIAGGIO: LA CONFLUENZA DEI FIUMI

Superate le montagne che sorreggono il cielo, valicate le portae mundi, l'eroe è ormai giunto al limite dell'oikouménē, della terra abitata dagli uomini, e trova davanti a sé l'oceano che circonda il mondo. Un mare sterminato e difficile, che nessun mortale, a memoria d'uomo, ha mai attraversato.

  • (α) Nello Ša naqba īmuru, Gilgameš si trova di fronte un «mare» [tâmtu] che soltanto il dio-sole Šamaš è in grado di valicare e lo attraversa sulla barca di Uršanabi. Al centro di esso ci sono le mê mūti, le «acque della morte»: egli avanza sospingendo l'imbarcazione con delle pertiche; quando termina le pertiche, usa il suo vestito come vela, facendo egli stesso da albero.
  • (β) Hērakls attraversa il fiume Ōkeanós per ben due volte, a bordo della coppa d'oro del dio-sole Hḗlios. Nel primo viaggio si reca a Eirýthia, per rubare il bestiame di Gēryṓn; nel secondo, arriva al giardino delle Hesperídes. Quando vengono meno il vento e le correnti, anch'egli utilizza la pelle di leone come vela.
  • (γ) Dopo aver attraversato a piedi i «sette mari» e aver varcato la porta del ǧabal al-Qāf, Bulūqiyā si trova di fronte al Baḥr al-muḥīṭ, l'oceano onniavvolgente che si trova sotto il trono di Allāh e alimenta tutte le acque del mondo.
  • (δ) Al-Iskandar/Eskandar si mette in mare sia nel corso della sua spedizione a oriente, sia in quella a occidente. Nella versione di Neāmī, Eskandar giunge dapprima a una terra d'oltremare, traversata la quale, si trova di fronte a un oceano invalicabile, dove il sole si tuffa nel tramonto. È il baḥr-i-oqiyānūs, versione arabizzata dell'antica concezione iranica del Vourukaa. Non può tuttavia proseguire a causa del baḥr-i-mard, la «distesa della morte».
  • (ε) Sebbene i testi non siano molto chiari, una volta arrivato nella terra at himins enda «alla fine del cielo», posta oltre gli Élivágar, Þórr si trova di fronte un nuovo oceano: l'útháf, il «mare esterno» che circonda il mondo, nel quale giace il serpente Jǫrmungandr.

Il più antico eroe, a nostra memoria, a trovarsi di fronte all'oceano cosmico è Gilgameš. Sebbene lo Ša naqba īmuru lo definisca semplicemente tâmtu, «mare», esso corrisponde al Marratu, il «fiume amaro» che circonda la terra abitata nell'Imago mundi Babylonica. Il lugal di Uruk deve superare questa barriera. Le parole con cui Šiduri lo mette in guardia esprimono perfettamente le difficoltà e i rischi di una tale impresa:

ul ib-ši GIŠ-gím-maš né-bé-ru ma-ti-ma
u ma-am-ma šá ul-tu u₄-um ṣa-at {KUR} la ib-bi-ru tam-ta
e-bir tam-ti UTU(=šamaš) qu-ra-du-um-mu
ba-lu UTU(=šamaš) e-bir tam-tim man-⌜nu⌝⌉
pa-áš-qat né-ber-tum šup-šu-qat ú-ru-uḫ-šá
ù bi-ra-a A(=mê) mu-ti šá pa-na-as-sa par-ku
a-ḫum-ma GIŠ-gím-maš te-te-bir tam-ta
a-na A(=mê) mu-ú-ti ki-i tak-tal-du te-ep-pu-uš mi-na
“O Gilgameš, non c'è mai stato un traghetto
e nessuno degli antichi ha mai attraversato il mare [tâmtu];
l'unico che attraversa il mare è l'eroe Šamaš:
al di fuori di Šamaš chi può mai attraversare il mare?
La traversata è difficile, la via piena di insidie;
e in mezzo vi sono le acque della morte che impediscono il passaggio.
Come puoi tu, quindi, Gilgameš, attraversare il mare?
E una volta che hai raggiunto le acque della morte, cosa farai?”
Ša naqba īmuru [X: -]

Nonostante tutto, Gilgameš, il tenace Gilgameš, riuscirà ad attraversare il Marratu, imbarcandosi sul traghetto di Uršanabi. Mai perfettamente spiegato, questo personaggio sembra essere il nocchiero di Ūtanapištî: forse corrisponde al pilota dell'arca di Xísuthros che, nella Babyloniaká di Bḗrōssos (apud Aléxandros Polyḯstōr), sarebbe stato reso immortale insieme al suo padrone e ai congiunti di quest'ultimo. Il suo nome, in una tarda lista bilingue di antroponimi, viene interpretato secondo l'equazione, probabilmente artificiosa, di ur-šánabi = amēl-É.A, cioè «Uršanabi = l'uomo di Ea» (VR [44: iii, ]), suggerendo la sua familiarità con le acque abissali dell'Apsū, dimora di Enki/Ea.

Nel mito greco, il Marratu è rappresentato dal potamós Ōkeanós, il grande circuito liquido che circonda il mondo. In Hēsíodos, Ōkeanós è il primogenito dei Titânes (Theogonía []) ma, a differenza degli altri suoi fratelli che, pur tradendo una natura elementale, presentano tratti antropomorfi, Ōkeanós è un ente cosmologico, del tutto identificato con l'oceano che circonda il mondo. I suoi flutti tumultuosi scorrono intorno alla terra, rifluendo su sé stessi in un circolo ininterrotto, e delimitano i confini dello spazio, i limiti del nulla. Ma Ōkeanós non scorre in solitudine: mescola infatti le sue acque con quelle della sua sorella-sposa Tēthýs, in una sorprendente interpraetatio graeca della formula accadica pû-nārāti, «confluenza dei fiumi». Genitori dei tremila dèi fluviali, i Potamoí, e delle altrettante Ōkeanínes (Theogonía [-]), Ōkeanós e Tēthýs sono le sorgenti donde scaturiscono le acque che scorrevano sulla terra e il luogo ultimo ove esse tornano a defluire. Essi penetrano all'interno delle terre attraverso le acque dei mari e dei fiumi, garantendo, grazie al dualismo insito nell'opposizione di maschio e femmina, la pluralità e la complessità della vita. (Vernant 1989¹) Ⓐ▼

Solo Šamaš può attraversare il tâmtu, spiega Šiduri a Gilgameš. Un'osservazione assai sensata. Ed Hērakls, quasi avesse udito lui le parole di Šiduri, bersaglia il dio-sole Hḗlios con le sue frecce, obbligandolo a prestargli la sua coppa d'oro. A bordo di essa, l'eroe ellenico può affrontare le onde oceaniche. Ma perché solo il dio-sole è in grado di attraversare il Marratu o Ōkeanós? Semplice. Siamo al di là delle montagne dell'alba o del tramonto, sull'altro lato delle «porte solari». Trovandosi oltre l'alba e oltre il tramonto, Gilgameš ed Hērakls si sono spinti in uno scenario che non appartiene più alla terra, ma al corso degli astri. Essi stanno passando dall'oikouménē al kósmos e le acque su cui stanno navigando fanno parte del percorso notturno del sole. Ecco giustificata l'osservazione di Šiduri. Un frammento di Stesíkhoros (vii-vi sec. a.C.) ci spiega che, nella sua coppa d'oro, Hḗlios navigava nelle «sacre e buie profondità della notte» per raggiungere, dopo il tramonto, la sua famiglia.

 

E allora forte figlio di Hypérion [Hḗlios] entrava in una coppa d'oro massiccio, in modo che potesse attraversare Ōkeanós e raggiungere le sacre e buie profondità della notte, e sua madre [Theía] e la sua sposa e i cari figli; mentre il figlio di Zeús [Hērakls], che dentro quella coppa ha raggiunto Erýtheia per poi ritornare indietro alla terraferma, ora la restituisce a Hḗlios, ed a piedi entra nel bosco, ombreggiato di allori.
Stesíkhoros: Phragmenta [X17]

Un frammento di Mímnermos (❀ 630-600 a.C.) è ancora più esplicito. Ci narra che, dopo aver solcato il cielo nella sua orbita diurna, da oriente a occidente, Hḗlios si accoccolava nella sua coppa d'oro e dormiva saporitamente, mentre la corrente di Ōkeanós lo riconduceva di nuovo a oriente:

 

Il destino di Hḗlios è quello del sole: faticare ogni giorno. Non c'è mai tregua per lui e per i suoi cavalli, dal momento che Ēṓs dalle dita rosate lascia Ōkeanós e s'innalza nel cielo. Un bel letto concavo, alato, forgiato dalle mani di Hḗphaistos in oro prezioso, lo trasporta tra le onde, sulla superficie dell'acqua, mentre dorme profondamente, dalla dimora delle Hesperídes alla terra degli Aithíopes, dove il suo rapido carro e i cavalli attendono fino alle prime luci dell'alba. Là, il figlio di Hypérion [Hḗlios] monta il suo altro veicolo.
Mímnermos: Phragmenta [12]

Un'immagine affascinante, questa di Hḗlios, che fugge i destrieri della notte correndo intorno al mondo sulla sua aurea navicella (Aiskhýlos: Hēlíades [ph. 33], Athḗnaios: Deipnosophistaí [XI: 39, ]), mentre le correnti di Ōkeanós lo riconducono al suo palazzo, a oriente, dove lo attendono un carro e cavalli freschi perché egli li monti e riprenda il suo quotidiano viaggio attraverso il cielo. In Apollódōros (Bibliothḗkē [II: 5]), Hērakls utilizza due volte la coppa del sole come imbarcazione:

  1. nel decimo érgon, sul lato occidentale di Ōkeanós, dall'Ibēría verso Eirýthia, per rubare il bestiame di Gēryṓn;
  2. nell'undicesimo érgon, sul lato orientale, dalle coste di Aithiopía verso il giardino delle Hesperídes.

Nel primo caso, Hērakls si muove dalla terra abitata verso l'esterno, cioè perpendicolarmente al flusso di Ōkeanós; nel secondo caso, asseconda la corrente, costeggiando la terra abitata. Questo secondo percorso sembra suggerire che il potamós Ōkeanós fluisca intorno alla terra in senso antiorario, contrario a quello che dovrebbe essere il normale senso di marcia del sole. Riteniamo che questo dettaglio sia una trascuratezza astronomica di Apollódōros. Se dopo il tramonto, il sole seguisse la logica continuazione della sua rotta diurna, Ōkeanós dovrebbe trasportarlo da occidente in senso orario, lungo il lato della terra opposto al polo settentrionale.

Ma concentriamoci sul termine accadico Pû-nārāti, la «confluenza dei fiumi» o più letteralmente la «bocca dei fiumi». Lo Ša naqba īmuru definisce con questo termine il luogo dove è stato traslato Ūtanapištî, senza specificare se si tratti di una terra posto oltre il mondo o, come il nome porterebbe piuttosto a intendere, di un epiteto dello stesso mare esterno. L'idea generale sembra essere quella di una località situata nel punto dove confluiscono tutte le acque del mondo. Tale concetto può essere inteso in due modi: uno mitico/cosmologico e uno geografico/idrografico.

  • Mitico/cosmologico: il riferimento è alla rappresentazione assiro-babilonese dell'oceano cosmico, costituito dalla confluenza di Apsū e Tiāmat, rispettivamente personificazione delle acque dolci e delle acque salate. Stando al mito cosmogonico attestato in Enūma elîš, con il trionfo di Marduk, Tiāmat viene uccisa e, dal suo corpo spaccato in due parti, vengono tratte le acque celesti e quelle terrestri; Apsū verrà respinto ai confini della terra e rimarrà quale abisso delle acque dolci sotterranee Ⓑ▼. Nel contesto di tale cosmologia, il Pû-nārāti, la «confluenza dei fiumi», è il luogo, situato ai confini del mondo, dove si mescolano le acque di Tiāmat e Apsū: le acque salate dei mari della terra e le acque dolci dell'abisso sotterraneo. Gilgameš deve arrivare al Pû-nārāti prima di potersi aprire un varco verso l'Apsū. È infatti nel profondo di questo abisso acquatico che si cala per strappare la šammu nikitti, la «pianta dell'irrequietezza».
  • Geografico/idrografico: tutti i fiumi e i mari della terra confluiscono nel Marratu, che è dunque il luogo dove tutte le acque, percorse le loro vie, tornano a mescolarsi. Si noti che i Babilonesi e gli Assiri identificavano con l'espressione pû-nārāti la città di Eridu, la più meridionale della Mesopotamia, che si affacciava sul golfo Persico, là dove le acque dolci del Tigri e dell'Eufrate si confondevano con quelle salate del mare ①▼. Eridu era anche la città sacra al dio Enki: una scelta sensata, visto il legame di Enki/Ea con l'Apsū.

Tali considerazione valgono anche per gli altri schemi mitici che abbiamo analizzato. Nel mito greco, il potamós Ōkeanós, «origine e fine di tutte le cose», era anch'esso considerato la sorgente di tutte le acque che scorrevano sul mondo e Ōkeanós e Tēthýs mescolano le loro acque in maniera analoga a Tiāmat e Apsū. Ma abbiamo già parlato altrove del groviglio di affinità e omologie tra il modello greco e quello accadico Ⓒ▼. Simili mitemi erano presenti anche nella cosmologia antico-iranica, la quale presta notevole attenzione all'aspetto idrografico. Anche qui l'oceano cosmico Vourukaa/Frāxwkard/Warkaš è costituito dalla confluenza di tutte le acque fluviali dell'universo, incarnate dalla yazatā Arǝdvī Sūra Anāhita, che scorrono dal cielo alla terra, giungendo in tutti i sette karšvąr. Così leggiamo in un passo dell'Avestā:

Masitąm dūrāṯ frasrūtąm ýā asti avavaiti masō ýaθa īspå imå āpō ýå zǝmā paiti fratačiñti ýā amavaiti fratačaiti hukairyāṯ hača barǝzaŋhaṯ aoi zrayō ouru-kaṣ̌ǝm.[Arǝdvī Sūra Anāhita], con una massa [d'acqua] che si sente da lontano, che da sola è uguale per volume a tutte le acque che scorrono sulla terra, che scende precipitosa giù con potenti rivoli dalla cima dello Hukairya fino al mare Vourukaa.
Ýaozǝñti īspe karanō zrayā ouru-kaaya ā īspō maiδyō ýaozaiti ýaṯ hīš aoi fratačaiti ýaṯ hīš aoi fražgaraiti arǝdvī sūra anāhita, ýeŋ́he hazaŋrǝm airyanąm hazaŋrǝm apaγžāranąm, kasčiṯča aēṣ̌ąm airyanąm kasčiṯča aēṣ̌ąm apaγžāranąm čaθβarǝ-satǝm ayarǝ-baranąm hvaspāi naire barǝmnāi.Tutti i golfi nel Vourukaa sono agitati quando essa precipita, da tutto il centro del mare si alzano zampilli quando Arǝdvī Sūra Anāhita vi si getta veloce dentro, quando ella vi si tuffa schiumeggiante, ella, di cui sono migliaia i fiumi tributari e migliaia gli sbocchi emissari, e ognuno come s'immette o scorre via, è come facesse una galoppata lunga quaranta giorni percorsi da un cavaliere provetto.
Aiŋ́håsča mē aēvaŋhå āpō apaγžārō ījasāiti īspāiš aoi karṣ̌vąn ýāiš hapta...Il principale emissario e sbocco di quest'unica acqua va lontanissimo, dividendosi in tutti i sette karšvąr...
Avestā > Yasna [14: -]

Di questi fiumi, i due principali sembrano essere il Raŋhā e il Vaŋhuī Dāityā (medio persiano Arang e Wehrōd). I testi medio-persiani li presentano uniti tra loro da vincoli di amicizia e amore: ciascuno dei due prega Ahura Mazdā, a nome dell'altro, affinché l'uno possa portare felicità a tutte le creature, l'altro possa elargire a tutti l'immortalità. Ma per colpa delle forze ahrimaniche, essi sono strappati dall'oceano Vourukaa, nei quali mescolavano le loro acque, e scendono, immensi, da settentrione. A questo punto si dividono: il Raŋhā scorre lungo la costa occidentale della terra abitata e il Vaŋhuī Dāityā lungo quella orientale. Riunitisi infine a sud, rifluiscono purificati nell'oceano Vourukaa (Bundahišn [4B, - | 9, -]). Queste note dànno un'idea del senso dell'espressione «confluenza dei fiumi», ricorrente in questo tema mitico, che porterà all'enigmatica maǧmaʿa al-baḥrayni, la «confluenza dei due mari», attestata in al-Qur˒ān [xviii: ] e nella storia di Bulūqiyā.

La šammu nikitti, la «pianta dell'irrequietezza», che Gilgameš coglie sul fondo dell'Apsū, richiama probabilmente i due alberi rigogliosi che crescono nell'oceano Vourukaa: l'albero Gaokǝrǝna (pahlevico Gōkarn), sul quale fruttifica il bianco haoma (pahlevico hōm-ī-sped), l'elixir vitae distillato da Ahura Mazdāh per sconfiggere la vecchiaia, far risorgere i morti e rendere immortali i viventi, alla fine dei tempi, nel Frasōkǝrǝti (pehlevico Frašgird); e il wan ī was-tōhmag, l'albero imperituro e dalle molte semenze, che guarisce ogni male.


Le acque della morte

Un tema assai interessante, in questo scenario idro-cosmologico, è la presenza di un flusso mortale che, in qualche modo, scorre nell'oceano cosmico pur tenendosene in qualche modo distinto, formando una sorta di regione o corrente pericolosissima a chi la attraversi.

La sua più antica rappresentazione sono ovviamente le mê mūti, le «acque della morte» dello Ša naqba īmuru, che scorrono nel bel mezzo del tâmtu e rendono difficoltosa la traversata di Gilgameš. Esse possono essere direttamente confrontate con le gelide acque del potamós Stýx, i cui flutti scorrono per nove decimi nelle profondità della terra, fino a sprofondare nel Tártaros, ma un decimo contribuisce alla corrente di Ōkeanós. Ebbene, dice Hēsíodos, se uno degli dèi immortali attinge all'acqua di Stýx con un calice d'oro e la beve giurando il falso, per un anno intero cade senza respiro: e questa è la cosa più simile alla morte che possa capitare a un immortale. Al termine dell'anno, una volta uscito dal coma, lo spergiuro non può più avvicinarsi per nove anni alle mense degli dèi, non può gustare il néktar e l'ambrosía e partecipare alle assemblee divine. (Theogonía [-]).

Ritroviamo il tema nella forma dello yamā saryā, il «mare fetido» del Neṣḥānā d-leh d-ʾAleksandrōs aramaico. Ma esso è presente anche nel racconto di Neāmī, dove Eskandar, una volta giunto ai confini del mondo, viene distolto dalla sua intenzione di avventurarsi sul baḥr-i-oqiyānūs, a causa del rischio di incappare sul baḥr-i-mard, la «distesa della morte». Il mitema del mare velenoso è diffuso nei miti di tutto il mondo, in particolare nelle leggende marinare.

Al tema delle correnti avvelenate dei flutti cosmici accenna tanto la cosmologia iranica, dove ha un significato etico (Bundahišn [7, ,  | 19, ]), ma anche la mitologia nordica, dove nelle acque dei fiumi cosmici Élivágar scorrevano correnti velenose. Ed è a questo veleno, recato a tutti gli angoli del cosmo, che la soteriologia scandinava attribuiva le ragioni della presenza del male nel mondo e della malvagità in tutti gli esseri, soprattutto negli jǫtnar e nelle creature primordiali (Gylfaginning [5]). Ⓓ▼

Ór Élivágum
stukku eitrdropar
ok óx unz varð ór jǫtunn,
þar órar ættir
komu allar saman,
því er þat allt eða atalt”..
Dagli Élivágar
scaturì in gocce il veleno
e crebbe finché nacque un gigante.
Da là le nostre stirpi
vennero tutte insieme,
per cui sempre feroci saranno”.
Gylfaginning [5: {8}] = Vafþrúðnismál [31]

Ma seguendo le tumultuose correnti dei dei fiumi cosmici i quali, in Īrān, in Grecia e in Scandinavia, erompono e confluiscono dall'oceano cosmico, scorrendo dal cielo alla terra, dalla terra agli inferi e unendo tra loro tutti i livelli dell'essere, rischiamo di uscire dal nostro argomento. Ne tratteremo in uno studio a parte.

Riassumendo:

MESOPOTAMIA GRECIA ĪRĀN PREISLĀMICO ARABIA / ISLĀM SCANDINAVIA
Il Marratu è il fiume amaro che circonda la terra all'esterno. Ōkeanós è il fiume cosmico che fluisce intorno alla terra. Vourukaa è l'oceano cosmico che circonda il mondo.

Il Baḥr al-muḥīṭ è l'oceano onniavvolgente che circonda il mondo.

L'háf è l'oceano che circonda il Miðgarðr.
L'oceano cosmico primordiale è formato dalla confluenza delle acque dolci maschili di Apsū e delle acque salate femminili di Tiāmat. Nelle acque cosmiche si confondono la corrente di Ōkeanós e della sua sorella-sposa Tēthýs.

I fiumi Raŋhā e il Vaŋhuī Dāityā fondono con amore le loro acque nel Vourukaa.

L'oceano esterno è definito maǧmaʿa al-baḥrayni, «confluenza dei due mari».

Élivágar si chiama l'insieme dei fiumi che scorrono attraverso tutti i livelli del cosmo.
Apsū e Tiāmat vengono strappati l'una all'altra. Marduk uccide Tiāmat e produce con il suo corpo le acque celesti e marine. Ōkeanós e Tēthýs sono separati da un dissidio e divorziano. Le forze ahrimaniche obbligano il Raŋhā e il Vaŋhuī Dāityā a separarsi nel loro fluire intorno al mondo.    
Tutti i mari interni, i fiumi e le acque che scorrono sulla terra, provengono e tornano a rifluire nel tâmtu/Marratu, nel Pû-nārāti, «confluenza dei fiumi». Ōkeanós e Tēthýs sono i genitori delle tremila divinità fluviali (Potamoí) e delle altrettante Ōkeanínes. I diciottomila fiumi derivano dal Raŋhā e dal Vaŋhuī Dāityā. Il Baḥr al-muḥīṭ, l'oceano onniavvolgente che si trova sotto il trono di Allāh, alimenta tutte le acque del mondo Gli Élivágar sgorgano e rifluiscono nella sorgente di Hvergelmir, l'abisso acqueo posto nel profondo dell'universo.
Apsū è la sorgente ultima di tutte le acque che scorrono sul mondo e il posto dove tornano a rifluire. Tutti i mari interni, i fiumi e le acque che scorrono sulla terra provengono e ritornano nella corrente di Ōkeanós. Tutte le acque fluviali, incarnate nella yazatā Arǝdvī Sūra Anāhita, scorrono dal cielo alla terra e rifluiscono nel Vourukaa.
Al centro del Marratu scorrono le mê mūti, le «acque della morte». La fatale corrente di Stýx si mescola a quella di Ōkeanós. Alcuni fiumi che arrivano al Vourukaa sono stati avvelenati dalle forze ahrimaniche. Nel baḥr-i-oqiyānūs scorre il baḥr-i-mard, la «distesa della morte». Alcuni fiumi che compongono gli Élivágar sono saturi di veleno.
Oltre il tâmtu/Marratu vi sono Dilmun e Pû-nārāti, le terre lontane dal mondo degli uomini, dove risiede l'eroe diluviale (Ziudsura, Atraḫasîs e Ūtnapištî), reso immortale per volere degli dèi. Oltre la corrente di Ōkeanós vi sono le Makárōn Nsoi, le «isole dei beati» lontane dal mondo degli uomini, dove gli eroi prescelti dagli dèi vivono una vita immortale.Oltre il fiume Vourukaa vi sono i karvąr, terre lontane dal mondo degli uomini.In un'isola nel Baḥr al-muḥīṭ, lontano dal mondo degli uomini, Bulūqiyā incontra l'immortale al-Ḫiḍr.  
Sul fondo dell'Apsū cresce la šammu nikitti, la «pianta dell'irrequietezza», che permette ai vecchi di tornare giovani. Seguendo la corrente di Ōkeanós si arriva ai krýsea mla, i «frutti d'oro» dell'immortalità, che crescono nel giardino delle Hesperídes Nella parte più profonda del Vourukaa crescere l'albero Gaokǝrǝna, da cui fruttifica il bianco haoma, liquore d'immortalità.La māʾ al-ḥayāt, l'«acqua della vita» sgorga nelle terre presso o oltre il Baḥr al-muḥīṭ.  
     Il frassino Yggdrasill dirige le sue tre radici alle sorgenti di Hvergelmir, Mímisbrunnr (la fonte della conoscenza) e Urðarbrunnr (la fonte del destino).

①▲ Oggi il Tigri e l'Eufrate si riuniscono formando un unico fiume, lo Šaṭṭ al-ʿArab, che procede per circa 190 chilometri prima di formare un delta che sfocia nel golfo Persico. Ma la pianura alluvionale si è formata nel corso dei secoli a causa del fango e del limo trasportati a valle dai due fiumi, tanto che dall'antichità il mare si è ritirato per almeno 280 chilometri. All'epoca dei Sumeri, il Tigri e l'Eufrate entravano nel golfo Persico con due distinte foci, distanti circa 150 chilometri, e la città di Eridu si trovava tra l'una e l'altra. Non è dunque facile trarre un senso dall'espressione Pû-nārāti, e qualche filologo, perplesso e disperato, è arrivato addirittura a supporre che i Sumeri non avessero mai saputo in quale direzione scorressero le acque e credessero che nel golfo Persico i due fiumi avessero la loro sorgente! Alcuni hanno addirittura proposto di tradurre Pû-nārāti con «sorgente», invece di «foce», ma senza chiarire il significato dell'espressione.

MAPPE DI VIAGGIO: ISOLE OLTRE LO SPAZIO

Varcato il mare/oceano, dice il nostro schema, l'eroe giunge in una terra lontanissima e disabitata. Il lettore che ci ha seguito fin qui sa bene, ormai, che la presenza di queste «terre d'oltreoceano» sembra essere un elemento costante di certe cosmologie. Una versione molto antica è certamente costituita dagli otto nagi˒ānu che l'Imago mundi Babylonica ci mostra irradiarsi, a stella, al di fuori della terra abitata (oikouménē) e separati da questo dal cerchio del fiume «amaro» Marratu.

L'Imago mundi Babylonica ( VI sec. a.C.)
British Museum, Londra (Regno Unito)

Purtroppo le iscrizioni dell'Imago mundi Babylonica sono lacunose e spesso inintellegibili. Poche confuse notizie arrivano a noi da questo documento risalente, forse, all'inizio del Primo millennio avanti Cristo. Al terzo nagû un uccello non può completare il suo tragitto, forse a causa di asperità e deserti; il quinto nagû è caratterizzato da un'impenetrabile foresta (o da piogge e inondazioni); il sesto nagû sembra essere un territorio montuoso; nel settimo nagû corre libero del bestiame cornuto; nell'ottavo nagû c'è la porta da dove il sole sorge all'alba [verso]. A questi si unisce un altro luogo, a nord, dove una grande muraglia copre il sole [verso]. È davvero un peccato non saperne di più.

Questo schema è il medesimo attestato nella cosmologia iranica, dove l'oceano esterno Vourukaa/Frāxwkard/Warkaš separa la terra abitata, aniraθa-/Xwanirah/Ḵonīras, dai sei karvąr/kešwar periferici; e in India, dove ogni idea diviene sottile metafora teologica, e i dvīpa hanno la forma di anelli concentrici separati da oceani. E non si potrà mai insistere a sufficienza su un punto fondamentale: questi continenti esterni non sono entità geografiche ma cosmologiche. Una loro caratteristica è che siano del tutto irraggiungibili dai comuni mortali. «Nessuno può attraversare il mare» è un leit-motiv che abbiamo udito molto spesso. Risuona ancora nelle nostre orecchie l'avvertimento di Šiduri a Gilgameš: “al di fuori di Šamaš chi può mai attraversare il tâmtu?” (Ša naqba īmuru [X: ]). Ma anche i testi zoroastriani ci avevano messo in guardia che non si può compiere la fatidica traversata senza affidarsi a una guida soprannaturale: «Non è possibile andare da un kešwar a un altro kešwar, se non con la guida e l'illuminazione degli yazatā» (Bundahišn [5B: ]). Anche Hērakls, per traversare il fiume Ōkeanós, deve ottenere un passaggio sull'aurea coppa di Hḗlios: nessuno ha mai compiuto quell'impresa prima di lui e solo un traghetto cosmologico può trasportare l'eroe oltre il mondo degli uomini.

Un'altra caratteristica di questi «continenti cosmici» è che, rarissimamente, gli dèi permettono a qualche essere umano di accedervi e dimorarvi. Traslato, per volontà divina, nelle terre d'oltreoceano, il prescelto scompare definitivamente dal consorzio umano. Ma è anche strappato dalle leggi che reggono la conditione humaine: dalla dura necessità del lavoro e dal comune destino di malattia, vecchiaia e morte. Chi dimora nei «continenti cosmici» conduce un'immortale vita di letizia e abbondanza.

Conosciamo molti nomi di fortunati mortali che siano andati incontro a questo destino, a partire dai noè mesopotamici. Un confronto con i testi del diluvio, in particolare con il «Poema di Ziudsura» e con l'Enûma ilû awîlum, ci permette di asserire che il noè sumerico Ziudsura, o il suo equivalente antico-babilonese Atraḫasîs, resi immortali, vennero traslati in un nagû. Un confronto con lo Ša naqba īmuru ci rivela che è proprio in un nagû che si reca Gilgameš, dopo aver attraversato il mare a bordo del traghetto di Uršanabi, per trovare l'indolente Ūtnapištî. Dunque Dilmun e il Pû-nārāti fanno parte della cosmologia dei nagi˒ānu.

Anche le destinazioni extramondane raggiunte da Hērakls, una volta varcato il potamós Ōkeanós a bordo della coppa solare, fanno parte di questa classe di destinazioni. L'isola di Erýtheia, la «rossa», posta proprio di fronte al tramonto del sole, e il favoloso giardino delle Hesperídes, le nýmphai dell'occidente, situato proprio sotto lo sguardo vigile di Átlas (Theogonía [- | - | -]), si confondono con la nozione delle Makárōn Nsoi, le «isole dei beati», felici terre di immortalità poste anch'esse nel lontano occidente. Qui, sotto il governo di Krónos, gli dèi hanno destinato alla vita eterna alcuni tra più meritevoli eroi, dopo averli traslati – proprio come Ziudsura, Atraḫasîs e Ūtnapištî – lontani dal mondo degli uomini:

toîs dè dích' anthrṓpōn bíoton kaì ḗthe' opássas
Zeùs Kronídēs katénasse patḕr es peírata gaíēs.
tēloû ap' athanátōn: toîsin Krónos embasileúei.
kaì toì mèn naíousin akēdéa thymòn échontes
en makárōn nḗsoisi par' Ōkeanòn bathydínēn,
ólbioi hḗrōes, toîsin meliēdéa karpòn
trìs éteos thállonta phérei zeídōros ároura.
...altri [eroi] il padre Zeús Kronídēs li pose ai confini della terra,
lontano dagli uomini, dando loro una dimora e i mezzi per vivere:
lontano dagli immortali, essi hanno Krónos per re.
Essi abitano, con il cuore lontano da affanni,
nelle Makárōn Nsoi, presso Ōkeanós dai gorghi profondi:
felici eroi, per i quali il suolo fecondo produce
un raccolto fiorente e abbondante per tre volte l'anno.
Hēsíodos: Érga kaì hēmérai [-]

Dilmun e il Pû-nārāti, il giardino delle Hesperídes, Erýtheia e le Makárōn Nsoi, la lontana isola di al-Ḫiḍr, sono solo alcune di queste terre extramondane, «sospese» nell'oceano cosmico che circonda il mondo. Esse sono l'unico luogo, fuori dal tempo e dallo spazio, dove il mondo è rimasto com'era prima della caduta, dove l'albero dell'immortalità concede ancora i suoi frutti o dove sgorga l'acqua della vita. Giustamente gli Elleni ponevano le Makárōn Nsoi sotto il dominio di Krónos, l'antico sovrano dell'età aurea. Abbiamo visto, nel mito esiodeo, che tagliando il fallo proteso di Ouranós e scindendo per sempre Ouranós da Gaîa, il dio-cielo dalla dea-terra, Krónos aveva rotto l'immutabile eternità dei primordi e aveva dato inizio al tempo. In epoca tarda, Krónos era stato interpretato anche come chrónos, il «tempo». La perfezione degli inizi era cristallizzata in un eterno stato di immutabilità: ma il tempo aveva per corollario il mutamento, e questo è a sua volta inscindibile dal disfacimento, dalla vecchiaia, dalla morte. Ⓐ▼①▼

Queste terre d'oltreoceano, che il mito ellenico posta sotto gli auspici di Krónos, sono dunque immagine mitica di un «luogo» esterno non sono allo spazio, ma anche al tempo, estraneo del mutamento e del disfacimento, e quindi del male e della morte. È il luogo dove il leone non mangia l'agnello e dove scorrono fiumi di latte e miele. È il luogo dove il vecchio non dice “sono vecchio” e la vecchia non dice “sono vecchia”, dove la fanciulla non si bagna nel fiume e dove l'aedo non canta le sue canzoni. È l'irraggiungibile giardino di ʿĒḏẹn dov'era stato traslato Ḥănōḵ nel mito ebraico, così come al-Ḫīḍr/Ḵeżr in quello islāmico e Ziudsura/Atraḫasīs/Ūtnapištî nelle varie versioni del racconto mesopotamico del diluvio. È il luogo dove gli eroi del mito ellenico vivono un'esistenza non diversa da quella degli dèi.

L'isola della vita ( 1888)
Arnold Böcklin (1827-1901)

È curioso che la stretta relazione semantica tra il kpos Hesperídōn (il «giardino d'occidente») e il gan-bǝʿĒḏẹn miqqẹḏẹm (il «giardino a Ēḏẹn in oriente») (Bǝrēʾšîṯ [2: ]) non sia stato sottolineata con maggior forza dagli studiosi, quasi che classicisti e biblisti si vergognassero di mettere in correlazione il mondo classico con quello ebraico, il paganesimo con il monoteismo abramitico. Sulla localizzazione di Ēḏẹn abbiamo assai meno informazioni di quanto non sia per i suoi omologhi mesopotamici o ellenici. Miqqẹḏẹm, «a oriente», è una nozione assai vaga, e per di più parzialmente contraddetta dal fatto che, dopo la cacciata dell'uomo dal gan ʿĒḏẹn, i kǝrûḇîm sono stati posti «a oriente» del giardino, per sorvegliarne l'ingresso (Bǝrēʾšîṯ [3: ]). Se il giardino si trova già oriente, che senso ha mettere guardiani a oriente di esso? Né i libri canonici, né quelli apocrifi, forniscono dati precisi sulla localizzazione di ʿĒḏẹn. In alcuni testi sapienziali, come il Mäṣǝḥäfä Henok, il «libro di Ḥănôḵ» in gǝʿǝz, il giardino viene collocato addirittura nel terzo cielo e il suo accesso stabilito in un complesso sistema di porte celesti. Trasformato in un elemento escatologico, diviene una tappa nel processo delle anime dei giusti... ma ciò fa parte delle speculazioni apocalittiche ed esula dal nostro discorso.

Queste terre extramondane, dove il tempo è fermo e l'immortalità è ancora possibile, appartengono non al dominio della geografia, ma piuttosto dell'astronomia, in quella sua antica forma ancora in parte indistinguibile dalla metafisica: nagi˒ānu, karvąr/kešwar e dvīpa sono territori dell'aldilà.

