NOTE
1
— (a)
Valtívar significa
letteralmente
«dèi
dei caduti»; valar sono
infatti i «caduti in battaglia» (cfr.
Valkyrjur «[coloro che] scelgono i
caduti»;
Valhǫll «salone dei
caduti»). Il termine ricorre
soltanto qui e in
Vǫluspá [52 | 63]; non ha
tuttavia un significato
particolare: intende semplicemente
gli dèi di
Ásgarðr. — (b)
Il sostantivo femminile veiðr
può significare
«caccia» (come in
Vǫlundskviða [4 | 8]) o
«preda, cacciagione» (come
in
Reginsmál [pr.]).
Di conseguenza la frase námu veiðar
– attestata soltanto qui – può
essere tradotta
«andarono a caccia» o «presero
selvaggina», ma anche nel senso di
«banchettarono con delle
selvaggina». I vari interpreti
hanno presentato via via tutte
le possibili interpretazioni su
cosa stessero facendo gli dèi: «banchettarono insieme» [made
feast together]
(Bellows); «avevano preso abbondante
selvaggina» [had game in
abundance]
(Auden &
Taylor); o addirittura
«avevano pescato del pesce» [had
been taking fish]
(Thorpe).
Tra gli interpreti italiani, Olga
Gogala di Leesthal traduce «mangiavan
gli dèi selvaggina» (Di Leesthal
1939) e Carlo Alberto
Mastrelli «mangiavano della selvaggina»
(Mastrelli 1951);
ma Piergiuseppe Scardigli e
Marcello Meli preferiscono
«presero selvaggina»
(Scardigli
~ Meli 1982).
Nella
nostra traduzione, privilegiamo
l'interpretazione del banchetto,
che ci sembra più vicina alle
intenzioni del testo, visto che
subito dopo gli dèi vanno a cercare
chi fornisca loro birra per
dissetarsi.
— (e-f)
Hlaut è termine tecnico per
indicare il
sangue
sacrificale. L'espressione è
probabile contrazione di
hlaut-blóð
«divinazione [attraverso] il
sangue», particolare pratica
divinatoria nella
quale dei ramoscelli [hlaut-teinar]
venivano intinti nel sangue di un
sacrificio e scossi [hrista-teina]:
dalla forma delle macchie di sangue
che così si formavano, si traevano
auspici e previsioni per il futuro.
(Cleasby ~ Vigfússon 1874).
— (h)
L'ultimo verso della prima strofa è
un passo assai tormentato
nell'interpretazione del poema, sul
quale non sono state date due
traduzioni uguali tra loro. Le
prime traduzioni erano viziate dal
malinteso suscitato da Sophus Bugge,
il quale aveva emendato il verso
(Bugge 1867),
col risultato che gli interpreti
successivi erano stati sviati sul suo
significato. I traduttori inglesi
avevano letto: «e
trovarono ogni squisitezza nelle
sale di
Ægir»
[and found all dainties in Ægir's
halls] (Bray),
o
«trovarono vitto abbondante nella
sala di
Ægir» [rich fare in
Ægir's hall they found]
(Bellows 1923).
Su questa linea anche gli
interpreti italiani: «gran copia di
tutto trovaron da
Ægir»
(Di Leesthal 1939);
«appresero così che da
Ägir
c'era gran copia di tutto»
(Mastrelli 1951); «trovarono da
Ægir
abbondanza di ogni bene»
(Scardigli & Meli 1982). Ma
in norreno hverr vuol dire
«calderone», mentre
ǫrkost
è una parola piuttosto ambigua,
potendo venir tradotta tanto
come
«risorsa, possibilità, modo di
uscire da una situazione», ma anche
«bisogno, necessità di qualcosa» e,
per estensione, «insufficienza di
qualcosa»
(Cleasby ~ Vigfússon 1874). Quindi la
frase
ǫrkost hvera
può venir letta nel senso sia
che
Ægir
disponeva di calderoni e poteva
quindi offrire agli dèi
l'opportunità di dissetarsi, sia
che, al perfetto contrario,
Ægir
non disponesse di calderoni per la
birra. È quest'ultima
l'interpretazione suggerita già da
Cleasby e Vigfússon, i quali
traducono: «non
trovarono un calderone presso
Ægir»
[they found no cauldron by Ægir].
Ma se così fosse pare inoltre un
po' incongruo che, nella strofa
successiva,
Þórr si rechi proprio da colui
che il hlaut-blóð
ha designato come sprovvisto di un
calderone e a lui imponga di
offrire da bere a tutti gli dèi. È
più logico che la divinazione abbia
designato
Ægir
come colui che possiede molti
calderoni per la birra, presso il
quale gli dèi potranno dissetarsi.
Anche se, subito dopo, indignato
dai modi poco urbani di
Þórr,
Ægir
lo spedirà a cercare un calderone
abbastanza capiente per fare birra
per tutti gli dèi. Su questa linea
traduce Eysteinn Björnsson: «e
scoprirono abbondanza di calderoni
presso
Ægir»
[and discovered an abundance of
cauldrons at Ægir's]
(Eysteinn 2003).
2
— (a)
bergbúi, «abitatore dei
monti», è una tipica kenning
per «gigante», sebbene appaia piuttosto
impropria riferita ad
Ægir,
personificazione dell'oceano. —
(a-e)
Sat...
leit í augu, «la scena, dove
Þórr trova
Ægir
seduto fuori della sua dimora e
lo fissa negli occhi ricorda una
scena analoga nella
Vǫluspá,
che ha per protagonisti
Óðinn e la vǫlva:
Ein sat hon úti,
þás enn aldni kom
yggjungr ása
ok í augu leit. |
Sola sedeva di fuori
quando il vecchio giunse
Yggjungr degli
Æsir
e la fissò negli occhi. |
Ljóða Edda
> Vǫluspá [28] |
— (b) barnteitr, letteralmente
«felice come un bimbo», potrebbe forse riferirsi a una concezione dei giganti
come semplici o stupidi (cfr. api «scimmia», in
[20])
(Eysteinn 2003). Tale
immagine, che contrasta con quella tradizionale degli jǫtnar quali esseri
antichi e sapienti (esemplificata nel
Vafþrúðnismál),
è probabilmente tarda. La felicità di
Ægir
contrasta d'altra partecon il continuo malumore di Hymir (detto
óteitr «infelice», in [25]). Si noti anche
la ripetizione di barn «bimbo» al verso f.
— (d) Miskorblindi,
presentato qui come il padre di
Ægir,
non viene nominato in altre fonti. In genere
Ægir
viene detto figlio di Fornjótr
e fratello di Logi
e Kári (Supplementum Historiæ Norvegicæ [c1]
| Orkneyinga saga [1] |
Hversu Noregr byggðist). Il nomen Miskorblindi,
traducibile con «cieco nella nebbia», potrebbe essere un epiteto riferito tanto
allo stesso Fornjótr
che ad altri personaggi, ed Eysteinn Björnsson pensa piuttosto a Ymir.
