I - PRESENZA DI VELESŬ/VOLOSŬ NELLE FONTI ANTICHE
Nel
Se pověsti vremjanĭnichŭ lětŭ,
o «Cronaca degli anni passati», il dio compare nella lezione
Volosŭ. Esso non è citato tra le sei divinità del
«Canone di Volodimirŭ», i cui idoli si levavano sulla collina di Boričevŭ in
Kievŭ,
ma è nominato, insieme a
Perunŭ,
in due dei tre trattati di pace stipulati
dai gran principi di Kievŭ con i Bizantini.
Царь же
Леонъ со Олександромъ миръ сотвориста со
Олгом, имшеся по дань и ротѣ
заходивше межы собою, целовавше сами крестъ,
а Олга водивше на роту и мужи его по Рускому
закону, кляшася оружьемъ своим, и Перуном,
богомъ своим, и Волосомъ, скотьемъ богомъ, и
утвердиша миръ. |
Carĭ že Leonŭ so Oleksandromŭ mirŭ sotvorista so
Olgom, imšesja po danĭ i rotě zachodivše mežy soboju, celovavše sami krestŭ, a
Olga vodivše na rotu i muži ego po Ruskomu zakonu, kljašasja oružĭemŭ svoim, i
Perunom, bogomŭ svoim, i Volosomŭ, skotĭemŭ bogomŭ, i utverdiša mirŭ. |
Gli
imperatori Leone ed Alessandro la pace
conclusero con Olegŭ,
accordandosi sul tributo e dandosi
scambievole giuramento, baciarono la croce e
Olegŭ invitarono a prestare giuramento, e
gli uomini di lui secondo la legge russa
giurarono sulle proprie armi, e su
Perunŭ, loro
dio, e su
Volosŭ,
dio degli armenti, e stipularono la pace. |
Se pověsti vremjanĭnichŭ lětŭ [6415/907] |
Аще ли
от тѣхъ
самѣхъ
прежереченыхъ не съхранимъ, азъ же и со мною
и подо мною, да имѣемъ
клятву от бога, въ его же вѣруемъ
в Перуна и въ Волоса, скотья бога, и да
будемъ золоти, яко золото, и своимъ оружьемь
да исѣчени
будемъ. |
Ašče li ot těchŭ saměchŭ prežerečenychŭ ne sŭchranimŭ,
azŭ že i so mnoju i podo mnoju, da iměemŭ kljatvu ot boga, vŭ ego že věruemŭ v
Peruna i vŭ Volosa, skotĭja boga, i da budemŭ zoloti, jako zoloto, i svoimŭ
oružĭemĭ da isěčeni budemŭ. |
Se non
osserveremo qualche articolo [di questo
patto], che io e coloro che sono con me e
sotto di me, siamo maledetti da quel Dio in
cui crediamo, da
Perunŭ
e da
Volosŭ dio
degli armenti; e che diventiamo gialli come
l'oro e che la nostra stessa arma ci
trafigga. |
Se pověsti vremjanĭnichŭ lětŭ [6479/971] |
Il dio è quindi nominato, nella lezione
Velesŭ, in
un passo dello
Slovo o
pŭlku Igorevě,
il «Cantare delle gesta di Igorĭ», dove l'antico cantore
Bojanŭ
è appunto chiamato «nipote di
Velesŭ»:
Чили въ спѣти было
вѣщей Бояне
Велесовъ внуче... |
Čili vŭ spěti bylo věščej Bojane Velesovŭ vnuče... |
Invece
così avresti dovuto cantare, o profetico
Bojanŭ, nipote di
Velesŭ... |
Slovo o pŭlku Igorevě
[12] |
Il nome del dio è infine attestato in alcuni testi ecclesiastici. Compare nello
Slovo Christoljubca, il «Sermone del Christoljubec», nella lezione
Volosŭ, tra le false divinità che venivano invocate nel corso dei banchetti
(Slovo Christoljubca). Lo
troviamo citato poi nella Choždenie bogorodicy po mukam,
la «Discesa
della Vergine all'Inferno» un apocrifo russo del XII secolo,
in cui la Vergine Maria, testimone dei tormenti infernali, intercede presso Dio
per ottenere un periodo annuale di sospensione delle pene per i dannati. Quindi
Velesŭ è citato in un'agiografia, la
Žitija sv. Vladimira i Avraama, «Vita dei
santi Vladimir e Afraam».