Ⓐ▲ Studi: [La separazione del cielo e della terra]

①▲ È interessante notare che, nella mitologia scandinava, se al centro vi è il Miðgarðr, il mondo che gli dèi hanno creato e affidato agli uomini, man mano che ci si inoltra verso la periferia l'ordine lascia il posto a un ambiente sempre più selvaggio e ostile. Più che terre meravigliose dove si conservava l'età dell'oro, ai confini del mondo i vichinghi vedevano il perdurare di una sorta caos primordiale. Questa visione era forse condizionata dall'ambiente in cui vivevano gli Scandinavi: gli insediamenti, rari e distanti gli uni dagli altri, erano stabiliti nelle regioni meridionali della Svezia e sulle coste della Norvegia. Il nord-est era un territorio inospitale, gelido e selvaggio. Gli esseri che si immaginava vivessero in questi luoghi remoti erano incarnazioni di elementi primordiali, forze che si opponevano all'ordine imposto dagli dèi ed erano state respinte ai confini del mondo: troll, draugar, jǫtnar, hrimþursi. Non c'è da stupirsi se veniva usato, a indicare il mondo della manifestazione umana, un termine come Miðgarðr, «recinto mediano». In questa parola non vi era solo una nozione di centralità, ma anche di luogo raccolto a difesa. Nel termine garðr, «recinto», ma anche «fortezza», è contenuta la connotazione di una fortificazione atta a proteggere un villaggio o un centro urbano. Il mito narrato nelle Edda afferma che gli dèi, allorché uccisero il primordiale gigante Ymir e crearono il mondo usando il suo corpo come materia prima, utilizzarono le ciglia del gigante per innalzare attorno alla terra degli uomini un bastione, atto a contenere e proteggere gli esseri umani dalle creature che abitavano ai confini del mondo. (Gylfaginning [8]).
UNO SGUARDO ATTRAVERSO UNA COPPA DI CICUTA

Ora che finalmente, come promesso, abbiamo attraversato l'oceano cosmico e abbiamo raggiunto il gan ʿĒḏẹn, Dilmun e il Pû-nārāti, il Kpos Hesperídōn, Erýtheia e le Makárōn Nsoi, e l'isola di al-Ḫīḍr/Ḵeżr, dobbiamo cercare di fare il punto della situazione, prima di perdere definitivamente la bussola. Non lasciamoci distrarre da questi severi guardiani in forma di leoni, aquile, tori e serpenti. Dove ci hanno condotto, infine, Gilgameš, Hērakls ed Eskander? Siamo su un'isola cosmica sospesa tra due correnti del grande fiume Ōkeanós: alle nostre spalle, i mari che circondano il mondo: laggiù, da qualche parte, vi è l'oikouménē, la terra abitata dagli uomini. Ma davanti a noi, cosa c'è? Dove ci troviamo? E dove stiamo andando?

Ma proviamo a far nostri, per un attimo, il disperato coraggio di Gilgameš, la tenacia di Hērakls, il candore di Balūqiyā e soprattutto l'hýbris di Eskandar e il suo inesausto desiderio di mettere alla prova i confini dell'umana conoscenza. Aver raggiunto queste felici isole di immortalità non ci basta. Vogliamo aguzzare lo sguardo, capire, guardare davanti a noi e cercare di capire cosa vi sia un passo oltre. Ed ecco, d'un tratto il panorama si fa sfocato. Gli antichissimi miti, che ci hanno sostenuto fin qui, cominciano a farsi inconsistenti. Più che ai confini del mondo sembra essere arrivati ai confini dell'immaginazione.

Nell'Imago mundi Babylonica non sembra esservi nulla oltre il profilo a stella costituito dagli aguzzi nagi˒ānu, ma forse è soltanto un limite nella rappresentabilità della mappa. Sappiamo che Gilgameš, oltre il Pû-nārāti, trova soltanto le acque cosmiche abissali dell'Apsū, nelle quali si immerge per cogliere la šammu nikitti, la «pianta dell'irrequietezza». Nel mito ellenico le cose si fanno un po' più chiare, ma non troppo. Sappiamo che l'isola di Erýtheia e le Makárōn Nsoi si stagliano sui flutti del potamós Ōkeanós; e stessa cosa possiamo inferire del Kpos Hesperídōn nella variante iperborea, dato che Hērakls lo raggiunge affidandosi alla corrente oceanica sulla coppa del sole. E sebbene Hērakls non sia andato a controllare con i suoi occhi, anzi, al contrario, abbia subito alzato i tacchi e sia tornato indietro, una volta conclusa la missione, ci sembra ragionevole presumere che al di là di Erýtheia e delle Makárōn Nsoi, così come oltre il Kpos Hesperídōn, non vi siano che le correnti sempre più fredde e oscure del grande fiume che circonda il mondo.

La stessa cosa si può dire del Vourukaa/Frāxwkard/Warkaš, il grande oceano del mito iranico: esso separa la terra abitata, aniraθa-/Xwanirah/Ḵonīras, dai sei karvąr/kešwar che giacciono all'esterno del mondo. Oltre questi ultimi è possibile che l'oceano cosmico si stenda indisturbato verso lo spazio. Alcune rappresentazioni del kósmos iranico pongono il cingulus mundi costituito dal monte Harā Bǝrǝzaitī/Harborz/Alborz a chiudere all'esterno il grande oceano, come a circonscrivere l'intero universo, ma su questo punto i testi non sono chiari. Sicuramente la cosmologia arabo-islāmica dispone il ǧabal al-Qāf tra i «sette mari», che lambiscono le terre note agli uomini, e il Baḥr al-muḥīṭ, l'oceano onniavvolgente che si trova all'esterno del mondo... Anche l'Eskandar persiano, nell'Iskandarnāmè, una volta raggiunto e attraversato il continente oltre il mare, trova un nuovo oceano impenetrabile, che Neāmī chiama baḥr-i-oqiyānūs.

Sembra dunque di capire che, oltre le isole cosmiche, l'oceano esterno prosegua senza limiti e senza confini. Come si può interpretare questo fatto? E soprattutto: può illuminarci in qualche modo sui luoghi dove siamo arrivati, sulla natura del gan ʿĒḏẹn, di Dilmun e del Pû-nārāti, del Kpos Hesperídōn, di Erýtheia e delle Makárōn Nsoi, e dell'isola di al-Ḫīḍr/Ḵeżr? Ma se il mito tace, non ci resta che rivolgerci alla filosofia antica, che del linguaggio mitico aveva fatto un suo valido strumento. Ebbene, abbiamo la fortuna di poter beneficiare, al riguardo, di un discorso davvero illuminante, ed è l'ultimo discorso che ascolteremo dalla bocca di Sōkrátēs.

Dobbiamo sbrigarci, però. Sōkrátēs è in carcere, attende la morte conversando con i suoi amici e discepoli. Il testamento filosofico è stato fatto, il calice è vuoto, Xanthíppē è in lacrime. E Sōkrátēs, Sōkrátēs si è lasciato alle spalle il mondo e ora attende quieto la morte. Il suo spirito già vaga per sfere iperuranie, distaccato dalle cose del mondo, che anzi, osserva da una prospettiva inconsueta. Il racconto che ci lascia ci consentirà di allargare la nostra visione dal ristretto orizzonte delle carte geografiche, su cui tanti si sono ostinati a cercare la «confluenza dei fiumi», al kósmos intero, vero palcoscenico di tutta la mitologia. Naturalmente è Plátōn a riferire delle ultime ore del grande filosofo: Sōkrátēs inizia a parlare:

  Io anzitutto mi sono persuaso di questo. Che se la terra è collocata nel mezzo dell'universo ed è sferica, ella non ha bisogno, per non cadere, né di aria né di alcun altro appoggio di tal genere, essendo sufficiente a sostenerla il fatto che l'universo è tutto uguale da ogni parte a sé stesso e che la terra è per sé stessa perfettamente equilibrata. Infatti, una cosa equilibrata, posta nel bel mezzo di un'altra che sia eguale a sé stessa, non potrà mai inclinarsi da nessuna parte; e, trovandosi sempre in una condizione di perfetta eguaglianza, rimarrà ferma al suo posto senza veruna indicazione.
Plátōn: Phaídōn [108e-109a]

Il pensiero del grande filosofo prelude qui alla fisica dinamica e al principio cosmologico. Ma che la terra fosse sospesa al centro di un universo simmetrico in tutte le direzioni non era una concezione nuova, né scientifica, ma solo una delle tante idee che venivano ad affiancarsi a quelle già fornite in precedenza dalla speculazione mitologica, certamente più sottile e ragionata di visioni che volevano la terra poggiata sul dorso di una balena o sorretta da un angelo, ma in fondo non qualitativamente diversa da quelle. Ma abbiamo appena iniziato, ché Sōkrátēs subito prosegue il racconto:

  Credo che la terra sia qualche cosa di molto grande, e che noi, dal Phásis [nel Kaúkasos] alle colonne di Hērakls ne abitiamo soltanto una sua piccola parte; e abitiamo intorno al mar Mediterraneo come formiche o rane intorno a uno stagno, e altrove altra gente abita in luoghi simili a questo. Vi sono molte cavità intorno alla Terra, diverse di forma e di grandezza, nelle quali confluiscono insieme l'acqua e la nebbia e l'aria. Ma la Vera Terra si libra pura nel cielo puro dove sono le stelle, il quale è chiamato etere. L'acqua e la nebbia e l'aria sono appunto un sedimento di questo etere, e insieme si riversano continuamente nelle cavità della terra.
 Ora, noi che abitiamo in queste cavità, non ce ne accorgiamo, e crediamo di abitare sopra la terra. Allo stesso modo di chi, abitando nelle profondità del mare, ritenesse di vivere sulla superficie della terra, e credesse la superficie del mare che lo sovrasta, attraverso la quale lui vede il sole e le stelle, essere il cielo. Questo crede l'abitante del mare, non essendo mai giunto al di sopra della superficie dell'acqua e non avendo mai osservato queste regioni in cui noi abitiamo, più pure e più belle di quelle dove lui ha trascorso la sua intera vita.
 Ebbene, anche a noi, credo, è capitato precisamente lo stesso: ché crediamo di abitare sulla superficie del mondo, mentre invece abitiamo in una sua cavità. E l'aria la chiamiamo cielo perché ci pare che attraverso questa, quasi fosse cielo, noi vediamo muoversi le stelle. Ed è la stessa cosa: anche noi non siamo capaci di passare attraverso l'aria fino alla sua sommità. Infatti, se uno, messe le ali, riuscisse a spingersi volando fin sopra l'estremo lembo dell'atmosfera, colui vedrebbe, levando il capo oltre la superficie dell'aria, vedrebbe le cose di lassù. E se la natura sua fosse capace di sostenere tale visione, egli riconoscerebbe che quello è il vero cielo, quella la vera luce, quella la vera terra [alēthḗs g]. [...].
 La terra, per chi la guardi dall'alto, ha l'aspetto delle nostre palle di cuoio a dodici pezzi, iridescente. [...]. Crescono ivi alberi e fiori di meravigliosi colori. E parimenti le montagne e le rocce sono levigate e trasparenti, diaspri e smeraldi di vivace splendore. [...]. E vi sono lassù molti esseri viventi, piante e animali di specie diverse, e anche uomini. Molti di questi abitano nell'entroterra, altri ancora come noi sulle rive del mare d'aria, altri in isole non lontane dal continente e circondate tutt'intorno dall'aria. Ciò che per noi è l'acqua, infatti, lassù è l'aria; ciò che per noi è l'aria, lassù è l'etere. E le stagioni lassù hanno tal temperanza che non vi sono ammalati, e gli uomini non solo vivono più a lungo di noi, ma anche, per la finezza della vista, dell'udito, dell'intelligenza e di tutte le altre facoltà, sono alla stessa distanza da noi che la purezza dell'aria dalla purezza dell'acqua, e la purezza dell'etere da quella dell'aria. E inoltre vi sono lassù boschi sacri agli dèi e templi dove gli dèi abitano realmente; e vi sono oracoli e divinazioni che permettono contatti diretti con gli dèi. E gli uomini di lassù vedono il sole, la luna e le stelle come sono realmente, e così essi godono di ogni beatitudine.
Plátōn: Phaídōn [108e-111c]

Al lettore abituato alle consuete rappresentazioni geografiche della terra, queste immagini di Sōkrátēs parranno assai strane. È evidente che l'acqua del mare sia contenuta nelle «cavità» della terra, un po' meno evidente che anche l'aria sia immaginata trattenuta in «cavità» più grandi. La visione cosmologica che qui traspare è di un mondo in cui, procedendo dalla terra verso l'alto, gli elementi si fanno più sottili e imperituri. L'acqua è più densa dell'aria, l'aria è più densa dell'etere, solo l'etere è pura e cristallina sostanza. La «vera terra», alēthḗs g, dunque, per Sōkrátēs, si trovava oltre il confine dell'aria, nello spazio cosmico.

È evidente che questa alēthḗs g sognata da Sōkrátēs vada identificata con il kósmos pitagorico, l'immane struttura metafisica che implica in sé l'ordine eterno dei pianeti e delle stelle. È indicativo il fatto che l'universo, visto da fuori, abbia qui «l'aspetto delle nostre palle di cuoio a dodici pezzi». Si tratta del dodecaedro, la «sfera dai dodici pentagoni», che nell'antica numerologia veniva riferita all'insieme del kósmos. Plátōn narra che dopo che il dēmiourgós ebbe usato i primi quattro solidi regolari per costruire gli elementi, gli rimase il dodecaedro, che usò come struttura per «formare il tutto» [epì tò pân] (Tímaios [55c]). Ploútarkhos spiega:

  È forse vera l'opinione di coloro che pensano che [Plátōn] abbia attribuito il dodecaedro alla forma sferica, allorché dice che il dio si era servito di esso nel decorare la natura del tutto? Infatti, per il gran numero delle basi e l'ottusità degli angoli, evitando ogni «rettitudine», [il dodecaedro] è flessibile; e se teso all'intorno, come le palle fatte di dodici pezzi di cuoio, diventa circolare e capiente. Ha inoltre venti angoli solidi, ciascuno dei quali è contenuto da tre piani ottusi, e ciascuno di essi contiene un angolo retto più una quinta parte [108°]. Ed è connesso insieme da dodici pentagoni equiangoli ed equilateri, ciascuno dei quali consiste di trenta dei primi triangoli scaleni. Perciò sembra assomigliare sia allo zoodiaco che all'anno, essendo diviso nello stesso numero di parti di quelli.
Ploútarkhos: Platonicae Quaestiones [V: 1,  c]

Il rapporto tra il dodecadro e il kósmos è dunque sia spaziale che temporale. Il dodecaedro tende alla sfera, simbolo di perfezione. Ha dodici facce, così come il cielo si estende all'intorno per dodici segni zodiacali, e ogni faccia consiste di trenta triangoli scaleni, così come ogni segno zodiacale si estende su una fascia di 30°. Inoltre, 30 × 12 dà 360, che è sia il numero di giorni in un anno, sia il numero di gradi in un cerchio. Abbiamo detto altrove, parlando del mito egiziano citato da Ploútarkhos (De Iside et Osiride [2]), che gli antichi consideravano inappropriato che l'anno solare avesse 365 giorni e non 360, come invece sembrava più equilibrato, ragione per cui i cinque giorni in più venivano disposti quali giorni epagomeni e considerati fuori dal tempo. Ⓐ▼

Naturalmente non tutti gli studiosi si sono lanciati convincere da questa visione geometrica del kósmos. L'obiezione principale è che Plátōn e Ploútarkhos abbiano confuso il dodecaedro col dodecagono, in quanto lo zodiaco si estende lungo un cerchio e non in una sfera. Il dodecaedro viene usato contemporaneamente come rappresentazione spaziale e temporale. Sappiamo che i per Pitagorici soltanto i numeri erano importanti, come ha messo sufficientemente in chiaro Aristotélēs (Metà ta physiká [985b]). Ed è per questo che anche Johannes Kepler, che fu insieme l'ultimo dei pitagorici e il primo degli astronomi moderni, non ha alcuna difficoltà a confrontarsi con Plátōn e Ploútarkhos, se è vero che scrive: «Il dodecaedro viene attribuito al corpo celeste, siccome che esso possiede appunto tante facce quanti sono i segni dello zodiaco. Si può provare che, tra le restanti figure, esso ha la maggiore capacità, proprio come il cielo abbraccia ogni cosa» (Harmonicae Mundi). Proseguire lungo questa strada ci porterebbe a perderci in uno straordinario universo di idee in cui la geometria, figlia del connubio tra astronomia e filosofia, è il linguaggio che studia l'ordine supremo del kósmos. Dobbiamo sforzarci di seguire il nostro percorso e notare, ancora una volta, come questo mondo dodecaedrale Sōkrátēs lo descrive perfetto, immutabile, privo del decadimento e della morte. È naturalmente il mitema del giardino meraviglioso (il gan ʿĒḏẹn, Dilmun e il Pû-nārāti, il Kpos Hesperídōn, Erýtheia e le Makárōn Nsoi, e l'isola di al-Ḫīḍr/Ḵeżr...), che nella filosofia greca è stato inaspettatamente respinto dalla terra al cielo, dalla terra alla «vera terra», e ora ce lo troviamo sospeso nello spazio. Ma è un'innovazione filosofica, o si tratta dell'ultima rielaborazione di un mito antichissimo? Sōkrátēs sta utilizzando un linguaggio tradizionale per esprimere sue personali idee cosmologiche, o ha semplicemente restituito al mito il suo autentico significato?

Certamente non dobbiamo confondere il kósmos pitagorico con lo spazio interplanetario. Bisogna sempre interpretare il mito secondo una cosmologia che non era scientifica, né pretendeva di esserlo. Tra «cielo» e «terra» non c'era soltanto una questione di direzione spaziale, ma anche e soprattutto una distinzione metafisica. Il giardino meraviglioso è sospeso in una perfezione utopica, e i suoi abitanti non conoscono la fatica, la malattia e la morte, perché è irrimediabilmente scisso dal nostro mondo sublunare. Come l'acqua è più grossolana dell'aria e l'aria è più grossolana dell'etere, ecco che man mano che ci allontaniamo dalla terra per avanzare nelle sfere cosmiche, più troviamo conservata la perfezione atemporale dei primordi. L'eternità appartiene al cosmo, ai pianeti e alle stelle. Non siamo più in un ordine di idee terrestre, ma cosmico.

Dunque, per dirla con le parole di Sōkrátēs, attraversando le porte dello šadû Māšu e seguendo il sentiero del sole fino al tâmtu, Gilgameš ha abbandonato le cavità terrestri per affacciarsi a un nuovo ordine di realtà. Stessa cosa possiamo dire Hērakls, che dopo aver spalancato le montagne sullo stretto tra Eurṓpē e Libýē è uscito dalla terra abitata dagli uomini e ha trovato davanti a sé i flutti di Ōkeanós. L'oceano cosmico non circonda semplicemente la terra come un anello, ma la avvolge tutto intorno, come il cielo. Gli epiteti del potamós Ōkeanós nei testi sono «profondo-fluente», «rifluente su sé stesso», «instancabile», immagini che suggeriscono silenzio, regolarità, profondità, quiete, rotazione: tutti elementi del cielo stellato.

Ed ecco perché nello Ša naqba īmuru si insiste sul fatto che solo il dio-sole Šamaš sia in grado di attraversare il tâmtu; ed ecco perché nel mito greco Hērakls utilizza la coppa d'oro del dio-sole Hḗlios per intraprendere un'analoga navigazione. Il giardino meraviglioso non si trova sulla terra, ma lassù, da qualche parte, tra le stelle.

UNA PROSPETTIVA ASTRONOMICA

Il pensiero corre ormai alla possibilità di implicazioni astronomiche, idea spesso avanzata tanto per il ciclo di Gilgameš, tanto per quello di Hērakls, sicché è difficile aggiungere qualcosa di nuovo in questo campo. In seguito alle primissime ricostruzioni dello Ša naqba īmuru, tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento, Gilgameš era stato interpretato come un eroe solare; si puntualizzava che le tavolette della redazione ninivita fossero dodici, proprio come i segni dello zodiaco, e molti importanti studiosi (Hugo Winckler (1863-1913), Heinrich Zimmern (1862-1931), Otto Weber (1902-1966)) leggevano il ciclo del lugal urukita come un'allegoria del sole che, nel corso dell'anno, si muove lungo l'eclittica. A quell'epoca andavano di moda le interpretazioni astrali e forse si è un po' esagerato con simili letture, ma è fuor di dubbio che molti episodi della leggenda di Gilgameš sembrano riferirsi ai segni zodiacali.

Ma in quanto a implicazioni astronomiche, Hērakls non è da meno. Le attinenze zodiacali di alcune delle sue «fatiche» sono spesso esplicitamente attestate e confermate dagli astronomi classici. Il granchio che artigliò la caviglia di Hērakls durante la lotta contro l'hýdra di Lérnē, sarebbe stato poi posto da Hḗra tra le stelle e sarebbe divenuto la costellazione del Cancer. Il centauro Kheírōn, tormentato da una ferita insanabile, prodotta dalla freccia di Hērakls, donò la propria immortalità a uno dei due Dióskouroi, e morì diventando il Sagittarius (secondo altri il Centaurus). E la lotta di Hērakls contro il dio fluviale Akhelos, il quale poi gli regalerà la cornucopiae in cambio del corno che l'eroe gli aveva strappato, rimanda alla simbologia di Aquarius. Se vi aggiungiamo l'uccisione del leone di Neméa e la cattura del toro di Krḗtē, catasterizzati rispettivamente nelle costellazioni di Leo e Taurus, possiamo concludere che ben cinque segni zodiacali su dodici sono legati al ciclo eracleo. Ma vi sono anche diversi asterismi non zodiacali che rimandano, direttamente o indirettamente a svariati miti di Hērakls (Draco, Hydra, Sagitta, Aquila, Eridanus, etc.), compresa una costellazione che, seppure elaborata in epoca tarda e con molti ripensamenti, è stata dedicata all'eroe stesso (Hercules).

Bisogna ammettere, tuttavia, che sia nel mito di Gilgameš sia in quello di Hērakls non è possibile forzare le analogie fino a comprendere l'intero giro dello zodiaco. Se vi fosse davvero un archetipo comune alla base dei due cicli, le sue origini risalirebbero troppo indietro nel tempo perché sia possibile trovare confronti precisi e puntuali con un sistema astronomico tanto più recente. L'idea che lo zodiaco, così come oggi lo conosciamo, risalga a epoche antichissime, non è corretta. Non ci sono evidenze che i greci possedessero uno zodiaco completo fino al vi secolo avanti Cristo, prima che gli astronomi Méthōn (v sec. a.C.) e Euktḗmōn (±460-±390 a.C.) formalizzassero i dodici segni nel loro calendario solare. L'odierna sfera celeste si è sviluppata solo a partire dai lavori di Eúdoxos Knídios (408-355 a.C.) sulle costellazioni. Dei tempi precedenti poco sappiamo: Hómēros cita sei costellazioni e la stella Sirio, gli stessi asterismi più o meno citati da Hēsíodos nelle Érga kaì Hēmérai. È probabile che i Greci abbiano assunto lo schema zodiacale dalla Mesopotamia intorno al vi secolo avanti Cristo, sostituendo la costellazione del LÚ.ḪU.GÁ, l'«operaio salariato», con Aries. In seguito i romani reintrodussero la Libra, già presente nello schema babilonese, le cui stelle erano però state inserite dai Greci nell'asterismo di Scorpio, di cui costituivano le chele.

Il sistema zodiacale in dodici segni, che da Babilonia si era diffuso tanto in Oriente quanto in Occidente, era stato stabilito dai sacerdoti caldei non prima dell'viii-vii secolo avanti Cristo. Il più antico compendio babilonese di astronomia pervenuto fino a noi, il APIN («Stella aratro») può essere fatto risalire, per talune concezioni, al 1300 a.C. Esso elenca sedici segni zodiacali. Ecco la lista delle costellazioni in sumerico e, tra parentesi quadre, in accadico.

  1. LÚ.ḪU.GÁ [Agru] - L'«operaio salariato». In epoca tarda, l'erronea lettura della parola sumerica «uomo» con il suo omofono LU «ariete», dovrebbe aver portato alla rappresentazione greca di questo segno come «ariete». Di qui, la tarda interpretazione degli astrologi babilonesi che associarono questa costellazione al dio Dumuzi, il divino pastore del mito mesopotamico. → Aries
  2. MUL.MUL [Zappu] - Le «stelle» [la «criniera»]. → È l'ammasso delle Pleiades, vicino a Taurus.
  3. GU.AN.NA [Alû / Is lê] - Il «toro del cielo» [la «mascella del toro»]. → α Tauri (Aldebaran) e le Hyades.
  4. SIPA.ZI.AN.NA [Šitaddaru/Šidallu] - Il «pastore fedele di An/Anu». → Orion.
  5. ŠU.GI [Šību] - Il «vecchio». → Perseus
  6. GÀM o ZUBI [Gamlu] - La «scimitarra» o il «ricurvo». → Auriga.
  7. MAŠ.TAB.BA.GAL.GAL [Māšu / Tūʾāmū rabûtu] - I «grandi gemelli». Questa costellazione, che nell'astronomia mesopotamica si confrontava con MAŠ.TAB.BA.TUR.TUR [Tūʾāmū seḫûtu], i «piccoli gemelli», rappresentava gli dèi Maslamteaea e Lugalgirra. → α e β Geminorum e le stelle a nord e sud di esse.
  8. AL.LUL [Alluttu] - Il «granchio», anche detto il «trono di An/Anu». → Cancer
  9. UR.GU.LA [Urgulû] - Il «leone». → Leo
  10. AB.SÍN [Absinnu/Šerʾu] - Letteralmente, il «solco». Nelle rappresentazioni questo segno viene reso con una donna che tiene in mano una spiga d'orzo (Spica è ancora oggi il nome della stella α Virginis). → Virgo
  11. ZI.BA.AN.NA o GIS.ÉRIN [Zibānītu] - La «bilancia», più esattamente un tipo di bilancia a due braccia [zibana]. Per i Greci era le «chele dello Scorpione», ma i Romani reintrodussero la figura della «bilancia». → Libra e parte di Virgo
  12. GÍR.TAB [Zuqaqīpu] - Lo «scorpione». In Mesopotamia simbolo di fertilità e prosperità. → Scorpio
  13. PA.BÍL.SAG - Divinità mesopotamica, generalmente raffigurata con arco e freccia, forse da identificare con il dio Ninurta. → Sagittarius e forse θ Ophiuchi
  14. SUḪUR.MÁŠ(.KU₆) [Suḫurmāššu] - Il «capro-pesce». → Capricornus
  15. GU.LA [Ṣinundu/Rammanu] - Il «grande», probabilmente da identificare con il dio Enki/Ea, signore dell'abisso acqueo. → Aquarius
  16. KUN o ZIB.ME [Zibbātu] - Le «code». Rappresentato come un pesce e una rondine le cui code si toccano. Esso è formato da:
    16a. ŠÍM.MAḪ [Šinūnūtu] - La «rondine». → Le sue ali sono ζ, θ, ε Pegasi e α Equulei; la sua coda corrisponde alla parte occidentale di Pisces.
    16b. A.NU.NI.TU₄ [Anunītu] - Il «pesce» (cfr. la dea Anunītum). → La parte nordorientale di Pisces più parte di Andromeda.
Costellazioni babilonesi

Mappa celeste di epoca babilonese (circa 1000 a.C.). L'eclittica è rappresentata dal cerchio tratteggiato: la fascia sfumata corrisponde alla Via Lattea. Ricostruzione effettuata da Gavin White (White 2008).

Le analisi «zodiacali» del mito di Gilgameš sono un classico negli studi mitologici, sebbene i risultati siano piuttosto fragili. Conosciamo l'iconografia di alcune costellazioni mesopotamiche, grazie alle immagini scolpite sulle pietre di confine [kudurru], ma nessun Eratosthénēs babilonese ci ha mai narrato nel dettaglio i miti legati agli asterismi che apparivano nei cieli del Medio Oriente. Detto questo, far coincidere il percorso di Gilgameš con l'elenco di costellazioni sopra riportate non è impossibile. Anzi, è fin troppo facile, con un po' di fantasia, indovinare o inventarsi delle affinità. Il problema è stabilire quanto siano fondate.

Orion e Taurus

Posizioni degli asterismi oggi conosciuti come Orion e Taurus. Alcuni ritengono che, in epoca sumerica, essi rappresentassero Gilgameš alle prese con Gudanna. Simulazione con il programma Stellarium.

Si è ipotizzato, ad esempio, che l'apparizione di Ištâr sulle mura di Uruk abbia la sua rappresentazione celeste nella costellazione di AB.SÍN (il «solco» → Virgo); che LÚ.ḪU.GÁ (l'«operaio» → Aries) raffiguri Enkidu; che i due picchi del monte Māšu siano catasterizzati in ZI.BA.AN.NA (→ Libra) o in MAŠ.TAB.BA.GAL.GAL (i «grandi gemelli» → Gemini). Quest'ultima lettura, basata sul fatto che māšu in accadico vuol dire «gemello», non tiene conto che i «grandi gemelli» rappresentavano gli dèi Maslamteaea e Lugalgirra. Secondo altri, invece, la costellazione dei «grandi gemelli» avrebbe raffigurato Gilgameš ed Enkidu. Suggestiva l'idea secondo la quale il gruppo formato da SIPA.ZI.AN.NA (→ Orion) e GU.AN.NA (→ Taurus) avrebbe rappresentato, in epoca sumerica, Gilgameš alle prese con il toro celeste Gudanna. Alcune di queste ipotesi sembrano avere qualche grado di verosimiglianza. Esistono studi – che non citeremo – dove ogni singolo segno dello zodiaco trova puntuale riferimento nello Ša naqba īmuru.

Detto questo, ci sono pochi dubbi che GU.AN.NA, il «toro del cielo», rappresenti Gudanna, il toro celeste ucciso da Gilgameš ed Enkidu nella tavola VI dello Ša naqba īmuru e nel poema Šul meka šul meka. Maggiore incertezza sussiste sul fatto che UR.GU.LA, il «leone», abbia qualche riferimento alla scena in cui Gilgameš attacca e disperde dei leoni, nella tavola IX dello Ša naqba īmuru. Se l'episodio sembra poco significativo nell'economia del poema ninivita dipende probabilmente dalle numerose lacunae, che ci impediscono una corretta comprensione del testo, ma il fatto che l'episodio sia presente anche nella versione ḫittita è forse indicativo di una sua originaria importanza. Molto più fragile, a nostro avviso, l'identificazione di GÍR.TAB, lo «scorpione», con gli aqrab-amēlû incontrati da Gilgameš sempre nella tavola IX. Una possibile indicazione a favore della natura astronomica di questi esseri potrebbe essere inferita dal fatto che essi erano attestati anche tra le schiere mostruose di Tiāmat nell'Enūma Elîš.

Il «quadrato» di Pegasus

Rielaborazione di una carta stellare babilonese (invertita specularmente) e una moderna

Interessante il complesso degli asterismi che gravitano intorno a GU.LA (→ Aquarius), di solito identificato con il dio Enki/Ea. L'identificazione è avvalorata dalla vicinanza con SUḪUR.MAŠ (→ Capricornus): il suḫurmaššu o «capro-pesce» era infatti un animale mitologico tradizionalmente associato a Enki/Ea. Negli esercizi di comparazione tra lo zodiaco e lo Ša naqba īmuru, si è ipotizzato che GU.LA possa rappresentare il racconto del diluvio nella tavola XI dell'epopea ninivita: è infatti Enki/Ea ad avvertire Ūtnapištî dell'incombere del cataclisma. In tal caso, la costellazione KUN.MEŠ (le «code» → Pisces), nella sua curiosa rappresentazione medio-orientale di un pesce e di una rondine, potrebbe rappresentare tanto l'erompere delle acque diluviali, tanto l'episodio in cui Ūtnapištî fa uscire dall'arca tre uccelli, una colomba, un corvo e una rondine, per vedere se finiscano col trovare un lembo di terra su cui posarsi.

La vicina costellazione 1.IKU (il «campo»), ovvero il «quadrato» di Pegasus, (α, β, γ Pegasi e α Andromedae), potrebbe rappresentare la stessa arca di Ūtnapištî, che in Ša naqba īmuru [XI: ] viene detta essere un cubo dalla base ampia un ikū (misura di superficie di 3600 o 8100 m², a seconda se si intenda composta da cubiti lunghi o corti). E qui non si può fare a meno di notare l'interessante presenza, vicino a 1.IKU, del piccolo asterismo TIR.AN.NA (Har-ri-ru, l'«arcobaleno» → 18, 31 e 32 Andromedae?), con i suoi ovvi collegamenti al racconto biblico del diluvio.

Se tutto ciò ha un senso – e ne dubitiamo noi per primi – possiamo avanzare l'ipotesi di un percorso di Gilgameš attraverso quattro asterismi: Taurus, Leo, Scorpio, Aquarius. Poiché abbiamo barato, eliminando altre possibili identificazione e accettando il fragile Scorpio, non è certo un caso che queste quattro costellazioni si trovino, lungo l'eclittica, a 90° l'una dall'altra. Se ci spostiamo al tardo neolitico, intorno al 6000 a.C., che è anche il periodo a ridosso delle prime urbanizzazioni del Medio Oriente, queste costellazioni segnavano i punti solstiziali ed equinoziali, e grosso modo la situazione non cambia molto fino al 3000 a.C.:

  • GU.AN.NA (→ Taurus), equinozio di primavera;
  • UR.GU.LA (→ Leo), solstizio d'estate;
  • GÍR.TAB (→ Scorpio), equinozio d'autunno;
  • GU.LA (→ Aquarius), solstizio d'inverno.

Le 71 tra stelle e pianeti elencati nel APIN erano ordinati nei quattro segmenti in cui veniva suddivisa la sfera celeste. Il segmento superiore riguardava le stelle circumpolari boreali; gli altri tre erano chiamati «sentieri» ed erano compresi, approssimativamente, tra il 40° grado nord e il 40° grado sud: il «sentiero di Enlil» comprendeva il Tropico del Cancro (17° N), il «sentiero di Anu» l'equatore celeste, il «sentiero di Ea» il tropico del Capricorno (17° S). L'eclittica, inclinata di 23°27' rispetto all'equatore celeste, attraversa tutti e tre i «sentieri». Ciò vuol dire che il sole, nel suo moto apparente attraverso i segni zodiacali, traccia un percorso che lo porta a scendere e salire attraverso i «sentieri». (Si tenga comunque conto che la ripartizione di stelle e asterismi tra i tre «sentieri» effettuata dal APIN, potrebbe non essere valida per epoche precedenti il Secondo millennio a.C., a causa del fenomeno della precessione degli equinozi.)

Cosmografia babilonese

Sezione della sfera celeste lungo l'asse nord-sud, calcolata alla latitudine di Uruk (circa 31° N). I tre «sentieri», che dividono in tre fasce le stelle circum-equatoriali, occupano un'ampiezza di circa 40° dall'una e dall'altra parte dell'equatore celeste. L'intersezione del Tropico del Cancro, dell'equatore celeste e del Tropico del Capricorno con la linea dell'orizzonte mostra i punti il sole sorge rispettivamente nel solstizio d'estate, negli equinozi di primavera e d'autunno, e nel solstizio d'inverno. Le linee in blu dei due tropici e dell'equatore celeste rappresentano il percorso diurno del sole nelle rispettive date solstiziali ed equinoziali. L'eclittica, in viola, rappresenta invece il percorso del sole attraverso lo zodiaco nel corso dell'anno. Si noti che, mentre le stelle del cielo circumpolare boreale (in bianco) sono ben conosciute, quelle australi erano quasi del tutto ignote in epoca antica: la parte inferiore della sfera celeste (in grigio scuro), rappresenta forse l'abzu/Apsū, l'abisso acqueo dimora di Enki/Ea.

Il mare/oceano che Gilgameš e Hērakls si trovano davanti, e che solo il dio-sole può attraversare, rappresenta forse il percorso zodiacale del sole. Quando i due eroi s'imbarcano per attraversarlo, l'uno sul traghetto di Uršanabi e l'altro sulla coppa d'oro di Hḗlios, stanno per lasciare il piano dell'orizzonte terrestre per entrare in quello segnato dall'eclittica. I punti di passaggio dalla terra al cielo, contrassegnati dalle nostre portae mundi, potrebbero essere i segni zodiacali che si affacciano sul filo dell'orizzonte nel momento della loro levata eliaca. Alla data del 4000 a.C., Taurus e Scorpio/Libra sono i «guardiani» delle porte equinoziali, le cui costellazioni si affacciano a oriente, all'alba dell'equinozio di primavera o di autunno: ed è necessario affrontarli, o contrattare con essi, se si vuole varcare le portae, prendere il «treno zodiacale» e passare dall'oikouméne al kósmos. Tali considerazioni potrebbero spiegare la lotta di Gilgameš e Hērakls con il toro, oppure l'incontro di Gilgameš con gli aqrab-amēlû dinanzi allo šadû Māšu.