Nella sua traduzione Bellow scioglie il
significato del nome e rende
l'intera frase come «sembrava simile a un cieco» [soon like a blinded man he
seemed]
(Bellows 1923).
— (f) Yggs barn, «figlio di
Yggr» (dove
Yggr
è un heiti di
Óðinn) è una kenning per
Þórr. — (g-h) Il ruolo di
Ægir
come birraio degli dèi è testimoniato in altri testi, soprattutto nel
Lokasenna, dove gli
Æsir si riuniscono a bere ǫl nella magione di
Ægir
(che Snorri afferma trovarsi nell'isola di Hlésey
(Skáldskaparmál [1])). Il
compilatore del Codex Regius ha collocato l'Hymiskviða
prima del
Lokasenna, considerando un testo propedeutico all'altro
(v. introduzione [supra]▲).
Anche Egill
Skallagrímsson definisce
Ægir «fabbro di
birra» [ǫlsmiðr] (Sonatorrek [8]).
3
— (b)
orðbæginn, espressione che
compare solo qui e che significa
più o meno «[colui che] provoca
con le parole». Cleasby e
Vigfússon traducono con
tauting, «[colui che]
insulta»
(Cleasby ~ Vigfússon 1874).
— (e)
Sifjar verr «uomo di
Sif»
è un'altra kenning per
Þórr. Ritornerà nelle strofe
[15]
e [34].
È anche presente in
Þrymskviða [24].
4
— (e)
Tryggð, «in fede, in verità, amichevolmente, in confidenza» (Cleasby
~ Vigfússon 1874).
— (f)
Hlórriði, «[colui che] cavalca con fragore», un
heiti di
Þórr riferito al frastuono
prodotto dalle ruote del suo carro, che è immagine metaforica del tuono tra le
nuvole.
5 — Che
la dimora di
Hymir si trovasse «a oriente degli
Élivágar» [fyr austan Élivága],
«al limite del cielo» [at himins enda], è un'interessante precisazione cosmologica. I fiumi cosmici
Élivágar, in questo caso, sembrano
indicare l'úthaf, l'oceano esterno nel quale
Jǫrmungandr circonda il mondo. In
quanto alla formula «alla fine del cielo» [at himins enda], viene
utilizzata in
Vafþrúðnismál [37]
per indicare il luogo da dove l'aquila Hræsvelgr
produce i venti che soffiano sulla terra (luogo collocato da Snorri nell'estremo
settentrione (Gylfaginning [18])). Entrambe le nozioni sembrano indicare
l'orizzonte, il punto dove la terra finisce e dove l'oceano esterno diviene una
nozione astronomica, forse affine all'equatore celeste o all'eclittica. Snorri utilizza la medesima formula anche per
indicare il luogo dove sorge Himinbjǫrg,
la dimora dove Heimdallr sta di
sentinella, all'estremità celeste del ponte
Bifrǫst
(Gylfaginning [17 |
27]). ① — (e)
Týr dichiara che Hymir sia suo padre; nel
seguito del racconto compariranno anche sua madre e sua nonna. Questa notizia contrasta con
un'affermazione di Snorri che, nell'elencare le kenningar di
Týr, definisce quest'ultimo son Óðins «figlio di
Óðinn»
(Skáldskaparmál [16]), notizia piuttosto
frettolosa e non altrimenti giustificata. Che
Týr sia figlio di uno jǫtnar, sulla
base degli elementi forniti dall'Hymiskviða,
sembra difficile da negare.
Nondimeno alcuni interpreti hanno cercato di «ammorbidire» tale scomoda
discendenza: è il caso di Lee Milton Hollander che ha emendato il
testo del poema sostituendo, in traduzione, father con kinsman,
segnalando peraltro in nota che la sposa di
Hymir potesse essere una dea unita al
gigante contro la sua volontà (Hollander 1928). ② — (g)
rúmbrugðinn è «esageratamente vasto». — (h)
Il rǫst, o «miglio» vichingo, sembra misurasse poco più di 11 km.
6 — (c)
Vél è «artificio, artigianato», ma anche «trucco, astuzia, inganno». Il
verbo véla (o væla) ha, come significato principale, «frodare,
imbrogliare» (Cleasby
~ Vigfússon 1874). — Sia nel Codex Regius
(ms. R), sia nel Codex Arnamagnæanus (ms. A), questa strofa e alcune delle successive vengono ripartite in
maniera piuttosto irrazionale: [6-7¹ | 7²-8¹ | 8²-9¹ |
9²-10¹ | 10²-11] (i numeri in esponente indicano gli helmingar).
7 — (a-b)
Il Codex Arnamagnæanus (ms. A) riporta una piccola variazione nel
secondo semiverso che cambia, sebbene di poco, il senso del verso: «Viaggiarono
decisi / velocemente tutto il giorno» [fóru drjúgan / dag fráliga]. — (c)
Questa è una delle due sole occorrenze del toponimo
Ásgarðr
nella Ljóða Edda;
l'altra è in Þrymskviða [18]. Un'altra
indicazione che, nel corpus eddico, l'Hymiskviða
e la Þrymskviða
sono da considerarsi le due composizioni più tarde, risalenti forse all'XI
secolo, un'epoca in cui la letteratura gnomico-sapienziale dei þulir
aveva lasciato il posto alle ballate mitologiche. — (d)
Il nome di Egill è attestato come <Egils> nel Codex Regius
(ms. R), ma appare nella
lezione <Ægis> nel Codex Arnamagnæanus (ms.
A).
Il lapsus scribale è probabilmente dovuto al fatto che la
scena si è spostata dalla dimora di
Ægir a quella di Egill; l'errore potrebbe anche
essere indicativo di una possibile natura soprannaturale, jǫtunica, dello
stesso Egill. (Eysteinn 2006) — (d-f)
Il testo non specifica la ragione per cui Þórr e
Týr lascino carro e caproni a casa di Egill. Per Þórr è
evidentemente impossibile proseguire con il carro attraverso l'úthaf,
che qui sembra identificarsi con i fiumi cosmici
Élivágar. Non dimentichiamo che
Þórr è quotidianamente costretto a guadare
una serie di fiumi celesti (l'Ǫrmt,
il Kǫrmt e i due
Karlaugar) per recarsi al
þing degli Æsir, perché il suo carro non può
accedere al ponte
Bifrǫst, né, evidentemente, può
oltrepassare quei corsi d'acqua
(Grímnismál
[29]).