Fuori dal territorio russo, sono segnalate delle attestazioni di
Velesŭ in Boemia, ma si tratta di testimonianze piuttosto dubbie. È
il caso delle glosse ceche rinvenute sul manoscritto medievale latino
Mater verborum (XIII sec.), dove il dio è
citato due volte e identificato con Pán. Nella
prima attestazione, si legge: «veless pan, ymago hircina»; nella seconda:
«velles pan primus calamos cera coniungere plures instituit, pan curat oves
oviumque magistros». Ma si tratta, con ogni probabilità, di falsi redatti
dal poeta-filologo Václav Hanka (1791-1861), ardente panslavista, non nuovo alla
fabbricazione di presunto materiale mitologico del suo paese, sulla falsariga
dei poemi ossianici del Macpherson. (Potebnja 1989).
Stessa cosa bisogna dire del cosiddetto Velesova kniga,
il «Libro di Veles», sovente citato negli studi non-specialistici sulla
mitologia slava, che è da rigettare in toto come goffo artefatto.
|
|
Velesŭ |
Illustrazione di Viktor Anatol'evič Korol'kov
(1958-2004) |
II - ANALISI ETIMOLOGICA
Il nome del dio è attestato
in antico russo in due forme alternative: Velesŭ e Volosŭ.
n quale rapporto siano i due termini non è ben noto, anche se, dal punto di
vista linguistico, è più probabile ipotizzare un passaggio Velesŭ > Volosŭ,
che non la trasformazione inversa. La forma originale sembra dunque essere
Volosŭ, anche se si impone di
spiegare la ragione della trasformazione.
Tra le varie etimologie proposte, inaccettabile quella avanzata da Roman
Jakobson che riportava la forma
Velesŭ a un protoslavo *velsŭ, col
significato di «che ha vista [vel-] buona [-sŭ]», da cui
sarebbe regolarmente derivata la forma alternativa
Volosŭ (Jakobson
1962). Tale composto è assolutamente impossibile giacchè in
tutte le lingue indoeuropee – ivi comprese le slave – l'elemento *sŭ-
funge unicamente da prefisso e mai da suffisso
(Campanile 1994).
Un'altra
etimologia riconduceva il nome del dio al verbo velěti «stabilire, decidere», di
modo che
Velesŭ veniva interpretato come un dio del destino
(Vyncke 1970). Hanno avuto tuttavia
maggior consenso gli accostamenti con l'antico russo vlŭchvŭ «vate» e
vlŭšĭba «magia» (Pisani 1949).
Secondo l'etnologo Vlatomir Belaj, il nome
Velesŭ/Volosŭ
sarebbe da mettere in correlazione con il russo volosy «capelli», parola
a sua volta derivata da un antico russo vĭlna/vŭlna «lana» (a sua
volta da un indoeuropeo *HWHN- «lana»). In tal caso, il nome del dio significherebbe qualcosa come il «lanoso»
o il «capelluto» (Belaj 1998). Una tanto fragile
interpretazione avrebbe senso nell'ipotesi che si trattasse effettivamente di un
dio degli armenti.
|
III - INTERPRETAZIONI
DELLA FIGURA DI VELESŬ
L'idea che
Velesŭ sia un dio del bestiame scaturisce dai giuramenti legati a due dei tre trattati
di pace con i Bizantini, citati nella
Se pověsti
vremjanĭnichŭ lětŭ [6415/907 |
6479/971], dove la parte
russa giura su «Perunŭ il proprio dio» [Perunŭmĭ bogŭmĭ svoimĭ] e su «Velesŭ
il dio degli animali» [Volosŭmĭ skotĭemĭ bogŭmĭ].