La formula, però, è insoddisfacente: l'eclittica interseca l'orizzonte a est solo nell'equinozio di primavera e in quello di autunno. Negli altri giorni dell'anno l'intersezione si sposta verso il Tropico del Cancro (in estate) o verso il Tropico del Capricorno (in inverno). Alla data del 4000 a.C., il sole si trova in Leo nel solstizio d'estate e in Aquarius nel solstizio d'inverno. Il fatto che sia Gilgameš sia Hērakls affrontino tanto il toro tanto il leone, suggerirebbe un percorso che è, in qualche modo, già zodiacale. Inoltre non c'è alcuna ragione perché il passaggio dall'oikouméne al kósmos avvenga solo nei solstizi o negli equinozi: in ogni giorno dell'anno c'è sempre un segno zodiacale che si leva all'alba insieme al sole

Ma possiamo sforzarci di essere un po' più rigorosi. Come si evince anche dal nostro schema, il percorso annuale del sole lungo l'eclittica, tra il Tropico del Cancro e il Tropico del Capricorno, lo porta a percorrere tutti e tre i «sentieri», salendo al di sopra dell'equatore celeste nel semestre tra l'equinozio di primavera e quello d'autunno e scendendo sotto l'equatore celeste nel semestre tra l'equinozio d'autunno e quello di primavera). Se equipariamo l'equatore celeste alla superficie di un «oceano cosmico» – proiezione e continuazione sulla sfera celeste dell'oceano che circonda del mondo –, questo movimento del sole può essere visto come un'immersione invernale dell'astro nelle profondità abissali, seguito da un'emersione estiva. È interessante notare che la maggior parte delle costellazioni «acquatiche» (Pisces, Aquarius, Hydra, Argo, Eridanus, Cetus...) si trovavano, prima del Secondo millennio a.C., e la maggior parte si trova ancora, sul lato meridionale dell'equatore celeste.

L'equatore celeste interseca l'eclittica in due punti, i quali variano nel corso della precessione degli equinozi. Tali punti potrebbero fornirci un possibile criterio di datazione del mito che stiamo trattando in queste pagine. Sfortunatamente non possiamo far altro che ruotare il cielo fino a trovare una data ad hoc al fine di sostenere il nostro modello. Il procedimento è di scarso valore scientifico: lo proponiamo soltanto come esperimento e scegliamo – arbitrariamente – la data del 3000 a.C. Sul finire del Quarto millennio, infatti, l'equatore celeste e l'eclittica si intersecano in Taurus e Scorpio, in concomitanza con le porte equinoziali.

Intersezione tra equatore celeste ed eclittica

La data prescelta è il 3000 a.C. Equatore celeste (il cerchio azzurro) ed eclittica (il cerchio rosso) si intersecano in Scorpio e Taurus, che in questa data segnano, grosso modo, anche la posizione del sole nell'equinozio d'autunno e di primavera. Il solstizio d'estate è in Leo e quello d'inverno in Aquarius. Il polo celeste, in questa data, è in Draco. Si noti che l'equatore celeste passa attraverso le costellazioni di Hydra e di Aquila.

E qui non dobbiamo dimenticare il «viaggio verticale» compiuto da Gilgameš nel fondo dell'Apsū alla ricerca della šammu nikitti, la «pianta dell'irrequietezza». Questo tratto del viaggio potrebbe essere messo in correlazione con l'asterismo GU.LA (il «grande» → Aquarius). Identificato con il dio Enki/Ea, GU.LA segnava, nell'epoca indicata, il solstizio d'inverno, rappresentando il punto più basso del percorso del sole al di sotto dell'equatore celeste. Nel nostro schema [vedi]✦ è il punto dove l'eclittica tocca il Tropico del Capricorno, nel lato inferiore del «sentiero di Ea». A sud di esso vi sono solo le ignote stelle dell'emisfero australe: l'Apsū. GU.LA sembra dunque essere un passaggio obbligato per giungere nell'abisso di acqua dolce che si stende nel lato inferiore del kósmos. Sembrerebbe di capire – se sia valido un ragionamento metanarrativo – che il racconto del diluvio fatto da Ūtnapištî a Gilgameš, rappresentando l'arrivo in GU.LA, sia propedeutico alla discesa dell'eroe nell'Apsū.

Raffigurazione astronomica (± 1100 a.C.)

Raffigurazione astronomica da un kudurru babilonese. È riconoscibile mul dMUS, il «serpente», attorniato dai simboli astrali di Šamaš, Sīn, Ištâr, Anu, Enlil ed Ea, da GÍR.TAB (→ Scorpio) e dal mušḫuššu (il drago di Marduk).(Pettinato 1998)

 
Raffigurazione astronomica

Raffigurazione astronomica da una pietra cilindrica proveniente da Susa. Al centro è  MUS, il «serpente», circondato dai simboli di Šamaš, Sīn, Ištâr, Anu, Enlil, Ea, Ninḫursaĝ e Marduk. Si riconoscono il mušḫuššu e il suḫurmaššu o «capro-pesce», animali mitologici legati a Marduk ed a Ea. (Pettinato 1998)

D'altra parte, come abbiamo visto, il «viaggio verticale» sembra legato a due teriomorfi non presenti dello zodiaco tradizionale: l'aquila e il serpente. Nella mitologia della Mesopotamia, l'aquila trasporta Etana verso il cielo, mentre il serpente ruba la šammu nikitti a Gilgameš al suo ritorno dall'Apsū. Se il nostro ragionamento ha senso, dovremmo aspettarci di trovare degli asterismi che ricordano un'aquila e un serpente ai due estremi dell'asse terrestre. Così non è. La costellazione TI₈ (l'«aquila» → Aquila) si trovava in realtà lungo l'equatore celeste, nel «sentiero di Anu». Alla latitudine della Mesopotamia, la si poteva vedere, in certe stagioni, alzarsi dall'orizzonte e arrivare fin quasi allo zenith, suggerendo forse il volo del maestoso rapace. Ma detto questo, TI₈ è inadatta a rappresentare un punto «polare» boreale.

L'altro teriomorfo possiamo probabilmente identificarlo nella costellazione  MUS (il «serpente» → Hydra). Di frequente rappresentato ai piedi di UR.GU.LA (→ Leo),  MUS era anch'essa una costellazione del «sentiero di Anu», posta sull'equatore celeste. Se questo rappresenta in cielo la superficie dell'oceano cosmico, nel 3000 a.C.  MUS sembrava «nuotare» sulla superficie dell'acqua, il che spiega anche il nome classico della costellazione, Hydra, il «serpente acquatico». L'ampiezza di questo asterismo è sorprendente: oggi occupa 100° in larghezza, quasi un terzo della circonferenza del cielo, e in epoca mesopotamica, a giudicare dall'iconografia, non era meno ampia.  MUS è una delle costellazioni più frequentemente rappresentate nei kudurru e nell'iconografia. Molto spesso il serpente è raffigurato in lunghezza, secondo la naturale immagine dell'asterismo, e a volte è sovrastato dall'immagine di UR.GU.LA, il «leone», che gli «cammina» sul dorso. La cosa curiosa, è che in altri casi  MUS, posto in posizione centrale, viene raffigurato attorcigliato a spirale: il suo significato perimetrico non è incompatibile con una sua percezione quale elemento polare.

Non paghi di aver scoperto le origini astronomiche di ʿpop, Vṛtra e Jǫrmungandr, tutte immagini di serpenti cosmici che trattengono le acque oceaniche intorno all'orizzonte, dobbiamo però notare che, diversi gradi a sud di  MUS, si trova Canopo (α Carinae), la seconda stella più luminosa del cielo dopo Sirio. Trovandosi tanto a sud, Canopo non può essere mai osservata dalle latitudini più settentrionali di 37° nord: questo ne faceva, nell'antichità, la stella meridionale per eccellenza. In Mesopotamia faceva parte di un asterismo chiamato NUN, «Eridu». Non è un caso che la città più meridionale della terra di Sumer, situata alla confluenza dei fiumi Tigri ed Eufrate nel golfo Persico, e naturalmente sacra al dio Enki/Ea, avesse lo stesso nome della costellazione più meridionale del cielo, posta sul «sentiero di Ea». Se dunque il percorso di Gilgameš tra le costellazioni ha un senso, è a NUN/Canopo che dovremo trovare il Pû Nārāti, la «confluenza dei fiumi». Ed è solo da qui che l'eroe può essersi tuffato nell'Apsū, tra le invisibili stelle circumpolari australi, per cogliere la šammu nikitti. Può darsi che sia stato appunto sulla strada del ritorno, verso l'equatore celeste, che  MUS gli abbia divorato la pianta.

Hydra e Canopo

L'immagine rappresenta Hydra, il «serpente d'acqua» posto sull'equatore celeste, sotto il quale si trova Canopo (α Carinae), la stella più meridionale conosciuta agli antichi. Sebbene l'astronomia greca assegni Canopo al complesso asterismo della nave Árgos (oggi divisa in tre costellazioni distinte: Vela, Puppis e Carina), in Mesopotamia questa stella era associata ad Eridu, la città sacra al dio Enki/Ea, posta alla confluenza dei fiumi Tigri ed Eufrate nel golfo Persico. Un'altra via «fluviale» verso le stelle dell'emisfero sud è visibile sulla destra: la costellazione dell'Eridanus si stacca dal piede di Orion per calare verso il polo meridionale.

Nel 3000 a.C. l'equatore celeste passava attraverso quattro costellazioni:

  • GU.AN.NA (→ Taurus)
  •  MUS (→ Hydra)
  • GÍR.TAB (→ Scorpio)
  • TI₈ (→ Aquila)

Questa composizione di quattro costellazioni è piuttosto interessante, innanzitutto perché ci pone ancora una volta di fronte al binomio di Aquila e Hydra, cioè aquila e serpente [equatore celeste]✦. I due animali che il mito greco situa a oriente e a occidente, rispettivamente presso Promētheús e presso Átlas, sembrano legati all'equatore celeste. Se l'idea originaria è che i due titánes, identificati con le rispettive montagne (l'óros Kaukásios e l'óros Átlas), sostenessero in qualche modo la volta celeste, il punto ideale per reggere la grande macchina del cielo non è l'eclittica, col suo moto obliquo, ma appunto l'equatore celeste.

Ma allora che dire del viaggio di Hērakls verso il giardino delle Hesperídes? Il kpos, secondo Apollódōros, si trovava a settentrione, dove Átlas sorreggeva il cielo. L'axis mundi è rappresentato nel nostro schema [vedi]✦ dalla linea viola che, dal polo celeste, cade perpendicolarmente al suolo, e si può notare come tale linea segni, in pratica, l'estremo nord del disco terrestre. È quello il perno del cielo, il punto ideale dove collocare tanto lo šadû Māšu quanto Átlas (e forse anche Himinbjǫrg). Se è da questo punto che il cingulus mundi si estende verso est e verso ovest, viene a sparire la contraddizione che identifica la montagna centrale e quella perimetrale.

Tuttavia rimane il sospetto che, in una versione antica del mito, anche il viaggio di Hērakls sia stato verticale, diretto cioè verso l'abisso inferiore. Come abbiamo già notato, il percorso che l'eroe effettua sul fiume Ōkeanós, a bordo dell'aurea coppa di Hḗlios, si muoverebbe, secondo Apollódōros, in senso antiorario, cioè in direzione opposta alla normale rotta del sole. Imbarcatosi sul lato orientale del mondo, Hērakls avrebbe dovuto spostarsi verso sud, non verso nord. Se la nostra ricostruzione è valida, Ládōn, il drákōn hespérios, non può essere la costellazione di Draco, nel cielo boreale, ma Hydra, il guardiano dell'equatore celeste. A questo punto potrebbe essere ragionevole sostenere che il mito della lotta di Hērakls contro l'hýdra di Lérnē sia un rimasuglio dello scontro dell'eroe contro il drákōn hespérios, qui visto nella sua antica immagine indoeuropea di serpente cosmico che trattiene le acque oceaniche, in parte identificandosi con esse. Lo «spostamento» delle catasterizzazioni da Hydra a Draco, con tutta la rilettura degli asterismi circostanti, potrebbe essere avvenuta in un'epoca posteriore: l'identificazione di Hērakls con la costellazione conosciuta oggi come Hercules è infatti tarda e oggetto di ampi dissensi da parte degli stessi astronomi greci (Santoni 2009). ①▼

L'episodio dove Hērakls giunge al fiume Ēridanós per farsi rivelare da Nēreús la strada da seguire per arrivare al Kpos Hesperídōn, potrebbe essersi svolto anch'essa tra le stelle: la costellazione che oggi porta il nome di Eridanus (secondo la lettura di Áratos; Erathosténēs proponeva di identificarla infatti con il Nilo) si stacca dal piede di Orion e scende verso l'emisfero sud. La sua ultima e più luminosa stella, α Eridani, ovvero Achernar (dall'arabo āḫir an-nahr, la «fine del fiume») è a pochi gradi di distanza da Canopo. Non ci stupiremmo se il Kpos Hesperídōn sia da quelle parti.

Al lettore non sarà neppure sfuggito che abbiamo forse trovato una spiegazione dei nostri teriomorfi. Toro, leone, scorpione e acquario contrassegnano l'eclittica; aquila e serpente l'equatore celeste. Leone e serpente potrebbero forse essere considerati intercambiabili, vista la loro stretta associazione ②▼. Se il nostro ragionamento è valido, potremmo aver trovato uno schema comune che si può applicare ai kǝrûḇîm e ai sigilli antico-babilonesi, che offre una possibile spiegazione al mito di Promētheús e di Átlas, e anche di alcuni episodi dell'epopea di Gilgameš, delle fatiche di Hērakls e di un paio di imprese di Þórr.

Le analogie astronomiche qui proposte, e lo ammettiamo noi per primi, non sono molto rigorose e, dove lo sembrano, è solo perché abbiamo applicato un effetto selezione scegliendo ad hoc le epoche precessionali e le costellazioni più indicate ai nostri scopi. Un metodo scientificamente poco valido. L'ipotesi, o per meglio dire la «sensazione», che vi sia un'ideologia astronomica dietro il mito di Gilgameš ed Hērakls alla ricerca della vita, è probabilmente corretta, ma in tal caso affonda in un'antichità talmente remota che difficilmente possiamo trovare corrispondenze puntuali e precise con gli asterismi a noi noti. Le più antiche costellazioni a cui possiamo giungere sono quelle di epoca ellenica e babilonese: difficilmente possiamo risalire in epoche anteriori al 1200 a.C., sebbene sia probabile che alcuni asterismi possano essere incredibilmente più antichi. Ma quanto? Difficile dirlo: vi sono costellazioni che sembrano diffuse presso civiltà molto lontane tra loro. Il dinomio aquila ~ serpente caratterizza il concetto di albero cosmico tanto nel mito sumerico (l'albero ḫuluppu difeso da Gilgameš nel poema Ud rea ud sudra rea), quanto in Īrān, in Siberia, in Scandinavia (il frassino cosmico Yggdrasill, con il serpente Níðhǫggr che ne rode le radici e un'aquila senza nome appollaiata tra i rami), e addirittura in America Centrale (gli Aztechi, nel corso della loro migrazione, seppero di essere arrivati al centro del mondo quando videro un un'aquila che si era posata su un cactus con un serpente tra gli artigli: lì fu fondata Tenōchtitlan). Se l'esito americano non è una fortunata coincidenza, possiamo star certi di trovarci di fronte ad asterismi, o almeno a simbolismi, che affondano le loro radici nella preistoria dell'uomo. ③▼

Studi più dettagliati hanno avanzato proposte assai più complesse e complete della nostra, e rimandiamo all'affascinante Hamlet's Mill di Giorgio De Santillana ed Hertha Von Dechend: un lavoro epocale, che non ha mai smesso di stimolare l'immaginazione di tutti gli appassionati di mitologia quanto di astronomia (De Santillana ~ Von Dechend 1969).

La cosa migliore, per quanto ci riguarda, è sospendere il giudizio. Abbiamo raggiunto i nostri limiti di competenza. Nei capitoli successivi, analizzeremo altri esiti del mito della ricerca dell'immortalità, pescati dalla Cina all'Irlanda, per cercare di capire, nebulosamente, quanto indietro nel tempo sia necessario spingerci per trovare i bandoli di questa millenaria matassa.

②▲ Si potrebbe anche proporre uno scambio tra scorpione e serpente basandosi sull'interessante costellazione di Ophiuchus, il «serpentario». Sebbene non sia contemplata tra i segni dello zodiaco, questo asterismo – la cui immagine tradizionale è un uomo alle prese con un serpente – si trova lungo l'eclittica, accanto a Scorpio. Il mito alla base di questa costellazione, a cui Erathosténēs accenna soltanto (Katasterismoí [6]), è sviluppato da Hyginus: mentre cerca di riportare in vita Glaûkos, figlio di Mínōs, affogato in un otre pieno di miele, Asklēpiós vede un serpente resuscitarne un altro con una speciale erba, e usa quella stessa erba per resuscitare Glaûkos (De Astronomia [II: 14, ]). Così il serpente diviene simbolo di Asklēpiós e viene catasterizzato in cielo insieme a lui. È indubbio che tale mito sia immerso nel campo che stiamo indagando, ed è forte la tentazione di vedere nel serpente di Ophiuchus il rettile che divora l'erba di Gilgameš e questa costellazione una delle tappe zodiacali del percorso dell'eroe. Tuttavia, non sembra che un simile asterismo fosse attestato in Mesopotamia. Nell'area di Ophiuchus compaiono costellazioni piuttosto diverse, quali ZA-BA₄-BA₄ («Zababa», dio di Kiš) e DINGIR.TUS.A («l'uomo seduto»).
 
①▲ La bella costellazione oggi dedicata a Hercules è stata oggetto, presso gli autori classici, di tante identificazioni diverse: Thēseús, Thámyris, Orpheús, Ixíōn, Promētheús, Átlas, Tántalos (Santoni 2009). Áratos definisce la costellazione Toû en gónasin, «l'inginocchiato»: si limita a riconoscere la figura di un uomo accasciato, in preda a uno sforzo, con le braccia alzate e un piede sulla costelazione di Ópheōs (→ Draco) e afferma che nessuno sa dire con certezza chi sia questo personaggio (Phainómena [63-66]). È Erathosténēs a identificare questa costellazione con Hērakls (Katasterismoí [4]), suscitando tuttavia i dubbi di Hyginus (De Astronomia [II: 6]), il quale ci ricorda che Aiskhylos, nel perduto Promētheùs Lyómenos, sosteneva che si trattasse di Hērakls nell'atto di combattere contro i Lígues (phr. Radt [199]). L'identificazione della costellazione con Hērakls in lotta contro il drákōn hespérios, attorcigliato attorno all'albero dai frutti d'oro, si trova solo nei tardi manoscritti dei Phainómena di Áratos.
 
③▲ Una possibilità molto interessante consiste nel considerare la stessa Via Lattea come il fiume dell'acqua della vita. Nel mito greco, la traccia della Galaxías, come sappiamo, si era formata grazie al latte di Hḗra che era schizzato tra le stelle: e pare che Hērakls fosse divenuto immortale quando venne allattato dalla dea. Se questa interpretazione ha un senso, la sorgente della māʾ al-ḥayāt, l'«acqua della vita», che al-Iskandar cerca di raggiungere, potrebbe trovarsi agli incroci della Via Lattea con l'eclittica e/o l'equatore celeste: da un lato troviamo Gemini, Orion e Taurus; all'altro capo troviamo Scorpio (Ophiuchus) e, a poca distanza, Aquila. Al riguardo, il lettore curioso troverà molti studi interessanti e affascinanti.
IN CINA ALLA RICERCA DELL'IMMORTALITÀ

I motivi che abbiamo or ora descritto, il mito di un luogo posto sito ai confini del kósmos, dove sia custodito il segreto dell'immortalità, il viaggio di un eroe fino a quel luogo misterioso dove confluiscono tutte le acque, alla ricerca della vita eterna, sembrano motivi di un mito antichissimo che sembra essersi irradiato, da qualche antichità portentosa, affiorando in Mesopotamia, quindi in Grecia. E da qui, attraverso il mondo antico, riaffiorando nei racconto islāmici su al-Iskandar/Eskandar.

Che questo mito abbia avuto la sua prima formulazione in Mesopotamia, è una teoria limitata dal nostro non poter risalire ancora più indietro. Quasi nulla è pervenuto a noi del tempo in cui la scrittura non permetteva di tramandare il pensiero. Eppure nelle migliaia di anni che precedettero i Sumeri e gli Egiziani, vi furono popoli che raccontarono i loro sogni, che innalzarono mondi concettuali e trasmisero la loro tradizione alle generazioni successive. Il fatto di ritrovare un esito del medesimo mito in Cina, ovviamente espresso in maniera peculiare allo spirito e al genio dell'oriente, non ci autorizza a pensare che tali miti giunsero fin laggiù dalla dalla Mesopotamia, forse per il tramite dell'India proto-dravidica, perché forse le origini di questi pensieri, di questi concetti, vanno probabilmente cercati in popolazioni ancora più antiche, in quelle migrazioni preistoriche da oriente a occidente che solo oggi genetisti e antropologi cominciano nebulosamente a definire.

Nulla di cui stupirsi, dunque, se anche la Cina venne percorsa dalla febbre dell'immortalità. Il taoismo, il movimento filosofico-religioso di cui Lǎozǐ fu il tradizionale iniziatore, cercò per secoli una formula per l'immortalità attraverso la ricerca dell'armonia primordiale tra uomo e cosmo. L'indecifrabile parola dào, attorno a cui roteava questo sistema di simboli, era la «via» del raggiungimento di tale armonia, che in termini mitici potrebbe essere configurata come un ritorno allo stadio iniziale di edenica perfezione. Xiān era il nome generico indicante quei saggi taoisti che erano riusciti a raggiungere l'immortalità tramite il continuo perfezionamento e la ricerca di un'armonia tra yīn e yáng, ma anche, col lento trasformarsi del taoismo, tramite pratiche ascetiche, magiche, alchimistiche. Gli xiān rientravano, insieme a spiriti, geni e dèi (tutti raccolti nella vaga espressione shén), tra le numerosissime divinità che il pántheon taoista accoglieva dalle tradizioni più disparate. Erano considerati liberi dalle molteplici costrizioni del nostro mondo: i loro corpi si libravano nello spazio, viaggiavano su draghi e gru, volavano con ali o su nuvole portatili.


Le montagne dei xiān

Pénglái shān

 Yuán Jiāng (attivo tra il 1680 e il 1730), dipinto.
Gùgōng Bówùyùan, Běijīng (Cina)

Degli xiān si diceva – e non ci stupisce – vivessero su alcune remote isole, o shān, «montagne», nel Dōnghǎi, il mare orientale. Queste isole/montagne erano l'ultima propaggine del kósmos: oltre di esse si spalancava il Dáhè, «grande varco» (Shānhǎi Jīng [VIX: 1]), anche detto Guīxū, «abisso senza ritorno» (Lièzǐ [V: 3-4]), una versione estremo-orientale dell'Apsū, definita come il luogo dove tutte le acque terrestri confluivano nella Via Lattea. Queste isole/montagne si chiamavano Dàiyǘ, Yüánjiào, Fānghú, Yíngzhōu e Pénglái shān, ed erano abitate da una razza di saggi immortali, troppi numerosi per essere contati. Essi vivevano laggiù in palazzi d'oro sostenuti da colonne di giada, e avevano a disposizione elixires vitae che impedivano la morte, e alberi dai frutti di giada o di perla che conferivano l'immortalità a chiunque li assaggiasse. «Laggiù vivono shénrén [«semidèi»] dalle carni fresche come il ghiaccio e la pelle bianca come la neve. Hanno l'eleganza squisita delle vergini. Non consumano cereali, ma respirano vento e bevono rugiada. Si fanno trasportare dall'aria e dalle nubi, trascinare da lóng [«draghi»] volanti, e volano al di là dei quattro mari...» (Zhuāngzǐ [I]). Così li descrive, ammirato e invidioso, il filosofo taoista Zhuāng Zhōu (369-286 a.C.), e rincara, echeggiando il Bhagavadgītā, «Un diluvio che si alzasse fino ai cieli non li annegherebbe, né li brucerebbe una siccità che liquefacesse metalli e pietre, e arrostisse pianure e montagne» (Zhuāngzǐ [I]). (Granet 1934)

Le cinque isole/montagne, tuttavia, non si trovavano mai nello stesso posto: non essendo fissate al fondo del mare, se ne andavano alla deriva nel Dōnghǎi, trascinate dalle maree e sospinte dalle correnti. Si dice che, stanchi di quell'esistenza vagabonda, gli xiān si recarono dal dio supremo, il «dominatore dall'alto» Shàngdì, e gli chiesero di intervenire. Questi ordinò a uno shén di nome Yü Jiang di cercare quindici tartarughe giganti in modo che a turno sostenessero sulle loro teste le cinque montagne. Se non che, un jùrén, un gigante, pescando, lanciò la lenza lontano, oltre la curva dove il cielo incontra il mare, agganciò sei di queste tartarughe, e, dopo averle rovesciate, le trascinò a riva con l'idea di farsi una scorpacciata. Così le isole Dàiyǘ e Yüánjiào shān andarono distrutte. Quando gli xiān, sconvolti dal cataclisma, si rivolsero a Shàngdì, questi rimpicciolì tutti i jùrén perché non combinassero più disastri; in quanto alle isole superstiti, Pénglái, Fānghú e Yíngzhōu shān, esse rimasero da quel giorno sempre fissate al loro posto sul dorso delle tartarughe. (Lièzǐ)

Giungere nelle isole/montagne degli xiān non era facile, e non solo a causa della loro distanza nel grande oceano, ma anche perché venti contrari spingevano lontano le navi degli uomini. Ciò nonostante, le cronache cinesi registrano molte spedizioni organizzate da vari sovrani e imperatori nel tentativo di raggiungere queste terre, allo scopo di ottenere l'elixir vitae, in tal modo perpetuando, a migliaia di anni e di chilometri di distanza, l'archetipo di Gilgameš. Il grande storico Sīmǎ Qiān (145/135-86 a.C.) riferisce: «Ai tempi di Qí Wēi wáng (♔ 356-320 a.C.), Qí Xuān wáng (♔ 319-301 a.C.) e Yān Zhào wáng (♔ 311-279 a.C.), furono inviate spedizioni alle tre divine isole di Pénglái, Fānghú e Yíngzhōu. Si diceva si trovassero nel golfo di Bóhǎi, non molto lontano oltre i limiti abitati dall'uomo. Sfortunatamente nessuno riuscì ad arrivarci: si alzarono venti contrari e spinsero indietro le navi» (Shǐjì). Tali difficoltà non scoraggiarono di certo Qín Shǐ huángdì (♔ 220-210 a.C.), il megalomane autocrate unificatore del Zhōngguó, il quale, dopo essere divenuto signore di tutto lo spazio, ambiva – in una sorta di hýbris iskandariana – a divenire anche padrone del tempo. Ossessionato dal desiderio di raggiungere l'immortalità, nel 219 a.C. il huángdì mandò il suo cortigiano Xú Fú a Pénglái shān, insieme a tremila fanciulli, maschi e femmine, per farsi consegnare l'elixir vitae dal mitico xiān Ānqī Shēng. Xú Fú navigò per anni nel Dōnghǎi e, al suo ritorno, raccontò a Qín Shǐ huángdì che un enorme mostro marino gli aveva bloccato la via per la montagna dei beati. Il huángdì gli affidò un gruppo di arcieri per abbattere il mostro. Xú Fú partì di nuovo con la sua flotta e non fece più ritorno (Shǐjì). Secondo Sīmǎ Qiān, Xú Fú sarebbe sbarcato in una terra tranquilla e fertile, di «basse pianure e ampie paludi», dove si sarebbe stabilito come sovrano, e successivi storici questionano se non fosse arrivato in Giappone, scambiando il Fujiyama per il leggendario monte Pénglái.


Il Kūnlún shān e il paradiso d'occidente

Ma i miti sinici conoscevano un altro giardino d'immortalità, il quale veniva posto sull'inaccessibile vetta del Kūnlún, in quello che nella geografia tradizionale cinese – che ha il suo canone nello Shānhǎi Jīng, il «Classico dei monti e dei mari» (IV-II sec. a.C.) – era l'estremo lembo occidentale della terra. Sebbene vagamente identificabile con l'omonima catena del Turkestān cinese, il Kūnlún shān della cosmografia cinese, presenta tratti che ci permettono di ricondurlo al mitema, a noi ben conosciuto, dell'axis mundi. L'erudito Guō Pú (276-324), nel suo commentario allo Shānhǎi Jīng, afferma che il Kūnlún si trovasse a ridosso del polo occidentale e lo definisce l'asse centrale tra la terra e il cielo. Anche Sīmǎ Qiān ne dà una descrizione che non lascia adito a dubbi: «Il Kūnlún è alto più di 2500 ed è il luogo in cui il sole e la luna, in modo alternato, si occultano e risplendono» (Shǐjì). Il mitografo taoista Wáng Jiā († 390) aggiunge: «Il Kūnlún è nel territorio di Kūnlíng e svetta al di sopra del sole e della luna. Ha nove ripiani, ognuno dei quali dista 10.000 dal precedente» (Shíyíjì). Se i nove ripiani [jiǔcéng] rappresentano i nove cieli (i pianeti, il sole, la luna e le stelle fisse), siamo ancora una volta in un ambito cosmografico. Uno shén chiamato Lù Wú, con corpo di tigre, volto umano e nove code, controlla le nove suddivisioni del Kūnlún e, da quel privilegiato osservatorio del corso degli astri, regola l'avvicendarsi delle stagioni (Shānhǎi Jīng [II: 17]).

Non hanno torto gli studiosi a confrontare il mitema del Kūnlún con l'immagine indiana del monte Meru: ma dobbiamo uscire dal tristo preconcetto che basti ricondurre un elemento alla tradizione indù (o greca) per risolverlo in via definitiva. Quale montagna centrale che funge da perno per la rotazione del cielo, il Kūnlún rassomiglia altrettanto allo šadû Māšu dell'epopea di Gilgameš, «che giornalmente guarda il s[sorgere del sole e il tramontare del sole]» (Ša naqba īmuru [IX: ]), ma è pure affine al Tērag-ī-Harborz, in quanto funge da axis mundi occultando e rivelando il sole e la luna. In quanto alla sua posizione geografica, il Kūnlún shān presenta la strana dicotomia interpretativa che avevamo trovato, in Grecia, per l'óros Átlas: una localizzazione definita in relazione al tramonto del sole, e quindi occidentale, ma anche assiale. In Grecia le due interpretazioni erano alternative; in Cina coesistono invece in un'unica raffigurazione. Con soluzione salomonica, lo Shānhǎi Jīng [XI: 2] colloca il Kūnlún shān a nordovest. In questa strana localizzazione vi è pure una ragione mitologica: il kósmos cinese, originariamente fissato agli otto angoli, era stato infatti danneggiato dal mostro Gònggōng, il quale, in un impeto di rabbia, si era scagliato contro il Bùzhōu shān, il pilastro che sorreggeva il cielo a nord-ovest, non lontano dallo stesso Kūnlún (Chǔcí > Tiānwèn). Quando il monte era crollato, il cielo si era inclinato verso nord-ovest, e la terra, piegatasi in direzione sud-est, aveva causato una catastrofica esondazione di tutte le acque continentali.

Lo Shānhǎi Jīng annovera il Kūnlún shān tra i paesi occidentali «all'interno del mare» [hǎinèi], cioè entro il disco della terra abitata, e fornisce molti dettagli pittoreschi su questa montagna e sui suoi abitanti. Il monte copre ottocento quadrati e ha un'altezza di diecimila rén. Ha otto lati e angoli, erti tra inaccessibili strapiombi, e sulle sue pendici abitano cento shén. Vi si accede da nove porte, sorvegliate da Kāimíng, un guardiano con l'aspetto di un'enorme tigre, con nove teste umane, sempre rivolte a est. Una serie di fiumi sgorga dagli angoli del monte, circondandolo con le loro correnti impenetrabili: il Chì, il , lo Yáng, lo Héi, il Qīng e il Ruò. Questi formano a sud del Kūnlún un gorgo profondo trecento rén. (Shānhǎi Jīng [XI: 4]). Sia lo Shānhǎi Jīng sia altri testi forniscono sfavillanti descrizioni della flora che cresce nei frutteti del Kūnlún shān, ma è una botanica di cui ormai siamo esperti:

  • il Zhū shù, albero che, come dice il nome, è carico di perle,
  • lo shù, il Wényǜ shù e lo Yěqí shù, i cui frutti sono fatti di vari tipi di giada [];
  • il shù, di giada azzurra;
  • il Bōgān shù, di cristallo di rocca (?);
  •  il Xuan shù, i cui pomi brillano di pietre semipreziose;
  • e il Bùsǐ shù, «l'albero del non morire».

Vi sono poi il chángshēngshù, l'«albero dell'immortalità» (o «della longevità», omofono indicato con diverso ideogramma), ma anche il misterioso shèngmù, traducibile con «albero della santità» o «della conoscenza» (Shānhǎi Jīng [XI: 4] | Lièzǐ [V: 4] | Huáinánzǐ [IV: 3] | Wénxuǎn Zhǔ [XV: 14]) (Fracasso 1996). Ciò che inaspettatamente ritroviamo, dunque, nelle estreme propaggini nord-occidentali della Cina, è il monte delle erbe di Yamlīḫā, la regina dei serpenti della fiaba di Bulūqiyā. Ma i modi per pervenire all'ambita condizione di xiān, nella tradizione cinese, si moltiplicano e si riflettono tra loro in un vertiginoso gioco di specchi:

  A ovest del [Kūnlún] crescono gli [alberi] Zhū shù, shù, Xuan shù e Bùsǐ shù. A est crescono lo Shātáng shù e il Bōgān shù. A sud vi è il Jiang shù. A nord vi sono il shù e lo Yáo shù [...]. Là scorre il [fiume] Dān , e se uno beve le sue acque diviene immortale. Se uno raggiunge il Liángfēng [«vento freddo»], il primo livello del Kūnlún, diviene immortale. Se uno arriva al Xuánpǔ [«giardino pensile»], il secondo livello del Kūnlún, diviene uno shén che controlla il vento e la pioggia. Se uno raggiunge il terzo livello, sulla cima del Kūnlún, ha raggiunto il cielo.
Liú Ān: Huáinánzǐ [IV: 3]

Pare che il Kūnlún shān fosse inizialmente considerato la residenza celeste di Huángdì, il «dominatore giallo». Si narra che Zhōu Mù wáng (♔ 976-922 a.C. o 956-918 a.C.), quinto re della dinastia Zhōu, arrivò sul Kūnlún per vedere il palazzo del mitico sovrano:

  Il giorno dopo [Mù wáng e il suo seguito] salirono sulla sommità del Kūnlún per vedere il palazzo di Huángdì e vi costruirono un tumulo per memoria delle future generazioni. Poi il re fu ospite di Xīwángmǔ, la «regina madre dell'occidente», che gli offrì un banchetto sulla riva dello Yǜ Hú, il «lago di giada». La regina cantò per lui e il re rispose al canto, ma le sue parole furono tristi, mentre il suo sguardo era rivolto a occidente, dove il sole tramonta dopo aver camminato ogni giorno per diecimila ...
Liè Yǔkòu: Lièzǐ

La presenza di Huángdì in questo luogo è altamente significativa: il «dominatore giallo» era il primo dei cinque , uno dei remoti sovrani predinastici ricordato dalle tradizioni cinesi. Importante eroe culturale e iniziatore di varie tecniche, condivideva con Ziudsura, Atraḫasîs e Ūtnapištî, e naturalmente con gli eroi ellenici trasferiti nelle Makáron Nḗsoi, la caratteristica di essere stato traslato dalla terra degli uomini e condotto in un luogo edenico, ai confini del mondo, per condurre un'esistenza immortale. Il fatto di trovare il palazzo di Huángdì sul monte Kūnlún ci informa che siamo sulla pista giusta.

Xīwángmǔ

Zhao Zōngfú (?-?), acquarello.

Tuttavia la tradizione vuole che il Kūnlún shān fosse la dimora della dea Xīwángmǔ, la «regina madre dell'occidente»: ed è proprio a lei che Zhōu Mù wáng si rivolge per avere l'immortalità nella rielaborazione romanzesca delle sue avventure, il Mù tiānzǐ zhuàn (IV sec. a.C.). Xīwángmǔ è una delle più antiche divinità cinesi: il nome xīmǔ, «madre d'occidente», è attestato sulle incisioni oracolari dell'epoca Shāng (1500-1000 a.C.); ma è solo in seguito alla diffusione del taoismo che la dea assume un'importanza sempre maggiore nel pántheon e nel folklore cinesi. Xīwángmǔ era raffigurata con l'aspetto di una stupenda signora con una corona di giada sul capo, ma poteva anche trasformarsi in una divinità terrifica, e allora nella sua bocca gentile si snudavano zanne di tigre e dal culetto le spuntava una lunga coda di leopardo. Era nel suo aspetto ferino che ella inviava malattie e pestilenze sull'umanità per punirla dei misfatti di cui si rendeva colpevole.