La sosta presso Egill è forse legata a
qualche ragione analoga: carro e caproni non possono guadare gli
Élivágar e arrivare at himins enda,
«al limite del cielo». (Eysteinn 2003). Si noti che
una situazione analoga si verifica durante il viaggio di Þórr
verso Útgarðr, narrato da Snorri
(Gylfaginning [44]):
anche qui il dio del tuono parcheggia carro e caproni alla dimora di un anonimo fattore – in
un episodio che è chiaramente un doppione di questo presente nell'Hymiskviða
– prima di attraversare l'úthaf. ①
8 — Il contrasto tra la bellezza della madre di
Týr e la bruttezza della nonna non potrebbero essere più contrastanti. Da
qui, le ipotesi di vari studiosi: ad esempio, che la nonna fosse paterna e non
materna; oppure che la madre di
Týr fosse una dea andata in sposa ad Hymir
contro la sua volontà (Hollander 1928)
(v. nota 5 [infra]▲).
Tali ipotesi non sono d'altra parte necessarie: gli dèi discendono dai giganti,
com'è il caso dello
stesso
Óðinn, e le figlie degli jǫtnar possono essere, a volte, di
abbagliante bellezza, quali Gerðr
e Skaði. — (f-g)
L'espressione allgullin «tutta d'oro» è pure usata per le mele di
Iðunn in
Skírnismál
[19], mentre brúnhvít «bianche
sopracciglia» è un hápax, ma
può essere confrontato con il pressoché identico bráhvít
«bianche ciglia»
in Vǫlundarkviða
[39]. Un analogo schema cromatico è attesto in
Hárbarðsljóð [30], dove una signora è detta
essere línhvít
«bianca come il lino» e gullbjört «lucente come l'oro».
9 — (c
e h) Hugr, un termine dall'ampio arco
semantico: «intelligenza, animo, coraggio»; indica in un certo senso le qualità
raziocinanti e spirituali dell'individuo. Il gigante Hugi,
che nel racconto di Snorri sfida Þjálfi in una gara
di corsa, si rivela essere l'emanazione dell'hugr di Útgarðaloki
(Gylfaginning [46-47]).
In questo caso, ai due æsir, detti hugfulla, «pieni di hugr»,
quindi di senno, coraggio, intelligenza, si
contrappone Hymir, ills hugar, «di
cattivo, malevolo hugr». — (e)
fríi è «amante, marito, compagno»; curiosamente la lezione <mí frí> è
presente solo nel Codex Regius (ms. R); il Codex Arnamagnæanus
(ms. A) ha invece <min fað> (abbreviazione di
minn faðir, «mio padre»). Tra gli studiosi, Finnur Jónsson
accoglie la seconda lettura, sebbene lo costringa a emendare faðir
(«padre») in afi («nonno») nella strofa [5]
(Jónsson 1926). Eysteinn Björnsson si chiede
ironicamente perché sia tanto difficile accettare che
Týr sia áttniðr jǫtna, «prole di giganti», così come lo saluta la
madre nel primo semiverso di questa strofa (Eysteinn 2003).
10
— (a) váskapaðr è un termine abbastanza
problematico: vá è, letteralmente, «pericolo, sfortuna», da cui
l'interpretazione di Guðni Jónsson «colui che
causa pericolo, sfortuna» (Eysteinn 2003).
Gustav Neckel e Hans Kuhn, nel glossario alla loro edizione dell'Edda,
rendono la parola con «deforme» (Neckel ~ Kuhn 1962).
11-19 — Nelle seguenti strofe l'argomento del secondo helming
si conclude ogni volta nel primo helming della strofa successiva. Per
tale ragione seguiamo qui la suddivisione delle strofe
secondo il suggerimento di Gustav Neckel: [11¹ | 11²-12¹ |
12²-13¹ | 13²-14¹ | 14²-15¹ | 15²-16¹ | 16²-17¹ | 17²-18¹ | 18²-19¹ | 19²]
(Neckel 1962).
11¹
— frilla è contrazione di friðla, «amica, compagna, concubina». — (b)
í hugum góðum, «in buon hugr», contrasta con l'ills hugar,
«di cattivo hugr», della strofa [8].
— (c-f) sonr [...] sá er vit vættum,
«il figlio [...] che abbiamo atteso»: in questo duale vit (che include
Hymir e la sua frilla), così come nella
giustapposizione di sonr e sala þinna (che implica «tuo
figlio»), Eysteinn Björnsson vede citato un mito perduto.
L'impressione è che
Týr abbia abbandonato la sua casa molto tempo prima e sia andato a vivere in
Ásgarðr, forse in qualità di ostaggio
(Eysteinn 2003). Non dimentichiamo
tuttavia che è stato
Týr stesso a consigliare Þórr
di agire con l'inganno e l'astuzia nei confronti di Hymir
: un dettaglio che fa pensare a un rapporto non certo idilliaco tra padre e
figlio.
11²-12¹ — (h) Hróðrs andskoti,
“l'avversario di Hróðr”: una kenning di Þórr,
dove Hróðr è probabilmente il nome di un gigante
abbattuto dal dio-tuono, sul quale non abbiamo altre notizie. Questo nome è
affine all'altrettanto problematico
Hróðvitnir, epiteto di
Fenrir in
Grímnismál
[39]. Una relazione tra le lezioni
Fenrisulfr
e
Hróðvitnir
(letteralmente «lupo di
Fenrir» e «lupo di
Hróðr») potrebbe far pensare
che Fenrir sia identico a
Hróðr. Ma se anche questo fosse vero, rimane il
fatto che Þórr
è avversario escatologico del serpente, non del lupo. Il nomen Hróðr potrebbe
però essere stato usato solo come sinonimo di «gigante».
— (j) Véurr,
«protettore del santuario», è un heiti di Þórr
presente solo in questo poema (cfr. le strofe [17 | 21]).
L'espressione Miðgarðs véurr, «protettore di
Miðgarðr», compare in
Vǫluspá [57],
ma qui véurr non sembra essere un nome proprio. Le lezioni
Véuðr e Harðvéurr sono attestate nella
þula dei Þórs heiti. — (a-d)
Seguendo gli ordini della padrona di casa, Þórr
e
Týr si sono disposti sul fondo della hǫll [salar gafli],
dietro una colonna [súla], sotto una trave [áss], da cui pendono
alcuni paioli. Era dunque questo il senso del consiglio della madre di
Týr, quando aveva suggerito ai due æsir di andare a mettersi «sotto i paioli» (non, dunque, di nascondersi all'interno
dei paioli rovesciati).
12²-13¹ — (e-h) I paioli
sono otto o nove? Dipende dal senso che diamo al verbo stǫkkva che vuol
dire «saltar via, far volare, lanciare, rimbalzare, spruzzare». Se leggiamo
stukku átta come «saltarono via otto [paioli]», il testo indica che solo uno
rimane intatto; se intendiamo stǫkkva come «rompere, spezzare»,
allora quello che rimane intatto è ovviamente
un nono paiolo. Se rimaniamo fedeli al significato principale di
stǫkkva, sono otto i paioli che saltano via dal trave e «uno solo di
questi» [en einn af þeim] non si rompe nell'urto.
13²-14¹ — (c)
gýgjar græti, «[colui che] fa piangere le donne dei giganti» (gýgr
è termine specifico per gigantessa, strega, femmina troll):
kenning per Þórr.