Se ne è concluso che i due dèi avessero due diversi campi di competenza, l'uno
come dio degli uomini, e l'altro come dio sugli animali, sì che l'invocarli
congiuntamente nel giuramento significava chiamare come testimoni coloro che
presiedono ad ogni forma di vita (Campanile 1994).
Invece, nel
trattato di pace del 945, riportato in
Se pověsti vremjanĭnichŭ lětŭ [6453/945],
è detto che il gran principe Igor'
andò sulla collina per fare offerte a
Perunŭ,
ma senza citare
Velesŭ. Di qui, supponendo
che
Perunŭ
fosse il dio tutelare del principe e del suo seguito, Frans Vyncke ha concluso che
«logicamente»
Velesŭ sarebbe stato il
protettore dei guerrieri
(Vyncke 1970). La logica di Vyncke francamente ci
sfugge: il gran principe Igor'
era senza dubbio un guerriero egli
stesso.
Altri studiosi sono invece arrivati alla
conclusione che
Perunŭ
fosse un dio importato dai conquistatori variaghi, cosa che spiegherebbe la sua
posizione accanto al palazzo del gran principe, mentre
Velesŭ sarebbe stato un dio
nazionale slavo (Bazzarelli 1991) e come tale il
suo idolo sarebbe stato escluso dalla collina e relegato nella parte bassa della
città. Quest'idea, approvata dalla scuola di pensiero secondo la quale il
pantheon slavo fosse d'importazione germanica, comporterebbe che
Velesŭ fosse una divinità molto antica e
ben radicata nelle tradizioni slave.
Come cercheremo di dimostrare, sia
Velesŭ che
Perunŭ
sono probabilmente delle divinità slave
appartenenti al medesimo sistema teologico.
Lo strano attributo di
«dio del bestiame» [skotĭemĭ
bogŭ] ha portato Franz Ritter Von Miklosich al sospetto
che la figura di
Velesŭ fosse una «paganizzazione»
di San Biagio [Svjatoj Vlasij], vescovo di Sebaste, che in epoca cristiana era considerato il
santo protettore delle mandrie e degli armenti, e come tale chiamato ho
boukólos, o ho boôn phrouròs mégas (Miklosich
1886 | Unbegaun 1948). Secondo Miklosich , quindi, il dio sarebbe
derivato dall'immagine del santo, e non viceversa, opinione in seguito condivisa
da altri studiosi. Ma anche questo sembra
improbabile, in quanto i giuramenti citati nel
Se pověsti sono avvenuti in epoca precedente alla
conversione della Russia. Secondo Brückner, il redattore della cronaca
avrebbe gabellato
Velesŭ per un dio del bestiame proprio perché questa era la specializzazione di San
Biagio (Brückner 1918).
Il nome originale del dio sarebbe stato dunque
Velesŭ: la forma alternativa
Volosŭ,
attestata nella cronaca,
suggerirebbe appunto una confusione del
teonimo col nome russo di San Biagio [Svjatoj Vlasij].
Per Vyncke, il curioso
attributo di
Velesŭ di «dio del bestiame» non si
riferirebbe ad una sua funzione di
divinità tutelare del bestiame, ma solo ad uno dei suoi aspetti minori. Lo
studioso nota come il giovane partner della dea-madre, nella storia delle
religioni, sia spesso un pastore (Vyncke
1970). Si tratta però di un'ipotesi senza fondamento: non abbiamo
indicazioni che
Velesŭ
fosse legato a una dea-madre (quale dea madre?) e paragonarlo a una sorta di
Tammûz slavo
ci pare un tantino eccessivo.