Xīwángmǔ aveva la sua dimora nel lato yīn (settentrionale) del Kūnlún shān, in un palazzo di giada dal perimetro di mille . Era nel giardino di questo palazzo che scorreva il fiume di cinabro, le cui acque liberavano dalla morte chiunque le bevesse, e crescevano i peschi dell'immortalità, i quali fiorivano solo una volta ogni mille anni. La dea era molto gelosa di quegli alberi e ne concedeva i frutti assai di rado. L'esistenza che Xīwángmǔ conduceva nel suo remoto paradiso era perfetta: una vita di piaceri e di delizie, nella più totale calma e serenità. Ella conosceva alla perfezione tutte le tecniche amatorie ed era circondata da una schiera di giovani amanti che, dopo ogni rapporto sessuale, si indebolivano e invecchiavano, mentre ella diventava sempre più giovane e fresca. Di tanto in tanto la dea non disdegnava di concedere le sue grazie a qualche fortunato mortale, mostrandogli quanto fosse bello far l'amore con una creatura divina. Si dice che Hàn Wǔ (156-87 a.C.), settimo imperatore della dinastia Hàn, ricevesse la visita della dea ogni anno, in occasione di particolari celebrazioni, e festeggiasse la ricorrenza in celeste compagnia.

L'impressione – correttissima – è che la cultura cinese avesse messo in pratica il tema della ricerca dell'immortalità, non limitandolo alla mitologia. Non solo i saggi taoisti indugiavano in pratiche alchemiche e ascetiche al fine di ottenere santità, immortalità e trascendenza, ma la medicina e la farmacopea cinesi cercavano sempre nuove tecniche per ottenere la longevità. Si cercava di conservare le caratteristiche, i tratti, lo spirito dell'infanzia e della gioventù. Si praticavano esercizi di respirazione al fine di raffinare il soffio vitale []. Chi poteva permetterselo, si accoppiava con ragazze giovanissime, cercando di raffinare l'energia virile: sebbene con gran poco godimento, visto che la ritenzione del seme era ritenuta indispensabile per prolungare la vita. Scrive mestamente Lǐ Bái (705-762), il grande poeta della dinastia Táng:

  Il Huáng Hé corre all'oceano dell'est,
il sole scende verso il mare dell'ovest.
Come il tempo l'acqua fugge per sempre,
non arrestano mai la loro corsa.
Con la giovinezza scompare la primavera,
l'autunno giunge coi miei capelli bianchi.
La vita umana è più corta di quella d'un pino.
che meraviglia allora...
se la bellezza fugge e fugge la forza?
Perché non posso inforcare un lóng celeste
per respirare essenza di luna e di sole
e divenire immortale?

Lǐ Bái

Ma detto questo, nello strato più antico della mitologia cinese troviamo il racconto della spedizione di un eroe verso il Kūnlún, alla ricerca del segreto dell'immortalità, ed è un viaggio analogo a quello di Hērakls e di Gilgameš...


Yì: la leggenda dell'arciere

Un antico accenno della vicenda di si trova nel Huáinánzǐ (II sec. a.C.), un classico della filosofia risalente alla [dinastia] Hàn cháo. Il sunto è laconico e affannato:

  Durante il regno del dominatore Yáo , dieci soli apparvero contemporaneamente nel cielo: il grano e l'erba si disseccarono e la gente non aveva nulla da mangiare. [I mostri] Yayú, Záochǐ, Jiǔyīng, Dàfēng, Fēngxī e Xiūshé causavano danni alla gente. Allora Yáo mandò a eliminare Záochǐ nella pianura di Shòuhuá, a uccidere Jiǔyīng nelle acque del Xiōngshuǐ , e catturare Dàfēng nella [palude] Qīngqiū zhǎo. Egli colpì con le frecce i dieci soli sopra e uccise Yayú al di sotto. Egli uccise Xiūshé nel [lago] Dòngtíng e prese Fēngxī prigioniero nella [foresta] Sāng lín.
Huáinánzǐ [Běnjīng]

Nelle antiche cronache storiche – ma lo sappiamo – i primordi della civilizzazione cinese furono segnati da una serie di mitici sovrani (sān huáng wǔ dì, i «tre augusti e i cinque dominatori»). Yáo fu il primo sovrano considerato «storico» dall'ortodossia cinese. Avrebbe regnato, secondo Sīmǎ Qiān, dal 2145 al 2043 a.C. (Shǐjì). Il confucianesimo lo considerava l'uomo più saggio e compassionevole mai esistito. Conduceva vita semplicissima, senza lussi, e tutti i suoi sforzi erano tesi al benessere dei suoi sudditi. Stando allo Shū Jīng (il «Classico dei documenti») fu lui ad istituire il calendario. Nelle cronache, il regno di Yáo fu funestato da due grandi catastrofi: l'una d'acqua, l'altra di fuoco. Quella d'acqua si era verificata quando Gònggōng aveva fatto crollare il Bùzhōu shān, il pilastro di nord-ovest, e tutte le acque dello Zhōngguó erano straripate, provocando una catastrofica inondazione. Quella di fuoco era avvenuta allorché dieci soli erano comparsi contemporaneamente nel cielo rischiando di ardere il mondo.

Nella cosmovisione cinese, infatti, esistevano dieci soli e dodici lune. Di tutti era padre il dio Dìjùn ①▼. Ma, mentre le dodici lune erano figlie dalla dea Chángxī, i soli lo erano della dea Xīhé. Questi avevano l'aspetto di fiori splendenti, la cui anima, racchiusa all'interno, aveva la forma di un corvo a tre zampe (sānzúwū o jīnwū). Il luogo dove i soli sorgevano si trovava nel Dōnghǎi, il mare orientale, non lontano dalle isole degli xiān. Qui, in un posto chiamato Tānggǔ («vallata delle acque bollenti»), in cima al monte Nièyáoyūndī, sorgeva un immenso albero, il Fúsāng («gelso che sostiene»), alto trecento , ai cui cui rami i dieci soli si posavano per asciugarsi non appena usciti dal loro bagno mattutino nei nove guadi [jiǔjīn] dell'oceano: nove soli sui rami inferiori e uno in cima (Shānhǎi Jīng [IX: 3-3 | VIX: 1 | 5]). Poi quello che stava in cima, saliva sul carro dorato della madre Xīhé e, dopo aver varcato una delle numerose porte solari che si aprivano tra le montagne che sorgevano ai confini del mondo, percorreva il suo tragitto giornaliero. A turno, uno al giorno, i soli percorrevano il cielo, illuminando la terra.

Analogamente, nell'estremo occidente, a ridosso del Kūnlún shān, sui monti Héngshí, Jiǔyin e Huīyě shān, vi era il Ruò , albero dai rossi fiori baluginanti, sui cui rami si calava il sole di turno dopo aver traversato il cielo nel suo percorso quotidiano. A questo punto, Xīhé lasciava salire il sole su un carro trainato da nove lóng rosso-fuoco e lo riconduceva nel Dōnghǎi.

Un giorno – narra la nostra leggenda – i dieci soli, decisero di non attendere la madre e di uscire nel cielo tutti insieme. Elusa la sorveglianza di Xīhé, essi si arrampicarono sul Fúsāng, che cominciò a fumare per l'eccessivo calore. Se l'albero fosse morto, cielo e terra sarebbero stati separati per sempre. Poi i dieci soli balzarono nel cielo e irradiarono così tanta luce e tanto calore che l'aria si fece violenta e irrespirabile. Le messi andarono a fuoco, i fiumi si disseccarono, gli animali presero a morire come mosche e gli uomini non riuscivano più nemmeno a tenere gli occhi aperti. Se i dieci soli avessero continuato a giocare tutti insieme nel cielo, l'intero universo sarebbe bruciato. Il dominatore Yáo pregò gli dèi che salvassero la terra e il genere umano dalla catastrofe.

Yì abbatte i soli

Autore non identificato, illustrazione (particolare).

Dìjùn, che non era sordo ai lamenti che si levavano dagli uomini e alle preghiere di Yáo , convocò l'immortale arciere e gli ordinò andare ad ammonire i dieci soli affinché il loro eccessivo calore non bruciasse l'universo, e allo scopo gli diede un arco rosso e una faretra con dieci bianche frecce. obbedì e, sceso dal cielo sulla terra, si recò sul Dōnghǎi, giungendo in vista del Fúsāng. L'aria stessa ardeva per l'eccessivo calore: tuttavia era immortale e minacciò i soli di tornarsene al loro posto. Ma poiché essi non gli davano ascolto e continuavano a giocare e rincorrersi nel cielo, comprese che non poteva attendere più a lungo, se non voleva che la terra venisse distrutta. Allora brandì il suo arco e scoccò una freccia. Un sole venne trafitto e cadde in mare, trasformandosi in un corvo a tre zampe. Ma rimanevano ancora nove soli. scoccò le sue frecce, una dopo l'altra, e i jīnwū cominciarono a cadere dal cielo, mentre pian piano il mare si faceva rovente. Fortuna volle che il previdente Yáo avesse tolto una freccia dalla faretra di , che in tal modo risparmiò un unico sole, lasciandolo a percorrere giornalmente, con fatica maggiore, il percorso celeste suddiviso prima tra i dieci fratelli. La dea Xīhé fu l'unica a piangere i suoi figli, pur riconoscendo che essi avevano disobbedito e messo in pericolo l'intero universo.

Ma quando tornò in cielo, trovò le porte sbarrate. Dìjùn, il padre dei dieci soli, era furibondo: lo aveva mandato sulla terra ad ammonire i suoi figli scapestrati, non certo a ucciderli! Espulse l'arciere dal cielo, gli tolse l'immortalità e lo costrinse a vivere sulla terra come un comune essere umano.

fece buon viso a cattivo gioco. Entrato al servizio del dominatore Yáo, si diede da fare per ristabilire l'ordine che le due catastrofi avevano destabilizzato. Con le sue infallibili frecce, vinse tribù barbare e nemiche, ricacciandole oltre i confini dello Zhōngguó. Oltre a ciò, provvide a eliminare alcune delle terribili creature che a quel tempo imperversavano nel regno di Yáo :

  • Yàyǔ, un mostro con testa di drago e corpo di leopardo;
  • Zuòchǐ, un orco denti lunghissimi, e affilati come pugnali;
  • Jiǔyīng, un mostro con nove teste;
  • Dàfēng, un enorme uccello rapace;
  • Fēngxī, un cinghiale possente e feroce;
  • Xiūshé, un gigantesco serpente acquatico.

combatté inoltre contro Hé Bó, il «conte del fiume», uno shén che faceva affogare le persone nelle acque limacciose del Huáng Hé, e lo vinse accecandolo all'occhio sinistro con la sua freccia. Quindi mosse contro Fēng Bò, il «conte del vento», che, con l'aspetto di un toro monocolo dotato di una lunga coda di serpente, suscitava tempeste devastando i campi e abbattendo le case. lo andò a cercare nella sua dimora, in una grotta sul Tài shān e, dopo averlo ferito a un ginocchio, lo obbligò a comportarsi correttamente.

Grazie a queste imprese, il mondo divenne un posto abitabile e le tribù del Zhōngguó cominciarono a comunicare le une con le altre (Huáinánzǐ [8]). si conquistò fama d'eroe e meritò un posto d'onore accanto al seggio del dominatore Yáo. Ma il divino arciere era lungi dal sentirsi soddisfatto, avendo perduto il rango di shén e, ridotto alla condizione di mortale, sentendosi condannato alla vecchiaia e alla morte. Pare che a disperarsi fosse soprattutto la sua sposa, la bella Cháng'é, che ogni giorno si lamentava di aver perduto le meraviglie del cielo in cambio di una misera casetta sulla terra, e peggio ancora, non poteva sopportare l'idea che sarebbe presto avvizzita, che sarebbe diventata vecchia e brutta, e sarebbe morta. Al riguardo, esistono tradizioni divergenti, ma su una cosa concorda la maggior parte delle fonti: un giorno intraprese un viaggio lungo e pericoloso verso il Kūnlún shān, con la speranza di ottenere da Xīwángmǔ l'elixir vitae. (Huáinánzǐ [6])

Le montagne che circondavano il Kūnlún erano perennemente avvolte da un turbinio di fuoco così terribile da liquefare rame e ferro, ma il coraggioso arciere riuscì ad aprirsi una via tra le fiamme. Le pendici del monte erano circondate da fiumi ribollenti e impetuosi, l'ultimo dei quali, il nero Ruò , scorreva in maniera talmente tumultuosa che, se un uccello perdeva una piuma, non appena questa toccava la superficie dell'acqua veniva immediatamente inghiottita dalla furia dei flutti. Ma neanche questo riuscì a fermare , che attraversò il fiume nuotando con tutte le sue forze. E nonostante il Kūnlún fosse altissimo, pieno di precipizi e dirupi scoscesi, lo scalò fino a raggiungere la cima. Giunto alla muraglia con nove parte, ne oltrepassò il tigresco guardiano Kāimíng e finalmente si trovò nel meraviglioso giardino d'occidente.

Entrato nella dimora dove Xīwángmǔ lo attendeva, si inchinò e raccontò alla dea le ragioni del suo viaggio. La shén, benigna, consegnò all'arciere una fiaschetta nella quale era contenuto il filtro della vita eterna, ottenuto dal succo delle pesche dell'immortalità, i cui alberi fiorivano una volta ogni mille anni. Poiché di elixir non ve n'era molto, Xīwángmǔ si raccomandò con che lui e sua moglie facessero attenzione a come berlo. L'elixir poteva concedere immortalità e trascendenza ad una sola persona, ma poiché essi dovevano dividerlo in due, avrebbero ottenuto l'immortalità ma non la trascendenza. E comunque, non dovevano berlo prima del giorno di luna nuova.

tornò a casa e mostrò a Cháng'é la fiaschetta con l'elixir vitae che Xīwángmǔ gli aveva concesso e le spiegò che, dividendoselo, essi avrebbero avuto sì, l'immortalità, ma avrebbero dovuto trascorrerla nel mondo sublunare. Cháng'é, non soddisfatta di dover trascorrere una vita immortale sulla terra, un giorno che il marito era a caccia, bevve l'intero elixir. Subito il suo corpo si fece traslucido ed ella si staccò dal suolo e ascese galleggiando verso il cielo. Non era ancora luna nuova e una meravigliosa falce lunare si arcuava nel cielo stellato. Attirata dalla luna, la donna vi trovò un ambiente freddo e deserto; c'era solo un albero cosparso di bianchi fiori profumati e un piccolo coniglio candido che, con un pestello, frantumava delle erbe senza mai fermarsi. Cháng'é guardò in basso, verso la terra. C'era chi lavorava nei campi, chi seminava e chi mieteva, e tutti sembravano felici. Sentendosi assalire da una profonda nostalgia, Cháng'é si appoggiò all'albero fiorito e divenne la dea regolatrice del moto delle dodici lune, che salivano a turno nel cielo, rimanendovi un mese.

In quanto a , l'arciere, dovette restare sulla terra, condannato alla vecchiaia e alla morte. Il suo discepolo, Féng Méng, a cui egli aveva insegnato a tirar d'arco, era roso dall'invidia per la grande abilità con l'arco del suo maestro. Con gli anni, d'altra parte, il carattere di peggiorava, e pretendeva sempre di più dai suoi servi. Così Féng Méng fomentò il loro risentimento e i servi gli tesero un'imboscata lungo uno dei suoi sentieri di caccia. Quando passò, Féng Méng lo colpì alla nuca con un randello di pesco, uccidendolo sul colpo. Secondo alcuni, lo spirito di andò a raggiungere le anime degli uomini degli inferi, e divenne capo del mondo degli spettri. Altri dicono, invece, che abbia raggiunto il sole. Comunque sia, per merito dei suoi molti servigi, gli venne mai dimenticato dagli uomini.

 
①▲ Dìjùn era probabilmente una divinità celeste dell'antica [tribù] Yīn dài, fondatrice della [dinastia] Shāng cháo. Ricordato quasi soltanto nello Shānhǎi Jīng; Dìjùn sarebbe stato in seguito sostituito da Shàngdì, il «dominatore dall'alto», o Tiān, il «dominatore celeste», divinità suprema della [tribù] Xià dài, fondatrice dell'omonima [dinastia] dinastia Xià cháo.

YÌ, HĒRAKLS E GILGAMEŠ: IPOTESI DI UN MITO EURASIATICO

Nonostante (Hòu Yì, Yí Yì, Rén Yì), il divino arciere, sia uno degli eroi più popolari della mitologia cinese, non esiste un testo epico coerente incentrato su di lui. Il suo ciclo viene ricostruito mettendo insieme brevi citazioni sparse in almeno quindici secoli di letteratura cinese. Le fonti principali sono il suggestivo poema Tiānwèn [-] («Domande al cielo»), carme sapienziale composto unicamente di domande di argomento mitologico, contenuto nell'antica antologia poetica Chǔcí («Canti di Chu»), attribuita al poeta e funzionario Qū Yuán (±343-278 a.C.), vissuto durante il periodo Zhànguó («Stati combattenti»), e alcune sparse citazioni contenute nello Huáinánzǐ (il «Libro di Huáinán»), una raccolta di saggi filosofici, politici, astronomici, geografici, storici e religiosi, collazionati da Liú Ān (±179–122 a.C.), qīnwáng della [dinastia] Hàn cháo. La popolarità di è tuttavia testimoniata, oltre che dalla longeva tradizione letteraria, anche dalla sua persistenza nel folklore: tradizioni orali incentrate su di lui sono state raccolte fino a un'epoca relativamente recente, soprattutto tra le popolazioni rurali e le minoranze linguistiche della Cina (Yang ~ An 2005).

Qualsiasi tentativo di tirar fuori una materia coerente, viene inoltre complicata dal fatto che la figura di , il mitico arciere vissuto all'epoca di Yào , sembra sovrapporsi a quella di un certo Hòu Yì di Yǒuqióng, un tirannico usurpatore vissuto qualche secolo più tardi, all'epoca di Xiāng wáng, quinto sovrano della semimitica [dinastia] Xià cháo (collocata tradizionalmente nella prima metà del II millennio a.C.). Il Huáinánzǐ e il Tiānwèn sembrano confondere i due personaggi, attribuendo all'uno le imprese dell'altro e viceversa, tanto che, fin dall'antichità, gli esegeti hanno cercato di distinguerli. Gāo Yóu e Wáng Yì, due eruditi vissuti durante la tarda [dinastia] Hàn cháo (♔ ±I-II sec.), nei loro commentari alle due opere summenzionate, hanno ipotizzato l'esistenza di uno «buono» e di uno «cattivo». Nel suo commento allo Shānhǎi Jīng, Guō Pú, vissuto sotto la Jìn cháo (♔ 265-420), presume che lo «cattivo» potrebbe aver assunto il nome dello «buono», il quale era ricordato come un grande eroe. Identica cosa ha sostenuto l'erudito Hóng Xīngzǔ, vissuto sotto la Sòng cháo (♔ 960-1276), nel suo commentario al Chǔcí: «Il dominatore Jùn impiegò la grande abilità di con l'arco per risolvere i problemi del mondo. [...] Tempo dopo, Hòu Yì di Yǒuqióng assunse il nome di a causa della grande fama di arciere di costui». Nel dizionario Shuōwén Jiězì (✍ fine II sec.) si suggerisce che potesse essere un titolo generico che, nei tempi antichi, veniva assegnato agli arcieri. (Mori² 1991)

Tra gli studiosi moderni, il sinologo Marcel Granet (1884-1940) ha sostenuto che lo celebrato nei miti fosse una sintesi di due distinti personaggi storici, seguito in questo da Wolfram Eberhard (1909-1989), mentre per Jiāng Màifū i personaggi confluiti nella figura del mitico arciere sarebbero stati addirittura tre (Granet 1926 | Eberhard 1968 | Jiāng 1976). Per lo scrittore e giornalista Máo Dùn (pseudonimo di Shěn Déhóng, 1896-1981) il personaggio di andrebbe visto come evemerizzazione di un'arcaica divinità , cioè «barbara» (Máo 1981). Secondo il giapponese Mori Mikisaburō, invece, sarebbe stato l'eroe di una tribù di cacciatori stanziati tra le montagne dello Shāndōng; dopo essere stati assorbiti dai barbari orientali Dōngyí, verso la fine del III millennio, alla figura inizialmente positiva dell'eroe si sarebbe sovrapposta una rilettura in chiave eversiva, visto come malvagio usurpatore (Mori¹ 1941). Una teoria affine, proposta da Shirakawa Shizuka, vuole che sia stato, al contrario, un capo o un dio degli stessi Dōngyí, poi andato incontro a varie fasi di alterazioni nel corso del tempo (Shirakawa 1975). Mori Masako sostiene, al perfetto contrario, che fosse un personaggio del tutto mitico e che i dati relativi alle sue varie incarnazioni letterarie possano essere usati per tentare una ricostruzione della saga originale. A tal fine la studiosa giapponese si è avvalsa di una serie di brillanti comparazioni con l'epopea di Gilgameš (Mori² 1991).

Anche la somiglianza tra Hērakls e è stata ampiamente notata e analizzata, sebbene gli studiosi si siano limitati a confrontare il tema degli érga: la carriera di entrambi gli eroi è costellata dall'eliminazione di una serie di esseri e animali mostruosi. La comparazione però è stata sempre limitata al piano analogico: l'ipotesi di una relazione tra i due personaggi non è stata mai avanzata seriamente. D'altra parte, non essendo mai stata evidenziata la presenza del motivo della ricerca dell'immortalità alla base del ciclo di Hērakls, questo secondo tema – che avrebbe rafforzato non poco la comparazione tra i due personaggi – è per lo più sfuggito agli studiosi. Il presente saggio offre il primo tentativo di una comparazione a largo spettro tra Hērakls, Gilgameš e : e dimostreremo che, paradossalmente, Hērakls e sembrano presentare tra loro più tratti in comune di quanti non abbiano con Gilgameš.
 

Yì: la tipologia del guerriero con l'arco

Per prima cosa cerchiamo di inquadrare e definirne, per così dire, il character design. La figura del divino arciere sembra lontana dall'archetipo «regale» di Gilgameš e, soprattutto, da quello «muscolare» di Hērakls, che sappiamo essere l'esito ellenico – mutatis mutandis – del dio-tuono indoeuropeo. Traiamo una necessaria premessa da una brillante osservazione che Oscar Stig Wikander (1908-1983) mosse a proposito degli eroi del Mahābhārata, secondo cui il prototipo del guerriero presentava, nell'India vedica, due aspetti assai diversi tra di loro: quello incarnato da Bhīma, campione solitario, bestiale e istintivo, dotato di enorme vigore fisico, le cui armi principali erano le braccia, prolungate all'occorrenza da una sorta di clava; e quello incarnato da Arjūna, guerriero civilizzato, da battaglia, stratega intelligente e leader naturale, dotato di armi di arco e lancia (Wikander 1947). Tale osservazione è stata ampliata e sistematizzata da Georges Dumézil (1898-1986) nelle sue analisi sulla tripartizione funzionale degli indoeuropei. La distinzione tra il «tipo» Bhīma e il «tipo» Arjūna è stata ampliata ed estesa da Dumézil ad altri sistemi mitologici. Egli, ad esempio, vedeva la distinzione tipologica tra guerriero brutale ed eroe seducente nell'opposizione che Kǝrǝsāspa e Θraētaona in Īrān, tra Hērakls e Akhilleús in Grecia, tra Þórr e Óðinn in Scandinavia (Dumézil 1958 | Dumézil 1968). Ora, pur senza togliere nulla al lavoro di Dumézil (i cui personaggi sono esplicativi delle diverse tipologie guerriere, ma non costituiscono delle coppie funzionali), ambiamo essere più precisi e cercare delle precise associazioni tra guerrieri con clava e quelli con arco. Per esempio:

  India Grecia Scandinavia Cina
Guerriero con clava Bhīma Hērakls Þórr Féng Méng (?)
Guerriero con arco Arjūna Ullr

Notiamo subito che il contrasto tra clava e arco viene a perdersi, ad esempio, nel caso di Hērakls, che se la cava bene con entrambe le armi: sebbene sia solitamente armato di clava, è con l'arco che uccide l'aetós kaukasíos e gli uccelli del lago Stymphalídes, ma anche i suoi stessi figli. Anche nel caso di Þórr, la cui clava è opportunamente sostituita dal martello Mjǫllnir, la dicotomia viene ad attenuarsi, visto che l'abilità con l'arco e con le frecce è l'unico tratto che definisce il suo figliastro Ullr, il quale potrebbe essere una sorta di proiezione ingentilita di Þórr. Ed è davvero un peccato non saperne di più su Ullr (una dicotomia Þórr e Óðinn può essere esclusa, in quanto quest'ultimo non usa mai l'arco). Nel caso di , la sua abilità con l'arco è proprio una delle principali definizioni del personaggio, ricordata in una gran quantità di testi (Lúnyǔ | Xúnzǐ | Guǎnzǐ | Zhuāngzǐ [XXIII] | Hánfēizǐ). Gli vengono addirittura attribuite delle caratteristiche di eroe culturale: «Anticamente costruì il primo arco» (Mòzǐ [IX] | Lǚshìchūnqiū [XVII: 9]). L'arco e le frecce, apprendiamo ancora nello Shānhǎi Jīng, erano stati conferiti a dallo stesso Dìjùn, il dio che poi lo avrebbe esiliato dal cielo, allo scopo preciso di portare ordine nel «paese sottostante» [xiàguó], cioè sulla terra:

  Dìjùn conferì a un arco vermiglio con frecce dalle piume bianche per proteggere il paese sottostante. fu il primo a soccorrere il paese sottostante nelle cento difficoltà.
Shānhǎijīng [XVIII: 7]

Invece l'uso di una clava, o per l'esattezza di un táobǎng, sorta di randello in legno di pesco, da parte di Féng Méng, è limitata all'episodio dell'uccisione di : forse un motivo non abbastanza decisivo per classificarlo come guerriero di tipo «tipo» Bhīma, tanto più che Féng Méng è detto essere un grande arciere, pari allo stesso o di poco inferiore. Ma forse proprio questa ragione rende ancora più significativo il fatto che, per uccidere il proprio maestro, Féng Méng non abbia usato un arco, ma, appunto, un randello.

Yì abbatte i soli

Monumento dedicato al mitico arciere Yì in Chángzhì (Cina), opportunamente fotografato nel corso di una eclisse parziale di sole.

Il nostro schema ha anche un altro difetto, che gli indoeuropeisti non ci perdoneranno: quello di usare schemi validi per il mondo indoeuropeo per interpretare un personaggio tratto dalla mitologia cinese. Quel che sosteniamo, tuttavia, non è un'omologia forte dei personaggi, ma soltanto un calco, dovuto a influenze storiche o a comuni eredità eurasiatiche. D'altra parte, l'ipotesi di una possibile influenza della figura di Arjūna, alla base di quella di , è stata sostenuta più volte. Un caso emblematico – sotto diversi aspetti – è il mito dove abbatte i soli ribelli a colpi di freccia. Esso è diffuso, in un gran numero di varianti, tra molti gruppi etnici in Cina, Indocina, Mongolia e Siberia. Il numero dei soli varia a seconda delle versioni: può essere due, tre, sette, nove, dieci o dodici; il mitico arciere li abbatte tutti, tranne uno. (Yang ~ An 2005). Gli antropologi spiegano questo mito come la spiegazione di un rito inscenato in caso di eclissi: molti antichi popoli asiatici e altaici scoccavano frecce in direzione del sole per spaventare il mostro celeste che, nella loro concezione, minacciava di divorare l'astro, trascinando il mondo nelle tenebre. Il mito cinese è stato anche messo in correlazione con un episodio del Mahābhārata, in cui Arjūna uccide con un colpo di freccia il fratellastro Karṇa, figlio e avatāra del dio-sole Sūrya. Stranamente, però, sembra sfuggito il motivo di Hērakls che bersaglia di frecce il dio-sole Hḗlios al fine di farsi prestare la coppa aurea che gli permetterà di attraversare il potamós Ōkeanós.


La crisi esistenziale e la servitù

La biografia generica del nostro eroe prevede, a un certo punto della storia, una sorta di crisi esistenziale che lo metta di fronte alla prospettiva della propria mortalità. La crisi viene scatenata da un evento tragico, traumatico, orchestrato per volontà divina. L'evento può produrre una situazione in cui l'eroe finisce per servire un sovrano in una serie di imprese ardite e pericolose, atte a ripristinare l'ordine cosmico. Vedremo ora come, in questo schema, i miti di Hērakls e di siano direttamente confrontabili, mentre il ciclo di Gilgameš, almeno nella versione ninivita, se ne distacchi parzialmente.

Nei tre miti considerati, la crisi è un lutto (Gilgameš), un delitto () o entrambe le cose (Hērakls). Nel caso degli ultimi due miti, il delitto ha alla sua base una volontà o una richiesta divina: Hērakls, reso folle da Hḗra, massacra i suoi stessi figli e due suoi nipoti, figli di Iolaos (Apollódōros: Bibliothḗkē [II: 4, ] | Euripídēs: Hērakls mainómenos; etc.). A viene invece esplicitamente richiesto dal dio Dìjùn di ricondurre alla ragione i figli di lui, i dieci soli, che sono usciti tutti insieme nel cielo e rischiano di bruciare la terra. Ma, spinto dall'emergenza, eccede i limiti che gli sono stati imposti e abbatte nove dei dieci soli. Entrambi gli eroi eccedono nella rispettiva tipologia funzionale: Hērakls nella propria hýbris, nella propria eccellenza di arciere. Il risultato, in entrambi i casi, è il massacro di giovani innocenti: nel mito ellenico gli stessi figli di Hērakls, in quello cinese i figli di Dìjùn.

Un'altra interessante interessante corrispondenza tra il crimine di e quello di Hērakls è l'arma del delitto. L'eroe greco, infatti, utilizza proprio l'arco per uccidere i suoi bambini. Questo in Diódōros Sikeliṓtēs, dove Hērakls «li colpì con il suo arco come fossero suoi nemici» (Bibliothḗkē Historikḗ [IV: 11]), e in Euripídēs, dove l'arco viene usato su due dei tre figli e sulla moglie Megára; il terzo figlio si getta ai piedi dell'eroe e viene ucciso con un colpo di clava: ma si tratta di una variante drammatica introdotta dallo stesso Euripídēs (Hērakls mainómenos).

È interessante notare che l'arco viene utilizzato da Hērakls in pochissimo altre occasioni. Ad esempio, per minacciare il dio-sole Hḗlios, al fine di farsi consegnare la coppa d'oro, e per uccidere l'aetós kaukasíos e sterminare gli uccelli del lago Stymphalídes. Sia che miri al sole, sia che colpisca degli uccelli, tutti i rari episodi in cui Hērakls fa uso dell'arco mostrano delle corrispondenze con il mito di . Si aggiunga che in Apollódōros, Hērakls uccide i suoi figli e i due figli di Iphikls gettandoli nel fuoco (Bibliothḗkē [II: 4, ]), variante in cui possiamo riconoscere agilmente, ancora una volta, un tema igneo. Ecco uno schema non proprio rigoroso:

HĒRAKLS
Bersaglia di frecce il dio-sole Hḗlios al fine di farsi prestare la coppa aurea Uccide a colpi di freccia i nove soli, figli del dio Dìjùn.
Uccide i propri figli a colpi di freccia.
Uccide i propri figli gettandoli nel fuoco. I soli rischiano di ardere e la terra. Una volta caduti in mare, ne rendono l'acqua rovente.
Uccide a colpi di freccia l'aetós kaukasíos e gli uccelli del lago Stymphalídes I soli, colpiti dalle frecce, si rivelano essere dei corvi a tre zampe (sānzúwū o jīnwū).

La più significativa differenza tra il crimine di Hērakls e quello di è che il mito ellenico non fornisce giustificazioni né allevia in alcun modo la responsabilità dell'eroe. L'uccisione dei propri figli, da parte di Hērakls, rimane immotivata e gratuita (come ben sottolinea Euripídēs in quell'esemplare pezzo di letteratura che è l'Hērakls mainómenos). Il delitto di viene invece giustificato e motivato dalla necessità di contrastare la fatale noncuranza dei dieci soli, la loro incapacità di comprendere quale catastrofe stanno causando alla terra e al genere umano con il loro irresponsabile comportamento. Così, la condanna inflitta a – la cacciata dal cielo e la perdita del rango di shén – viene presentata come una punizione eccessivamente severa. Il dettaglio fondamentale è che diviene conscio dell'ingiustizia connaturata al suo (nuovo) status di mortale.

Che la condanna sia avvertita come ingiusta sembra una costante di tutti e tre i miti. Nel racconto di Gilgameš, l'eroe non è direttamente coinvolto nella morte di Enkidu, che viene decisa a freddo dagli dèi come punizione per l'uccisione di Gudanna. Il «delitto» di cui si macchia l'eroe, nel mito mesopotamico, è proprio l'abbattimento del toro celeste (a cui possiamo aggiungere anche l'uccisione di Ḫumbaba): la morte di Enkidu espia anche e soprattutto la colpa di Gilgameš. Sia Gilgameš che avvertono l'ingiustizia connaturata all'inevitabilità dlela propria morte in contrasto con i diritti inerenti alla loro natura divina: Gilgameš è per due terzi dio, è stato un dio; eppure entrambi dovranno soggiacere al fato dei mortali, che non sentono di dover condividere. Nel caso di Hērakls, abbiamo già spiegato come la natura del personaggio (un dio-tuono a cui veniva tributato un culto importante sebbene fosse stato declassato nel mito a eroe), impediscono un riconoscimento tragico della sua condition humaine, che comunque è percepita come transitoria e destinata a essere superato tramite l'apoteosi. Nel mito greco, l'ingiustizia è stata riletta come perdita della regalità a cui Zeús lo aveva destinato.

Quale punizione per il delitto commesso, sia Hērakls che sono condannati a soggiacere in servitù a un sovrano e compiere, per lui, una serie di imprese ai limiti delle capacità umane. Hērakls deve espiare l'uccisione dei suoi figli servendo re Eurysteús per dodici anni, e questi lo spedirà in giro per il mondo per compiere i suoi proverbiali érga. , una volta esiliato sulla terra per aver ucciso i figli di Dìjùn, sebbene non sia ridotto in servitù, si mette agli ordini del dominatore Yào, il quale lo manda a sgominare i mostri che, dopo la grande inondazione, devastano il Zhōngguó.

  GILGAMEŠ HĒRAKLS
Mandante
(causa divina)
La dea Ištâr scatena Gudanna. Hḗra fa impazzire Hērakls. Dìjùn ordina a di ricondurre alla ragione i dieci soli.
Delitto Gilgameš ed Enkidu uccidono Ḫumbaba e Gudanna. Hērakls massacra i propri figli e quelli di Iphikls. uccide nove dei dieci soli, figli di Dìjùn.
Castigo L'assemblea degli dèi decide la morte di Enkidu.   viene cacciato dal cielo e privato dell'immortalità.
Servitù   Hērakls deve servire re Eurysteús per dodici anni. si mette agli ordini del dominatore Yào.
Conseguenze
psicologiche
Gilgameš diviene conscio della propria mortalità.   diviene conscio della propria mortalità.
Ingiustizia Essendo per due terzi dio e per un terzo uomo, Gilgameš avverte la propria mortalità come un'ingiustizia. Hērakls avverte l'essere stato messo agli ordini di Eurysteús come una profonda ingiustizia. Essendo stato un dio, avverte la propria mortalità come una profonda ingiustizia.


Il ciclo delle «fatiche»

Come abbiamo detto, Hērakls e sono stati spesso associati dagli studiosi in quanto entrambi coinvolti in una serie di scontri con mostri pericolosi e micidiali. Meno ovvio, ma altrettanto presente, il fatto che entrambi gli eroi compiano lo loro «fatiche» sotto gli ordini di un sovrano: l'insapido e vile Eurysteús per l'uno, il saggio e virtuoso Yào per l'altro. Detto ciò, non è affatto facile trovare una qualche associazione tra le «fatiche» di Hērakls e quelle di : la tradizione greca e quella cinese contemplano infatti dei bestiari completamente diversi.

Per quanto riguarda le possibili analogie con il ciclo di Gilgameš, la professoressa Mori Masako tenta di mettere in correlazioni la lotta di Gilgameš ed Enkidu contro Ḫumbaba con quella di contro Jiǔyīng. Sfortunatamente sappiamo pochissimo su quest'ultimo personaggio; Gāo Yóu, nel commentario al Huáinánzǐ, lo descrive semplicemente come un mostro «d'acqua e di fuoco». Per tale ragione la Mori ritiene di poterlo associare a Ḫumbaba, «il cui grido è il diluvio, il cui soffio è fuoco, il cui respiro è morte...» (Ša naqba īmuru [II: -]) (Mori² 1991). A nostro avviso abbiamo davvero troppi pochi dati per stabilire un parallelismo rigoroso tra Ḫumbaba e Jiǔyīng.