14²-15¹
— (g) senn, «subito;
il Codex Arnamagnæanus (ms. A) presenta
invece la lezione <svn>, che potrebbe essere tanto un lapsus del copista,
quanto un accusativo di sunr (variante di sonr, «figlio»); in
questo caso il senso della frase verrebbe ad essere: «lo jǫtunn
ordinò al figlio [Týr]
che andasse a cucinarli».
— (c) seyðir, una sorta di forno di
terra, dove la carne veniva messa a cuocere tra le pietre infuocate; la fossa
veniva poi ricoperta fino alla completa cottura.
15²-16¹
— (f) Át [...] øxn tvá, «divorò due
buoi»: lo smodato appetito di Þórr è un
tratto tipico del dio-tuono, ben presente anche nei personaggi omologhi in altre
mitologie. In Þrymskviða [24], Þórr
mangia un bue intero. L'aver raddoppiato la porzione, in questo testo, è forse
un indizio che il poeta dell'Hymiskviða
aveva ben presente l'altro carme e procede esagerando, con voluta ironia, il
motivo ben noto della voracità di Þórr. Inoltre,
non solo l'áss divora due buoi, ma li ingoia með ǫllu, «con
tutto quanto», cioè carne, ossa, grasso (analogamente a come si comporta
Logi in
Gylfaginning [46]).
Contribuisce alla vis comica della scena l'indispettita contrarietà di Hymir. — (b)
Hrungins spjalla, «confidente di Hrungnir»,
una ovvia kenning per indicare Hymir, dove Hrungnir
è in gigante ucciso da Þórr
in Skáldskaparmál
[25-26]; spjalli è
colui che parla, bisbiglia si confida a un amico.
17²-18¹
— (g) berg-Danir, «Danesi delle
montagne»: curiosa kenning per «gigante», che il compositore cita
probabilmente da Þjóðólfr ór Hvíni, il quale la usa con intento polemico
(Haustlǫng [18]); il «distruttore dei Danesi delle montagne» è Þórr.
— (b)
þurs ráðbani, «uccisore dei þursar [giganti]», altra kenning
per indicare Þórr. Nel diritto
scandinavo, il ráðbani è però colui che complotta, pianifica, suggerisce l'omicidio, opposto all'handbani,
che ne è l'esecutore materiale. L'uso di questa parola sembra implicare che, nel
caso di Þórr,
uccidere i giganti non sia soltanto una questione di hýbris, ma un'azione perseguita e compiuta
deliberatamente. La responsabilità del dio del tuono è dunque ideologica.
18²-19¹
— (e)
sveinn, «ragazzo, giovane»: questo sostantivo, attribuito a Þórr,
così come il mǫgr, «figlio», attribuito a Týr
nella strofa [8], sottolineano la giovane età degli
æsir rispetto alla solenne antichità degli jǫtnar, nati all'inizio
del mondo. — (c-d) hátún ofan /
horna tveggja, “l'alta fortezza delle due corna”: kenning per
indicare la testa del toro. — Snorri, nella sua versione dell'episodio,
fornisce
il nome del bue, Himinhrjótr, e aggiunge che era
il più grande della mandria di Hymir:
Hann spurði Ymi hvat þeir skyldu
hafa at beitum, en Ymir bað hann fá
sér sjálfan beitur. Þá snerisk Þórr
á braut þangat er hann sá øxnaflokk
nǫkkvorn er Ymir átti. Hann tók
hinn mesta uxann, er Himinhrjótr
hét, ok sleit af hǫfuðit ok fór með
til sjávar. |
Chiese dunque a Hymir che cosa avrebbero usato
come esca, e Hymir gli disse di procurarsi da solo la sua.
Þórr
si allontanò e si recò dove aveva visto la mandria di buoi che apparteneva
a Hymir. Prese il bue più grande, chiamato
Himinhrjótr, gli mozzò la
testa e la portò con sé verso il mare. |
Snorri
Sturluson: Prose Edda >
Gylfaginning [48] |
Nel nostro testo non viene detto che il toro ucciso da Þórr
fosse il più grande o il preferito di Hymir,
sebbene il rancore e il malanimo dello jǫtunn, nella battuta successiva,
siano più che manifesti.
19²
— Hymir rimprovera a Þórr
di combinare guai sia quando siede tranquillo a cena (mangiando
spropositatamente), sia quando si accinge a compiere qualche lavoro (uccidendo
in questo caso il toro, azione che giudica assai peggiore).
— (g) kjóla valdi, «padrone delle
navi». Quasi tutti i traduttori considerano questa
espressione una kenning per Þórr,
sebbene non si conosca alcuna ragione che giustifichi tale epiteto
(Thorpe 1866 | Bellows 1923 | Hollander 1962 | Larrington 1996); anche Patricia Terry, che traduce
impropriamente lord of sea, attribuisce tale
espressione a Þórr
(Terry 1969). Questa è anche la soluzione dei traduttori italiani:
«nocchier
del naviglio» (Di Leesthal 1939); «signore
delle chiglie» (Mastrelli 1951); «signore delle navi» (Scardigli
~ Meli 1982). Il sostantivo valdi è variante di valdr, espressione del
Lexicum Poëticum che Cleasby e Vigfússon traducono con wielder, keeper
(Cleasby ~ Vigfússon 1874).
Ma come nota Eysteinn Björnsson, valdi potrebbe anche essere un
dativo: dunque non «o padrone delle navi» (vocativo), ma «al
padrone delle navi». In tal caso Hymir si riferisce
a sé stesso, non a Þórr. Il parlare di sé
stessi
in terza persona non è inconsueto nella letteratura nordica.
(Eysteinn 2003)
— Se il proposto riassemblamento degli helmingar delle strofe
[11-19] rispecchia l'originale distribuzione dei
versi, allora la strofa [19] è difettiva. La
supposta lacuna, che in tal caso interessa un intero helming,
riguarderebbe la partenza della barca. L'episodio è presente in Snorri con un breve
passaggio:
Hafði þá Ymir út skotit
nǫkkvanum. Þórr gekk á skipit ok
settisk í austrrúm, tók tvær árar
ok røri, ok þótti Ymi skriðr verða af róðri hans. |
Hymir aveva già spinto in acqua il
nǫkkvi. Þórr salì in barca e si
sedette a poppa, prese due remi e cominciò a remare. A Hymir parve che le sue vogate
producessero una buona velocità. |
Hymir reri í
hálsinum fram ok sóttisk skjótt róðrinn. Sagði þá Hymir at þeir váru komnir á
þær vaztir er hann var vanr at sitja ok draga flata fiska. En Þórr kvezk vilja róa
miklu lengra, ok tóku þeir enn snertiróðr. Sagði Ymir þá at þeir
váru komnir svá langt út at hætt
var at sitja útar fyrir
Miðgarðsormi. En Þórr kvezk mundu
róa eina hríð, ok svá gerði, en Hymir var þá allókátr. |
Hymir remava a prua e la navigazione procedeva spedita. A un certo punto
Hymir disse che erano giunti nelle acque dove
intendeva fermarsi a pescare sogliole, ma
Þórr
disse che voleva spingersi ancora più al largo e fecero un altro breve sforzo.