Che la figura di
Velesŭ sia più
complessa di quella di un semplice «dio del
bestiame» ci viene rivelato, quasi di soppiatto, dalla citazione del nome del
dio presente nel
Slovo o
pŭlku Igorevě,
dove il vate Bojanŭ è detto «nipote di
Velesŭ». Bojanŭ era il grande cantore
delle glorie del tempo
passato, il detentore delle antiche tradizioni, le cui capacità erano sentite di
gran lunga superiori a quelle di qualsiasi aedo dei tempi successivi. Poiché il
suo nome viene avvicinato a quello di
Velesŭ, ecco che il dio ci appare
improvvisamente nella veste di un nume della poesia e del vaticinio, come del
resto sembra confermato dall'etimologia che riconnetterebbe il nome del dio
all'antico russo vlŭchvŭ «vate» e vlŭšĭba «magia».
Su questa linea è Edgardo Saronne che riunisce le
due specificazioni di
Velesŭ
definendolo «una sorta di Apollo slavo, dio delle mandrie e dei poeti»
(Saronne 1988). La definizione di Saronne è
tuttavia soltanto descrittiva: lo studioso non tenta alcuna ipotesi
comparatistica. In realtà la figura di
Velesŭ – come ora vedremo – sembra appartenere a tutt'altro
mitema.
|
IV - VELESŬ: ESITO
SLAVO DEL DIO-VENTO INDOEUROPEO?
Il dio vento indoeuropeo, nella nostra ipotetica
ricostruzione, è un dio legato al soffio creatore, all'ebbrezza poetica e alla
poesia. E poiché la poesia è
sapienza, il dio-vento
è il signore della magia, che agisce e
combatte e seduce grazie alle sue arti stregonesche. E
poiché poesia e magia vanno a braccetto con
la scrittura, egli sarà il creatore
dell'alfabeto, delle note musicali, del tenere i conti. È l'artigiano, l'inventore,
l'eroe culturale. Il dio-vento si
muove ovunque, con grande rapidità.
Scorta i viaggiatori, i
pellegrini, i mercanti lungo le strade, ed è anche il dio
sciamano che conduce le anime dei morti all'aldilà. È un dio economico, legato
alla pecunia, al bestiame, alle proprietà. All'occorrenza il
dio-vento è astuto, inganna, froda, imbroglia, mente. È il
dio dei ladri e degli ingannatori.
|
Velesŭ |
Dipinto di Jurij Lazarev |
Ovviamente, nelle diverse
culture derivate dalla comune matrice indoeuropea,
la figura e il ruolo del dio-vento
andarono incontro a profondi mutamenti. Le fasi
di questa evoluzione ci sono sconosciute:
conosciamo soltanto i loro esiti finali,
allorché tali culture cominciarono a
registrare per iscritto le tradizioni
mitologiche. Il dio-vento
compare come Vāta in
India, Hērmês in Grecia, Mercurius a
Roma, Mercurius/Lúg tra i Celti,
Wotan/Óðinn tra i Germani. Secondo la nostra
interpretazione,
Velesŭ potrebbe essere
appunto l'esito slavo di questo mitema.
Dalle considerazioni
sovraesposte scaturisce
infatti un'immagine del dio
Velesŭ come di una sorta di
signore della magia, forse intesa come conoscenza dei canti magici o come
sciamanesimo. Ciò sembra confermato dall'etimologia che ricondurrebbe il teonimo nel campo delle parole
antico-russe vlŭchvŭ
«vate» e vlŭšĭba «magia» (Pisani 1949).
Si ricordi ancora una volta il famoso verso del
Slovo o
pŭlku Igorevě,
dove il vate
Bojanŭ è detto «nipote di
Velesŭ».
Nella mitologia
germanica,
Wotan/Óðinn
era tra le altre cose il dio della poesia e della magia. Egli deteneva
l'idromele della poesia, che elargiva in dono ai poeti, ma era anche il dio che
aveva inventato le rune, capace di incantesimi e canti magici, il cui sguardo
spargeva il terrore sugli eserciti ①. Il nome del dio si fa derivare da una radice protogermanica *wōđ-, che nei suoi esiti designa l'ebbrezza,
l'eccitazione, il furore, il genio poetico (gotico Wōds «posseduto»,
anglosassone wōð «canto», norreno óðr «ebbrezza poetica», tedesco
Wut «furore») (Dumézil 1959). Alla base della parola vi è la radice indoeuropea
*WĀT-, del probabile significato di «soffio, ispirazione», da cui sono derivati
il latino vates «poeta ispirato» e il protoceltico *watus «poesia
profetica» (continuato nell'irlandese fáith «poeta» e nel gallese
gwawd «poesia, preghiera»). Tutti i corradicali alludono alla violenta ispirazione poetica e profetica,
alla capacità quasi mistica della poesia di penetrare i misteri dell'essere.