Più solidamente costruita, a nostro avviso, la relazione che la Mori stabilisce tra l'uccisione del cinghiale Fēngxī, compiuta da , e quella del toro Gudanna, compiuta da Gilgameš ed Enkidu. La studiosa equipara brillantemente il mito greco e quello cinese su due punti:

  1. entrambe le bestie manifestano una situazione di carestia: Fēngxú devasta i campi e si nutre dei cereali piantati dagli uomini, Gudanna prosciuga le acque e porta anni di siccità sulla città di Uruk;
  2. dopo l'uccisione di Gudanna, Gilgameš ed Enkidu ne consacrano il cuore a Šamaš e versano olio nelle sue corna per Lugalbanda, ma gli dèi non accolgono l'offerta e decretano la morte di Enkidu; analogamente, dopo aver abbattuto Fēngxú, offre un sacrificio a Tiāndì, ma il «dominatore del cielo» rifiuta la sua offerta. (Mori² 1991)
馮珧利決
封豨是射
何獻蒸肉之膏
而后帝不若
féng yáo lì jué
fēng xī shì shè

hé xiàn zhēng ròu zhī gāo
ér hòu dì bù ruò
Con l'arco di perla e l'anello di giada al pollice
[] scoccò la freccia a Fēngxú:
Perché il sacrificio succulento
dispiacque a [Tiān]?
Chǔcí [III] > Tiānwèn [69-70]

Gli stessi due punti, a ben guardare, sussistono anche nel mito ellenico: il toro di Krḗtē, catturato da Hērakls, viene dedicato a Hḗra, ma la dea, sdegnata, fa impazzire l'animale, che infuria per anni nella piana di Marathṓnē. Invece, ciò che indebolisce l'equiparazione tra l'eroe cinese e quello mesopotamico, è che l'uccisione di Gudanna rimane una sorta di unicum nel ciclo di Gilgameš e non viene inquadrata in un sistema di «fatiche», come sono quelle di Hērakls e di . Inoltre, Gilgameš agisce per sua propria hýbris e non per ordine di un altro sovrano.

Dobbiamo tuttavia sforzarci di esaminare gli schemi più che i singoli miti. Ciò che accomuna le tradizioni di Hērakls e Gilgameš è che, in entrambi i miti, lo schema comprende una precisa ricorrenza dove l'eroe combatte sia contro un toro sia contro un leone (o dei leoni); ma né tori né leoni compaiono tra le bestie abbattute da , sebbene il cinghiale abbia le medesime funzionalità del toro celeste e di quello di Krḗtē. C'è una ragione in questa sostituzione di mostruosi animali o possiamo ricondurla in qualche modo a un isomitema?

Sì xiàng, i «quattro simboli»
Mappa celeste tradizionale cinese

Difficile dirlo. Mesopotamia e Grecia condividevano, almeno in parte, una comune tradizione astronomica: e leone e toro erano costellazioni zodiacali presenti nelle mappe celesti di entrambe le culture. Se la lettura astronomica del nostro mito è corretta, il suo adattamento tanto in Mesopotamia tanto in Grecia poteva essere riconosciuto e gli animali conservati. Ma in Cina? L'astronomia tradizionale cinese era piuttosto differente: non era basata, come quella occidentale (babilonese e classica), sulla posizione del sole lungo l'eclittica, ma suddivideva quest'ultima in accordo ai movimenti della luna nel corso del mese lunare. Di conseguenza, le costellazioni venivano ripartite in ventotto xiù, o «case», secondo un sistema simile a quello indiano dei nakṣatra. I ventotto xiù erano a loro volta ripartiti in quattro xiàng o «simboli», a ciascuno dei quali era collegato un colore e un animale mitologico. Essi erano:

  • Dōngfāng Cānglóng, il «drago azzurro dell'est»;
  • Xīfāng Báihǔ, la «tigre bianca dell'ovest»;
  • Nánfāng Zhūquè, l'«uccello rosso del sud»;
  • Běifāng Xuánwǔ, la «tartaruga nera del nord».

Non possiamo aspettarci che le immagini di tori e leoni possano venire conservate in un sistema tanto dissimile. Ma se anche i mostri uccisi da avessero un riscontro astronomico, dovremmo aspettarci che corrispondano ad asterismi cinesi o ai quattro xiàng. Di sicuro gli esegeti cinesi non hanno mai riconosciuto i riferimenti astronomici, se ce ne sono. Non ci resta che lasciare la risposta a qualcuno più competente di noi in astronomia cinese. Possiamo però avanzare qualche proposta.

Alcuni dei mostri uccisi da sono piuttosto interessanti. Prendiamo ad esempio il Xiūshé e il Dàfēng.

Il Xiūshé era un gigantesco serpente acquatico emerso dal Dòngtíng , allorché i dieci soli ne avevano prosciugato le acque. Giunto in barca al centro del lago, lasciò emergere il serpente quindi ebbe un gran daffare nel bersagliarlo di frecce, ma non riuscì nemmeno a scalfirlo. Alla fine lo uccise affondandogli la spada nel cuore. Il Xiūshé potrebbe corrispondere al bāshé, l'enorme serpente divoratore di elefanti che viveva nelle terre meridionali (Shānhǎi Jīng [X: 4]), o al chángshé, il serpente ricoperto di setole porcine del Dàxián shān, nelle terre occidentali (Shānhǎi Jīng [III: 5]). Secondo Guō Pú l'uno e l'altro serpente potevano raggiungere la ragguardevole lunghezza di cento xún (circa 270 metri).

Il Dàfēng era un invece un enorme uccello, con becco d'aquila, coda di pavone e ali tanto ampie che, nella scia del suo volo, si formavano trombe d'aria. Si nutriva di intere mandrie di armenti e anche di esseri umani. Per non lasciarselo sfuggire, tanto era veloce, si appostò e, al momento giusto, gli scagliò una freccia legata a una fune di seta nera. Colpitolo al petto, lo trascinò a terra e lo finì a pugnalate. Si noti che fēng è il termine cinese per indicare un uccello favoloso, sovente avvicinato al Saēnā/Simorġ persiano e sbrigativamente tradotto nella letteratura divulgativa con «fenice»: dàfēng sta per «grande fenice». Forse proprio al Dàfēng si è ispirato Zhuāng Zhōu, che nel paradossale incipit della sua opera evoca l'uccello Péng, lungo migliaia di , che ha come aspetto alternativo il pesce Kūn, altrettanto grande, che vive nel Běihǎi, il mar settentrionale (Zhuāngzǐ [I]).

L'uccisione, da parte di , tanto del serpente Xiūshé, tanto dell'uccello Dàfēng, potrebbe presentare un corrispettivo mitologico nell'uccisione del drákōn hespérios e dell'aetós kaukasíos da parte di Hērakls. Sarebbe interessante poter dimostrare una relazione tra lo Xiūshé e il drákōn hespérios, e tra il Dàfēng e l'aetós kaukasíos: si potrebbe inferire che l'aquila e il serpente appartengano a uno strato mitologico più antico che non il leone e il toro. Disgraziatamente, la comparazione rimane infondata: il serpente e l'aquila del mito ellenico sono legati ai punti cardinali, rispettivamente all'ovest e all'est, cosa che non si può dire per i loro «colleghi cinesi». Né si può aggirare il problema mediando una comparazione attraverso i simboli xiàng dei punti cardinali: lo Cānglóng è un drago [lóng] e non un serpente [shé]; lo Zhūquè è un passeriforme [què] e non certo una «fenice» [fēng].


Lo scontro con il dio fluviale

Assai più interessante, a nostro avviso, un'altra delle imprese di : il suo scontro con Hé Bó, il dio del Huáng Hé, il «fiume giallo», nella cui valle era sorta la civiltà cinese. Personaggio assai importante nella religione della Cina primitiva, il «conte del fiume» Hé Bó era chiamato a volte solo , «fiume», in quanto veniva a confondersi con l'elemento stesso. In genere Hé Bó era rappresentato con l'aspetto di un báilóng, un drago bianco, oppure di un pesce, ma con volto umano. Non era certo un dio benevolo: facile all'ira, le sue inondazioni minacciavano continuamente di devastare vasti territori, e i terrorizzati abitanti della sua immensa vallata, che lo vedevano a volte solcare le acque guidando un cocchio tirato da due lóng, cercavano di ammansirlo con offerte in giada e, a partire dal IV secolo avanti Cristo, con sacrifici umani. In genere gli erano offerte giovani fanciulle, che venivano lasciate annegare nei suoi gorghi, come sue spose.

Secondo il Huáinánzǐ, avrebbe affrontato Hé Bó perché aveva la pessima abitudine di annegare la gente nei suoi flutti. Tuttavia, una strofa dal Tiānwèn (terza composizione del Chǔcí) ci suggerisce una storia assai meno nobile, dove avrebbe attaccato Hé Bó per amore di Luò Pín, moglie del dio fluviale:

胡射夫河伯
而妻彼雒嬪
hú shè fū hé bó
ér qī bǐ luò pín
Perché [] scoccò a Hé Bó
e scappò con Luò Pín?
Chǔcí [III] > Tiānwèn [6]

Wáng Yì (89-158), bibliotecario imperiale della Hàn cháo, riferisce, nel suo commentario al Chǔcí, che Hé Bó si sarebbe mostrato in aspetto di báilóng e che gli aveva scoccato una freccia nell'occhio sinistro, cavandoglielo. Allora il «conte del fiume» andò a protestare dal supremo Tiāndì, chiedendo che venisse punito per il suo crimine, ma il «dominatore celeste» diede ragione all'arciere: “Se ti fossi dedicato a svolgere i tuoi doveri di shén, non avrebbe avuto ragione di nuocerti. Invece ti sei presentato in aspetto mostruoso: naturale che qualcuno ti abbia preso di mira. ha agito correttamente: quale crimine avrebbe mai commesso?”.

La leggenda cinese ricorda irresistibilmente un importante episodio della carriera di Hērakls, il quale, concluso il ciclo delle érga, affrontò il potamós Akhelos, col quale contese per la mano di Dēïáneira, figlia di Oineús, re di Kalydṓn. Il dio fluviale greco aveva tre aspetti: di serpente screziato, di toro, oppure umano, con una lunga barba stillante acqua. Ma Dēïáneira aveva orrore di un tale sposo e avrebbe voluto morire piuttosto che unirsi a lui. Quando Hērakls giunse in Aithōlía, lottò contro il potamós per il diritto di sposare la ragazza. Akhelos si trasformò dapprima in un serpente, ma Hērakls non desistette. Akhelos si trasformò allora in toro, ma Hērakls gli strappò un corno. Ad Akhelos non rimase che arrendersi ed Hērakls poté prendere in moglie Dēiáneira. (Sophokls: Trakhíniai [9-21] | Ovidius: Metamorphoseon [IX: -] | Hyginus: Fabulæ [31]). Il corno strappato ad Akhelos divenne la cornucopiae, l'inesauribile recipiente di abbondanza che spandeva fiori e frutti senza mai svuotarsi.

Questo episodio mostra in filigrana il mito dell'ammansimento di un potente dio fluviale, medesimo motivo che troviamo nel mito dello scontro tra ed Hé Bó. Come il Huáng Hé è il fiume principale della Cina, l'Akhelos (attuale Aspropótamos) è il corso d'acqua più importante della Grecia, e vi sono diverse ragioni di credere che gli venisse tributato un culto importante fin da un'età remota. Si aggiunga inoltre il motivo che tanto il cinese tanto il potamós greco potevano assumere forma animale, in particolare di serpente, ed è nel loro aspetto bestiale che vengono combattuti e sconfitti. Entrambi gli scontri, infine, sono motivati dal mito di conquista di una donna.

Riteniamo che quest'antico mito della lotta contro il dio-fiume possa avere delle correlazioni anche con un altro episodio del ciclo eracleo. Un giorno Hērakls e Dēïáneira, ormai sposi, si trovarono a dover guadare i flutti del fiume Eúēnos. Si fece avanti un kéntauros, Néssos, e si offrì di aiutare la donna a passare dall'altra parte. Ma mentre fu al centro del fiume, Néssos partì al galoppo, tentando di portarsi via la ragazza. Hērakls lo colpì con una delle sue frecce, le cui punte erano intinte nel sangue dell'hýdra, salvando la sua sposa. Ormai agonizzante, Néssos suggerì a Dēïáneira di utilizzare il suo sangue come pozione d'amore nel caso, in futuro, Hērakls la avesse dimenticata e trascurata, e sappiamo tutti come andò a finire...

Poiché, come abbiamo visto, Hērakls non scocca mai le sue frecce a caso, e quelle poche volte che imbraccia l'arco – sia che debba uccidere i propri figli, sia colpire degli uccelli o bersagliare il sole – le relazioni con si fanno subito visibili e interessanti, possiamo chiederci se il mito del kéntauros Néssos non potrebbe essere effettivamente una variante del mito di Akhelos e quindi contenere degli elementi che ci illuminino sullo scontro tra ed Hé Bó. Un solo elemento ritorna però con chiarezza: l'uso dell'arco e delle frecce quale arma per colpire una creatura semiumana al centro del fiume. Sebbene nel mito cinese sia l'eroe a prendersi la donna del dio fluviale e non viceversa, possiamo chiederci se in questo tema del rapimento non si possa vedere un residuo dell'antico rito (attestato in Cina ma non in Grecia) del sacrificio di una fanciulla, che veniva gettata nei flutti del fiume come sposa del dio fluviale; e se il tema della lotta contro il dio del fiume non sia alla base di un mito in cui un eroe mette fine a tali sacrifici umani.


Il gemello/compagno

Abbiamo già studiato il rapporto tra l'eroe e il proprio compagno. Le relazioni interne tra Gilgameš di Enkidu e quelle tra Hērakls e Iphikls/Iólaos, e appurato che, purtroppo, abbiamo decisamente pochi appigli per imbastire un solido schema di comparazioni. Ciò che risultava, tuttavia, era un'affinità, una quasi-gemellarità tra i due sodali, sbilanciata tuttavia dalla parte dell'eroe, il quale possedeva un quid che lo rendeva superiore al sodale. Enkidu viene creato per essere simile a Gilgameš come un suo riflesso, e vince addirittura l'amico nella lotta, eppure ne riconosce il melāmmu, lo splendore regale, che deriva a Gilgameš dalla sua sovranità e dai suoi due terzi di divinità. Hērakls e Iphikls sono gemelli, nati d'un solo parto, eppure il primo è un hēmítheos, figlio di Zeús, il secondo un mortale, figlio di Amphitrýōn.

Mori Masako (che lavora soltanto sulla comparazione tra il mito mesopotamico e quello cinese) individua una relazione di questo genere anche tra e Féng Méng. Come Gilgameš ed Enkidu erano praticamente pari nella lotta, così e Féng Méng sono pari nell'uso dell'arco: « e Féng Méng maneggiavano l'arco altrettanto bene» (Xúnzǐ); «Disposto un bersaglio di cinque pollici di diametro, soltanto e Féng Méng potevano centrarlo senza sbagliare» (Hán Fēizǐ). Nondimeno, la superiorità di su Féng Méng si manifestava in una tecnica superiore, oppure, più sottilmente, nel fatto che egli era il maestro dei due e teneva l'altro in posizione subordinata. Ciò porterà il geloso Féng Méng a organizzare l'uccisione di . Il fatto che l'ideogramma méng 蒙, nel nome di Féng Méng, contenga un radicale dal significato di «infantile, sciocco», secondo la Mori, potrebbe essere messo in correlazione con la natura ferina di Enkidu. (Mori² 1991)

Ma il vero problema è un altro: l'assassinio dell'arciere cinese per mano del suo compagno crea un forte contrasto con il mito mesopotamico, dove è invece Enkidu a morire, lasciando Gilgameš nel dolore e nella disperazione. La Mori ritiene che il mito cinese abbia alterato i rapporti originali tra l'eroe e il suo compagno. Ritiene inoltre che l'uccisione di da parte di Féng Méng abbia moralizzato in chiave confuciana l'episodio in cui Enkidu sconfigge Gilgameš nella lotta, presentando Féng Méng come un esempio di ingratitudine del discepolo nei confronti del maestro. La studiosa pensa che lo Ša naqba īmuru abbia meglio conservato l'originale relazione tra l'eroe e il suo sodale, vicina a quella tra Gilgameš ed Enkidu, e conclusasi con la morte di quest'ultimo (Mori² 1991). La Mori non tiene conto che, anche nel mito greco, è Iólaos a sopravvivere a Hērakls. Certo, la versione greca potrebbe dipendere da quella fenicia, dove il compagno di Melqkart è presente alla morte di quest'ultimo (Athḗnaios: Deipnosophistaí [IX: 392d-e]), ed essere essa stessa una ulteriore variazione sul tema. Tuttavia, confrontando le ragioni che spingono i vari eroi (Hērakls, al-Iskandar/Eskandar e ora anche ) a cercare l'immortalità, scopriamo che il riconoscimento della propria mortalità è motivata dalla reazione a quella che il protagonista avverte come un'ingiustizia personale. In tutti i casi – tranne in quello di Gilgameš – non è mai un lutto a scuotere l'eroe. Ciò porterebbe a credere che, in realtà, sia proprio lo Ša naqba īmuru a presentare un'innovazione. La finezza psicologica della presa di coscienza, da parte di Gilgameš, dei limiti della propria umanità attraverso la morte dell'amico-specchio Enkidu, fa pensare alla mano di un raffinato scrittore, capace di rinnovare la materia, più che a quella di un mitografo che, al contrario, cerca di conservare e tramandare una tradizione antica e forse poco compresa. D'altra parte, ricordiamoci che la tavola XII dell'epopea ninivita contiene una diversa versione della morte di Enkidu, tratto dal racconto sumerico Ud rea ud sudra rea, dove il compagno dell'eroe scende nell'Arali per recuperare il pukku e il mekku dell'amico, e rimane prigioniero del regno dei morti.
 

Il suo rapporto con le donne: l'avversaria e l'enofora

Il destino del nostro eroe, come già abbiamo visto, è segnato dal confronto con due figure femminili, le quali fungono da poli per la sua ricerca dell'immortalità. La prima figura, l'«avversaria» (Inanna/Ištâr, Hḗra), è propulsiva: l'eroe ha con essa una tensione politica e/o erotica, e funge da causa scatenante per il suo viaggio. La seconda figura, l'«enofora» (Šiduri, Hḗbē) possiede i mezzi per esaudire la ricerca dell'eroe ed è benevola e soccorrevole nei suoi confronti.

Nel mito di Gilgameš l'avversaria è Inanna/Ištâr. Ella è la dea poliade di Uruk, città di cui lo stesso Gilgameš è lugal: nel poema sumerico Šul meka šul meka, i due entrano in conflitto per una questione di competenze e di poteri; nel poema ninivita, il conflitto è causato dal desiderio sessuale di Ištâr nei confronti di Gilgameš, desiderio che l'eroe si rifiuta di soddisfare (Ša naqba īmuru [VI]). In entrambi i casi, il risultato è che la dea scatena Gudanna, il toro celeste, contro Uruk: l'uccisione dell'animale causerà, per ritorsione, la morte di Enkidu. Ed ecco la crisi esistenziale che spingerà Gilgameš a intraprendere il viaggio alla ricerca della vita. Nel mito di Hērakls, l'avversaria è Hḗra. Madrina dell'eroe (forse addirittura madre in una versione anteriore del mito), Hḗra è la dea poliade dell'Argolís, regione su cui Hērakls è destinato a regnare per diritto di nascita: la dea tuttavia riesce a modificare il destino dell'eroe, facendo sì che il trono vada a Eurysteús. Inoltre, offuscando il suo senno, Hḗra causa spinge Hērakls a uccidere i suoi stessi figli. L'orribile delitto è causa della crisi esistenziale che costringerà l'eroe a consegnarsi in servitù allo stesso Eurysteús. Tale servizio sarà la ragione tanto della sua ricerca dei frutti dell'immortalità, tanto, parallelamente, gli meriterà l'apoteosi.

Cháng'é

Stampa di autore non identificato.

Nel ciclo di , ritroviamo il mitema dell'avversaria nella stessa moglie dell'eroe, Cháng'é. Quale dea della luna, il cui profilo viene riconosciuto, in oriente, nelle immagini eidoliche presenti sul disco lunare, Cháng'é è una dea astrale, così come Inanna/Ištâr è la «signora del cielo» e la dea del pianeta Venere nel mito mesopotamico, ed Hḗra è la regina del cielo in quello ellenico. Bisogna però ammettere che, secondo la maggior parte degli studiosi, e Cháng'é sarebbero personaggi originariamente appartenenti a tradizioni diverse, che hanno finito per venire associati – o per meglio dire «sposati» – solo nel corso dell'elaborazione orale del mito, soprattutto in occasione di particolari ricorrenze cultuali. Non sappiamo se Cháng'é abbia occultato una precedente figura femminile associata al mito di (magari Luò Pín?), oppure se sia da considerare un elemento aggiunto ex novo al ciclo del divino arciere. Inoltre, al contrario di quanto avviene nelle «coppie» Gilgameš ~ Ištâr ed Hērakls ~ Hḗra, tra e Cháng'é non sembra esservi una tensione politica, e forse nemmeno sessuale, visto che sono presentati come una coppia regolarmente sposata (con tutte le naturali tensioni di un matrimonio). La loro opposizione si muove su un piano quasi simbolico: è una figura con forti connotazioni solari, mentre Cháng'é è evidentemente lunare. Ed è proprio questa complementarità yáng/yīn a svelare il simbolismo che ha ridefinito, in chiave tipicamente cinese, il rapporto tra e la sua compagna/avversaria. Detto ciò, Cháng'é, nelle varianti più note del mito, funge da elemento propulsivo: sono le sue lamentele a convincere il marito a recarsi sul Kūnlún shān per farsi consegnare l'elixir vitae.

La seconda figura femminile, l'enofora, è colei che soddisfa la ricerca della vita da parte dell'eroe. Nel mito di Hērakls, essa è Hḗbē, la coppiera che elargisce agli dèi dell'Ólympos il cibo e la bevanda d'immortalità, il néktar e l'ambrosía. La sua stretta associazione con Hērakls è evidenziata dal fatto che è proprio Hḗbē a divenire sposa dell'eroe dopo la sua apoteosi. Nel mito di Gilgameš, la figura omologa è Šiduri: sebbene non abbia un ruolo ai fini della ricerca dell'eroe ma si limiti a effettuare una sorta di inesplicabile comparsa nella tavola X dello Ša naqba īmuru, essa viene presentata come una locandiera (sābītu), colei che distilla la birra. È probabile che, in una qualche versione anteriore del mito, Šiduri avesse un ruolo più importante nell'economia della ricerca di Gilgameš, e non ci stupiremmo se fosse proprio lei a elargire l'elixir vitae. Quale sia stato lo svolgimento di questo ipotetico antemito, non possiamo saperlo. Un buon suggerimento potrebbe però venirci da un confronto con il ciclo di . Nel mito cinese, Xīwángmǔ, la «regina madre dell'occidente», soddisfa di buon grado la richiesta dell'arciere, elargendogli l'elixir vitae, mentre Cháng'é priva l'arciere dei frutti della propria ricerca appropriandosi della preziosa bevanda. Come il serpente nel mito ninivita o al-Ḫiḍr nella tradizione islāmica, è la donna a bere l'elixir e a ottenere l'immortalità e la trascendenza, condannando alla vecchiezza e alla morte.

Proviamo a riassumere questi rapporti con due schemi. Uno per la «avversaria»:

  GILGAMEŠ HĒRAKLS
«Avversaria» Inanna/Ištâr Hḗra Cháng'é
Rapporto Spasimante Madrina (madre?) Moglie
Funzione Signora del cielo, dea del pianeta Venere Regina del cielo Dea della luna
Opposizione Politica Politica Simbolica
Erotica   (Matrimoniale)
Ruolo Provoca la crisi esistenziale che spinge l'eroe alla ricerca della vita Provoca la crisi esistenziale che spinge l'eroe alla ricerca della vita Provoca la crisi esistenziale che spinge l'eroe alla ricerca della vita
    Priva della vita eterna


E uno per l'«enofora»:

  GILGAMEŠ HĒRAKLS
«Enofora» Šiduri Hḗbē Xīwángmǔ
Rapporto   Moglie  
Funzione Distilla la birra Elargisce agli dèi il néktar e l'ambrosía. Distilla l'elixir vitae
Residenza Ai confini della terra, in una taverna sulle sponde dell'oceano cosmico Sull'óros Ólympos Ai confini della terra, sul Kūnlún shān
Ruolo Incontra e consiglia l'eroe nel corso della sua ricerca Garantisce l'immortalità e la giovinezza dell'eroe Offre all'eroe l'elixir vitae


Morte e apoteosi (?)

« fu un sommo arciere e Jiao poteva pilotare una nave anche sulla terraferma, ma entrambi trovarono una morte comune», attesta, con un pizzico di moralismo, un capitolo degli analecta di Kǒng Fūzǐ (Lúnyǔ [14]). La principale fonte sulla morte di è però lo Huáinánzǐ, il quale ci informa tanto di quale fu l'arma del delitto (un táobǎng, un «randello di pesco»), tanto di quale sarebbe stato il luogo dell'omicidio (Táobù, il «posto dei peschi»). Ma è soprattutto Mèngzǐ a raccontarci i dettagli del fattaccio:

  Páng Méng aveva appreso l'arte dell'arciere da. Quando ebbe imparato tutto sul metodo di pensò che nel regno solo costui poteva superarlo e perciò lo uccise.
Mèngzǐ: Mèngzǐ [113]

Il confuciano Zhū Xī (1130-1200) suggerisce, nei suoi commentari, che venne ucciso in una congiura ordita dai servi della sua casa, e che Páng Méng [Féng Méng] doveva essere uno di essi. Questo, più o meno, il dossier sull'omicidio del grande arciere. Ah, segue un'ultima nota: « eliminò tutte le minacce dal mondo e, dopo la sua morte, divenne [il dio] Zōngbù» (Huáinánzǐ).

Questa sorta di aggiuntiva apoteosi, aggiunta quasi in punta di penna, permette a Mori Masako di avvicinare tanto a Hērakls quanto, conclusione assai meno ovvia, a Gilgameš. Tutt'e tre gli eroi, infatti, sarebbero stati divinizzati dopo la morte. Riguardo a Hērakls ne abbiamo parlato in precedenza. Per quanto riguarda Gilgameš, l'autrice ci ricorda che nel testo sumerico intitolato informalmente «Morte di Ur-Nammu», vengono recate delle offerte a nove divinità del Kur, ovvero dell'oltretomba: Nergal, Bilgames, Ereškigal, Dumuzi, Namtar, Ḫušbisag, Ningizzida, Dimpiku, Ninazimua (Mori² 1991). La preghiera che accompagna l'offerta a Bilgames viene formulata in questo modo:

  Una lancia, una bisaccia da sella, un'arma a punta con la decorazione di un leone del cielo,
uno scudo ben saldo al suolo, l'arma gloriosa,
un'ascia da guerra, preferita da Ereškigal,
a Bilgames, il re del Kur,
il pastore Ur-Nammu offre in sacrificio nel suo palazzo!

«Morte di Ur-Nammu» [-]

La comparazione della Mori, tuttavia, ci sembra assai poco solida e non tiene affatto conto del contesto in cui è stato elaborata la «Morte di Ur-Nammu». C'è innanzitutto la difficoltà di inferire un significato mitologico a un passo tratto da un poema funerario, composto in occasione del decesso del lugal Ur-Nammu (♔ ±2047-2030), fondatore della terza dinastia di Ur, e soprattutto di applicare le conclusioni tratte da questo testo al poema ninivita, lo Ša naqba īmuru, che avrebbe raggiunto la forma a noi nota almeno mille anni più tardi. Detto ciò, bisogna notare che nel poema sumerico Ursa [amgale] banu («Giace l'eroe [il grande toro]»), la morte di Bilgames viene trattata in termini assai differenti: il re giace senza respiro nella trappola della morte; colui che stabilito la pace nel paese di Sumer e ha compiuto le più portentose imprese, viene sepolto – secondo il crudele uso dell'arcaica Mezzaluna Fertile – insieme alla moglie e al figlio, ai parenti e alle concubine, i cortigiani, i servi, nel palazzo puro nel cuore di Uruk. L'Ursa [amgale] banu si conclude con l'immagine di Bilgames, che giunto nell'Arali, presenta le sue offerte ai dèi dell'oltretomba: a Ereškigal, Namtar, Neti, Dimpiku, Dumuzi, Ningizzida: e la lista è perfettamente parallela a quella presente nella «Morte di Ur-Nammu». Ora, in tutto questo, non c'è nulla che faccia pensare a una sorta di apoteosi: il larvale prolungamento dell'esistenza negli inferi è precisamente il contrario dell'immortalità di cui godono gli dèi, allo stesso modo in cui la morte è il contrario della vita. Ma tale ovvietà tende a sfuggire a molti studiosi. Ed Enkidu è chiaro, quando parla a Bilgames del destino degli uomini nell'Arali: «Se io ti dicessi degli ordinamenti dell'oltretomba, allora tu ti sederesti e piangeresti» (Ud rea ud sudra rea [-]): e segue una raccapricciante descrizione della sorte oltremondana di tutti i mortali.

Ma allora, come dobbiamo intendere quel «Bilgames, il re del Kur» in «Morte di Ur-Nammu» []? Quest'ultimo testo cita u l'Ursa [amgale] banu: come Bilgames, sceso agli inferi, fa offerte agli dèi del Kur, così il lugal Ur-Nammu, caduto per le ferite riportate in una battaglia, disceso anch'egli agli inferi, fa offerte agli stessi dèi e anche a Bilgames, a cui aggiunge dei regali personali. Gli dèi della casa del non-ritorno gli offrono un trono su cui accomodarsi e gli assegnano un appartamento nel Kur, provvisto di servitù composta in massima parte dai suoi stessi soldati caduti in battaglia. Il re è furibondo per le cose che non è riuscito a concludere sulla terra (viene in mente l'amara osservazione di al-Ḫiḍr a Ḏū ʾl-Qarnayn morente: “Ora non rimane che quello che hai già fatto” (Aṣ-Ṣaʿb Ḏu ʾl-Qarnayn)), e le stesse divinità esprimono rammarico e furore per il destino di Ur-Nammu. Dunque, nella «Morte di Ur-Nammu», la «divinizzazione» di Bilgames quale re del Kur prelude al destino che l'autore del testo augurato allo stesso Ur-Nammu una volta raggiunto il paese dei morti. Non dimentichiamo che questo testo era destinato a venire recitato durante o subito dopo le esequie del lugal, quando il dolore per la sua scomparsa era ancora vivo presso il popolo di Ur. Quanto vi appare è da leggere come eulogia per il re defunto: intendere questo testo come una fonte mitologica per imbastire un'eventuale apoteosi di Bilgames/Gilgameš vuol dire, a nostro avviso, tradire lo spirito del mito mesopotamico.

In quanto all'apoteosi di , per dare una risposta bisognerebbe saperne di più su questo Zōngbù citato da Liú Ān nel suo Huáinánzǐ. Pare fosse un dio che si incaricava di scongiurare disastri (Yang ~ An 2005), il che potrebbe spiegare con quale criterio sia stato associato a . Questo passaggio di un eroe, sovrano o antenato, a shén tutelare o divinità minore è molto comune nella mitologia cinese (dove tale tipo di «promozioni» era regolato da una complessa burocrazia nell'organigramma divino), e sarebbe fuorviante considerarlo un tratto peculiare di . Bisogna stare attenti a non fare confusione: l'apotesi di Hērakls (che non va confusa né con la continuazione della coscienza negli inferi, e neppure con l'immortalità di coloro che sono stati traslati nelle Makárōn Nsoi) rimane una straordinaria eccezione tra gli eroi del mito greco, e soprattutto un'eccezione – che riteniamo di avere adeguatamente spiegato – nel mito generale che è argomento di questa pagina: la vana ricerca dell'immortalità di un antichissimo eroe.

In conclusione, gli studiosi tanto cinesi quanto giapponesi hanno presentato molte brillanti analisi comparatistiche nel tentativo di definire le relazioni tra ed Hērakls, o e Gilgameš. Sebbene alcuni di loro ritengano che vi siano delle influenze, nonostante la distanza geografica, non si è potuto definire, neppure approssimativamente, né la natura di tali influenze, né a quando risalgano. Mori Masako ritiene che l'epopea di Gilgameš possa aver raggiunto la Cina nel corso del Chūnqiū Zhànguó, il cosiddetto «Periodo primavera e autunno» (772-221 a.C.), o poco prima. L'epopea mesopotamica si sarebbe quindi fusa con il preesistente mito di un arciere che aveva abbattuto un certo numero di soli in eccesso, i due eroi sarebbero stati identificati l'uno con l'altro e, con molte aggiunte, abbellimenti e sovrapposizioni di miti e personaggi, sarebbe sorto il ciclo di (Mori² 1991).

L'ipotesi della Mori è ragionevole, e l'autrice potrebbe aver ragione, ma come mostreremo in dettaglio in conclusione di questo lavoro, vi sono diversi elementi comuni al ciclo di Hērakls e a quello di , ma non presenti in quello di Gilgameš. Questo dato mette in seria discussione le ipotesi della Mori sull'influenza dello Ša naqba īmuru sul ciclo di . Ne parleremo tra non molto. Prima bisogna però tornare in Europa.

NEL MONDO CELTICO, TRA YNYS AFAỺON E IL TIR NA N-ÓG

Il lettore non si dispiacerà se saltiamo, con un solo balzo, dall'una all'altra estremità dell'Eurasia. Dall'antica Cina passiamo ora, con i sandali alati del mitografo, all'Europa occidentale dell'età del ferro.

 Massima espansione dei popoli celtici, tra il IV e il III secolo a.C.

È stato detto che i Celti siano stati il primo popolo europeo. Ed effettivamente, nel periodo della loro massima espansione, intorno al IV-III secolo avanti Cristo, occupavano buona parte del continente. In tutta la Gallia, la Belgica, l'Elvezia e l'Italia del nord si parlavano lingue galliche. Dal sud della Germania e dall'odierna Austria, gruppi celtici si erano spinti fino in Boemia e sulle sponde del Mar Nero. I Galati si erano stanziati nel cuore dell'Anatolia e i Celtiberi – fusi con le popolazioni di substrato – occupavano buone parti dell'Iberia. Le isole britanniche erano patria di fieri regni celtici.

Nonostante l'immensa area di diffusione, però, la cultura celtico-continentale sarebbe scomparsa entro il 500-600 dopo Cristo, quasi senza lasciare traccia. Estranei com'erano all'idea di mettere per iscritto la loro sapienza tradizionale, druidi e poeti passavano anni della loro vita a imparare a memoria una quantità sterminata di racconti, poemi e leggende… E quando, la romanizzazione, le invasioni germaniche e l'avvento del cristianesimo provocarono la fine del druidismo, un'intera letteratura e mitologia venne praticamente cancellata. In mancanza di fonti dirette sulle credenze, la religione e la mitologia dei Celti continentali, gli odierni studiosi sono costretti ad affidarsi a due diversi tipi di testimonianze, difficilmente conciliabili: gli scritti degli autori classici e il patrimonio archeologico, gli uni e l'altro integrati dai sussidi della linguistica e della toponomastica. Di fronte alla scarsità del materiale ma, ancor più, alla difficoltà di interpretarlo, gli studiosi hanno dovuto ingegnarsi a trarre informazioni dall'indizio più insignificante e trascurabile. Ingegnose ipotesi sono state costruite a partire da dati minimi: l'etimologia di un nome, l'oscuro accenno di un autore romano, l'incerto attributo di un personaggio figurato. Da tale esiziale documentazione emergono figure molto incerte, i cui tratti si tenta di mettere a fuoco ricorrendo ai paralleli con il patrimonio mitico greco-romano e con quello delle posteriori fonti britanniche e irlandesi.

Un caso a parte rappresentano infatti la Britannia e, soprattutto, l'Irlanda. Il cristianesimo, portato nell'Isola di Smeraldo da noíb Pátraic nel 432, trovò il modo di armonizzarsi al modo di vita del popolo gaelico, al suo sentire e alla sua cultura. Anche se vi furono inevitabili contrasti tra gli evangelizzatori cristiani e i druidi, gelosi del loro retaggio e dei loro privilegi, col crollo del druidismo furono i monaci ad ereditarne il ruolo di custodi del sapere e della tradizione locale. L'amore per la conoscenza che animava quei monaci, unito all'attitudine e alla pazienza nell'ars scriptoria, permise loro di tramandare una grandissima quantità di materiale di valore inestimabile. In un periodo particolarmente difficile, essi dedicarono le intere esistenze a trascrivere le antiche storie del popolo irlandese, trasmettendo un'immensa mole di cronache, narrazioni, genealogie, agiografie, testi sapienziali, storici, teologici e druidici, che fecero della letteratura gaelica la più vasta e antiche d'Europa dopo la greca e la latina.