Osservò allora Hymir che erano giunti così lontano che sarebbe stato
pericoloso spingersi oltre per via del
Miðgarðsormr, ma
Þórr
rispose che intendeva andare avanti ancora un poco, e
procedette.
Hymir era molto turbato. |
Snorri
Sturluson: Prose Edda >
Gylfaginning [48] |
In realtà nulla prova che vi sia realmente una lacuna in
questo punto, tanto più che il passaggio di Snorri non comprende alcun episodio
significativo. Questi «salti» narrativi sono piuttosto comuni nelle composizioni
eddiche.
20 — Questa strofa
presenta tre kenningar animali nei primi tre versi. —
(a) hlunngoti, «destriero dei rulli»,
kenning per «nave». I hlunnar erano i rulli su cui si facevano
scivolare le imbarcazioni quando venivano varate; avevano questo nome anche i
supporti su cui venivano deposte le chiglie delle navi quando venivano tirate in
secca; goti indica in questo caso un «cavallo gotico», un destriero
particolarmente apprezzato dai popoli germanici. Goti era anche un nome
proprio comunemente dato ai cavalli (cfr. il destriero di Gunnarr nella
Vǫlsunga saga). In letteratura sono
attestate molte analoghe kenningar per «nave»: hlunndýr, hlunnfákr,
hlunnjór, hlunnvigg, hlunnvitnir, hlunnvísundr
(rispettivamente «cervo, ronzino, stallone, destriero, lupo, bisonte dei
rulli»). —
(b) hafra dróttinn, «signore dei
caproni», kenning per Þórr. —
(c) áttrunnr apa, «congiunto di
scimmia», kenning per «jǫtunn». — (e-h)
L'Hymiskviða non spiega la scarsa voglia
di continuare a remare manifestata da Hymir. Snorri
spiega invece che lo jǫtunn temeva di spingersi troppo al largo per paura
di incontrare
Jǫrmungandr:
Sagði Ymir þá at þeir
váru komnir svá langt út at hætt
var at sitja útar fyrir
Miðgarðsormi. En Þórr kvezk mundu
róa eina hríð, ok svá gerði, en Hymir var þá allókátr. |
Osservò allora Hymir che erano giunti così lontano che sarebbe stato
pericoloso spingersi oltre per via del
Miðgarðsormr, ma
Þórr
rispose che intendeva andare avanti ancora un poco, e
procedette.
Hymir era molto turbato. |
Snorri
Sturluson: Prose Edda >
Gylfaginning [48] |
Snorri anticipa che lo scopo della spedizione di Þórr
era proprio chiudere i conti con il
Miðgarðsormr. Nel poema, invece, l'incontro del dio del tuono con il
serpente non viene mai premesso e il momento in cui
Jǫrmungandr abbocca all'amo appare come un improvviso coup de théâtre
al centro di una trama di argomento apparentemente differente. Non si
può tuttavia negare che, nel procurarsi un'esca tanto particolare, Þórr
accarezzasse un suo progetto particolare, di cui non aveva fatto parola con
nessuno.
21 —
Il prendere all'amo due balene è qui come una divertente esagerazione. Un
risultato ben diverso da quanto scriveva Snorri nel
Gylfaginning dove
Hymir intendeva piuttosto pescar sogliole. D'altre
parte, l'Hymiskviða descrive
Hymir come un essere minaccioso, di statura
possente e di carattere malevolo e violento, cosa che rende piuttosto comica la
sua continua insofferenza di fronte ai continui guai che gli combina Þórr.
Snorri, invece, tratteggia Hymir come un
personaggio piuttosto pavido e remissivo: quasi una vittima di Þórr,
piuttosto che un suo antagonista.
22 — Questa scena è,
nella Prose Edda, perfettamente analoga:
Miðgarðsormr gein
yfir oxahǫfuðit en ǫngullinn vá í
góminn orminum. En er ormrinn kendi
þess, brá hann við svá hart at báðir hnefar Þórs skullu út á
borðinu. Þá varð Þórr reiðr ok
fǿrðisk í ásmegin, spyrndi við svá
fast at hann hljóp báðum fótum
gǫgnum skipit ok spyrndi við grunni,
dró þá orminn upp at borði. En þat
má segja at engi hefir sá sét ógurligar sjónir, er eigi mátti þat sjá er Þórr hvesti augun
á orminn
en ormrinn starði neðan í mót ok
blés eitrinu. |
Il Miðgarðsormr ingoiò la testa del
bue, ma l'amo si conficcò nelle fauci del serpente. Quando il serpente se ne
accorse, tirò con tanta forza che entrambi i pugni di
Þórr
urtarono contro il bordo della barca. Þórr
era furioso, crebbe nel suo ásmegin e si piantò con tanta forza che
sfondò la barca con entrambi i piedi e colpì il fondale del mare e tirò
quindi il serpente su a bordo. Si può ben dire che non abbia mai assistito a scene
terribili chi non vide con quali occhi Þórr
guardava il serpente, che lo fissava dal basso, stillando veleno. |
Snorri
Sturluson: Prose Edda >
Gylfaginning [48] |
Unica differenza, in Snorri Þórr
sfonda la chiglia del nǫkkvi e arriva a urtare con i piedi il
fondale dell'oceano. Nella lotta con il serpente, il dio del tuono sembra
assumere una statura cosmica, quasi una premessa al combattimento escatologico
tra i due avversari, destinato a concludersi nell'atmosfera apocalittica del ragnarǫk.