(Dumézil 1959)
È possibile che Velesŭ
e Óðinn fossero due figure divine legate all'ispirazione e alla divinazione, divinità che vati e
poeti consideravano loro patroni e ispiratori, e insieme, due dèi esperti nelle
arti magiche e nello sciamanesimo.
È doveroso ricordare qui la
straordinaria figura di Vol'ga
Veslav'evič, un eroe che, dopo la scomparsa degli
dèi slavi, farà la sua comparsa nelle ballate popolari russe ②. Guerriero e insieme
stregone, dai tratti sciamanici, dotato di esoteriche conoscenze, in grado di
interpretare il linguaggio degli animali e capace di inaudite metamorfosi,
questo personaggio deriva il suo nome da quello degli antichi stregoni slavi, i
volchvi. È la stessa radice vlŭchvŭ che sembra alla base del nome di
Velesŭ.
Non ci stupiremmo affatto se questa singolare figura di eroe dagli spiccatissimi
tratti odinici, figlio di una principessa e di un serpente, non sia che la
trasformazione finale dell'antico dio
Velesŭ.
Ma
Wotan/Óðinn era
anche il signore
della Valhöll, dove regnava sui guerrieri caduti in battaglia.
Nulla del poco che sappiamo di
Velesŭ ci autorizza a interpretarlo come un signore dei morti, anche se già Brückner a suo
tempo aveva proposto un possibile legame tra il nome di
Velesŭ e le anime dei morti
lituane, le Vėlės,
associando quindi il dio slavo agli dèi baltici dell'oltretomba, il lituano
Vélnias e il lettone Veļns, i cui nomi
sarebbero divenuti in seguito quelli del diavolo (Brückner
1918).
Pisani, mettendo insieme
le caratteristiche di dio
del bestiame e del vaticinio, aveva pensato a suo tempo una divinità simile al greco
Pán
e «al suo doppione» Hērmês. Pisani trascura tuttavia di ricordare un elemento ancora più
importante: che Hērmês, in qualità di dio che accompagnava
i viandanti sulle strade, aveva anche un carattere psicopompo e scortava i morti
nell'aldilà. (Pisani
1949). Questa serie di significati tra
loro interlacciati offre una buona chiave di lettura per interpretare la figura
di
Velesŭ.
A nostro avviso, una correlazione a largo spettro tra tutte queste figure, ci
consente di proporre la loro omologia. Crediamo vi siano buone probabilità che
Velesŭ sia l'esito slavo del mitologema
del dio-vento indoeuropeo. Un parente slavo di Hērmês
e di Óðinn, la cui figura sopravvisse nell'epica
russa contribuendo a forgiare quella di
Vol'ga
Veslav'evič.
|
V - IL «MITO
PRINCIPALE»
|
Velesŭ |
Illustrazione di Viktor Križanovskij |
L'espressione «mito principale» è stato
introdotto da due studiosi russi, Vjačeslav Ivanov e Vladimir Toporov, e
viene utilizzato tuttora da una nutrita scuola di loro seguaci. Cercando di fornire una
visione quanto più ampia e sistematica del modello cosmico slavo-orientale, i due
studiosi hanno riconosciuto la presenza, al livello superiore, di due divinità,
Perunŭ
e
Velesŭ, a cui si aggiungeva un
personaggio femminile (che nella tradizione russa si trattava probabilmente di
Mokošĭ). Queste
due divinità rappresentavano rispettivamente, secondo gli autori, la seconda e la terza funzione,
cioè quella guerriera e quella economica, ed erano collegate tra loro come
personaggi partecipanti al presunto «Mito principale».