Certamente questa continuità tra mondo classico-cristiano e celtico, ha anche inquinato il materiale, rendendo a volte difficile comprendere l'origine di questo o quel racconto o mitema. Ciò che importa, tuttavia, è che ritroviamo, in Britannia e, soprattutto, in Irlanda, gli esempi europei più fulgidi e compiuti di alcuni dei miti che abbiamo analizzato in questa pagina. Il tema delle meravigliose isole di immortalità, poste al di là del mare (o addirittura sotto il mare), è infatti preponderante nelle tradizioni dei Celti insulari.

La più nota, a livello popolare, di queste isole oltreoceaniche – di cui ormai conosciamo tutti i segreti – è sicuramente Ynys Afaỻon, la Avalon del ciclo arturiano. Il suo paradigma viene stabilito da Gaufridus Monemutensis (±1100-±1155), il padre fondatore della matière de Bretagne, nell'Historia regum Britanniae, in cui cita Afaỻon come il luogo dove venne forgiata la spada di Arthur, Caliburnus [IX, 2], e quindi come l'isola nella quale fu condotto, moribondo, lo stesso brenhin Arthur [IX, 2]. Ma è nella Vita Merlini che egli mette in bocca al semimitico bardo Taliesin la prima vivida descrizione letteraria dell'isola avaloniana:

Jnsula pomorum que fortunata uocatur
ex re nomen habet quia per se singula profert
non opus est illi sulcantibus arua colonis
omnis abest cultus nisi quem natura ministrat.
Ultro fecundas segetes producit et uuas
nataque poma suis pretonso germine siluis
omnia gignit humus uice graminis ultro redundans.
Annis centenis aut ultra viuiter illic.
Jllic iura nouem geniali lege sorores
dant his qui ueniunt nostris ex partibus ad se
quarum que prior est fit doctior arte medendi
excedit que suas forma prestante sorores.
Morgen ei nomen didicit que quid utilitatis
gramina cuncta ferant ut languida corpora curet.
ars quoque nota sibi qua scit mutare figuram
et resecare nouis quasi dedalus aera pennis.
Cum uult est Bristi, Carnoti, siue Papie
cum uult in uestris es aere labitur horis
hanc que mathematicam dicunt didicisse sorores
Moronoe, Mazoe, Gliten, Glitonea, Gliton,
Tyronoe, Thiten, cithara notissima Thiton.
Jlluc post bellum camblani uulnere lesum
duximus arcturum nos conducente barintho
equora cui fuerant et celi sydera nota.
Hoc rectore ratis cum principe uenimus illuc
et nos quo decuit Morgen suscepit honore
inque suis talamis posuit super aurea regem
stulta manu que sibi detexit uulnus honesta
inspexit que diu. Tandem que redire salutem
posse sibi dixit, si secum tempore longo
esset et ipsius uellet medicamine fungi.
Gaudentes igitur regem commisimus illi
et dedimus uentis redeundo uela secundis.
L'Insula Pomorum, detta fortunata,
trae nome dal fatto che essa stessa produce ogni frutto:
non le occorrono coloni che solchino il suolo,
le manca il prodotto della cultura e possiede ciò che la natura offre.
Produce spontaneamente cereali e uve abbondanti
e i meli nascono nei suoi boschi sull'erba ben rasa,
il suolo genera da sé ogni frutto in gran quantità al posto dell'erba.
Là si vive per cent'anni e più.
Là nove sorelle, per diritto di stirpe, impongono le loro leggi
a coloro che dalle nostre parti arrivano presso di esse.
La prima di loro è dotta nell'arte del medicare
e supera le sorelle per la sua bellezza.
Morgen
ha nome, e sa quali erbe adoperare
nella cura dei corpi malati.
A lei è nota anche l'arte col quale cambiare aspetto
e taglia l'aria con le ali come Daedalus.
Quando vuole è a Bristol (?), a Chartres o a Pavia (?)
quando vuole scivola giù dall'aria sulle vostre coste.
Dicono che abbia insegnato la matematica alle sorelle:
Moronoe, Mazoe, Gliten, Glitonea, Gliton,
Tyronoe
, Thiten, Thiton, che è conosciutissima per la cetra.
Là, dopo la battaglia di Camlann, portammo, leso da una ferita,
Arthur, e ci guidava Barinthus,
al quale erano note le acque e le stelle del cielo.
Con lui che guidava le navi, portammo là il principe
e Morgen ci accolse con l'ossequio che si conveniva,
e pose il re nel suo talamo, sopra un letto d'oro,
e con la sua mano scoperse l'onorevole la ferita
e l'esaminò a lungo. Alla fine disse che la salute
poteva tornargli se fosse rimasto a lungo
e avesse fruito delle arti curative di lei.
Gioiosi, le affidammo il re e
demmo le vele ai venti favorevoli per tornare.
Vita Merlini [-]
Arthur condotto ad Ynys Afaỻon

Rifchard Hook, illustrazione.

È la base di un mito noto e potente: Arthur ap Uthyr che attende, immortale, in Ynys Afaỻon il momento in cui tornerà per strappare Ynys Prydain (la Britannia) al dominio sassone, è stato un sogno accarezzato per secoli dai patrioti gallesi. L'associazione tarda e apocrifa della collina di Glastonbury Tor, nel Somerset, con la mitica Afaỻon, sostenuta tra gli altri da Giraldus Cambrensis nel Liber de Principis instructione, e il presunto rinvenimento di una tomba di Arthur, nel territorio della vicina abbazia, la cui iscrizione, incisa su una croce di piombo, riportava più o meno

«HIC IACET SEPVLTVS INCLITVS
REX ARTVRIVS IN INSVLA AVALONIA
»

...è la prova di quanto fosse avvertita come reale e incombente la leggenda arturiana alla fine del XII secolo. Il falso ritrovamento di quella tomba e di quella croce permetteva ai sovrani Henry II (♔ 1154-1189) e Richard I Lionheart (♔ 1189-1199) di distruggere la speranza dei Gallesi nel mitico brenhin Arthur che avrebbe messo fine all'occupazione sassone e normanna, nonché al ristabilimento della regalità celto-britannica.

Ma tornando indietro, riconosciamo agilmente nella Vita Merlini moltissimi dei mitemi che abbiamo esplorato in questa pagina. Re Arthur che attende, immortale, nella sua isola fuori dal tempo, rimanda agli eroi greci traslati nelle Makárōn Nsoi... e risalendo ancor più il flusso dei secoli, mutatis mutandis, rimanda ai soliti Ziudsura, Atraḫasîs e Ūtnapištî nell'isola di Dilmun. Il nome Ynys Afaỻon deriva in effetti dal gallese afaỻ «melo», sebbene sia possibile che la lezione «isola dei meli» sia nata per associazione proprio con i frutti d'oro del Kpos Hesperídōn. Si ritiene anche, tuttavia, che Ynys Afaỻon sia un'alterazione di un originario Ynys Afaỻach, «isola di Afallach», dal nome di uno dei re di Annỽfyn, l'oltremondo della mitologia gallese, padre della stessa Modron.

Modron e le sue sorelle, figlie di Afallach, hanno probabilmente un corrispettivo nelle Hesperídes, le nymphaí del tramonto, figlie di Átlas, nel cui giardino crescano i krýsea mla che rendono immortali. È uno di quei classici casi in cui gli studiosi di mitologia celtica, una volta risaliti al mito ellenico, si strofinano le mani soddisfatti, convinti di aver trovato le origini del tema. E in questo caso ne hanno ben donde, perché è anche attestata una fonte intermedia. Lo scrittore latino Pomponius Mela (❀ 45 d.C.) riferisce una strana tradizione gallica, riguardo a un culto praticato su un'isola posta sulla punta della Bretagna francese, l'attuale Île-de-Sein:

  Nell'isola di Sena, posta nel mar britannico, davanti alla terra degli Osismii, vi è un famoso oracolo, al quale attendono nove fanciulle consacrate alla perpetua verginità: sono chiamate Gallicenae, sono dotate di singolare sapienza, sanno governare il mare e i venti con canti magici e sanno trasformarsi in animali. Sanno sanare mali che altri considerano incurabili e predire il futuro.
Pomponius Mela: De Chorografia [III: 6]

Tutto ciò è molto logico, ma bisogna notare che questa affascinante presenza femminile nei giardini della vita e nelle isole dell'immortalità, su cui insistono gli autori classici e celtici, invano la cercheremmo nei miti mesopotamici di Dilmun e del Pû-nārāti, nel racconto ebraico del gan ʿĒḏẹn, o nella tradizione islāmica delle città di Ǧābarsā e Ǧābalqā, i cui abitanti, anzi, erano tutti maschi. Però, a sorpresa, ci ricordiamo che gli alberi di giada e i peschi dell'immortalità che crescono sul monte Kūnlún erano accuditi da Xīwángmǔ, la «regina madre dell'occidente», circondata dalle sue yǜnǚ o «fanciulle di giada». Inoltre, questi strani poteri di riuscire a governare il mare e i venti sono esplicitamente citati tra le capacità che gli xiān acquistano mentre salgono i livelli del monte Kūnlún (Huáinánzǐ [IV: 3]). Del resto, quando nei testi cinesi leggiamo frasi come «A est di Kāimíng stanno le [«sciamane»] Péng, , Yáng, , Fán e Xiāng, che stringono tra loro la salma di Yàyǔ; tutte hanno in mano l'erba dell'immortalità per allontanare [il soffio della morte e riportarlo in vita]» (Shānhǎi Jīng [XI: 5]; Guō Pú), o come «A est di Kāimíng le Péng, , Yáng, , Fán e Xiāng portarono il corpo di Yàyǔ e tentarono di riportarlo in vita con l'elixir vitae» (Hǎinèi Xījīng), il pensiero corre subito a Morgen e alle sue sorelle intorno al corpo di Arthur, e il fatto di sapere che a Péng è attribuita la creazione dell'arte medica (Shuōwén Jiězì) conferma la nostra impressione. ①▼

Ma il tema delle meravigliose isole d'oltreoceano ha avuto un enorme sviluppo soprattutto nella letteratura irlandese, dove le storie dei viaggi per mare di eroi e santi in queste terre paradisiache è stato addirittura codificato in un genere letterario: apposito quello degli immráma o «navigazioni», di cui gli esempi più noti sono l'Immram Brain maic Febail (VIII sec.), l'Immram Maele Dúin (X sec.) e la latina Navigatio sancti Brandani (X sec.), dove le meravigliose isole su cui sbarcano noíb Brandán e i suoi monaci si succedono l'una all'altra. La memoria corre subito alle Alf layla wa layla, ai viaggi di Eskander e, ancor più, di Sindbād il marinaio. I viaggi oceanici di noíb Brandán e di Máel Dúin, quegli immrama che tanta fortuna avrebbero avuto tra i mistici medievali, rielaborarono quelle leggende marinaresche come itinerari spirituali.

Queste isole d'oltreoceano sono descritte come luoghi di letizia e di incanto, bellezza e nobiltà. In esse tutto è lieve e dolce, non esistono né malattie né morte. Non c'è bisogno di arare o seminare, perché tutto cresce a profusione e gli alberi sono sempre carichi di frutti. È sempre primavera e non vi sono mai gelate, né siccità. Nemmeno si avverte lo scorrere del tempo e i secoli trascorrono in un soffio. Queste terre meravigliose hanno molti nomi nella tradizione ibernica. I più noti sono Tír na nÓg, la «terra dei giovani», e Tír na mBeo, la «terra della vita», poiché laggiù non esistono né dolore, né angosce, né infermità, né vecchiaia, né morte. La differenza, in termini soprannaturali, che queste felici isole d'immortalità presentano con il nostro mondo caduco e doloroso, è forse alla base del loro altro nome, Tír nAill, «l'altra terra». In esse, tutto è rimasto com'era all'età dell'oro, mentre il resto mondo era fatalmente decaduto nell'età del ferro.

Un altro nome a esse collegato è Emain Ablach, «Emain dei meli», che la letteratura identifica con l'isola di Arran, con ovvio rimando a Ynys Afaỻon. Così la descrive un'antica quartina gaelica (±720 d.C.) (Meyer 1895):

Cen bron, cen dubae, cen bás,
cen na galar, cen indgás:
is ed Étargne nEmnae
ní coimtig a comamrae.
Non affanni, non duolo, non morte,
non debolezze né malattie:
questo è il contrassegno di Emain
rara è una meraviglia eguale.
Immram Brain maic Febail
Oisín e Niam
Jim Fitzpatrick (1952-), illustrazione (particolare).

A volte questa terra d'oltreoceano veniva anche chiamata Tír inna mBan, la «terra delle donne», poiché affascinanti messaggere venivano da essa per chiamare e accompagnare gli eroi scelti per andarci a vivere. Acconsentì all'invito Bran mac Febail, il quale trascorse molto tempo in queste isole meravigliose tanto che, al suo ritorno in Ériu, scoprì che erano passati diversi secoli dalla sua partenza (Immram Brain maic Febail). Anche il bardo Oisín, il figlio di Finn mac Cumaill, venne invitato a recarsi nel Tír na nÓg da una bellissima fata, Niam Cinn Óir, che lo condusse via, a cavallo, sulle onde del mare. E quando Oisín tornò in Ériu, preso dalla nostalgia per il suo paese, l'epoca degli eroi era ormai tramontata ed egli si accorse di essere una sorta di gigante tra uomini divenuti di statura normale. La bella Niam lo aveva avvertito di non smontare mai da cavallo, ma quando egli inavvertitamente lo fece, cedendo all'abitudine di lavarsi le mani prima di entrare nell'antica reggia dei fíanna, ormai in rovina, i secoli trascorsi gli crollarono sul capo e il giovane Oisín si trasformò d'un tratto in vecchio avvizzito e cadente (Laoidh Oisín air Thír na nÓg).

Ma ancor peggio toccò a Lóegaire Líban mac Crimthainn, che tornato dal Mag Mell, scese da cavallo e si trasformò in polvere (Echtrae Lóegairi). In queste terre oltremondane, infatti, il tempo scorre in maniera diversa, e coloro che vi abitano non si accorgono nemmeno dello scorrere dei secoli. Ma quando tornano nella terra dei mortali, quando scendono dalla nave o da cavallo, quando sfiorano la terra con il piede, il tempo, che hanno magicamente ingannato e annullato, torna improvvisamente e disastrosamente a rivendicare i suoi diritti.

Alcuni nomi dell'oltremondo sembrano di origine cristiana: è il caso del Tír na Sorcha, la «terra di luce», e del Tír Tairngiri, la «terra della promessa». di quest'ultimo luogo era Manannán mac Lir, il cavaliere del mare crestato, che faceva spola con il suo corach sul Mar d'Irlanda (oppure correva con il suo carro sulle onde, che ai suoi occhi erano una pianura verde e fiorita). E vi è ancora il Tír fo Thuinn, la «terra sotto le onde», poiché terre paradisiache si stendevano anche sotto la superficie del mare, come vedremo tra poco. Nella tradizione irlandese, tuttavia, il concetto delle fatate terre dell'immortalità viene spesso integrato nella concezione stessa del territorio ibernico. Come molti studiosi hanno notato, l'isola di Ériu è trattata, nei testi gaelici, come una imago mundi: Ériu assume i connotati cosmologici dell'intero mondo abitato, circondato da ogni lato dall'oceano (bíth o lér). Ogni volta che nei testi mitologici irlandesi si parla di terre poste al di là dal mare, quali le «isole settentrionali del mondo» dove le Túatha Dé Dánann avevano acquistato la loro scienza druidica, o anche quando che si tratta di luoghi perfettamente conosciute alla geografia (come ad esempio la Grecia e la Spagna), dobbiamo pensare a luoghi posti oltre il mondo, nell'aldilà, del tutto analoghi al Kpos Hesperídōn.

In questo contesto, affiora nei testi gaeliche il concetto di síd: le terre meravigliose non si trovano soltanto oltre l'oceano, ma possono trovarsi sul suolo stesso di Ériu, anzi, nel suo sottosuolo, all'interno delle colline che costellano il paesaggio irlandese. Questa parola, síd, è forse derivante da un celtico *sedos, «dimora», sebbene sia stata anche proposta una connessione con il latino sidus «costellazione»: si tratta comunque di una pura illazione, priva di conferme.

Il mito ibernico, pervenutoci in una fase già profondamente alterata dalla interpraetatio christiana, ci narra che quando i Clanna Míled, gli antenati dei Gaeli, invasero Ériu, il popolo soprannaturale che abitava in precedenza sull'isola, le Túatha Dé Dánann (in cui riconosciamo le divinità del pántheon celtico), lasciarono la superficie terrestre agli uomini e se ne fuggirono nel sottosuolo, dove stabilirono il loro regno. Essi crearono reami fatati all'interno delle più belle colline e pianure di Ériu, e in quei síde presero a condurre un'ininterrotta esistenza di gioia e letizia, banchettando, cacciando, amoreggiando e ascoltando musica bellissima. Potevano persino soddisfare la loro passione per la guerra, perché i feriti si svegliavano all'indomani perfettamente guariti. Così gli uomini presero a chiamare questi esseri daoine síde, la «gente delle colline fatate», o più brevemente síde. La mitologia irlandese è ricca di storie dove i daoine síde uscivano dai loro regni invisibili per intervenire nelle vicende umane, nel bene come nel male. E talora poteva anche capitare che degli uomini penetrassero nei síde, a loro rischio e pericolo... o a loro eterna gioia.

Questa terra dentro la terra veniva chiamata, a volte, Mag Mór, la «grande pianura», o Mag Mell, la «pianura del piacere», perché vi si viveva un'eterna vita di delizie. I copisti medievali, su cui pesava la concezione del gan ʿĒḏẹn, ereditata dalla cultura biblico-cristiana, associavano l'umana condizione di caducità e mortalità al concetto di peccato. Di conseguenza, nell'oltremondo, una vita di piaceri amorosi e di ininterrotte mangiate non costituiva un peccato. Così Mídir, signore del síd di Brí Léith, decantò il proprio regno alla principessa Étaín quando la invitò ad andare con lui.

A Bé Find, in rega lim,
i tír n-ingnad hi fil rind?
Is barr sobairche folt and;
is dath snechtai corp co ind.
Is and nád bí muí ná taí;
gela dét and; dubai braí;
is lí súla lín ar slúag;
is dath sion and cech grúad.
Is corcur maige cach muin;
is lí súa ugae luin;
cid caín déicsiu Maige Fáil
annam íar n-gnáis Maige Máir.
Cid mesc lib coirm Inse Fáil,
is mescu coirm Tíre Máir;
amra tíre tír as-biur;
ní tét oac and ré siun.
Srotha téithmilsi tar tír,
rogu de mid ocus ḟín,
doíni delgnaidi cen on,
combart cen peccad, cen chol.
Ad-chiam cách for cach leth,
ocus níconn-acci nech:
teimel imorbais Ádaim
dodon-aircheil ar áraim.
A ben, día rís mo thúaith tind,
is barr óir bias fort (chind);
muc úr, laith, lemnacht la lind
rot-bía lim and, a Bé Find.
Donna radiosa, vuoi venire con me
nella magica terra dove sono le stelle?
Petali di primula son là le chiome
e il corpo tutto è color della neve
Là non c'è mio né tuo;
bianchi i denti, nere le ciglia.
Là è delizia per gli occhi la folta assemblea
e ogni guancia ha il colore della digitale.
Porpora il dorso di ogni pianura.
Delizia per gli occhi le uova del merlo.
Se bella da guardare è Mag Fáil [= Ériu]
è desolata per chi ha goduto il Mág Mór.
Se inebriante è la birra di Inis Fáil [= Ériu]
più inebriante la birra del Tír Mór.
Terra incantata è quella che racconto,
non vi muoiono i giovani prima dei vecchi.
Dolce, gentile, a ruscelli sul terreno,
il vino migliore e l'idromele.
Nobile popolo senza macchia
concepisce senza colpa né peccato.
Vediamo ciascuno ed ovunque
e nessuno ci vede.
La tenebra della colpa di Ádam
è impedimento ad essere scorti.
O donna, se vieni tra la mia gente altera
ti si porrà sul capo una corona d'oro;
fresca carne di porco, birra, latte e bevande
accanto a me avrai, mia radiosa signora.
Tochmarc Étaíne

Non è facile cercare una formula generale o una regola che ci permetta di analizzare a fondo le concezioni irlandesi sui síde o sulle isole oltremondane. I primi sono i regni incantati posti all'interno delle colline irlandesi, i secondi delle terre paradisiache poste al di là dal mare o addirittura sotto il mare. Gli studiosi sono convinti che gli uni e le altre originino dalle antiche concezioni celtiche sull'aldilà. Sulle quali, tuttavia, sappiamo pochissimo. Jan De Vries le riassume in due punti (De Vries 1961):

  1. Il defunto dimora nella sua tomba sottoterra. Probabilmente in Irlanda si credeva che i morti rivivessero nei síde, e i síde, prima di essere le colline fatate del folklore ibernico, erano tumuli funerari.
  2. Il defunto dimora in un'isola oltre il mare. Al riguardo, vale ricordare sorprendente notizia di Prokópios Kaisareús (500- 562), secondo il quale i popoli dell'Armorica traghettavano le anime dei loro morti su un isolotto presso la costa (Hypèr tn polémōn lógoi [VIII: 20, -]). Il mito irlandese ricorda Tech nDúinn, la «casa di Donn», in un'isoletta presso la costa, dove i Gaeli sarebbero andati dopo la morte.

Entrambe le concezioni sono illuminate dal nostro studio comparatistico. In Grecia si distingueva tra il destino di coloro che scendevano nella tomba e quello dei grandi eroi mitici destinati a essere traslati nelle Makáron Nḗsoi. Come nota De Vries, dopo l'avvento del cristianesimo, il popolo dell'oltremondo venne a diventare un confuso intruglio delle più diverse specie di esseri soprannaturali (De Vries 1961). Dai testi pervenutici (tutti di epoca cristiana) sembrerebbe che nell'oltremondo vivessero, l'uno accanto all'altro e quasi sullo stesso piano, gli antichi dèi, le faeries e le anime dei morti.

Ma sicuramente i Celti pagani distinguevano tra gli dèi, i morti e i molteplici esseri soprannaturali che popolavano il loro mondo. Sarebbe strano che i druidi non avessero catalogato le proprie idee teologiche. Nel Cath Maige Tuired (una narrazione del ciclo mitologico) si dice che i Fomóire vivevano nelle isole intorno ad Ériu, sotto il mare e nei síde. E all'inizio del Mesca Ulad (racconto del ciclo dell'Ulaid), si dice chiaramente che quando le Túatha Dé Dánann si ritirarono nei síde, assoggettarono gli esseri che già vi abitavano.

Anche nelle leggende gallesi si parla di un fatato oltremondo, accomodato secondo le concezioni cristiane. Il pendefig Pỽy si reca ad Annỽfyn, l'oltremondo della mitologia gallese, con la medesima naturalezza come se si recasse in un'altra regione del Galles (Pỽyỻ penndevig Dyvet). Manaỽyddan fab Ỻŷr e i suoi uomini, tornati da Ynys Iỽerddon in Ynys Prydein (cioè dall'Irlanda alla Britannia), banchettarono per ottant'anni, senza accorgersi del passare del tempo  (Manaỽyddan vab Ỻŷr). In seguito, il mito della terra soprannaturale continua ad eccheggiare nelle leggende arturiane, dai racconti dei Mabinogion ai romanzi cortesi di Chrétien de Troyes, in cui il cavaliere, viaggiando in cerca di avventure, si ritrova sovente in giardini e castelli incantati.

Ma prima di perderci definitivamente in questa materia vasta e affascinante, piena peraltro di fanciulle incantevoli, eternamente giovani e perfettamente disponibili, dobbiamo concentrarci sul mito di cui stiamo analizzando gli esiti.

①▲ Secondo Guō Pú, originariamente Yàyǔ aveva una testa umana e un corpo di serpente: dopo essere stato riportato in vita, acquistò testa di drago e andò a vivere nel [fiume] Ruò , dove divorava le persone. Il fatto che abbia un nome omofono a quello del mostro ucciso da , potrebbe significare che costui lo avrebbe incontrato mentre attraversava il Ruò per raggiungere il Kūnlún. Si noti che il sesso degli sciamani[] che riportano in vita Yàyǔ non è definito nel testo: è Riccardo Fracasso a presumere che siano delle sciamane, nella sua traduzione dello Shānhǎi Jīng (Fracasso 1996).
IN IRLANDA: IL TRAGICO DESTINO DEI FIGLI DI TUIRENN

Il popolo irlandese ama le storie sorprendenti, meravigliose, antiche. Non sorprende che, nell'ambito della vastissima letteratura gaelica, quella di argomento mitologico occupi una parte preponderante; un po' più stupisce forse il fatto che questa letteratura, che ebbe il suo culmine nei secoli a cavallo del Mille, continuò a essere prodotta da bardi, storici, antiquari, fin quasi ai giorni nostri.

L'Oidheadh chloinne Tuireann, il «Tragico destino dei figli di Tuirenn», è un racconto antico che ci è pervenuto però in versioni molto tarde. I circa dieci manoscritti che lo tramandano sono stati tutti compilati tra il XVIII e la prima metà del XIX secolo. La versione più nota, su cui è basata la traduzione inglese di Eoghan Ó Comhraí (Eugene O'Curry, 1764-1862), è quella presente nella raccolta ottocentesca Trí truaighe na sgéalaigheachta, i «Tre tormenti della narrazione» (nel Ms. Egerton 142, oggi custodito al British Museum), in cui sono raggruppati tre racconti appartenenti al genere dei destini tragici e delle storie meste, definito in medio irlandese aided (in irlandese classico e moderno oidheadh), in cui l'Oidheadh chloinne Tuireann è contenuto con altri due racconti di argomento analogo: l'Oidheadh chloinne Uislenn, il «Tragico destino dei figli di Uisliu», e l'Oidheadh chloinne Lir, il «Tragico destino dei figli di Lér».

Che il racconto affondi tuttavia le sue radici nell'antichità è testimoniato da un testo dell'XI secolo, l'Imthechta Tuirill ocus a Mac, le «Peregrinazioni di Tuirell e dei suoi figli», che propone una versione piuttosto diversa della medesima vicenda. (Botheroyd ~ Botheroyd 1992) Ⓐ▼

Brian uccide Cían
Roger Garland, illustrazione

Il racconto si svolge all'epoca in cui i Gaeli non erano ancora giunti in Ériu, e l'isola apparteneva ancora alla semidivine Túatha Dé Danann, le quali la contendevano tuttavia ai Fomóraig, il popolo di predoni marini stanziati nelle isole circostanti. La storia inizia con la rivalità tra due gruppi di tre fratelli: da una parte vi erano i tre figli di Tuirenn: Brian, Iuchar e Iucharba. Dall'altra i tre figli di Cáinte: Cian, e Ceithen. Si detestavano e si portavano reciproco odio al punto che, non importa dove si fossero incontrati, non avrebbero evitato una contesa mortale. Un giorno capitò che Cian, che si trovava da solo in Mag Muirthemne, vide arrivare i tre figli di Tuirenn. Essendo da solo, si colpì con la sua bacchetta druidica e si trasformò in un porco, mescolandosi a un branco di suini. Ma Brian mac Tuireann, avendolo riconosciuto, lo trafisse con la sua lancia. Il maiale squittì con voce umana, chiedendo pietà. «È stato un atto malvagio colpirmi, dal momento che mi avete riconosciuto. Risparmiatemi!» Iuchar e Iucharba si dissero disposti a concedere a Cian grazia della vita, ma Brian rifiutò: «Io non ti farò grazia! Anzi, giuro sugli spiriti dell'aria che, anche se la vita tornasse in te per sette volte, per sette volte te la strapperei!», e ancora in forma di porco, Cian venne lapidato.

Ora, Cian era padre di Lug, re ad interim delle Túatha Dé Danann e loro condottiero nel corso della guerra contro i Fomóraig. Il radioso Lúg non tarda a scoprire l'omicidio del padre e a identificare gli assassini, additando i figli di Tuirenn dinanzi a tutta l'assemblea danann, nella reggia di Temáir. Le due parti sembrano arrivare però a un rapido accorto e si decide che l'omicidio sarà riparato tramite il pagamento di un éiric, sorta di ammenda o guidrigildo.

“Ecco quale sarà l'éiric che pretendo” dice Lug ai figli di Tuirenn. “Mi procurerete tre mele, la pelle di un maiale, una lancia, un carro e due cavalli, sette maiali, un cucciolo, uno spiedo e tre grida sopra una collina. Questo è il prezzo che chiedo.” E poiché i figli di Tuirenn, stupiti dall'esiguità dell'ammenda, non possono che accettarla, Lug chiarisce le sue pretese:

  • Le tre mele sono i pomi del gardh na-hIsbéirne, a est del mondo. Hanno il colore dell'oro e il sapore del miele. A chi ne mangia anche un solo morso guariscono le ferite e sanano le malattie e, per quanto se ne mangi, non finiscono mai.
  • La pelle è del maiale di Túis, re di Gréige [Grecia]. La sua pelle è in grado di guarire qualunque ferita e malattia, anche se l'uomo si trovi in fin di vita, e l'acqua che vi viene filtrata dopo nove giorni diventa vino.
  • La lancia ha nome Aréadbhair e appartiene a Pisear, re di Persia [sic]. Sceglie da sola il bersaglio e consente di compiere le più grandiose imprese. La sua punta deve essere tenuta in un calderone pieno d'acqua affinché il terreno su cui poggia non bruci e la lancia non vi penetri al punto di non poter più essere tirata fuori.
  • I cavalli e il carro appartengono a Dobar, re di Sisle [Sicilia]. La loro natura è tale che corrono allo stesso modo tanto sulla terra quanto sul mare. I cavalli, per quanto li si possa uccidere, il mattino dopo ritornano integri, purché si faccia attenzione a non disperdere o rompere le ossa.
  • I sette maiali appartengono a Easal, re delle Colomain Óir [«colonne d'oro»]. Anche se li si uccide ogni notte, il giorno dopo sono più vivi di prima. Chiunque ne gusti un solo boccone non conosce né malattia né infermità.
  • Il cucciolo appartiene al re di Ioruadh. Il suo nome è Failinis ed è in grado di acchiappare qualsiasi animale.
  • Lo spiedo da arrosto è uno di quelli che posseggono le donne di Inis Fianchaire.
  • E infine, le tre grida dovranno risuonare sulla collina di Miodhchaoin a nord di Lochlann.
Il prezzo della riparazione dei figli di Tuirell
Roger Garland, illustrazione

Nel suo classico libro sui miti e le leggende celtiche, Charles Squire dedica un intero capitolo ai figli di Tuirenn, che definisce gli «Argonauti gaelici» (Squire 1912). Il malvezzo di trovare paralleli classici alle leggende nordiche o celtiche era assai diffusa tra gli scrittori e gli studiosi della prima metà del Novecento, forse nel tentativo inconscio di «nobilitare» la propria area di interesse. Non si può comunque negare che, come gli Argonaûtai della leggenda greca, anche i figli di Tuirenn viaggiano ai confini del mondo alla ricerca di oggetti straordinari, tra cui una pelle di porco in grado di guarire qualunque malattia che non è molto lontana dal chrysómallon déras (il «vello d'oro») del mito classico.

Tuttavia, il paragone di Squire è sbagliato. Le imprese dei figli di Tuirenn, a ben guardare, sono una serie di «fatiche», esattamente come quelle imposte a Hērakls o a . Sebbene non vi sia, in questo caso, da uccidere mostri, bensì da trovare oggetti portentosi (cosa che richiederà in ogni caso un gran numero di feroci scontri con guerrieri ed esseri soprannaturali), lo schema è esattamente quello che avevamo già individuato nel caso del campione greco e dell'arciere cinese. Gli eroi irlandesi, al pari degli altri, vengono incastrati a causa di un delitto di cui si sono macchiati (in questo caso l'uccisione di Cian), sottoposti all'autorità di un sovrano (Lúg), il quale li spedisce da un'estremità all'altra del mondo per compiere imprese ai limiti delle forze umane.

L'antropologo Bernard Sergent ha dedicato uno studio alla comparazione del racconto delle imprese dei figli di Tuirenn con il ciclo di Hērakls, utilizzando come medium le epifanie del dio avestico Vǝrǝθraγna (Yašt [XIV]) (Sergent 1999). Sfortunatamente, le sue comparazioni si basano su elementi assai superficiali e tutto il lavoro risulta assolutamente poco convincente. In realtà non c'è alcuna ragione per ritenere, ad esempio, che la cattura di Kérberos e quella del cagnolino di Ioruadh si basino su un motivo comune, o che al furto della mandria di Gēryṓn corrisponda quella dei sette maiali di re Easal. Non basta la presenza di un cane o una vaga idea di «mandria» a stabilire un parallelismo. La mancanza di un qualsivoglia schema, ma soprattutto l'enorme differenza funzionale che rivestono gli animali e gli oggetti da recuperare, rendono infondato qualsiasi tentativo di trovarvi una corrispondenza. Non ha alcun senso imbastire una relazione tra la lancia di re Pisear e la scena in cui Hērakls si arma per andare ad affrontare il leone di Neméa (tanto più che la belva verrà strangolata a mani nude). E associare le donne sottomarine di Inis Fianchaire con le Amazónes, ovvero un gruppo di beansídhe soprannaturali con una comunità distopica di donne guerriere, vuol dire ignorare l'intero contesto in cui si muovono i rispettivi gruppi femminili.

In realtà le imprese dei Clanna Tuireann sono state definite in base a finalità assai differenti che non quelle di Hērakls e di. Le «fatiche» dell'eroe greco e di quello cinese sono finalizzate a sgombrare il mondo dai mostri che minacciano l'ordine cosmico. Invece, nell'Oidheadh chloinne Tuireann, l'elenco delle richieste di Lúg trova la sua giustificazione all'interno del mito gaelico, come ha ben sottolineato Charles Squire: tutti gli animali o gli oggetti possono essere messi in corrispondenza con i tesori che la tradizione attribuisce alle Túatha Dé Danann. Ad esempio, la lancia di Pisear sembra essere tutt'uno con la Sleá Bua, la «lancia di vittoria» appartenente a Lúg, e il calderone in cui bisognava immergerne la punta doveva essere il Coire an Dagdae, che poi sarebbe stato dato al Dagda Mór (ma giacché ci siamo possiamo anche pensare al furto del calderone di Hymir da parte di Þórr). Nella cagna Fáilinis è forse da vedersi il segugio di Lúg, del quale si diceva fosse in grado di compiere straordinarie imprese e in grado di mutare in vino ogni acqua corrente in cui si bagnava, capacità qui trasmessa alla magica pelle di maiale di re Túis. Il carro trainato da cavalli che correvano tanto sulla terra e sul mare, appartenente al re delle Colomain Óir, rassomiglia a quello utilizzato da Manannán mac Lir, che aveva la medesima facoltà. I sette porci immortali del re di Iruadh devono essere gli stessi con i quali Manannán avrebbe in seguito preparato il «banchetto della vecchiaia», al tempo in cui le Túatha Dé Danann sarebbero scese nei síde per condurvi una vita immortale. Il racconto sembra dunque il risultato del tentativo, da parte del narratore irlandese, di tracciare un quadro più o meno completo di come le Túatha Dé Danann fossero entrati in possesso dei loro leggendari attributi clanici. (Squire 1910)

Vi sono solo due eccezioni: una è la pelle di porco di Túis re di Gréig, dai poteri taumaturgici, che non sembra essere attestata altrove nei miti irlandesi: ma come vedremo è indispensabile nell'economia del racconto.

L'altra eccezione, naturalmente, è costituita dalle mele d'oro che i Clanna Tuireann dovranno cogliere nel gardh na-hIsbéirne. Questo toponimo non è altro che la trascrizione gaelica del Kpos Hesperídōn. L'uso dell'espressione di origine greca, nel testo irlandese, ha fatto naturalmente pensare che tutta la leggenda celtica sia derivativa rispetto a quella ellenica: è probabile che, nel redigere il testo, suo compilatore avesse in mente il mito di Hērakls alla ricerca del giardino delle Hesperídes. Tuttavia, come abbiamo visto, l'insieme delle «fatiche» compiute dai Clanna Tuireann ha ben poco di ellenico, e la descrizione del giardino esperidico che troviamo nell'Oidheadh chloinne Tuireann – dove le mele sono difesa da uomini armati e da tre principesse che si trasformano in grifoni – diverge sostanzialmente da quella fornita nel ciclo greco. Trovandoci in Irlanda, l'impresa di recuperare le mele verrà compiuta da Brain e dai suoi fratelli con la forza delle armi e l'impiego della magia druidica. Il tema, in ogni caso, non è stato mutuato dalla mitologia greca: il mito celtico conosceva già le isole paradisiache di Emain Ablach e Ynys Afaỻon, etimologicamente caratterizzate dagli alberi di melo. È possibilissimo che il termine ellenico gardh na-hIsbéirne sia solo una copertura colta, eseguita in epoca tarda, su un tema originariamente celtico al cento per cento.