23 —
(b) dáðrakkr Þórr («il vigoroso Þórr»):
questo verso difettivo, di tre sillabe, fa pensare alla presenza di una forma
arcaica Þóarr (< *Þonarr); cfr. gammleið Þóarr skǫmmum
(Þórsdrápa [2])
(Eysteinn 2003). —
(f) háfjall skarar, «sommo della
chioma»: una kenning per indicare la testa. In particolare, skǫr è
una chioma tagliata a scodella intorno al capo, secondo un'acconciatura
tipicamente medievale: termine usato unicamente per la capigliatura maschile,
mai femminile (Eysteinn 2003). L'espressione è
quanto mai incongrua per indicare la testa di un rettile. —
(g) hnít-broðir, «fratello di
scontri»; espressione non facile da decifrare: il verbo hníta vuol dire
«scontrarsi, battersi, ferirsi a morte»; la radice hnít- viene usata in
diverse kenningar per indicare la battaglia (es. hnit-hjǫrva, «scontro
di spade», hnit-fleina, «scontro di aste»). Tuttavia il serpente
Jǫrmungandr e il lupo
Fenrir non sono solo fratelli
carnali, figli di Loki ingravidato dal
cuore di Angrboða, ma si schiereranno
fianco a fianco nel
ragnarǫk per combattere
rispettivamente contro Þórr e
Óðinn. — Anche in Snorri Jǫrmungandr torna a sprofondare nell'oceano, ma
a causa dell'intervento di Hymir:
Þá er sagt at
jǫtunninn Hymir gerðisk litverpr,
fǫlnaði ok hræddisk er hann sá
orminn ok þat er særinn fell út ok
inn of nǫkkvann. Ok í því bili er Þórr greip hamarinn ok fǿrði á lopt, þá fálmaði jǫtunninn til agnsaxinu
ok hjó vað Þórs af borði, en ormrinn søktisk í sæinn. En Þórr
kastaði hamrinum eptir honum, ok
segja menn at hann lysti af honum
hǫfuðit við grunninum, en ek hygg
hitt vera þér satt at segja at
Miðgarðsormr lifir enn ok liggr í umsjá. En Þórr reiddi til hnefann
ok setr við eyra Ymi, svá at hann
steyptisk fyrir borð ok sér í iljar honum. En Þórr óð til lands. |
Si dice che lo jǫtunn
Hymir divenne pallido, livido, e fu preso dal terrore
quando vide il serpente, mentre l'acqua di mare si scaraventava dentro e fuori
il nǫkkvi. Proprio quando
Þórr afferrò il
martello e lo sollevò in aria, il gigante prese il suo coltello da pesca e
tagliò la lenza di Þórr dal capo di banda,
così il serpente sprofondò di nuovo nel mare. Þórr
gli
scagliò dietro il martello e alcuni dicono che gli abbia staccato la
testa sotto le onde, ma io penso invece che il
Miðgarðsormr sia ancora vivo e giaccia
sul fondo del mare che circonda la terra. Þórr
roteò quindi il pugno e lo affibbiò all'orecchio di Hymir, tanto da farlo volare
fuori dalla barca e vedere le piante dei suoi piedi. Poi
Þórr
guadò fino a terra. |
Snorri
Sturluson: Prose Edda >
Gylfaginning [48] |
Snorri trae le sue fonti da alcune composizioni scaldiche, da
lui stesso citate nello
Skáldskaparmál: in particolare la
Ragnarsdrápa di Bragi Boddason (IX sec.),
tramandata integralmente, l'Húsdrápa di Úlfr
Uggason (~ 985), di cui conosciamo alcune strofe, più altri poemi degli
scaldi Ölvir hnúfa (IX sec.), Gamli
gnævaðarskáld (X sec.) ed Eysteinn Valdason (~ 1000),
di cui sono pervenuti solo pochi frammenti. Per i dettagli si veda il relativo
articolo. ①
24 —
(a) Hréingálkn è un hápax
apparentemente costituito da hréinn «renna» e gálkn «bestia,
mostro» (parola forse derivata a sua volte da una radice lappone
(Cleasby ~ Vigfússon 1874));
da qui alcune interpretazioni che hanno reso il termine come una kenning per
«lupo» (Scardigli
~ Meli 1982). Una ragionevole alternativa è considerare il termine una
deformazione da hraungalkn (Mastrelli
1951), dove hraun, di solito tradotto con «asperità, pietraia»,
indica gli sterili campi di lava del paesaggio islandese. Altri hanno emendano il termine in
hranngálkn, da hrǫnn «onda», dunque «mostri
marini» (Di Leesthal 1939). Su questa linea, Larrington ha interpretato la parola come sea-wolf,
«lupo di mare», sebbene il ragionamento non sia molto chiaro (Larrington 1996).
In precedenza, Benjamin Thorpe aveva addirittura letto «icebergs»
(Thorpe 1866). Per concludere, i traduttori si sono alternati tra tre
possibilità: «bestie delle renne» (cioè «lupi»), «mostri dei luoghi selvaggi»
(kenning per «giganti»?) e «mostri marini». Si noti tuttavia che il verbo hlumdu,
«rimbombare, risuonare», è raramente applicato a esseri viventi, siano essi
animali o mostri.
26
— (e) flotbrúsa, «caprone dei
flutti»; kenning per «barca».
27
— (c)
austr è l'acqua di sentina depositata sul fondo dell'imbarcazione; così, l'austker
o austrsker citato pochi versi più in basso è la gottazza, ovvero la paletta di
legno utilizzata per liberare la barca dall'acqua (aggottaggio). — (d)
lǫgfákr, «ronzino del mare»: kenning per «barca»; fákr è un
cavallo monorchide (Cleasby ~ Vigfússon 1874). —
(i-j) holtriða hver, il significato
di questa espressione è poco chiaro ed è possibile che il testo sia corrotto (il
ms. R riporta la lezione holtriba, che è
senza senso). Si ritiene che *holtrið significhi «crinale boscoso»
(Cleasby ~ Vigfússon 1874), ma non è facile capire
il senso dell'associazione di questa parola con il successivo termine hver(r),
«calderone». S'intende che
Þórr sta portando le balene al calderone di
Hymir, dove dovranno essere bollite? Improbabile: nell'Hymiskviða il hverr sembra deputato
unicamente alla fabbricazione della birra e i tre buoi della sera precedente erano stati cotti nel
seyðir. Altra possibilità – ed è perlopiù questa la scelta dei traduttori – è
che hverr indichi una concavità del terreno sotto il crinale, sulla
strada per la fattoria di
Hymir. La corruttela del testo non permette
di sciogliere il significato preciso dei due versi.
28 — (h)
kálk, «calice». Forestierismo dal latino calix, attraverso l'antico
inglese calic. Il termine ricorre anche in
Atlakviða [35], in Sigurðarkviða in skamma
[29] e in Rígsþula [32]. Da
sottolineare il hrímkálkr fullr forns mjaðar, «calice di brina colmo
dell'antico mjǫðr», offerto da Gerðr a
Skírnir in
Skírnismál [37], come anche, con
identica formula, da Sif a
Loki in Lokasenna
[53]. Il kálk di Hymir è ovviamente un oggetto magico, composto in
vetro e cristallo, ma reputato infrangibile.
29 — (d) brattstein,
«ripida pietra»: l'espressione può indicare tanto la parete rocciosa di una
caverna, quando una colonna o un pilastro. Nel primo caso,
Þórr lancia il calice dapprima contro la parete, danneggiando quest'ultima,
poi contro le colonne della hǫll (le quali erano solitamente di legno).
È tuttavia probabile che i due helmingar di questa strofa riportino un
medesimo evento:
Þórr ha dunque lanciato il calice di vetro una sola volta, spaccando una
colonna, o forse un pilastro di pietra, mentre il calice torna intatto nelle
mani di
Hymir.