Rifacendosi al motivo,
proprio di ogni tradizione mitologica sviluppatasi dalla mitologia indoeuropea,
«della lotta della divinità della tempesta contro un avversario ctonio» (secondo
l'espressione usata nel sunto di Michajlov), il quale, nella visione dei
due studiosi, poteva essere via via «diavolo, mostro che vive sotto terra,
drago, serpente». Nell'esito slavo-orientale di questo mito, il dio
della tempesta
Perunŭ,
che abitava in cielo o, secondo altre fonti, sulla cima di una montagna,
perseguitava il suo nemico
Velesŭ,
che abitava invece sulla terra o nel sottosuolo e che poteva apparire anche sotto
forma di un serpente o di qualche altro animale ctonio. La causa dell'ostilità
tra le due divinità stava forse nei rapimenti, da parte di
Velesŭ,
del bestiame o degli uomini. In alcune versioni si poteva trattare anche del
rapimento della sposa di
Perunŭ.
Durante la battaglia,
Velesŭ,
perseguitato ed attaccato dal suo avversario celeste, si nascondeva sotto un
albero o sotto un sasso, si trasformava in cavallo, uomo o mucca.
Perunŭ,
lottando contro
Velesŭ,
colpiva gli alberi con il fulmine, spaccava i sassi, spaventava l'avversario con il
tuono. La vittoria di
Perunŭ
veniva infine celebrata con la pioggia, che
prometteva l'abbondante raccolto alla fine della stagione (Ivanov
~ Toporov 1974 | Ivanov
~ Toporov 1992 | Michajlov 1995).
La ricostruzione del «Mito principale» di Ivanov e
Toporov si basa, in parte, sul materiale folkloristico lituano e lettone. Il
ricorso alle analogie baltiche è in questo caso fondato poiché dobbiamo tener
presente l'esistenza di uno stadio balto-slavo precedente alla tradizione slava.
Se in questo i due studiosi russi non sbagliano, la difficoltà sta piuttosto nel
fatto che il patrimonio folkloristico baltico è estremamente corrotto. Anche se
nelle dainas (i canti popolari lettoni e lituani, di cui esiste un
archivio immenso e in gran parte ancora inedito) appaiono motivi e personaggi di
straordinaria antichità, essi sono stati riutilizzati in forma estremamente
frammentaria e dissociata.
Il mito a cui si
riferiscono i due autori, diffuso in tutte le mitologie indoeuropee, sembra
essere piuttosto quello
dell'uccisione, da parte del dio-tuono, del
serpente cosmico che avvolge il mondo e trattiene le acque causando la siccità.
I modelli sono la lotta di Indra con
Vṛtra in India, di Tarḫunta contro
Illuyanka in Anatolia, di
Þórr contro
Jǫrmungandr in
Scandinavia, eccetera. In tutti questi casi nulla si riduce a un semplice furto di
vacche od al rapimento di una moglie: è in gioco l'equilibrio e la continuazione
dell'universo. Ora, anche se
Velesŭ fosse una divinità ctonia, nulla ci autorizza a ritenerlo per questo un
personaggio «negativo» ed opposto a
Perunŭ.
Se l'omologia col dio-vento, da noi tracciata, è
corretta,
Velesŭ
verrebbe ad essere un dio dei morti, sì, ma alla maniera di
Hērmês ed Óðinn.
Dunque un personaggio appartenente soprattutto alla prima funzione e soltanto
secondariamente alla terza.
Il motivo di uno
scontro, nella tradizione popolare baltica, tra Pērkons/Perkū́nas
e Veļns/Vélnias,
ha sicuramente un'origine e una finalità differente: si può anche pensare a
un'influenza cristiana, in cui il dio dei morti venne associato al diavolo. Ma
sicuramente non ci autorizza a identificarlo come «mito
principale» degli antichi popoli slavi.
|
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