I figli di Tuirenn sanno bene che, nel porre tali richieste, Lug mira a ottenere la loro morte. Ma anche questo fa parte dello schema: Eurysteús nutre la medesima speranza quando invia Hērakls a compiere i suoi érga. L'unica richiesta che Brian e i suoi fratelli pongono a Lug, su consiglio dello stesso Tuirenn, è che conceda loro lo Sguaba Tuinne, il curach di Manannán mac Lir. Anche tale richiesta è perfettamente in linea con il complesso di miti che abbiamo analizzato, sebbene il redattore dell'Oidheadh chloinne Tuireann ne sia ignaro. Poiché i Clanna Tuireann dovranno muoversi nelle acque oltre il mondo e, come sappiamo dallo Ša naqba īmuru, solo il dio-sole è in grado di attraversare gli oceani cosmici, i tre fratelli hanno bisogno di una imbarcazione appropriata. Equivalente gaelico di Uršanabi, Manannán mac Lir, il «figlio dell'oceano» [lér], è l'unico nocchiero capace di compiere il tragitto tra la terra degli uomini e le isole d'oltremondo. Lo Sguaba Tuinne corrisponde alla coppa d'oro che Hērakls ottiene dal dio-sole Hḗlios.

È interessante che sia proprio a Lug che Brian e i suoi fratelli richiedano il curach di Manannán. Vi sono due ragioni. La prima è esplicita: nell'Oidheadh, Lug è il figlio adottivo di Manannán, cresciuto nel Tír Tairngiri. Se sarà lui a fare la richiesta al suo padrino, questi non gliela rifiuterà (e peraltro lo stesso Lug viene vincolato con una geis). La seconda è più sottile: molti studiosi ritengono, sulla scolta delle interpretazioni astrali che andavano tanto di moda ai primi del Novecento, che Lug sia stato un dio solare. La faccenda in realtà è piuttosto delicata: sebbene il nome di Lug derivi da un celtico *leuk «luce», nei testi irlandesi egli riveste ampie funzioni tecniche, regali e guerriere, presentandosi come un personaggio multifunzionale: ma non è mai presentato come un dio solare. Fa eccezione un testo: il nostro Oidheadh chloinne Tuireann, appunto, dove l'arrivo di Lug da ovest, alla testa delle schiere danann, viene scambiato dai Fomóraig per il sorgere del sole:

Is annsin d'éiriꞍ̇ Breas mac Ḃalair, agus a duḃairt: «Is iongnaꝺ̇ liom» ar se, «an Ɥ̇rian ag éirꞍ̇e a n-iar a n-diu agus a n-oir gaċa laoi eile.»
«Ꝺob' ḟeárr go m-buꝺ̇ í,» ar na draoiṫe.
«Sreud eile» ar se.
«Ꝺealraꝺ̇ aigṫe LóꞍ̇a Láṁḟada» ar siad.
Si levò allora Breas mac Ḃalair e disse: «Mi meraviglio che il sole oggi sorga a ovest e non a est come ogni altro giorno».
«Sarebbe stato meglio così» dissero i druidi.
«Cosa potrebbe essere?» chiese lui.
«È il fulgore dal volto di Lug Laṁḟada» risposero.
Oidheadh chloinne Tuireann [19]

Sebbene non sia affatto certo che l'autore dell'Oidheadh chloinne Tuireann abbia correttamente interpretato la natura del dio gaelico Lúg, la vicenda incastra i suoi simboli con molta accortezza. Come Hērakls richiede al dio-sole Hḗlios la sua coppa d'oro per attraversare il potamós Ōkeanós, così i Clanna Tuireann si rivolgono al «solare» Lúg per ottenere il curach del suo padrino, Manannán mac Lir, unico nocchiero in grado di attraversare il lér, l'oceano cosmico, e giungere alle isole dei beati.

La ricerca degli oggetti richiesti comprende buona parte del testo dell'Oidheadh chloinne Tuireann. È una serie di viaggi da un confine all'altro del mondo, con gran copia di travestimenti, scontri, fughe, avventure e imprese erotiche. Il tutto si svolge in un contesto geografico fantasioso in cui nessuno dei luoghi in cui si spingono i figli di Tuirenn ha la minima pretesa di realismo. Bernard Sergent ha cercato schemi comuni tra l'itinerario di Hērakls e quello dei figli di Tuirenn, senza trovare nulla di significativo (Sergent 1999). Il problema è che lo schema dei viaggi di Hērakls è assai semplice: i primi sei érga si svolgono nel Peloponneso; i rimanenti sei abbracciano il resto del mondo, di cui l'eroe tocca gli estremi confini nelle quattro direzioni. Nel tragitto dei Clanna Tuireann le località sembrano scelte con meno rigore, ma anche qui vi sono luoghi che sembrano trovarsi nei quattro punti cardinali. Le Colomain Óir, «colonne d'oro», il luogo dove i Clanna Tuireann vanno a prendere la cagnolina di re Éasal, sembrano essere un ricordo delle Hērákleioi stlai, le «colonne di Hērakls», ma è difficile capire se si tratti di un residuo della concezione delle portae mundi o di un motivo ricalcato dal mito greco.

È davvero sorprendente l'episodio in cui i tre fratelli si recano nel luogo chiamato Inis Fianchaire, «isola della bella Cáer», per prendere lo spiedo richiesto da Lúg. Di quest'isola tratta il Lebor Laignech, che la chiama più precisamente Inis Chairé Chennfinné «isola di Cáer dalla bella testa» (nel senso di «bella chioma») e aggiunge che tale «isola» si trovi in realtà sul fondale marino, tra Ériu e Alba. Brian indossa un casco di vetro prima di immergersi, in una sorta di «viaggio verticale» simile a quello di Gilgameš, ma che ancor più ricorda un'affine immersione di Aléxandros in alcune versioni del suo ciclo. L'isola sul fondo del mare è abitata da donne bellissime, le quali concedono di buon grado a Brian lo spiedo richiesto, avvertendolo che, in ogni caso, lui non sarebbe mai stato in grado di sottrarlo loro con la forza. Si noti che nell'Imthechta Tuirill ocus a Mac (le «Peregrinazioni di Tuirell e dei suoi figli»), versione medio-irlandese della leggenda, è proprio a Inis Fianchaire che vengono colte le mele dorate.

Lúg è ben soddisfatto di ottenere tutti i tesori che ha richiesto: li utilizzerà nella battaglia contro i Fomóraig. L'éiric è tuttavia incompleto: Brian, Iuchar e Iucharba devono soddisfare un'ultima richiesta: lanciare tre urla sulla collina di Miodhchaoin. Come i tre fratelli capiscono fin troppo bene, quelle urla hanno come unico scopo la loro morte. Infatti, Miodhchaoin e i suoi figli sono vincolati da una geis per la quale non devono permettere a nessuno di lanciare delle grida da quell'altura. “Presso Miodhchaoin mio padre Cian ha ricevuto l'istruzione guerresca; anche se io vi perdonassi la sua morte, egli non ve la condonerebbe mai!” li avverte Lúg. “Laggiù si compirà su di voi la mia vendetta.”

Tutto avviene come Lúg ha predetto. Mortalmente feriti dallo scontro con Miodhchaoin, i tre fratelli tornano in Ériu e implorano Lúg di concedere loro la pelle di porco in grado di guarirli dalle ferite. Lúg risponde sprezzante che non la consegnerà per tutta l'estensione della terra, a meno che non sia certo che la morte sarebbe comunque arrivata a ghermirli, e questo per ripagarli del crimine che hanno commesso. Così i tre fratelli spirano, e il padre Tuirenn con loro.

Ma chi sono i figli di Tuirenn? Che legame hanno con Hērakls o con altri eroi dello stesso ceppo? Pur non essendoci una risposta netta e precisa, gli indizi sono piuttosto interessanti. Il nome Tuirenn deriva infatti da un celtico *torann, «tuono». È dunque etimologicamente corrispondente ai nomi di alcuni degli esiti del dio-tuono indoeuropeo: il gallico Taranis, lo scandinavo Þórr, l'anatolico Tarḫunta. Tra le figure omologhe vi sono ovviamente il greco Hērakls e il vedico Indra. Il personaggio di Tuirenn è tuttavia poco elaborato nel mito irlandese e nessun mito incentrato su di lui può essere messo in correlazione con quelli relativi al dio-tuono indoeuropeo. Un caso a parte è però rappresentato dai suoi figli: Brian, Iuchar e Iucharba. L'emanazione del dio-tuono in un gruppo triplice è ben noto agli indoeuropeisti, presentando molti paralleli ben precisi. I Clanna Tuireann stanno a Tuirenn come i tre Horatii stanno a Tullus Ostilius, o come Eka, Dvita e Trita Āptya stanno a Indra. Ma tratteniamoci: stiamo cascando in un campo assai dispersivo, che dovrà essere analizzato separatamente.

I testi genealogici parlano di un certo Delbáeth mac Ogma detto Tuirell Bícreo, il quale sarebbe stato tra l'altro árd rí di Ériu. Su costui, il Lebor Gabála Érenn, il «Libro delle invasioni di Ériu», ci fornisce una serie di interessanti genealogie:

I sei figli di Delbáeth figlio di Ogma figlio di Elatha figlio di Delbáeth figlio di Nét furono Fíachra, Ollam, Indui, Brian, Iucharba e Iuchar. Danann, la figlia dello stesso Delbáeth, fu madre degli ultimi tre, Brian, Iucharba e Iuchar. Questi furono i tre dèi di Danann [Trí Dée Danann] dai quali si chiama la montagna dei tre dèi. E quel Delbáeth aveva nome Tuirell Bícreo.
Lebor Gabála Érenn [64]

In questo passo si configura anche una relazione incestuosa: madre di Brian, Iucharba e Iuchar è Danann, figlia anch'essa di Tuirell Bícreo. Dunque i tre fratelli, qui chiamati Trí Dé Danann, «i tre dèi di Danann», sarebbero figli della loro sorella.

Anche lo storico e mitografo Seathrún Céitinn [Geoffrey Keating], nella sua monumentale opera storica, conferma la discendenza dei Clanna Tuirell da Danann, anch'egli definendoli Trí Dé Danann, e afferma che le stesse Túatha Dé Danann avessero tratto il loro nome proprio dai tre figli di Danann. Insomma Brian, Iucharba e Iuchar sarebbero stati talmente abili ed esperti in tutte le arti druidiche che l'intero popolo delle Túatha Dé Danann non avrebbe disdegnato di chiamarsi così per via dei suoi tre membri illustri.

Adeirid drong re seanċus gurab ó'n triar mac rug Ꝺanann, inꞍ̇ean Ꝺealḃaoiṫ, eaꝺ̇on, Brian, Iuċar, agus Iuċarḃa, eaꝺ̇on, triar do ċlainn Ꝺealḃaoiṫ [...], gairṫear Túatha Ꝺé Ꝺanann, do ḃríꞍ̇ go raḃadar an triar reaṁráiꝺ̇te coiṁ-ꝺ̇earsgnaiꞍ̇ṫe a's sin i gcéardaiḃ geintliꝺ̇e, gur ṫoil leis na tuaṫaiḃ seo ag a raḃadar dée do Ɥ̇airm díoḃ, agus iad féin d'ainmniuꞍ̇aꝺ̇ uaṫa. Ag so rann deismireaċta ag a ꝺ̇eiṁniuꞍ̇aꝺ̇ gurab iad an triar so na trí Ꝺée Ꝺanann, aṁail adeir an duain darab tosaċ ÉistiꞍ̇ a eolċa gan on &c...

Alcuni eruditi dicono che è dai tre figli di Danann figlia di Delbáeth che le Túatha Dé Danann presero il loro nome, e cioè Brian, Iuchar e Iucharba, i tre figli di Delbáeth [...]. La ragione è che i suddetti tre erano così esperti nelle arti pagane, che quelle tribù con le quali vivevano li chiamavano dèi, tanto che presero nome proprio da loro. In questi versi è attestato che questi tre furono i tre dèi di Danann [Trí Dé Danann], come dice anche quel poema che inizia con le parole, «Ascoltate, o voi istruiti senza biasimo»...

Seathrún Céitinn [Geoffrey Keating]: Foras feasa ar Éirinn [II: 10]

Céitinn riferisce quest'origine dell'etnonimo Túatha Dé Danann per dovere di cronaca, insieme ad altre possibili «etimologie». «Tra tutti, [i figli di Tuirenn] erano gli uomini giudicati migliori per destrezza e agilità, i più belli e più onorati tra quanti si trovavano allora a Temáir» conferma d'altronde l'Oidheadh chloinne Tuireann. Sembra tuttavia piuttosto strano che un intero pántheon prenda nome da tre suoi membri, per quanto abili e illustri. È più probabile che l'etimologia vada girata in senso opposto. Danann, come maldestramente attestano altre fonti, dovrebbe essere stata una sorta di dea clanica delle stesse Túatha Dé Danann. Il fatto che Brian, Iuchar e Iucharba siano chiamati con epiteto teoforo dal nome di questa dea, potrebbe indicare un loro rapporto particolare con essa. Viene in mente la relazione di Hērakls con la dea Hḗra, sua madre mancata e avversaria politica, di cui tuttavia porta il nome.

La vicenda dell'Oidheadh chloinne Tuireann appare lacunosa sotto molti punti di vista: non vengono per esempio narrate le ragioni che opponevano i figli di Tuirenn ai figli di Cáinte, che forse avevano avuto una maggiore importanza nell'originaria mitologia dei Celti insulari, e in proposito gli studiosi hanno presentato interessanti ipotesi (una semplice faida tra clanna (Rolleston 1911)? un'antica disputa sulla sovranità tra due rami della stessa famiglia divina (Agrati ~ Magini 1993)?) La relazione tra i Trí Dée Danann e le Túatha Dé Danann, al di là dell'etimologia popolare per la quale i secondi avrebbero preso nomi dai primi, non è stata ancora spiegata in maniera soddisfacente. Non dimentichiamo, inoltre, che in passato esistevano altre versioni della vicenda. Nel più antico Imthechta Tuirill ocus a Mac, Brian, Iuchar e Iucharba risarciscono Lug recandogli puntualmente tutti gli oggetti magici richiesti, e la narrazione non si conclude con la loro morte, né con quella di loro padre Tuirell/Tuirenn (Botheroyd ~ Botheroyd 1992). D'altra parte, gli Annála Ríoghdhachta Éireann ci informano che Delbáeth mac Ogma (cioè Tuirell/Tuirenn) regnò per dieci anni, quale árd rí di Ériu, dopo la morte di Lug e del Dagda Mór, e che in seguito cadde per mano di un altro suo figlio, Fiachra mac Delbáeth, il quale gli succedette a Temáir per altri dieci anni.

Invece, Seathrún Céitinn riporta il passo di un poema gnomico di Flánn Mainstrech, anch'esso tratto dal Lebor Gabála Érenn, in cui si legge che i figli di Tuirenn morirono per mano di Lug a Mana [l'isola di Man].

Brian, Iuċarḃa, is Iuċar ann,
trí dée Túaiṫe Ꝺé Ꝺanann;
marḃ iad ag Mana os muir meann,
do láiṁ LóꞍ̇a, mic Eiṫneann.
Brian, Iuchar e Iucharba,
tre dèi delle Túatha Dé Danann;
furono uccisi a Mana sopra il gran mare
per mano di Lug figlio di Ethné.
Flánn Mainstrech apud Lebor Gabála Érenn [64]
apud Seathrún Céitinn [Geoffrey Keating]: Foras feasa ar Éirinn [II: 10]

In conclusione, nonostante nella leggenda dei figli di Tuirenn si riconoscano alcuni dei temi principali del mito della ricerca della vita, bisogna ammettere che la materia è alterata al punto tale da rendere impossibile confronti più netti e dettagliati.

TAGLI, RITAGLI E FRATTAGLIE

Tutta la materia disponibile, a nostro avviso, è stata esposta. A quanto sappiamo, non esiste  – in altre culture o sistemi mitici – alcuna evidente traccia dell'esistenza del mito del viaggio di un eroe ai confini del mondo, alla ricerca della vita eterna. Ma prima di arrivare a una sintesi, sarà necessario vedere se non si riesca a rintracciare qualche altro frammento del nostro antico tema nella mitologia eurasiatica.


India

Il mondo indo-iranico, pur nel suo immenso sviluppo mitologico, non ci offre nulla di evidente, ma forse il tema è solo ben mascherato. In tal caso, future ricerche potranno forse riuscire a svelarlo. In India, il dio-tuono Indra – che pure è un noto omologo di Hērakls e Þórr – sembra estraneo al nostro tema. Un margine di dubbio rimane su Trita Āptya, una figura antica e piuttosto sbiadita, le cui funzioni stavano già passando a Indra nella letteratura vedica. Nel Ṛgveda è citato innanzitutto come compagno e sodale di Indra nella lotta contro il serpente Vṛtra [VIII: 7, ]. Tra le imprese eraclee che lo riguardano, vi è un furto di buoi compiuto ai danni del tricefalo Viśvarūpa, figlio di Tvaṣṭṛ, mito omologo a quello del furto delle mandrie di Gēryṓn  [VIII: 8, - | 99, ], e l'uccisione di un demoniaco cinghiale [VIII: 99, ]. In altri inni, Trita viene deputato alla preparazione e purificazione del soma, la bevanda inebriante e d'immortalità [II: 11,  | IX: 34, ]. Nei Brāhmaṇa, Trita (cioè il «terzo»), viene esplicitamente indicato come l'ultimo di tre fratelli, dopo Eka e Dvita («primo» e «secondo»): i tre sono detti figli di Agni e nati dalle acque [āptya] (Śatapatha Brāhmaṇa [I: ii, 3, ] | Taittirīya Brāhmaṇa [III: ii, 8, -]). È anche attestato un fallito tentativo di Eka e Dvita di uccidere Trita, che venne gettato in un pozzo pieno d'acqua. Il racconto viene esposto da Sāyaṇa († 1387) nel suo commentario a Ṛgveda [I: 105]. Se l'espansione eroica del dio-tuono in una emanazione triplice è, come abbiamo detto, ben fondata nella mitologia indoeuropea (pensiamo ai Clanna Tuirenn), il mito del tentativo di omicidio dei fratelli maggiori ai danni del minore si iscrive invece in un motivo fiabesco assai comune e non ha probabilmente nulla a che vedere con i delitti e le crisi eroiche narrati in queste pagine.

Sebbene la mitologia vedica non attesti alcun mito che sia direttamente confrontabile con il nostro tema, l'epica indiana conosce bene il motivo della sorgente della vita. La professoressa Aleksandra Szalc elenca molti loci dove questo tema si presenta con insistenza. È il caso ad esempio dell'erculeo Bhīma, eroe che abbiamo già citato come prototipo indiano del «guerriero con la clava»; in un episodio del ciclo dei Paṇḍāva, mentre ascende sul mitico monte Kaylasa, Bhīma arriva a una sorgente di acque dal gusto celestiale, ma i rākṣasa di guardia al laghetto gli impediscono il passaggio ammonendolo con le parole: “gli uomini soggetti alla morte non possono bere quest'acqua” (Mahābhārata [III: 152]). Questo racconto è compreso nel Tīrthayatra Parva, un capitolo del Mahābhārata dove si elenca un gran numero di sorgenti, laghi, fonti e pozzi meravigliosi che conferiscono immortalità e giovinezza a chi vi si bagna. Il tema compare anche nella letteratura posteriore: in una collezione di storie fantastiche risalente al IX secolo, si narra la storia del bodhisattva Vintimatī, che ritorna in vita dopo che il suo cadavere è stato spruzzato con un'acqua magica (Kathāsaritsāgara [72]). (Szalc 2012). In un vecchio articolo assai tradotto e ristampato, Ānanda Kentiś Kumāraswāmī presentava una vasta favolistica, diffusa nell'India settentrionale, dove le sorgenti dell'acqua della vita erano custodite da un personaggio chiamato Khvāja Khadir, Pir Badar o Rāja Kidār. Questi altri non è che una versione orientale del buon vecchio al-Ḫiḍr/Ḵeżr, il cui culto – stando al discusso tradizionalista śrīlaṅkese – era noto tanto a indù quanto a musulmani nel Paṃjāb pākistāno, nel Bihāra e, in misura minore, nel Bāṃlādeśā. In alcune di queste storie, la sorgente era legata alle nāginī, esseri ofidomorfi femminili della mitologia indù. (Kumāraswāmī 1934)


Armenia

Scarse le tracce del nostro tema presso gli Armeni, dove esisteva un ciclo sull'eroe Vahagn, una sorta di eracle locale, anch'esso uccisore di mostri e destinato all'apoteosi, secondo quanto afferma Movsēs Korenac‘i:

Zays ergelov omanc‘ p‘andṙamb, lowak‘ merovk‘ isk akanǰōk‘. Yet oroy ew ǝnd višapac‘ asēin yergin kṙowel nma ew yałt‘el, ew kari imn nmanagoyns zHerakleay nahatakowt‘iwnsn nma ergēin. Ayl asen zsa ew astowacac‘eal. ew andri i Vrac‘ ašxarhin zsora č‘ap‘ hasakin kangneal; patowēin zohiwk‘. Si cantavano i suoi elogi al suono del pampiṙn e noi li udimmo con le nostre orecchie. Quindi si ripetevano nei canti le sue battaglie, le sue vittorie contro i višapac‘, e imprese che uguagliano quelle di Hērakls. Si diceva che fosse stato innalzato al rango degli dèi e che, nel paese degli Iberi, gli innalzarono una statua alla quale venivano tributati sacrifici.
Movsēs Korenac‘i: Hayoc‘ Patmowt‘yown [31d]

Poche altre notizie Movsēs riferisce su Vahagn, nel quale riconosciamo una versione armena del dio iranico Vǝrǝθraγna: riporta un canto sulla sua nascita – praticamente l'unico documento del paganesimo armeno arrivato fino a noi –, ma non ci illumina sul nostro tema. Quello che qui ci interessa è la relazione che Movsēs imbastisce tra Vahagn ed Hērakls, giustificata da una serie di imprese che eguaglierebbero quelle dell'eroe greco, tra cui le sue battaglie e le sue vittorie contro i višap («serpenti, draghi»). Possiamo chiederci se alcune di queste leggende riguardassero il viaggio dell'eroe verso una qualche versione locale del Kpos Hesperídōn. Particolarmente significativa la notazione secondo la quale Vahagn sarebbe stato «innalzato al rango degli dèi», tanto che gli Iberi [Vrac‘] avrebbero fondato un culto su di lui. Tale notizia farebbero pensare a un percorso dell'eroe armeno verso l'apoteosi, analogo a quello di Hērakls. Se la notizia di Movsēs Korenac‘i corrisponde a un mito armeno – se cioè non è stata condizionata da un'interpretazione a posteriori modellata sul mito greco – possiamo pensare che il declassamento del dio-tuono a hēmítheos, di cui abbiamo registrato l'esito in Grecia, possa essere un mito più antico, non limitato al mondo ellenico ma con un'ampia area di difufsione


Russia

Nel processo di cristianizzazione, il mondo slavo ha operato una cesura talmente netta con la tradizione precedente, che quasi tutta la sapienza pagana è andata perduta. Ci rimangono solo pochi nomi di divinità (Perunŭ, Svarogŭ, Dažĭbogŭ, Stribogŭ, Chŭrsŭ, Volosŭ, Mokošĭ...) a cui accennano le fonti cristiane al solo scopo di condannare chiunque indugiasse nella riprorevole pratica della dvoeverie (la «bicredenza» in cui viveva parte della popolazione fino a tempi recenti).

Scomparsi quasi del tutto i miti precristiani, moltissimi elementi sono però sopravvissuti nel folklore, nelle fiabe e nelle ballate epiche, di cui soprattutto la Serbia e la Russia si sono rivelate essere dei serbatoi inesauribili. Certamente sbaglieremmo a cercare una forma completa e coerente del nostro Ur-Myth: rimangono però, incagliati nelle tradizioni slave, alcuni elementi importanti e interessanti che rimandano ai mitemi di cui abbiamo parlato in questa pagina.

Michajlo Potyk ( 1908)
Nikolaj Nikolaevič Karazin (1842-1908), dipinto

In Russia, in particolare, tanto il patrimonio delle fiabe (skazki) quanto quelle delle ballate epiche (byliny) presenta il tema ricorrente della živaja voda, l'«acqua viva», che non è esattamente un medium di immortalità ma si immette nel medesimo ordine di idee: è infatti in grado di resuscitare chiunque ne venga a contatto. Un buon esempio di questo tema lo troviamo nella lunga e articolata bylina incentrata sull'eroe epico Michajlo Potyk. Il giovane bogatyr' («cavaliere») prende in sposa una fanciulla che è anche una strega, l'inquietante Mar'ja lebed' belaja («bianco cigno»). Lei lo vincola con un giuramento: se uno dei due coniugi morirà per primo, il superstite dovrà seguirlo nella tomba. Mentre Michajlo è assente, lontano per conto di Vladimir, knjaz' di Kiev e della Svjataja Rus', gli arriva la notizia che Mar'ja lebed' belaja è deceduta. L'eroe torna al galoppo a Kiev e ordina che lo calino vivo nella tomba (con tutto il cavallo) insieme al cadavere della moglie.

Mentre Michajlo attende nel buio sepolcro, s'intrufola all'interno uno zmej, un drago-serpente che le sovente le fiabe russe descrivono policefalo e in grado di volare. Non appena lo zmej vede il cadavere della donna, a cui si aggiunge un cristiano vivo, si fa avanti per divorarli. Svelto, Michajlo lo agguanta con un paio di tenaglie e lo comincia a colpire con una verga di ferro. Lo zmej implora pietà. “Aj, tu, Michajlo Ivanovič, non mi battere, non ricoprirmi di sangue, ti porterò la živaja voda!”. Michajlo prende in ostaggio gli zmenyši, i «serpentelli», figli dello zmej, e ordina a quest'ultimo di recargli quanto ha promesso. Il rettile assolve al suo compito. Torna una fiaschetta nella quale è contenuta la živaja voda. Michajlo uccide uno degli zmenyši e poi lo cosparge con il liquido. L'animaletto resuscita. Rassicurato, Michajlo spruzza l'acqua viva sul corpo di Mar'ja lebed' belaja e la sua sposa torna in vita. Allora Michajlo tira una corda che aveva precedentemente collegato alla campana della chiesa: il segnale concordato fa sì che la tomba venga aperta, permettendo a lui e alla sua sposa di uscire. (Byliny > Michajlo Potyk).

Il patrimonio fiabesco russo, che ha la sua principale fonte nella splendida raccolta Narodnye russkie skazki (1855-1863), di Aleksandr Nikolaevič Afanas'ev (1826-1871), presenta a più riprese simili temi arcaici. Nelle skazki, alla živaja voda, l'«acqua viva», è spesso collegata la mertvaja voda, l'«acqua morta». Di solito entrambe le «acque» vengono impiegate in successione in caso di necessità: «Spruzzò Ivan carevič con l'acqua morta e le sue ferite guarirono; lo spruzzò con l'acqua viva e Ivan carevič sorse in piedi» [168: Skazka ob Ivane-careviče, žar-ptice i o serom volke] è la formula canonica nell'uso di queste vody soprannaturali.

Il folklorista sovietico Vladimir Jakovlevič Propp (1895-1970) si è chiesto perché, in tali operazioni, non basti semplicemente l'«acqua viva» per resuscitare l'eroe ucciso, ma sia necessario bagnarlo con tutt'e due le vody. Ne dà un'interpretazione assai suggestiva: nelle skazki queste operazioni di resurrezione vengono si solito compiute in un contesto liminale, in cui l'eroe o l'eroina non sono né morti né vivi, suscettibili dunque di tornare alla vita come revenant o come vampiri. L'acqua morta provoca il trapasso definitivo dal mondo dei vivi a quello dei morti, l'acqua viva permette il passaggio inverso (Propp 1972). Noi, dal punto di vista comparatistico, pensiamo piuttosto alla māʾ al-ḥayāt, l'«acqua della vita» delle leggende arabe, e alle mê mūti, le «acque della morte» dell'epopea di Gilgameš, e ci stupiamo del fatto che i due temi trovino una loro naturale simmetria proprio nelle skazki russe. Secondo Propp, lo zmej è il guardiano dei passaggi per l'altro mondo: ma non ce ne voglia il grande folklorista sovietico se riteniamo, alla luce di tutto quello che abbiamo analizzato fin qui, che nello zmej russo si riuniscono due valenze tradizionali legate al serpente:

  1. il serpente come guardiano dell'albero della vita: il nāḥāš sulle fronde del ʿēṣ haḥayyîm nel racconto del gan ʿĒḏẹn, il serpente che divora la šammu nikitti nell'epopea di Gilgameš, il drákōn hespérios Ládōn che custodisce i frutti d'oro del Kpos Hesperídōn, etc.;
  2. il serpente che giace nel profondo delle acque cosmiche e/o ai confini del mondo (ʿpop, Vṛtra, Jǫrmungandr) o nell'abisso acqueo e sotterraneo (il serpente nell'epopea di Gilgameš, Níðhǫggr, etc.).

Tutti i mitemi vengono in qualche modo sintetizzati nella figura russa dello zmej: essere ctonio, sotterraneo, legato al mondo dei morti, diviene il guardiano dell'acqua della vita.

Un altro tema assai diffuso in questo tipo di narrazione è quello delle molodil'nye jabloka, le «melucce della giovinezza». In una serie di fiabe riportate da Afanas'ev, esse si affiancano al motivo della živaja voda, senza creare alcuna contraddizione, come nella «Fiaba del giovane ardito, delle melucce della giovinezza e dell'acqua viva», presente in ben otto varianti [171-178: Skazka o molodce-udal'ce, molodil'nychl jablokach i živoj vode]. L'incipit non stupirà i nostri lettori: «Uno car' era molto vecchio e non ci vedeva più. Venne a sapere che in un reame ai confini del mondo c'era un giardino con delle mele che ringiovanivano e inoltre un pozzo con l'acqua viva: se un vecchio avesse mangiato una di quelle mele, sarebbe tornato giovane, e se avesse messo dell'acqua sugli occhi un cieco, avrebbe riacquistato la vista» (Narodnye russkie skazki [171]). Lo car' manda i suoi tre figli a prendergli le mele della giovinezza e l'acqua viva, e anche qui si sviluppa il motivo fiabesco dei fratelli più grandi che falliscono là dove riesce il minore. Gelosi, gli careviči maggiori gettano il giovane protagonista in un precipizio profondissimo, in cui tuttavia questi trova un regno ipoctonio e una principessa destinata a essere divorata da uno zmej. Lo carevič uccide lo zmej, ma viene a sua volta ucciso e fatto a pezzi da un rivale. Ma di nascosto la carevna lo resuscita con l'acqua della vita... e la skazka corre verso il suo finale, intrecciando tutti i nostri temi in una narrazione ancora una volta sempre differente e sempre uguale.

Le fiabe russe, a spulciarle, si rivelano essere un catalogo incontenibile di meraviglie. In molte skazki, al tema dell'albero dai frutti dorati è collegato quello dello žar-ptica, l'«uccello di fuoco». Come nel caso del fēng cinese, anche qui i folkloristi pensano al Saǝna mǝrǝγo che i testi iranici descrivono appollaiato sull'albero Gaokǝrǝna (Avestā: Yasnā [x: 10]), da cui sarebbe derivato anche il favoloso Sīmorġ della letteratura mistica persiano-classica (cfr. il Mantiq aṭ-ṭ̣ayr di Farīd ud-Dīn ʿAṭṭār). Per quanto i motivi non siano mai collegati in un insieme coerente, lo žar-ptica, l'albero dai frutti dorati, il tema delle molodil'nye jabloka, a cui si aggiunge quello dello zmej sotterraneo che custodisce la živaja voda e la mertvaja voda, testimoniano un intreccio disordinato, ma tenace e persistente, di temi antichissimi, infine divenuti elementi di un immaginario epico e fiabesco di grande bellezza e suggestione.

CONCLUSIONE

Arrivati in quest'isola ai confini del mondo, ben oltre l'oceano cosmico e la terra dell'oscurità, possiamo tirar fuori dallo zaino il nostro diario di viaggio, tutte le mappe che abbiamo faticosamente tracciato, e fare il punto. Il percorso per arrivare in questo meraviglioso giardino d'immortalità è stato lungo e ripetitivo. A ogni svolta abbiamo ritrovato gli stessi bivi, gli stessi temi e mitemi: dovunque mari invalicabili, isole e montagne che si somigliavano le une alle altre, dovunque alberi con frutti dorati e un bestiario ricorrente di aquile e serpenti, tori e leoni.

Eppure, i miti di cui abbiamo dipanato i fili, provenivano dalla Mesopotamia e dal mondo arabo, dalla Grecia e dalle isole britanniche, dall'Īrān e dalla Cina. Uno spazio vasto quanto l'intera Eurasia. È permesso chiederci: dove si sono originati questi temi? Chi li ha elaborati e attraverso quali direttrici si sono diffusi? E soprattutto, quanto sono antichi? In questo capitolo tenteremo a dare una risposta.

La riscoperta dell'epopea mesopotamica di Gilgameš, tra le seconda metà dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, diede agli studiosi una nuova prospettiva spazio-temporale, nonché un archetipo di indubbia forza letteraria a cui ricondurre una quantità di temi mitici diffusi tanto in Europa quanto in Asia. Inevitabilmente esagerando: l'orientalista tedesco Peter Ch. A. Jensen (1861-1936), per fare un esempio, riuscì a ricondurre al Gilgamesch-Epos miti egizi, greci, ebraici, iranici, indiani, arabi, romani e germanici, e persino vari dettagli della vicenda del Buddha (Jensen 1926 | Jensen 1928). E sebbene questo pan-babilonismo oggi non sia più accettato, nel corso dell'ultimo secolo gli studiosi hanno visto – o voluto vedere – nell'epopea di Gilgameš una possibile fonte per i miti di Odysseús, Akhilleús, Hērakls, Mōšẹh, Yēšûʿ, al-Iskandar, e chi ne ha più ne metta. Sono state avanzate molte ipotesi di parallelismi e correlazioni, ma non tutte con il medesimo rigore. Come abbiamo più volte sottolineato, non basta segnalare un isomitema – la compresenza di un tema mitologico – per confrontare efficacemente due tradizioni. Bisognerebbe riuscire a far collimare degli schemi di una certa complessità.

Per quanto riguarda il mito della ricerca della vita, la tendenza generale degli studiosi è riconoscere il primato storico dell'epopea di Gilgameš, alla cui influenza si attribuiscono generalmente i motivi affini evidenziati nei cicli di Hērakls, al-Iskandar e . Lo stesso lugal urukita viene considerato l'archetipo di tutti i viaggi alla ricerca dell'immortalità e, soprattutto nella letteratura divulgativa, Gilgameš viene definito tout-court come «l'eroe alla ricerca della vita». Abbiamo intrapreso questo percorso dando anche noi per scontato uno scenario di questo genere. Ma alla luce delle nostre analisi, dobbiamo domandarci ora se tale scenario sia realistico. Può l'epopea di Gilgameš – che nella sua redazione neo-assira risale al periodo 1000-700 a.C. – essere alla base di uno schema mitico così vasto e diffuso?

Per cominciare, ipotizziamo l'esistenza di un antico Ur-Myth su un eroe che viaggia ai confini del mondo alla ricerca di un modo per sconfiggere la morte e ottenere una vita immortale. Ricapitoliamo brevemente i focus geografici dei suoi esiti principali e avanziamo una sorta di critica delle fonti...