31 — Curiosa la costruzione di questa strofa,
nella quale
Þórr colpisce con il calice il cranio di
Hymir. Il colpo, vibrato tra una semistrofa e l'altra,
non viene infatti narrato, come se gli spettatori non fossero riusciti
a vederlo, né il poeta a narrarlo, tanto è stato fulmineo. Nel primo helming
il dio del tuono sta chiamando a raccolta tutta la sua potenza per scagliare il
calice e nel
secondo helming già ne stiamo vedendo i risultati: il proiettile è arrivato a
segno, il cranio dello jǫtunn ha incassato il colpo e il calice è in
frantumi. — (d) ásmeginn, la «potenza
divina» caratteristica degli Æsir.
— (f) hjalmstofn, «sostegno
dell'elmo»: kenning per «testa».
32 — (h) þú ert, ǫlðr, of heitt,
letteralmente «sei tu, birra, già fermentata»; il verbo heita è infatti
«fabbricare [birra]». Questa frase potrebbe essere letta in diversi sensi. Forse
il calice che è appena andato in frantumi aveva la magica virtù di riempirsi di
birra al comando di
Hymir: un motivo fiabesco ben noto. Tuttavia nel nostro racconto l'inesauribile recipiente
di ǫl non è il calice, ma il calderone. Dunque
Hymir ha perduto il suo magico calderone in una sorta
di scommessa? La sfida formulata nella strofa successiva va in
questa direzione.
33 — (a)
kostr «condizione, prova, termini», ma anche «opportunità, possibilità,
chance».
— (d) ǫlkjól, «barca della birra»,
dove kjóll indica un'imbarcazione da trasporto, una sorta di chiatta larga e piatta: l'espressione è una kenning per «calderone». Inoltre, la
dimora di
Hymir, precedentemente definita hǫll
(«sala») [7], salr («sala») [10
| 12], bær («fattoria») [26 | 27], è
qui chiamata hof, «santuario», probabilmente in senso ironico.
34 — (a) Faðir Móða, «il padre di
Móði», è una kenning per
Þórr. — (c-d) ok í gegnum steig /
gólf niðr í sal: quasi tutte le traduzioni di questa coppia di semiversi
descrivono una fuga di
Þórr attraverso la hǫll di Hymir. Così
nelle traduzioni inglesi: «and before it stood on the floor below»
(Bellows 1923); «strode down the hall and out
the door» (Terry 1969); «and rolled it along
down onto the hall floor» (Larrington 1996); ma
anche in quelle italiane: «e scese dal podio fin giù nella sala»
(Di Leesthal 1939); «ed attraversato l'atrio scese nella sala»
(Mastrelli 1951); «e s'avviò verso l'atrio, giù
nella sala» (Scardigli ~ Meli 1982). I nostri
traduttori hanno dunque diviso la hǫll di Hymir in
due parti: la salr, «sala», dove
Þórr si impossessa del calderone, e il golf, tradotto con «atrio»,
dove
Þórr si dirige subito per guadagnare la porta. In realtà, come nota Eysteinn Björnsson,
i traduttori si sono scontrati con l'ambiguità della parola gólf, che
vuol dire «stanza, appartamento, sala», ma anche, come significato principale,
«pavimento». Dunque gólf i sal non è altro che il pavimento del
salone. Invece il verbo stíga vuol dire, sì, «compiere dei passi» (cfr.
inglese to step), ma anche in senso orizzontale e
verticale, quindi «salire» [upp-stíga] e «scendere» [niðr-stíga]. Il movimento di
Þórr, in questi due versi, non è dal fondo della sala verso la porta, ma
dall'alto verso il basso, con i piedi che profondano nel pavimento. Commenta
Eysteinn: «Sebbene il significato di queste parole sia ovvio, almeno ai parlanti
islandese, esse sono state travisate e mal tradotte da un numero
sorprendentemente alto di curatori e traduttori, nessuno dei quali era islandese
[...]. L'espressione stíga niðr í gegnum gólf esprime un movimento
strettamente verticale e non può essere inteso come «si mosse attraverso la sala», frase che esprime invece un movimento orizzontale. Eppure
il significato di questo verso sarebbe stato immediatamente compreso, senza ombra di dubbio, da tutti
gli islandesi»
(Eysteinn 2003). A difesa dei traduttori va però
notato che il correre subito verso le porte della hǫll di Hymir,
trasportando il calderone, è un'azione perfettamente coerente con il contesto
della narrazione, quasi ovvia nella meccanica del testo. Questo elemento di
passaggio
ora viene a mancare: nella strofa successiva, infatti,
Þórr è già lontano dalla dimora di Hymir. Al
contrario, lo sprofondare dei piedi di
Þórr nel pavimento è solo una nota di colore, dal quale risultano tanto
il peso del paiolo quanto la forza del dio del tuono, e non ha conseguenze sul
resto della narrazione. — (g-h)
Il calderone è talmente capiente che ricopre completamente
Þórr e gli anelli fissati sul bordo – che venivano utilizzati come manici – gli tintinnano all'altezza dei
piedi. Questa scena è ricordata nel Fyrsta Málfrǿðiritgerðirnar,
il «Primo trattato grammaticale», dove, tra i molti esempi linguistici dove si evidenziano
le coppie di consonanti contrastive della lingua norrena, ne leggiamo una che
suona così:
H dó, þá er Hǫlgatrǫll dó, en heyrði til hǫddo, þá es Þórr bar hverinn. |
Una [donna] alta morì [h dó] quando morì Hǫlgatrǫll,
ma si udiva il manico [hǫddo] quando
Þórr portava il calderone |
Fyrsta Málfrǿðiritgerðirnar [90: ] |
Ed è l'unico riferimento a questo episodio al di fuori dell'Hymiskviða
(Leoni 1975).
35 — C'è qui uno «stacco» con la strofa
precedente:
Þórr e Týr
sono in fuga, a una certa distanza dalla dimora di Hymir.
Non sono ancora arrivati alla casa di Egill e non
hanno ancora recuperato il carro trainato dai caproni. — (a)
Fóru lengi, «avevano viaggiato a lungo», è qui usualmente emendato in
fórut lengi, «non avevano viaggiato a lungo», similmente a quanto
leggiamo in [37a]. — (e)
Il termine hreysi significa letteralmente «mucchi di pietre»; Cleasby e Vigfússon
lo considerano sinonimo dell'islandese urð «macerie, pietraia, mucchio di
detriti», ma traducono skríða í reysi come «sgattaiolare in una tana»;
d'altra parte, il termine ha anche il significato secondario di «catapecchia,
tugurio» (Cleasby ~ Vigfússon 1874). Curioso notare
che, nel tradurre questa parola, gli studiosi inglesi hanno proposto rese assai
discordanti: «caverns» (Thorpe 1866), «cairns»
(Bray 1908), «caves» (Bellows
1923), «lair» (Terry 1969), «hills»
(Hollander 1962), «cliffs»
(Larrington 1996), le ultime due considerate
scorrette da Eysteinn Björnsson
(Eysteinn 2003). I traduttori italiani hanno reso
hreysi rispettivamente con «caverne» (Di Leesthal 1939 | Mastrelli
1951) e «massi» (Scardigli ~ Meli 1982).
Stante la convergenza di significati, è fuor di dubbio che il testo si riferisca
alle tradizionali dimore degli jǫtnar, generalmente situate all'interno
di rocce e montagne. — (h) folkdrótt
[...] fjǫlhǫfðaða, «una schiera dalle molte teste»: possiamo dare a questa
espressione due possibili letture: la schiera che sta sopraggiungendo è formata
da una moltitudine di jǫtnar, oppure è composta da esseri dotati di molte teste.
36 —
(e) hraunhvalr, «balena della
pietraia», curiosa
kenning per «jǫtunn». Come le balene sono i giganti del mare, così
gli jǫtnar sono le balene degli aspri campi di lava. Si veda l'espressione hraunbúi,
«abitatore della pietraia», analoga kenning presente alla strofa
[38]. La lezione del ms. R,
<hrꜹ́n vala> non ha molto senso.
37 — Altro «stacco»:
Þórr e Týr, dopo aver sgominato gli
jǫtnar, sono evidentemente passati dalla casa di Egill
dove hanno recuperato il carro e i caproni: gli animali sono stati aggiogati al
carro ma, percorso un breve tratto, uno è caduto al suolo, impossibilitato a
proseguire il viaggio. —
(e-f) Entrambi i manoscritti riportano una
lezione comune, che non sembra però avere molto senso: <var scı scꜹkvls scacr
abaı> (ms. R), e <var skır skꜹkvls skar a baı>
(ms. A). La lezione skirr, «compagno»,
sebbene accettata da alcuni interpreti (Detter 1903)
è stata tuttavia rifiutata dalla maggior parte dei moderni curatori e
viene solitamente accolto il suggerimento del linguista Rasmus Christian
Rask (1787-1832), che ha emendato la parola in skær «destriero». In verità
quest'ultima parola, utilizzata come radice in kenningar per «lupo» o
«nave», non sembra adattarsi molto bene a un ovino: ma poiché il carro di
Þórr è trainato da due caproni, l'espressione skær skǫkull, «destriero della stanga», potrebbe
significare, generalizzando, «animale da tiro». Analogamente, la parola
banni, «proibizione», è stata emendata da Rask in beini «osso», così
da ottenere skakkr á beini, «distorsione, slogatura dell'osso»
(Rask 1818). Tale correzione, sebbene non convinca
appieno tutti gli studiosi, è stata comunemente accettata anche sulla base
dell'omologo racconto riferito da Snorri nella
Prose Edda, dove uno
dei caproni di
Þórr rimane azzoppato perché Þjálfi,
incautamente, ne ha inciso un osso col coltello per estrarne il midollo
(Gylfaginning [44]). — (g-h)
lævíss, «sapiente negli inganni», epiteto di
Loki, al quale viene assegnata qui la colpa
dell'azzoppamento del caprone, sebbene il personaggio non compaia mai nel testo.
Non si capisce neppure perché sia Egill a farsi
carico della responsabilità. L'esito è tuttavia il medesimo nelle due fonti: i
suoi due figli (Þjálfi e
Rǫskva in
Gylfaginning [44]) verranno ceduti a
Þórr quali suoi servitori, come ricompensa per il danno subìto dal caprone
(v. strofa successiva).
38 — (a)
ér, «voi»: questo passo, dove il poeta si riferisce direttamente al suo
uditorio, è praticamente unico nella poesia eddica e stilisticamente più in
linea con quella scaldica
(Eysteinn 2003). — (b-c)
hverr [...] goðmálugra, «chi conosce le storie degli dèi», «mitologo», a meno che
hverr non vada letto come pronome interrogativo. — (e)
hraunbúi, «abitatore della pietraia». Questa kenning, riferita a
Egill,
lo qualifica come un þursar, un ruvido gigante delle rocce, dettaglio che
spiegherebbe la sua presenza ai confini del mondo.
39 — (e)
véar, i «santi», cioè gli dèi. Il significato originale di vé è «casa, dimora»
(la parola è corradicale col greco oîkos e col latino
vicus), termine è utilizzato per lo più in poesia, in espressioni quali alda vé, «casa
dell'uomo» (kenning per indicare la terra), o vé
mana, «dimora della luna» (a indicare il cielo). La
parola è però spesso usata nell'accezione di «luogo sacro» (cfr.
sassone wih «tempio»), come nell'espressione
giuridica vega víg í véum, «uccidere un uomo in un
luogo sacro» (tempio, santuario, assemblea, etc.). Il
derivato véi significa invece «consacrato, sacerdote» (Wulfila rende col gotico weiha il greco hiereús,
«sacerdote»; egli utilizza anche diverse parole derivate,
tra cui weis, «santo», e weihiþa,
«santità»). Come nome proprio, Vé,
«santo», è uno dei due fratelli di
Óðinn (l'altro è Vili, «volontà»). Si
noti che questo è l'unico passo di tutta la letteratura antico-nordica dove il
termine vé è attestato al plurale. — (f)
eitrhǫrmeitiðr, l'espressione che chiude il poema, è una kenning
particolarmente ardua, formata da tre termini: (α) eitr, «veleno»; (β)
hǫrr, «lino»; (γ) meitiðr, «[colui che] taglia». Se la «velenosa
[fune] di lino» è una kenning per il serpente, «colui che taglia il serpente»
potrebbe essere l'inverno: secondo un'antica credenza, infatti, i serpenti
morivano in inverno per rinascere in estate. Aiutano a decifrare questa lambiccatissima kenning alcuni esempi tratti dalla letteratura scaldica:
il termine hǫrr («lino») è utilizzato un paio di volte per indicare le
corde dell'arco; il serpente è chiamato eitr-þvengr «fune velenosa» in
due tarde composizioni; e infine abbiamo alcuni versi di Arnórr Þórðarson
jarlaskáld (XI sec.), conservati nel XX
capitolo della Orkneyinga saga, che qui
riportiamo nella traduzione di Marcello Meli (Meli 1997):
Orms felli drakk allan,
alkostigr, fen hrosta,
rausn drýgði þá ræsir,
Rǫgnvalds niðr í gǫgnum. |
Nel tempo che i serpenti annienta,
mesceva a chiunque il liquore del malto;
da generoso agiva quindi allora,
lui, progenie di Rǫgnvaldr. |
Arnórr Þórðarson jarlaskáld: Þórfinnsdrápa
[2], in:
Orkneyinga saga [XX] |
Questa kenning sembra innescare una relazione significativa tra
l'inverno, stagione fatale ai serpenti, e la lotta di
Þórr contro
Jǫrmungandr, necessaria per avere il calderone di Hymir.
Ciò che gli Æsir stanno celebrando
è la conservazione dell'ordine cosmico, da essi garantito, e la temporanea
vittoria contro le forze eversive manifestate dal
Miðgarðsormr.
|