Medio Oriente. Argomento centrale del ciclo di Gilgameš, il mito della ricerca della vita è tuttavia attestato unicamente nella versione accadica dell'epopea: è centrale nell'epopea ninivita dello Ša naqba īmuru (1000-700 a.C.), sebbene sia implicito in alcune versioni antico-babilonesi del Šūtur eli šarrī, ad esempio nella tavoletta di Berlino/Londra (prima metà del Secondo millennio avanti Cristo). Au contraire, nessun poema sumerico, a nostra conoscenza, ha tramandato il mito della ricerca dell'immortalità, a meno di non considerare tale il viaggio di Bilgames ed Enkidu nel KUR, che potrebbe essere una versione arcaica del viaggio dell'eroe allo šadû Māšu. L'assenza di prove non è una prova dell'assenza, ma considerando la versione alternativa della morte di Enkidu in Ud rea ud sudra rea (= Ša naqba īmuru [XII]), bisogna concludere – provvisoriamente – che il mito della ricerca dell'immortalità, nella forma in cui è arrivato fino a noi, era probabilmente assente nelle tradizioni sumeriche su Bilgames ed è stato introdotto solo nella rielaborazione semitica effettuata all'alba del Secondo millennio avanti Cristo. D'altra parte, un'attenta analisi dello Ša naqba īmuru mostra la presenza di alcuni temi vestigiali, evidentemente ereditati da una tradizione più antica ma non compresa dagli autori accadici. Tali temi non hanno alcuna funzione nell'economia dell'intreccio ma sono utilizzati a fini estetici, ad esempio: (i) il giardino degli «alberi degli dèi» [iṣû ilī], trasformato in un episodio pittoresco nell'itinerario di Gilgameš ma ormai del tutto scisso dal motivo dei frutti dell'immortalità; (ii) la presenza di Šiduri che, pur essendo definita una sābītu (ostessa, taverniera), ed essendo quindi confrontabile con il motivo dell'enofora che elargisce all'eroe il cibo o la bevanda dell'immortalità, ha perso qualsiasi funzione e si è trasformata in una semplice tappa nel viaggio di Gilgameš verso il Pû-nārāti. Viceversa, il confronto con le versioni sumeriche dell'epopea ci informa che (iii) il tema della crisi di Gilgameš causata dalla morte di Enkidu è probabilmente una rielaborazione letteraria avvenuta in epoca accadica. Ci possiamo chiedere se l'autore di tali rielaborazioni non possa essere stato il fantomatico Sîn-lēqi-unninni.

Europa. Il mito della ricerca della vita presenta una struttura coerente in Grecia, all'interno del ciclo di Hērakls, e in Irlanda, nella narrazione dei Clanna Tuireann. Ne abbiamo rilevato delle tracce anche in Scandinavia, nei cicli di Þórr e di Thorkillus. Diversa l'antichità di queste tre tradizioni mitiche: (a) Il ciclo di Hērakls risale probabilmente alla seconda metà del Secondo millennio avanti Cristo, sebbene abbia continuato a venire elaborato fino all'età classica e oltre; (b) Il racconto dei Clanna Tuireann è molto tardo: i manoscritti dell'Oidheadh chloinne Tuireann risalgono alla fine del xviii secolo, sebbene esista anche una versione medievale della vicenda e ve ne siano tracce nei poemi bardici inclusi nel Lebor Gabála Érenn, i quali risalgono all'viii-ix secolo; (c) i miti di Þórr che contengono gli elementi del nostro tema sono contenuti in due fonti: la Prose Edda di Snorri Sturluson (composta tra il 1222 e il 1225) e il poema eddico Hymiskviða (anteriore di circa un secolo), ma lo stato di deterioramento in cui il nostro tema è pervenuto ai due testimoni germanici è indice che i suoi elementi risalgono a una notevole antichità. Il ciclo parallelo di Thorkillus è di poco più antico: il Gesta Danorum fu composto da Saxo Grammaticus tra la fine dell'xi e l'inizio del xii secolo, e contiene in nuce gli elementi della leggenda di Guthmundus/Guðmund, signore di un oltreboreale reame d'immortalità. Uno sguardo complessivo alle tre versioni europee (greca, celtica e germanica) ci mostra che i tre protagonisti sono gli esiti del dio-tuono indoeuropeo nei rispettivi sistemi mitologici (Hērakls e Þórr/Thorkillus) o una sua emanazione in forma triplice (i Clanna Tuireann). Una tale coerenza potrebbe implicare che l'Ur-Myth fosse presente nella comune eredità indoeuropea in epoca antica; cosa che non esclude una posteriore influenza mesopotamica avvenuta, almeno nel caso della versione greca, attraverso la mediazione anatolica. Possiamo anche escludere che il racconto dei Clanna Tuireann derivi da quello di Hērakls: sebbene sia altamente probabile che il redattore settecentesco conoscesse la mitologia greca, sussistono nel racconto irlandese molti elementi presenti nella tradizione comune ma che egli non poteva identificare.

Cina. Il ciclo del divino arciere è già attestato ai primordi della letteratura cinese (Shānhǎijīng, Huáinánzǐ, Chǔcí), dandoci una buona sicurezza che si fosse già formato nel 500 a.C. In questa fase, esso contiene il mito dell'abbattimento dei soli soprannumerari (che è un tema tipico dell'Asia orientale), quello delle «fatiche» dell'eroe, quello del suo viaggio sul Kūnlún shān per procurarsi l'elixir vitae e quello della sua uccisione da parte di Féng Méng. La sottotrama inerente al matrimonio dell'eroe con Cháng'é, tradizionalmente tramandata da fonti folkloriche, sembra successiva o secondaria. Qualche sia l'origine di Cháng'é, tuttavia, sembra indubbio che la sua associazione a ne abbia strutturato il mito, almeno in parte, secondo il tradizionale rapporto dell'eroe con la dea avversaria.

Il fatto di trovare il tema mitico attestato ai due opposti estremi dell'Eurasia, tanto in Irlanda tanto in Cina, è una preziosa indicazione di quanto il nostro Ur-Myth fosse antico e pervasivo. Come abbiamo visto, gli specialisti tendono di solito a pensare che il ciclo di Gilgameš sia alla base tanto di quello ellenico di Hērakls quanto di quello cinese di . Tuttavia un'analisi ad ampio spettro – non limitata cioè al confronto di singole «coppie» di miti – dimostra che vi sono molti elementi comuni al ciclo di Hērakls e a quello di , che non sono presenti nel ciclo di Gilgameš. Ad esempio:

  • Sia Hērakls che si macchiano di un delitto, dovuto a un eccesso di hýbris funzionale (l'uno uccide i propri figli, l'altro i figli del dio celeste Dìjùn) e, in seguito all'espiazione del delitto, finiscono con il mettersi a servizio di un sovrano (rispettivamente Eurysteús e Yào ), il quale li invia a eliminare mostri ed esseri pericolosi. Nulla di tutto questo può dirsi di Gilgameš.
  • La funzione dell'enofora, che elargisce la bevanda d'immortalità all'eroe, è conservata in Grecia (Hḗbē) e in Cina (Xīwángmǔ). Ma non in Mesopotamia, dove Šiduri non viene mai mostrata nella funzione di una sābītu.
  • Nel giardino degli dèi crescono gli alberi che generano i frutti dell'immortalità, e questo tema è conservato tanto in Grecia, con il Kpos Hesperídōn, tanto in Cina, con il Kūnlún shān. Il giardino è invece divenuto un elemento defunzionalizzato nel mito mesopotamico, dove Gilgameš si limita a passare sbalordito tra gli «alberi degli dèi» [iṣû ilī], ammirandone semplicemente la bellezza.
  • Il mito dell'abbattimento dell'aquila e del serpente è presente nel mito di Hērakls e (forse) in quello di ; il tema è del tutto sconosciuto al mito di Gilgameš, dove il serpente ha una funzione affatto differente.
  • La figura del compagno sopravvive all'eroe tanto in Grecia (in alcune versioni è proprio Iólaos a dar fuoco alla pira di Hērakls) e in Cina (dove Féng Méng uccide ), mentre l'epopea di Gilgameš vi sostituisce la vicenda romanzesca, di grande qualità letteraria e senza dubbio impressionante, della morte di Enkidu.

Queste note implicano una conclusione paradossale: il mito greco di Hērakls e quello cinese di sono più vicini a un ipotetico Ur-Myth, di quanto non sia lo Ša naqba īmuru. Ciò implica che il ciclo di Gilgameš, che di solito gli studiosi considerano il più arcaico di tutti, se non addirittura la fonte dei temi mitici attestati tanto in Grecia quanto in Cina, è in realtà una versione divergente, che ha subito maggiori rielaborazioni letterarie.


Il mito della ricerca della vita

Una volta eliminato il falso problema posto da Gilgameš, possiamo cominciare a dare forma al nostro Ur-Myth. Un confronto tra i motivi comuni presenti nei miti di Hērakls, e dei Clanna Tuireann, ci può dare qualche ragguaglio su quella che avrebbe potuto essere la forma originaria del mito: (a) l'eroe, dopo essersi macchiato di un orribile delitto, viene privato dell'immortalità e subisce una crisi esistenziale; (b) costretto a servire un sovrano, deve compiere una serie di «fatiche», che prevedono solitamente l'eliminazione di esseri o animali mostruosi; (c) spedito ai confini del mondo, giunge alla montagna dove il sole sorge e tramonta, oltre la quale si spalanca l'oceano cosmico; (d) arriva al giardino degli dèi, custodito da un serpente, e ruba o ottiene i frutti della vita; (e) nonostante tutto, perde il frutto delle sue fatiche e deve soggiacere alla morte.

In questo dramma, possono comparire alcune figure ricorrenti: (α) una dea celeste, avversaria dell'eroe, che è la causa della sua crisi e il motivo propulsivo della sua ricerca; (β) un'enofora, elargitrice del cibo e/o della bevanda della vita, che fornisce all'eroe il medium d'immortalità; (γ) un compagno, che affianca l'eroe in alcune sue imprese ed è presente alla sua morte.

Se la nostra analisi è corretta, possiamo ora cominciare a capire a quale livello storico collocare il nostro Ur-Myth. Considerando che il tema è presente sia nello strato semitico della letteratura mesopotamica, sia nella letteratura di alcuni popoli di lingua indoeuropea (Elleni, Celti e Germani), si può stabilire, provvisoriamente, un'ipotesi di questo genere:

1. L'Ur-Myth si sviluppa in ambito indoeuropeo, all'interno del ciclo del dio-tuono, approssimativamente tra il Quarto e il Terzo millennio avanti Cristo (oppure viene assorbito da un gruppo proto-indoeuropeo da una cultura di substrato). La presenza dei medesimi temi nella letteratura accadica ci porto ad abbracciare l'ipotesi della continuità tra proto-indoeuropeo e proto-semitico, sostenuta dai linguisti russi a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, sulla base di isoglosse lessicali tra le due proto-famiglie linguistiche (Illič-Svityč 1964 | Gamqʻreliʒe ~ Ivanov 1984). Secondo questa ipotesi, la Ur-Heimat indoeuropea andrebbe localizzata tra il nord della Mesopotamia e il lato meridionale della catena del Caucaso, a est dell'Anatolia (Starostin 2001 | Gamqʻreliʒe 2001). Questa regione potrebbe essere il luogo dove si è formato l'Ur-Myth dell'eroe alla ricerca dell'immortalità.

2. Terzo millennio avanti Cristo: una prima migrazione dei proto-indoeuropei oltre il Caucaso costituisce la seconda patria kurganica, da cui le espansioni in direzione ovest. 2a. Una prima espansione invia il tema in direzione dell'Europa centrale, forse per tramite della «cultura della ceramica cordata»: da questa diffusione deriveranno i futuri esiti celtico e germanico. 2b. Una seconda espansione, dovuta alla «cultura della tomba a fossa» (o di Jamna), porta il tema nei Balcani. Nel corso dell'etnogenesi ellenica, il dio-tuono indoeuropeo (il futuro Hērakls) viene declassato a hēmítheos; questo può essere avvenuto tanto in una fase precoce nella formazione del mito ellenico (Terzo millennio avanti Cristo), quanto dopo la discesa degli Elleni nella penisola greca, nel corso della rielaborazione teologica avvenuta a contatto con la cultura medio-orientale, di cui fungono da medium tanto i popoli dell'Anatolia quanto i Fenici e, forse, i Popoli del Mare (Secondo millennio avanti Cristo).

3. Una seconda direttiva indoeuropea, assai precoce, si sposta verso est: ne abbiamo probabili tracce nelle culture di Afanasevo (circa 3500-2000 a.C.) e/o di Andronovo (2000-1200 a.C.). Gli ultimi discendenti di questa migrazione in Oriente sono i Tocari, presenti tra il vi e l'viii secolo nello Xīnjiāng cinese. È possibile che una versione dell'Ur-Myth sia arrivata in Oriente attraverso questa direttiva. Una volta giunto in quelle che oggi sono le regioni orientali della Cina, il tema della ricerca dell'immortalità si sarebbe innestato sul mito, preesistente, di un eroe (il futuro ) che abbatte i soli soprannumerari. È più difficile che il tema possa essere arrivato in Cina dall'India, visto che esso è sconosciuto presso i popoli indoiranici. Non si può escludere, tuttavia, che lo stesso si sia in certa misura indoeuropeizzato anche grazie all'apporto indiano. Possiamo anche chiederci se il mito di abbia qualche legame con l'episodio di Arjūna che abbatte Karṇa, figlio di Sūrya, nel Mahābhārata, e con quello di Hērakls che bersaglia Hḗlios di frecce, o se non si tratti di una fortunata coincidenza. (A essere sospetto è il fatto che tale motivo sia collegato al complesso di temi organizzati nelle biografie mitiche dei nostri tre eroi.)

4. Metà del Terzo millennio avanti Cristo: il mito dell'eroe alla ricerca della vita arriva nella media Mesopotamia, dove viene portato nel corso delle migrazioni degli Accadi. Essi avevano assorbito il mitema attraverso i contatti avvenuti all'epoca della continuità tra protosemiti e protoindoeuropei, nella ipotetica Ur-Heimat nord-mesopotamica, oppure attraverso la cultura di Majkop, stanziata nell'attuale Adygėzia tra il 3500 e il 2500 a.C. Arrivato in Mesopotamia, il tema della ricerca della vita si sarebbe integrato con i miti sumerici su Bilgames e, verso la fine del Terzo e l'inizio del Secondo millennio avanti Cristo, avrebbe portato alla formazione del ciclo antico-babilonese incentrato su Gilgameš (lo Šūtur eli šarrī, da cui lo Ša naqba īmuru). L'adattamento di un tema indoeuropeo in ambito semitico avrebbe comportato la palese incomprensione di alcuni episodi che, nelle versioni accadiche dell'epopea, perdono di significato e divengono elementi vestigiali, quali il mitema degli iṣû ilī e quello di Šiduri. Rielaborazioni letterarie avrebbero poi portato al tema della crisi causata dalla morte di Enkidu.

5. L'arrivo degli indoeuropei in Anatolia (il gruppo luvio-ḫittita) potrebbe essere avvenuto direttamente, con una migrazione verso est dalla ipotetica Ur-Heimat nord-mesopotamica ipotizzata dai linguisti russi, oppure – se accettiamo l'ipotesi kurganica – attraverso la cultura di Majkop. È possibile che, passando dalla letteratura accadica a quella ḫittita, all'inizio del Secondo millennio avanti Cristo, il ciclo di Gilgameš si sia incrociato con versioni anatoliche dell'Ur-Myth già presenti sul territorio. Questo milieu potrebbe avere a sua volta influenzato – sia creando un substrato, sia direttamente – il mito di Hērakls una volta importato dagli Elleni nella penisola balcanica e sul mar Egeo.

6. Verso la metà del Secondo millennio avanti Cristo, allorché le diverse popolazioni indoeuropee sono per buona parte arrivate nelle loro sedi storiche, differenziandosi anche grazie alle influenze di substrato, l'Ur-Myth comincia a venire elaborato separatamente dalle varie culture; in molti casi scompare lasciando poche o nessuna traccia. Il mito dell'eroe alla ricerca della vita viene conservato esplicitamente presso Elleni e Celti, parzialmente presso i Germani. Non lo troviamo presso i Balto-Slavi, sebbene lascerà profonde tracce nel folklore dell'Europa orientale. Scarse le sue tracce presso gli Armeni, dove esisteva un ciclo sull'eroe Vahagn, una sorta di eracle locale, anch'esso uccisore di mostri e destinato all'apoteosi. Del tutto scomparso nel mondo indoiranico. È curioso notare che questa distribuzione rispecchia la vecchia distinzione, oggi superata, tra lingue centum e lingue satǝm, soprattutto se venisse confermata la nostra ipotesi della presenza del tema presso i Tocari (popolazione di lingua centum). Poiché si ritiene che il processo di satǝmizzazione sia successivo alla diffusione delle lingue centum verso est e verso ovest, possiamo chiederci se il nostro Ur-Myth sia un'elaborazione secondaria dei popoli indoeuropei occidentali (e in tal caso bisogna trovare un'altra spiegazione sia per la sua migrazione in Cina, sia per la sua presenza in Mesopotamia) o sia andato semplicemente perduto presso Indoiranici e Baltoslavi.

7. Nel Primo millennio avanti Cristo, il ciclo di Gilgameš, che ormai ha raggiunto la sua elaborazione definitiva, con lo Ša naqba īmuru, è ormai popolarissimo nel Medio Oriente. Gli ebrei, dopo la cattività babilonese, ne utilizzeranno alcuni schemi nell'operazione di adattamento dei comuni miti cananei, alla luce della nuova teologia post-esilica. Il tema della caduta dell'uomo e della cacciata dal gan ʿĒḏẹn, attestato nel Bǝrēʾšîṯ, utilizza alcuni simboli comuni alla tradizione gilgamešaica, ma li rielabora in maniera originale, probabilmente anche su influenza del pensiero cosmologico iranico. Il mito risulta essere una versione peculiare del tema della fine dell'età dell'oro, come abbiamo suggerito altrove. Tuttavia, nella forma in cui viene elaborato dai redattori del canone biblico, appare essere una rilettura, abilmente rovesciata, del mito del viaggio dell'eroe nel giardino meraviglioso.

8. Nei primi secoli della nostra èra, la vicenda del condottiero macedone Mégas Aléxandros, trasformata in leggenda, viene rielaborata, ad Alexandreía, anche sulla base dei mitemi tradizionalmente legati ad Hērakls. Nel complesso processo di scambi culturali che interessano lo spazio tra il Mediterraneo orientale e il golfo Persico, stessa cosa accade alle leggende sudarabiche su Ṣaʿb ibn Ḏī Marāṯid/Ḏū ʾl-Qarnayn. Gli antichi temi gilgamešaici, che ancora aleggiano nel Medio Oriente, tornano a incastrarsi in questo nuovo puzzle, formando, un po' alla volta, e grazie anche al milieu siriaco, quella che sarà la leggenda islāmica su al-Iskandar. Nell'esito medio-orientale è però assente il tema del giardino meraviglioso, che era stato ridotto a una vestigia defunzionalizzata già nello Ša naqba īmuru. Viene sostituito da un tema giunto probabilmente dall'Īrān o dall'India: quello dell'acqua della vita. Alcuni elementi cosmologici, attenuati o alterati nelle concezioni islāmiche (quali quello del monte assiale, o quello delle isole dei beati), ritornano però con forza nelle versioni persiane della storia di Eskander, grazie al substrato iranico.
 

Lo schema cosmologico

In questa pagina abbiamo seguito il nostro eroe nel suo viaggio ai confini del mondo e abbiamo visto come, nella maggior parte degli esiti, l'eroe si muova nell'ambito di una cosmologia più o meno coincidente.

La concezione generale è quella di una terra abitata (oikouménē) di forma circolare, circondata dal mare. Vi è a volte un sistema anulare di monti che circonda il mondo, nel quale si aprono le porte orientali e occidentali che permettono il passaggio del sole. Al centro del sistema – vale a dire in direzione nord – sorge un'immensa montagna, posta sotto il polo celeste, attorno alla quale ruotano gli astri e l'intero firmamento. È in prossimità di questo axis mundi che, in genere, si trova il giardino con gli alberi della vita, o sgorga l'acqua dell'immortalità. Oltre il mare vi sono invece le «isole dei beati»: terre separate dall'esperienza umana, praticamente irraggiungibili, dove pochi prescelti sono stati chiamati a condurre una vita immortale. Oltre queste isole, l'oceano si fonde con il firmamento (kósmos).

Sebbene le singole concezioni apportino molte modifiche secondarie, lo schema si ripete con sorprendente regolarità in Mesopotamia, Grecia, Scandinavia, Arabia, Īrān, India e Cina. In tutti questi schemi è presente la dicotomia tra la montagna centrale e le isole dei beati, anche laddove i due motivi appartengano a contesti mitici o narrazioni differenti. Ad esempio, sia in Grecia sia in Cina – alle due estremità dell'areale di diffusione del nostro mito – sono presenti tanto il mitema della montagna cosmica (rispettivamente l'óros Átlas e il Kūnlún shān), tanto quello delle isole dei beati (le Makárōn Nsoi e le isole degli xiān); sia in Grecia che in Cina, inoltre, tanto Hērakls tanto raggiungono il monte, in prossimità della quale crescono gli alberi della vita, mentre le isole dei beati non compaiano affatto nei loro miti, per quanto godano di una lunga tradizione tanto nell'una, quanto nell'altra mitologia.

Tale cosmologia sussiste anche in quegli ambiti dove il mito della ricerca della vita non è affatto attestato, ad esempio in Īrān e in India. Dunque, il nostro Ur-Myth è semplicemente situato in questa cosmologia, che ne costituisce, per così dire, l'impalcatura.

  Montagne periferiche
(cingulus mundi)
Montagna centrale
(axis mundi)
Oceano cosmico Isole dei beati
Sumeri   KUR (?)   Dilmun
Accadi Šadû Ḫašur
Šadû Budugḫudug
BÀD.GULA, il «grande muro [...] dove Šamaš non è visto» (?) Il Marratu, il «fiume» amaro I nagi˒ānu
šadû Māšu (?) šadû Māšu (?) Il tâmtu Il Pû-nārāti
Greci Óros Átlas a occidente, óros Kaúkasos a oriente Óros Átlas nella terra degli Hyperbóreoi Il potamós Ōkeanós L'isola di Erýtheia e le Makárōn Nsoi
Le colonne di Átlas
Germani   Himinbjǫrg, la «montagna del cielo» Útháf, il «mare esterno» Útgarðr, il «recinto esterno»; Glæsisvellir e Ódáinsakr, i reami di Guðmundr.
Celti   Tul Tuinne (?), la collina del diluvio Il bíth o lér Tír na nÓg, Tír na mBeo, Tír nAill, Emain Ablach, Ynys Afaỻon, etc.
Arabia  Il ǧabal al-Qāf Il ǧabal al-Qāf Il Baḥr al-muḥīṭ, l'oceano onniavvolgente L'isola di al-Ḫīḍr
La montagna di Yamlīḫā Le città di smeraldo Ǧābarsā e Ǧābalqā
Īrān Il monte
Harā Bǝrǝzaitī
/ Harborz / Alborz
Il kōf ī Tērag-ī-Harborz o il kōf ī Čagād-ī-Dāiti Il mare Vourukaa / Frāxwkard / Warkaš I sei karvąr/kešwar periferici
India Il Lokāloka Il monte Meru Gli oceani anulari I sei dvīpa periferici
Cina Svariate montagne citate nei testi cosmologici Il Kūnlún shān I sì hǎi, i «quattro mari» che circondano le terre Le isole di Dàiyǘ, Yüánjiào, Fānghú, Yíngzhōu e Pénglái shān

In conclusione, mentre nel caso del mito della ricerca della vita non possiamo probabilmente scendere sotto il Quarto millennio avanti Cristo, e vi sono comunque limiti di diffusione geografica e alcune varianti dovute al suo adattamento nelle diverse culture, l'ambiente cosmologico in cui si svolge la vicenda appare essere uniforme, solido e omogeneo, oltre che molto antico. Non crediamo di sbagliare asserendo che il mito della ricerca della vita sia un tema sviluppatosi separatamente, e in un secondo tempo, rispetto allo schema cosmologico utilizzato come scenario. In altre parole, la cosmologia qui definita sembra essere una sorta di substrato culturale comune all'intera area eurasiatica, e come tale, affonda le sue radici in una antichità portentosa.

Cercare di definire l'antichità di questa Ur-Kosmologie è difficile. Le nostre (fragilissime) considerazioni astronomiche forniscono il 3000 a.C. come data più recente per la formazione del motivo dell'aquila e del serpente quali «sostegni» dell'equatore celeste, ma si potrebbe risalire altrettanto bene all'8000 a.C. Uno scenario di questo genere potrebbe collocarsi nel varco delle ipotesi di Vladislav Illič-Svityč (1934-1966) e Aron Dolgopol'skij (1930-2012) sulla protolingua nostratica (Illič-Svityč 1964 | Starostin 1988 | Starostin 2001) e avrebbe il pregio di stabilire una continuità culturale in epoche piuttosto remote (anche quindicimila anni fa).


I medium dell'immortalità

In un suo saggio, la professoressa Alexandra Szalc ha analizzato i media d'immortalità in alcuni esiti di questo mito (mesopotamico, greco, arabo), sottolineandone le numerose differenze. Il medium è una pianta sottomarina, ad esempio, nell'epopea di Gilgameš (la šammu nikitti, la «pianta dell'irrequietezza»); sono dei frutti colti da un meraviglioso giardino nel ciclo di Hērakls (i pomi del Kpos Hesperídōn); è una sorgente nel ciclo islāmico di al-Iskandar/Eskander (la māʾ al-ḥayāt, l'«acqua della vita»). La Szalc ritiene che questi temi abbiano un'origine diversa e, cercando un collegamento occidentale del tema della šammu nikitti presente nell'epopea di Gilgameš, addita la strana erba magica che compare nelle due versioni della leggenda greca di Glaûkos e nota come alcuni elementi di questa vicenda (i pesci che resuscitano) siano entrati nella tradizione alessandrina. (Szalc 2012)

La Szalc nega che il tema alessandrino della māʾ al-ḥayāt derivi da quello gilgamešaico e ne ipotizza invece un'origine indiana. Ella nota, giustamente, che il Mahābhārata contiene diverse descrizioni di sorgenti che eliminano la vecchiaia, le malattie e la morte (Szalc 2012). In alcuni casi i temi appaiono combinati insieme tra loro in modo da rendere molto difficile effettuare delle distinzioni precise. Ad esempio, la tradizione iranica fonde il medium arboreo e quello liquido: sull'albero Gaokǝrǝna, che cresce nel mezzo dell'oceano Vourukaa, fruttifica il bianco haoma (medio persiano hōm-ī-sped), l'elixir vitae distillato da Ahura Mazdāh che, nel frasōkǝrǝti, sconfiggerà la vecchiaia, farà risorgere i morti e renderà immortali i viventi. Il mitema del Gaokǝrǝna/haoma può essere collegato tanto alla šammu nikitti che Gilgameš coglie sul fondo dell'Apsū, tanto alla sorgente della māʾ al-ḥayāt che al-Iskandar prova a raggiungere oltre il ǧabal al-Qāf.

Cerchiamo di fare un po' di chiarezza e distinguere i media d'immortalità:

  Frutti d'immortalità Piante/erba d'immortalità Elixir vitae Sorgente d'immortalità
Germani Le mele d'oro di Iðunn      
Celti I frutti (d'oro) di Ynys Afaỻon e di Emain Ablach   La birra di Goibniu  
Greci I krýsea mla, i «frutti d'oro» del Kpos Hesperídōn L'erba dell'immortalità nelle due versioni della leggenda di Glaûkos. Il cibo e la bevanda degli dèi: néktar e ambrosía  
Slavi Le molodil'nye jabloka, le «mele della giovinezza»   La živaja voda, l'«acqua viva» (e la mertvaja voda, l'«acqua morta»)  
Mesopotamia Gli iṣû ilī, gli «alberi degli dèi» (tema defunzionalizzato) La šammu nikitti, la «pianta dell'irrequietezza» che cresce sul fondo dell'Apsū. Il cibo di vita e l'acqua di vita nel racconto di Adapa  
Ebrei Il frutto del ʿēṣ haḥayyîm, l'«albero della vita»      
Islām I frutti d'oro del giardino di Iram (tema defunzionalizzato) L'erba dell'immortalità sulla montagna di Yamlīḫā   La māʾ al-ḥayāt, l'«acqua della vita»
Īrān L'albero Gaokǝrǝna Il haoma/hōm
India   L'erba di Hanuman nel Rāmāyaṇa L'amṛta, il cibo di non-morte Sorgenti e fiumi sacri citati nel Mahābhārata
Cina Gli alberi di giada e perle nei giardini del Kūnlún shān L'erba delle [sciamane] Péng, , Yáng, , Fán e Xiāng L'elixir vitae di Xīwángmǔ (anche diffuso nella tradizione taoista) Le acque del [fiume] Dān

Questo specchietto, ordinato secondo un'approssimativa sequenza da ovest a est, evidenzia i seguenti punti:

  • Il motivo della sorgente dell'acqua della vita sembra tipica dei miti orientali: il suo nucleo, come nota la professoressa Szalc, sembra effettivamente essere l'India, da dove il tema può essere arrivato tanto in Cina (dove è però meno importante rispetto a quello degli alberi della vita e dell'elixir vitae di Xīwángmǔ), tanto in Īrān e, da qui, sia nel mondo arabo, sia in Russia. Sebbene esso sia sconosciuto allo strato più antico del mito ellenico, è presente nei romanzi dello pseudo Kallisthénēs, ma solo nelle tarde recensiones β e γ, a indicazione che il tema è arrivato in Europa soltanto in epoca tardo-antica, attraverso la letteratura siriaca. Solo nel Medioevo il tema della fonte della giovinezza diverrà popolare in Europa.
  • Il tema del cibo d'immortalità, invece, sembra essere indoeuropeo: l'amṛta indiana e l'ambrosía greca sono mitemi strettamente collegati, sia etimologicamente, sia nei contesti di schemi mitici piuttosto dettagliati. Tuttavia esso compare unicamente come nutrimento degli dèi e non sembrano presenti eventuali racconti della sua acquisizione da parte dei mortali (con l'eccezione di Hērakls dopo la sua apoteosi).
  • Il motivo dell'erba dell'immortalità è legato a temi acquatici: in genere l'eroe deve scendere sul fondo del mare per riuscire a coglierla. Questo tema sembra soprattutto medio-orientale: è importante nell'epopea di Gilgameš (la šammu nikitti), ed è anche arrivato anche in Grecia, dove è presente nelle due versioni del mito di Glaûkos: in uno, Glaûkos figlio di Mínos viene resuscitato grazie a un'erba conosciuta da un serpente; nell'altro, il pescatore Glaûkos, nutrendosi di quest'erba, si trasforma in una divinità marina (e qui compare anche, per la prima volta, il tema della resurrezione del pesce). Ritroviamo il motivo dell'erba della vita anche nella leggenda di Balūqiyā, dove cresce però su una montagna, sebbene vicino a un'altra specie erbacea che permetterà al protagonista di camminare sulla superficie del mare.
  • Il mitema dei frutti dell'immortalità è universale: lo troviamo attestato indifferentemente dall'Europa alla Cina, compreso il Medio Oriente. Il mito sembra tuttavia originario del mondo indoeuropeo, visto che è in quest'ambito che ne troviamo gli sviluppi migliori. Nel mito greco è dichiarato che i frutti d'oro del Kpos Hesperídōn rendano immortali chi ne mangia, sebbene non vengano mai messi alla prova. Tali frutti hanno tuttavia una funzione importante nel mito scandinavo, la cui locale enofora, Iðunn, custodisce le epli ellilyf, le «mele contro la vecchiaia», che permettono agli dèi di rimanere eternamente giovani. Pomi dorati dai simili poteri sono presenti anche nelle skazki russe. Il mitema non è invece attivo nelle tradizioni medio-orientali. Nel racconto di Gilgameš, ad esempio, gli iṣû ilī, gli «alberi degli dèi», sono un motivo letterario ormai privo della sua antica funzione: e non ci stupiamo di ritrovarlo proposto, in forma esclusivamente estetica, anche nei racconti islāmici, dove al-Iskandar/Eskandar arriva nel giardino di Iram e ne ammira i frutti simili a pietre preziose e gemme. Sorprende, nell'ambito semitico, che il tema sia attivo nel mito biblico del del ʿēṣ haḥayyîm, l'«albero della vita»: ottima dimostrazione del fatto che il Bǝrēʾšîṯ è indipendente dallo Ša naqba īmuru e che, in molti punti, ha conservato elementi più antichi. In Cina, il motivo degli alberi di giada e di perle, e dei peschi dell'immortalità, è invece perfettamente funzionale.

L'OCEANO ESPUGNATO.

Con la fine dell'evo medio, il grande oceano che circondava l'oikouménē smise di essere una notazione cosmologica per ridursi, semplicemente, a un tratto di mare. Certamente molto più vasto, profondo e pericoloso del Mediterraneo e del golfo Persico, ma in fondo non diverso da quelli. E non vi erano favolose isole di immortalità, oltre l'oceano, ma – cosa forse ancor più inaspettata – continenti nuovi di zecca, da colonizzare, sfruttare e depredare. Continenti abitati da uomini che, pur diversissimi come lingua e costumi, non erano che rami divergenti della stessa umanità. Da questo incontro/scontro tra civiltà, alcune avrebbero trattato vantaggio e ricchezze oltre ogni immaginazione; altre avrebbero subito l'urto e sarebbero andate incontro a destini assai meno lieti.

Gli antichi miti persero d'un tratto il loro significato e con l'Umanesimo si aprì l'età moderna. Vascelli e galeoni carichi di ricchezze, spezie e schiavi, cominciarono a veleggiare attraverso gli oceani. A farsi strada erano nuove concezioni di commercio, imperialismo e capitalismo. Fiumi d'oro confluirono nei forzieri di Spagna, Portogallo, Francia, Inghilterra, Olanda. Dimenticate le vecchie epopee, bisognava creare una nuova epica, più adatta ai tempi: un'epica marinaresca e mercantile. Come questa:

As armas e os barões assinalados
que da Ocidental praia Lusitana,
por mares nunca dantes navegados
passaram ainda além da Taprobana,
em perigos e guerras esforçados
mais do que prometia a força humana
e entre gente remota edificaram
Novo Reino, que tanto sublimaram;
L'armi e i gentiluomini famosi
che dall'estremo riva lusitana
per mari inesplorati e tenebrosi
si spinsero fin oltre Taprobana
guerre e rischi affrontando numerosi
molto al di sopra d'ogni forza umana;
e che eressero regni, nei remoti
lidi, da loro resi illustri e noti;
e também as memórias gloriosas
daqueles Reis que foram dilatando
a Fé, o Império, e as terras viciosas
de África e de Ásia andaram devastando,
e aqueles que por obras valerosas
se vão da lei da Morte libertando
cantando espalharei por toda a parte
ce a tanto me ajudar o engenho e arte.
le memorie gloriose dei sovrani
che acquistarono fama, propagando
la Fede ed il suo Impero fra i pagani,
terre d'Africa e d'Asia conquistando;
e degli eroi, che gesti sovrumani
compiron, sulla morte trionfando;
diffonderò col canto in ogni parte,
se a tanto mi varranno ingegno e arte.
Cessem do sábio Grego e do Troiano
As navegações grandes que fizeram;
Cale-se de Alexandro e de Trajano
A fama das vitórias que tiveram;
Que eu canto o peito ilustre Lusitano,
A quem Neptuno e Marte obedeceram:
Cesse tudo o que a Musa antiga canta,
Que outro valor mais alto se alevanta.
Cessi l'elogio dell'eroe troiano
e dell'astuto greco, per le storie
del lungo navigare, o di Traiano
e d'Alessandro l'inno alle vittorie;
ch'io celebro d'un cuore lusitano
sopra Marte e Nettun più eccelse glorie:
tutto ciò che la musa antica vanta
taccia, valor più vero qui si canta.
Luís Vaz de Camões: Os Lusíadas [I: 1-3]

Quando Luís Vaz de Camões effonde nelle sonore ottave ariostesche dei suoi Lusíadas (1572) la conquista degli oceani ad opera di Vasco de Gama, il mondo si arricchisce di quello che è forse il più bel poema epico dell'età moderna. Ormai il mondo l'abbiamo circumnavigato per non intero e non vi è alcun mistero, alcun mito, alcuna metafisica. Cessino gli elogi di Gilgameš, Hērakls e al-Iskandar. È l'epoca moderna, baby.

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Rubrica: Studi - Anubis.
Materia: Biblistica e cristianesimo -
Yǝhûdāh Κqǝriyyôt.
Ricerche e testi di Dario Giansanti, Oliviero Canetti.
Hanno collaborato Valeria Muscarà, Luca Alberano, Mauro Quagliati.
  IL PROMETEO INCATENATO STUDI > Sommario  NEL SEGNO DEL SERPENTE 
Creazione pagina:01.05.2015
Ultima modifica: 27.03.2019
 
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